martedì 16 maggio 2006

L’Occidente ormai si disprezza fino a tollerare il nuovo odio per gli ebrei

Il Foglio - martedì 16 maggio 2006


Il presidente iraniano Ahmadinejad è un politico ideologo, la specie più pericolosa. Sembra che nella lettera al presidente Bush abbia parlato soprattutto del ruolo della religione nel mondo contemporaneo. «Il liberalismo e la democrazia occidentale non sono serviti a realizzare gli ideali dell’umanità. Oggi queste due dottrine hanno fallito. I più perspicaci riescono già a sentire il suono del frantumarsi e crollare dell’ideologia e delle idee dei sistemi democratici liberali. Signor Presidente, che ci piaccia o no, il mondo gravita intorno alla fede». Naturalmente, Ahmadinejad pensa che l’Islam, il suo Islam, riempirà il vuoto che quel crollo sta aprendo nel mondo: chi altro può esserne capace? Ma, se ci è consentita un po’ di libera esegesi, forse egli non è tanto sicuro di sé. Infatti, perché scrive a Bush? Perché gli dicono che «Sua Eccellenza segue gli insegnamenti di Gesù e crede nella promessa divina sul regno dei giusti»: perciò più di altri dovrebbe capire i suoi argomenti. E forse anche perché, più di altri, è capace di resistere. Forse Ahmadinejad percepisce che il crollo è più difficile dove il sistema democratico liberale è sorretto da una visione etica e morale – che sia religiosa (come la intende lui) o secolare. Lui non si rivolge all’Europa, perché ha capito benissimo che l’Europa è ormai vicina al crollo. La nostra libera esegesi non si spinge al punto di accreditare al presidente iraniano la conoscenza del pensiero postmoderno che, non contento della liquidazione delle religioni, ha liquidato anche ogni morale secolare, ritenendo che essa riporti inevitabilmente alla religione; e la conoscenza di quelle brillanti analisi che hanno disvelato il bigotto mascherato che si nasconderebbe in Kant. Ma è assai probabile che senta nell’aria l’andazzo; anche se non sa che, in buona parte della cultura occidentale, le parole “etica” e “morale” suscitano tanto imbarazzo che, dopo essere state liquidate in quanto frutto della rivelazione o della storia umana, si attende con trepidazione di poterle gettare nella pattumiera dell’oscurantismo e sostituirle con parole come “neuroetica”. Frattanto, nell’attesa millenaria che vengano a galla le basi biologiche della morale, sarà la sharia di Ahmadinejad a fare da supplente. Se Ahmadinejad sapesse tutte queste cose sarebbe felice di aver fatto la scelta giusta: rivolgersi a uno dei pochi avversari ancora in piedi.
Non che i dissacratori dell’etica, della morale e della religione non esistano nel Nuovo Continente: al contrario, le università americane ne sono strapiene, se non dominate. Ma la società americana è più articolata, ed è percorsa da forti correnti che vanno in tutt’altra direzione. L’etica e la morale non sono ancora parole ridicole e, oltre ai neuroetici e ai neo-eugenisti, c’è chi segue percorsi scientifici diversi, oppure considera razionale conservare una robusta fede religiosa. Per questo, Ahmadinejad si rivolge a Bush e non si cura dell’Europa, che vede soltanto come un territorio vuoto da occupare. L’ostacolo al crollo finale permane dove la democrazia liberale trae forza e vitalità da un afflato etico e morale, cui l’esperienza religiosa autentica (e non formalistica) da un contributo importante. Come in Israele. Anzi, qui l’ostacolo è talmente forte che le uniche soluzioni possibili sono quelle radicali. Perché l’ebreo, anche quando non è religioso, vive di utopia. Anzi, come scrive Henri Meschonnic «la sua utopia è sé stesso, è utopia di sé» e anche utopia della società, «utopia degli altri, per sé e per gli altri». Perciò per un popolo che mostra di credere nell’utopia, e con l’utopia del sionismo ha ricostituito sé stesso, Ahmadinejad vede possibili soltanto due trattamenti: l’atomica – previa verifica del rapporto costi-benefici, e secondo autorevoli esponenti iraniani, un costo di una ventina di milioni di morti sarebbe accettabile – o, in alternativa, la soluzione di spedirlo nel Vecchio Continente, in parcheggio in attesa della liquidazione finale dell’azienda. Anche qui emerge la folle lucidità dell’ideologo. Poco importa che l’idea sia delirante e insensata, perché passa sopra al fatto che gran parte degli israeliani non sono europei e che Israele non è il mero frutto della Shoah, ma dell’utopia sionista. C’è una logica (consapevole o no) in questa follìa: costringere l’Europa a prendere definitivamente posizione sulla questione ebraica, o manifestando un sussulto di dignità e moralità, oppure scegliendo la “soluzione” che Fiamma Nirenstein ha chiamato l’“abbandono”. Perché la questione ebraica europea non è una faccenda degli ebrei, ma qualcosa che ha a che fare con l’identità stessa dell’Europa. Pur in mezzo a tanti drammi, incomprensioni e orrori, duemila anni di storia dell’ebraismo sono stati dentro e con l’Europa. Come dice ancora Meschonnic, con la sua utopia, l’ebraismo è legato all’Occidente quanto l’Occidente lo è a lui, e la separazione definitiva dell’ebraismo da una parte dell’Occidente – l’Europa – è uno scacco di portata epocale.
