martedì 28 febbraio 2006

VECCHIO FÜHRER NUOVI FURORI

Il Foglio – 28 febbraio 2006


Distruggendo Israele, il poligono islamista vorrebbe risolvere la “questione ebraica” lasciata a metà da Hitler


In un discorso tenuto al Reichstag il 30 gennaio 1939, Adolf Hitler proclamò di voler essere ancora una volta profeta: «se la finanza ebraica internazionale d’Europa e fuori d’Europa dovesse riuscire, ancora una volta, a far precipitare i popoli in una guerra mondiale, allora il risultato non sarà la bolscevizzazione del mondo, e dunque la vittoria del giudaismo, ma, al contrario, la distruzione della razza giudaica in Europa». L’impostazione del discorso era “pacifista”. Il Führer insisteva sull’anelito dei popoli alla pace, troppe volte frustrato dalle tendenze guerrafondaie del giudaismo internazionale, sulla scia di quanto aveva scritto nel Mein Kampf, dove aveva osservato che, se si fossero uccisi in tempo quei 10-15.000 ebrei che avevano scatenato la Prima guerra mondiale, si sarebbero risparmiate milioni di vite e, in particolare, un milione di vite tedesche.
Il Presidente iraniano Ahmadinejad deve essere un attento studioso della storia europea e del progetto hitleriano di soluzione della questione ebraica, visto che egli ripercorre fedelmente atti e discorsi del Führer. Egli ha compreso che il segreto del successo della propaganda hitleriana è consistito nell’aver mascherato un progetto di mero sterminio con la saltuaria proclamazione di intenti pacifici e di riscatto del popolo tedesco, di aver identificato l’entità da distruggere (il giudaismo) con il male (la volontà di dominio del mondo attraverso la guerra) e il nemico con delle marionette manovrate dal giudaismo. Ahmadinejad ha compreso che le radici velenose da cui è nata l’autodistruzione dell’Europa sono ancora vive e che, affinché da esse risorga la pianta malefica, basta ripercorrere il sentiero del Führer senza troppe varianti: risvegliare le pulsioni suicide dei milioni di “odiatori di sé”, quelle masse “pacifiste” che vedono nell’Occidente il solo colpevole di tutti i mali; dar forza a quei governanti tanto pusillanimi quanto vanitosi, che desiderano soltanto scendere la scaletta di un aereo con un ombrello in mano e sventolando il foglietto della resa di Monaco nell’altra, per ottenere l’applauso delle folle dei pacifisti-odiatori di sé; suscitare i mai spenti sentimenti di ostilità nei confronti degli ebrei affinché sia identificato in loro l’unico ostacolo al raggiungimento della pace, il mostro sanguinario che mira a distruggere la felicità universale.
Come Hitler, Ahmadinejad parla di pace e di diritti conculcati del popolo iraniano e delle masse islamiche. Come Hitler, scarica sulle spalle del giudaismo mondiale e dei suoi accoliti (il Piccolo Satana e il Grande Satana) ogni colpa: persino la devastazione della moschea sciita di Samarra sarebbe stata «commissionata da un gruppo di sionisti e di occupanti mancati». Come Hitler, Ahmadinejad ammonisce che se i “criminali” osassero scatenare una guerra, Israele sarebbe ridotto nello stato di coma in cui giace il suo premier Sharon: insomma il risultato sarebbe la soluzione finale del problema ebraico in Palestina. E fa leva sull’anelito alla pace degli europei (e sui rigurgiti negazionisti circolanti) per indurli a sbarazzarsi di ogni scrupolo nei confronti dell’unico ostacolo a un armonioso rapporto tra Europa e mondo islamico, liberandosi del senso di colpa per uno sterminio di massa degli ebrei che non sarebbe mai avvenuto o avrebbe avuto una portata insignificante rispetto alle colpe del giudaismo medesimo.