Questo scacco è ormai a un passo dal suo definitivo avverarsi e i prossimi eventi decideranno se il passo sarà compiuto oppure no. Dipenderà da quello che l’Europa deciderà di fare per i suoi ebrei e per gli ebrei che stanno di fronte a lei, dall’altra parte del mare “nostro”. Il che è quanto dire cosa deciderà di fare di sé stessa. Pensiamo alla vecchia faccenda delle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Che vi sia tanta reticenza in giro a tenere in piedi il primo termine (giudaico) è malinconico, ingiusto, ma purtroppo non stupisce più di tanto. Di recente, passeggiando per il ghetto di Venezia, un collega ebreo francese mi diceva: «Per noi sarebbe tragico, triste, ma non sarebbe la prima volta. Anche fare le valigie. Ma che l’Europa non abbia il coraggio di dire che le sue radici sono cristiane, questo è veramente incomprensibile, stupefacente. Che dire? Cosa resta all’Europa se rinnega anche queste radici?». Non si tratta di ritornare sulla faccenda del rifiuto di costituzionalizzare di quel termine, che era probabilmente una scelta sensata. Si sarebbe dovuto parlare anche delle radici greche, anche perché la tradizione giudaica e cristiana si è contaminata profondamente di pensiero ellenico ed ellenistico e poi non si sarebbe potuto trascurare la romanità. Insomma, si sarebbe dovuto fare un trattato di storia culturale anziché l’articolo di una costituzione. Ma quel che è stato stupefacente è stato il rifiuto del tema in sé. Gli ebrei sono abituati ad essere considerati una vergogna, tanto che una delle loro utopia è trovare un posto dove “sporco ebreo” significa soltanto un ebreo che non si è lavato. Ma che dal “non possiamo non dirci cristiani” si dovesse passare al “ci vergogniamo di essere cristiani”, questo francamente era al di là di ogni immaginazione. Ed è al di là di ogni immaginazione la debolezza con cui si reagisce a tale stato di cose, la timidezza con cui si dice una verità evidente, e cioè che se qualcuno avesse osato scrivere un Codice da Vinci in chiave islamica avrebbe già fatto una brutta fine, ed anche l’errore di credere che si possano contrastare queste aberrazioni per via legale e di divieto.
Lo si creda o no, per uno che si chiama Israel parlare troppo di antisemitismo e di antisionismo è una noia. Non una noia esistenziale. Perché l’utopia della fine dell’antisemitismo è talmente proiettata verso la fine della storia, che esiste una panoplia consolidata di tattiche di resistenza. È una noia razionale: quando una parte troppo importante del tempo di un ebreo europeo deve essere impiegata a difendersi, a decrittare le forme attuali dell’antisemitismo, a dimostrare invano che la manifestazione attuale dell’antisemitismo è l’antisionismo, allora c’è qualcosa che proprio non va.
Difatti, ogni giorno si ricomincia daccapo. Il 27 maggio il più importante sindacato dei professori universitari inglesi (NATFHE) chiamerà a votare i suoi 67.000 membri un appello al boicottaggio delle istituzioni universitarie israeliane e, individualmente, dei loro professori. Bisognerà ricominciare a spiegare a chi non vuol capire che questo è puro e semplice razzismo?
Giorni fa, sul Corriere della Sera, Sergio Luzzatto ha osservato che «l’opinione pubblica europea si sta mostrando distratta davanti ai recenti sviluppi della situazione politica in Polonia», dove sono entrate al governo due formazioni cattoliche reazionarie apertamente antisemite, uno dei cui leader ha dichiarato che «il peggior nemico della Polonia è la nazione giudaica». Per un breve tempo, si era sperato che le nuove nazioni orientali entrate in Europa fossero più aperte di altre a un rapporto con il Grande e Piccolo Satana. È una speranza durata poco, e pare che i vecchi fantasmi si stiano riaffacciando, davanti a un’opinione pubblica “distratta”. Ma il guaio è che l’elenco di queste distrazioni è ormai infinito. Questo è il vero problema.