Naturalmente Ahmadinejad non è l’unico interprete di questa visione. Essa è ormai patrimonio del mondo variegato dell’estremismo islamico. Ad esempio, è istruttivo osservare come un puntuale riferimento al discorso di Hitler citato all’inizio si trovi nel noto sito Radio Islam, che lo presenta – nel contesto di un’“analisi” dei “miti fondatori della politica israeliana” – come una testimonianza delle ragioni di Hitler e, in definitiva, del suo moderatismo rispetto ai ben peggiori misfatti di cui si è reso capace l’Occidente. Peraltro, quel mondo variegato ha superato di gran lunga il Führer nella capacità di dissimulazione, consistente nel porgere quel minimo di moderazione che fornisca ai candidati dhimmi l’alibi per ignorare i discorsi veri, quelli in cui vengono espressi gli intenti autentici (come i pacifisti degli anni trenta si appigliavano a qualche sporadica dichiarazione pacifista di Hitler per ignorare il Mein Kampf e la realtà dei fatti).
Insomma, l’integralismo islamico ha imparato ad usare la memoria storica come strumento per gestire il presente. Mentre l’Europa delle giornate della memoria è incapace (o si rifiuta) di trarre lezioni dalla sua stessa storia ed erge un muro tra passato e presente.
Come è possibile dimenticare che anche Hitler avanzò da una tregua all’altra, da una “hudna” all’altra? Come è possibile dimenticare che l’Europa accettava supinamente ogni proposta di hudna, in attesa della prossima prova di forza, scendendo di gradino in gradino nella fossa della tragedia? Eppure, nei giorni della “memoria”, ci si batte il petto chiedendosi cosa non si è fatto per fermare il mostro. “Perché non è stata bombardata Auschwitz?” è la domanda sconsolata, dietro cui ghigna una compiaciuta accusa nei confronti dei detestati anglo-americani. Ci si batte il petto declamando “mai più”, mentre sotto i nostri occhi si concretizza un “ancora una volta”. L’estremismo islamico vince una prova di forza dopo l’altra, e ogni gradino asceso è inframezzato da una hudna, che viene accolta con sollievo gridando: «Dialogo, dialogo, dialogo. Dialogo ad ogni costo». Ma “a qualsiasi costo” è la parola d’ordine degli imbecilli. Nulla si fa a qualsiasi costo, né la guerra, né la pace, né la tregua. Quel signore con l’ombrello e il foglietto di Monaco in mano proclamava di aver ottenuto “con onore” la “pace per il nostro tempo”: l’aveva ottenuta “a qualsiasi costo” e proprio per questo – come gli disse Churchill – avrebbe ottenuto soltanto il disonore e la guerra.
Chi non metta la testa nel sabbia non può non scorgere le chiare intenzioni del nemico che sta di fronte.
Prendiamo il caso di Hamas. Hamas ha detto in tutti i modi cosa vuole: distruggere Israele nel quadro di una lotta globale in cui esso è un vertice del poligono infernale costituito dall’Iran, dalla Siria, da Hezbollah e da Al Qaeda. Chi non vuole vedere questa intenzione può essere soltanto uno sciocco o in malafede. Non è forse essa scritta a chiare lettere nella carta di Hamas? Non bastano le innumerevoli rappresentazioni cartografiche in cui la Palestina si estende dal mare al Giordano? Non bastano le innumerevoli dichiarazioni, tra cui spicca il recente e truculento discorso del leader di Hamas Meshaal in cui annuncia che «prima di morire, Israele dovrà subire umiliazioni e degradazioni» e invita, con paranoia tipicamente hitleriana, l’Occidente ad abbandonare Israele a sé stesso, perché è suo interesse prosternarsi di fronte alla nazione islamica che «domani si siederà sul trono del mondo»? No, non basta. Alla richiesta del Quartetto di riconoscere il diritto di Israele all’esistenza, Hamas ha risposto di non poter smettere di lottare fino a che persiste l’occupazione: sembra una risposta fuori tema, ma è chiarissima ove soltanto si ricordi che per Hamas, l’occupazione “è” Israele.