È passato poco tempo da quando in Francia è avvenuto un delitto razziale che avrebbe dovuto suscitare una reazione degna di un caso Dreyfus. Parliamo del caso del giovane Ilan Halimi, torturato per un mese e poi gettato a morire su una scarpata, mentre tante persone che vivevano nello stabile maledetto udivano le sue grida disperate e facevano finta di nulla. Un delitto razzista che – come ha scritto in un bellissimo articolo il padre di Daniel Pearl – è stato possibile perché un intero paese ha introiettato l’idea che gli ebrei sono colpevoli in quanto non rinnegano Israele, quel “piccolo paese di merda”, secondo l’elegante espressione di un ambasciatore di Francia. Non è tanto o soltanto il delitto in sé, ma il clima che lo ha preparato, lo ha accompagnato e il silenzio torbido che è seguito, come una sorta di alzata di spalle collettiva. Dopo questo episodio, risulta che la già consistente emigrazione ebraica dalla Francia sia aumentata. Invece di interrogarsi su un sintomo così grave – che una comunità così integrata nel paese dia segni di cedimento e pensi ad andarsene, malgrado i disagi connessi – la “gauche” intellettuale non ha trovato di meglio che coniare lo slogan di un’Opa che il sionismo avrebbe lanciato sull’ebraismo francese.
Nel delitto Halimi si è visto lo stesso clima, lo stesso torbido silenzio, la stessa cinica indifferenza che ha accompagnato l’assassinio di Theo Van Gogh. È lo stesso insopportabile cinismo con cui viene trattato ora il caso di Ayaan Hirsi Ali, la coraggiosa donna somala che sta pagando il prezzo di essersi opposta all’estremismo islamista e che un tribunale olandese ha sfrattato dalla sua casa ritenendo prevalente il diritto dei vicini alla quiete e a star lontani dalle minacce terroriste, rispetto al suo diritto di vivere liberamente nella sua casa.
Così, il politicamente corretto, degenerato in servilismo nei confronti dei violenti, ha fatto a pezzi i principi più elementari della democrazia liberale ed ha usato persino la giustizia per calpestare la morale senza alcun ritegno. In effetti, il “politicamente corretto” in versione europea è arrivato al punto di battere largamente le peggiori manifestazioni statunitensi. Bisognerebbe un giorno fare la storia del palleggio culturale che è avvenuto tra le due rive dell’Oceano: noi abbiamo lanciato di là la palla del pensiero postmodernista dei vari Foucault, Lacan e Derrida e ne è germinato il politicamente corretto americano. Ora, negli Stati Uniti si stanno manifestano tante versioni diverse e contraddittorie del politicamente corretto da neutralizzarsi a vicenda. Mentre la palla è ritornata al mittente assumendo forme di rigidità univoca e, in taluni paesi europei, soffocanti e totalitarie: non si predica più la parità per decreto, ma l’asservimento all’“altro”. È il prostrarsi umiliante e degradante della sentenza de L’Aja, le chiacchiere tra l’insensato e l’infame della “gauche” parigina, i genitori A e B dello zapaterismo. Non ha ragione il presidente Ahmadinejad a sentire i rumori del crollo della democrazia liberale?
E noi? La situazione nel nostro paese sembra meno grave che in altri paesi europei, ma non c’è da stare tranquilli. Mentre dilaga l’esercizio del ricordo e la Giornata della Memoria si è trasformata in Settimana, anzi in Sagra della Memoria, la Brigata ebraica che sfila nel corteo del 25 aprile viene pesantemente fischiata e aggredita con grida assassine. Lo sdegno generale e unanime ha proclamato trattarsi di un gruppetto di pochi irresponsabili, ma è una bugia. Per non farsi male bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: i quattro pesci nuotavano in un bacino di consenso o quantomeno di “comprensione” molto, troppo vasto. Di che stupirsi? Sono quarant’anni che si educano generazioni all’odio del sionismo. Ne abbiamo avuto un ultimo esempio con l’indecente vignetta pubblicata su Liberazione che riprende un cavallo di battaglia dell’antisemitismo contemporaneo: l’identificazione degli israeliani come i nazisti di oggi. L’educazione all’odio continua e si raccolgono i frutti di ciò che è stato e viene metodicamente seminato. Perciò, le deplorazioni e le minimizzazioni – in un paese in cui le università sono inaccessibili a un diplomatico israeliano – sanno di ipocrisia e, nel migliore dei casi, di elusione.
Oggi per l’Europa si tratta di decidere se continuare a cavarsela “ricordando” e strofinandosi addosso il cilicio per i misfatti del passato mentre viene lasciato libero corso all’antisionismo e all’antiamericanismo; sbattendo in galera Irving e lasciando ammazzare Ilan Halimi; pretendendo la chiusura dei CPT (Centri di permanenza temporanea) in quanto sarebbero dei “lager”, e scacciando dai condomini le Ayaan Hirsi Ali. Fino a che il dilagare del disprezzo di sé non si concluda nel suicidio finale.



Giorgio Israel

3 commenti:

Nessie ha detto...

Purtroppo questo oblìo ha origini ben più profonde. Per cominciare nell'ignoranza abissale e nella mancanza di una vera cultura che non sia contaminata con la propaganda e la disinformazione. Nel trionfo europeo delle socialdemocrazie permissive e incoerenti (frutto - non dimentichiamolo mai - della II Internazionale e perciò pur sempre di matrice marxista): quelle i cui governi trovano scandalosi i Centri di accoglienza per i clandestini, ma poi obbligano Ayan Hirsi Ali, allo sfratto. Quelle (come nel caso Zapatero) che legiferano sul matrimonio e l'adozione dei gay, le porte spalancate delle loro frontiere ad oves et boves, ma poi sono costretti a sparare in extremis per tenere lontano un vero e proprio assalto alle loro coste. E ora col nuovo governo Prodi, dopo il suo scandaloso discorso sul ritiro delle truppe dall'Iraq, l'affossamento della Legge Biagi e tutto il potere alle toghe, aspettiamoci il peggio anche da noi.

Giorgio Israel ha detto...

Completamente d'accordo. Alle radici di questo oblio dedico un libro che sta per uscire: "Liberarsi dei demoni".

Nessie ha detto...

Interessante! Lo leggerò senz'altro. La seguo sempre con grande interesse e attenzione su Il Foglio. Cordialità vivissime e un augurio di buon lavoro.