Nessuna di queste evidenze basta, e ci si appiglia all’offerta di una hudna o a una vaga disponibilità a riconoscere Israele espressa dal nuovo premier palestinese Haniyeh al Washington Post, mettendo in ombra che costui, appena rientrato a Gaza ha smentito ogni disponibilità, con tecnica consumata. Grandi menti politologiche impartiscono lezioni circa il fatto che la concretezza del governare non potrà non condurre Hamas sul terreno del realismo. Come se il potere avesse fatto rinsavire Hitler… Tanta ottusità avrà purtroppo i suoi effetti concreti: se Hamas coglierà il frutto dei suoi adescamenti verbali, la hudna servirà a preparare la tappa successiva di un’agenda sanguinosa.
Da come si profila la situazione sembra che ricada quasi totalmente sulle spalle di Israele la responsabilità di sventare un simile sviluppo, tragico per l’Occidente non meno che per Israele. È stupefacente constatare in che modo abissalmente diverso si presentino le cose dal punto di visuale israeliano e da quello europeo. In Europa si continua a coltivare l’immagine di un Israele cattivo, implacabile, vendicativo, intransigente. Laggiù, al contrario, il governo è criticato per la sua eccessiva moderazione. In Europa si protesta per i provvedimenti presi dal governo israeliano, tra cui la sospensione del trasferimento dei fondi doganali all’autorità palestinese, e non si dice che il governo israeliano fa di tutto perché il flusso raggiunga comunque la popolazione attraverso le organizzazioni umanitarie – evitare di darli direttamente in mano ad Hamas non è il minimo? – persino con l’avvallo del “superfalco” Netanyahu. In Europa non si dice che il flusso dei lavoratori palestinesi non è stato interrotto, e che anche per questo il governo è accusato di debolezza; si straparla degli attacchi delle truppe israeliane cui gli “attivisti” palestinesi avrebbero risposto con tiri non meglio qualificati. Il contrario è vero: si tratta di risposte contro i lanci di missili Kassam da Gaza che rischiano sempre più di colpire la centrale elettrica di Ashqelon, da cui dipende metà di Israele, o industrie chimiche nella stessa zona del paese la cui deflagrazione potrebbe determinare una tragedia di proporzioni colossali. I critici del governo israeliano lamentano che queste risposte si riducano spesso a tiri dimostrativi di artiglieria in zone disabitate. Come che sia, è evidente che Israele, lungi dall’essere il mostro di cattiveria di cui si parla, esita a fare quel che è legittimo secondo il diritto internazionale: rispondere militarmente, anche attraverso un attacco massiccio, a un’aggressione che potrebbe avere conseguenze devastanti. In Europa pochi ricordano che Israele ha subito, nel corso del 2005, ben 2990 attacchi terroristici e che, dopo la vittoria elettorale di Hamas, i circa cinquanta allarmi mensili per attentati kamikaze sono passati a settantacinque, mentre è stato sventato addirittura un attacco al mortaio sul quartiere di Gilo a Gerusalemme.
Di nulla di tutto ciò si parla e, al contrario, pullulano personaggi (cialtroni o in malafede, poco importa) che proclamano l’inesistenza di un problema di sicurezza per Israele. Ma tutto ciò è poca cosa di fronte al fatto che, in spregio al più elementare buon senso, la vittoria elettorale di Hamas ha scatenato un rovesciamento di atteggiamento nei confronti di Israele che, dalla blanda benevolenza dei mesi successivi al ritiro da Gaza, è tornato alla consueta ostilità, se non peggio. È stato facile profeta chi aveva previsto che il ritiro da Gaza andava valutato sulla base della sua efficacia sul terreno e della sua equanimità e non per la ricaduta positiva di immagine che avrebbe avuto per Israele: il pregiudizio non può essere scalfito e il fatto nuovo è che a denunciare tale pregiudizio si rischia la querela.
Per qualche breve mese abbiamo assistito a un cambiamento di atteggiamento nei confronti di Israele. Sharon da macellaio era divenuto il De Gaulle israeliano e qualcuno si era persino spinto a compatire i coloni che avevano dovuto abbandonare le loro case di Gaza. Era la forza delle cose, che sembrava andare verso la pace, a dettare questi sentimenti magnanimi. Ma è bastata la vittoria elettorale di Hamas a ribaltare la situazione e a far riemergere le posizioni consuete. Si è ricominciato a incolpare Israele di tutto, persino di essere responsabile della vittoria elettorale di Hamas: persino il merito del ritiro da Gaza è stato rimesso in discussione. E, con il sostegno del solito manipolo di intellettuali annidati nelle università di mezzo mondo, è ricominciata la recitazione del vecchio stolido mantra: Israele deve ritirarsi, qualsiasi cosa accada deve ritirarsi. Prima si deve ritirare, e senza condizioni, sulla linea del 1967, ovviamente abbattendo il muro (anche se ha salvato innumerevoli vite). Vedrete, dicono, Hamas rinsavirà. E comunque, se Hamas chiederà altro, per esempio tutta Gerusalemme, bisognerà pensarci. Se Hamas chiederà il rientro di milioni di palestinesi sul suolo di Israele bisognerà discutere. A prendere sul serio il mantra di questi signori sarebbe il caso che gli israeliani rimettano in cantiere Exodus.
Guardando al panorama italiano, l’aspetto più inquietante di questo repentino cambiamento di atteggiamento è che esso segna un evidente successo di Hamas: l’aver posto di nuovo sul terreno la questione del diritto di Israele ad esistere, che sembrava risolta definitivamente in senso positivo. Sembrava una faccenda conclusa e invece il tormentone ricomincia: Israele stato “artificiale”, Israele stato fondato sul “sopruso”, sul “razzismo”, sul “colonialismo”, sull’“espropriazione”, e via dicendo. Si dirà che questa ripresa del tormentone è opera di pochi estremisti, ed è pur vero che le voci che si sono levate in tal senso appartengono alle ali estreme dello schieramento politico. Ma gli estremisti rialzano la testa quando sentono che il clima lo consente. Nel centro-destra si attende una parola finale circa l’esclusione assoluta di un manipolo di negazionisti della peggior specie e si debbono registrare dichiarazioni avvilenti circa l’opportunità di trattare con Hamas. Nel centro-sinistra si manifesta una situazione confusa e a dir poco inquietante. L’aver escluso Ferrando dalle liste elettorali di Rifondazione Comunista è un depistaggio più che un chiarimento, se restano in lista personaggi come Francesco Caruso (che ha dichiarato la sua simpatia per Hamas e i kamikaze) e Alì Rashid, che ancora qualche giorno fa ha definito Sharon un criminale di guerra. L’onorevole Diliberto è segretario di un partito dell’Unione, non è uno che passa di là per caso. Egli è stato uno degli organizzatori di una manifestazione in cui sono stati gridati slogan efferati e in cui sono state bruciate bandiere israeliane e americane. Dice di non sentirsi responsabile di questi misfatti e di condannarli, ma in tal modo dimentica un principio fondamentale del vecchio PCI di cui pure è un nostalgico ammiratore: chi proclama e organizza una manifestazione è politicamente responsabile della medesima. Difatti, il vecchio PCI controllava le manifestazioni con un robusto servizio d’ordine che allontanava energicamente chi deviava dalla linea politica decisa; e, se non si sentiva certo di poter esercitare tale controllo, vi rinunciava. Ha quindi perfettamente ragione chi ha invitato Diliberto a chiedere scusa anziché querelare Yasha Reibman per aver espresso una legittima opinione. Peraltro, quando si va a braccetto con il leader di una forza (Hezbollah) che ha nel suo programma la distruzione lo stato d’Israele, non si può pretendere di essere esenti da critiche. Romano Prodi assicura circa l’assoluta trasparenza di comportamento di tutte le forze politiche dell’Unione. Se è così, spieghi le candidature di Caruso e di Rashid, convinca Diliberto a ritirare la querela e a scusarsi, inviti Dini a non intrecciare legami d’amorosi sensi con la diplomazia iraniana, e così via. Altrimenti, le parole stanno a zero.
E ciò non basta perché bisognerebbe volgere lo sguardo ben più in alto degli esempi precedenti. Che dire dell’intervista messa in rete da Massimo D’Alema un paio di settimane fa? La stampa ha attirato l’attenzione sulla dichiarazione di D’Alema secondo cui «Hamas non è il nazismo» che, alla luce di quanto abbiamo fin qui osservato, è a dir poco sconcertante. Ma occorrebbe ascoltare l’intervista nella sua interezza per constatare come sia più che fondata l’inquietudine di Yasha Reibman circa la prospettiva di avere un tale ministro degli esteri. È facile immaginare quale correzione della politica estera italiana configuri D’Alema, a giudicare dall’astio totale con cui guarda a Israele – la scelta di Israele è quella della violenza, la sua politica è semplicemente “disumana” – a cui non concede nulla, neppure il diritto di chiamarsi “popolo della diaspora”, che trasferisce ai palestinesi; cui invece è tutto perdonato, e di cui ogni atto è giustificato, perché bisogna capire le ragioni dell’odio. In un’ora d’intervista non una parola è stata spesa per deprecare il rifiuto aprioristico d’Israele, l’odiosa campagna razzista che pullula nei mezzi d’informazione arabi e islamici e nei libri di testo palestinesi, l’uso infame di tutto l’arsenale della propaganda antisemita classica, aggiornato con l’invenzione delle accuse più trucide e fantasiose, come quella recentemente messa in giro dal governo siriano secondo cui l’influenza aviaria sarebbe stata prodotta artificialmente da Israele, o la recente “analisi” della televisione iraniana circa la natura dei “cartoons” di Tom e Jerry, con cui l’ebraica (sic!) Walt Disney vorrebbe ripulire l’immagine dei “topi ebrei”. Non una parola... Se soltanto D’Alema – che si vanta di conoscere la realtà sul campo – fosse minimamente aperto a capire Israele, si renderebbe conto che proprio quella è una società multietnica che riesce giorno dopo giorno a realizzare la composizione delle differenze attorno a sentimenti condivisi, che quella è una società che realizza quotidianamente la dissoluzione delle divisioni etniche, difendendosi soltanto da chi pervicacemente nega il suo diritto all’esistenza. Se soltanto D’Alema fosse sensibile a quella realtà, condannerebbe aspramente coloro che, nel suo schieramento, parlano di paese “razzista”. E che dire della violenza antiamericana che pervade tutta l’intervista? Gli USA non conoscerebbero altro metodo che imporre la loro civiltà con i marines, e altra politica che la «violenza di stato». Affermazione a dir poco sconcertante nella bocca di un europeo, del cittadino di un continente che ha inventato il colonialismo e il razzismo. D’Alema si è reso conto della scivolata, visto che ha osservato che, certo, l’Europa ha partorito Auschwitz, ma «proprio per questo» avrebbe appreso la lezione e avrebbe introdotto come tratto originale della propria democrazia il rifiuto della violenza di stato. Di qui la «superiorità» dell’Europa sugli USA. Ma non si doveva evitare di parlare di civiltà “superiori”? Come sempre, la toppa è peggiore del buco.
Tornando al panorama europeo – della civiltà “superiore” – chiediamoci: come dovrebbe valutarlo un estremista islamico il cui scopo dichiarato è lo sgretolamento dell’identità del continente? Dovrebbe valutarlo come una catena di successi. Dopo l’attentato di Madrid, la Spagna si è defilata dall’Iraq chiudendosi dietro il “muro” di Ceuta e Melilla, mentre magnati arabi comprano mezza Andalusia. Il governo inglese ha reagito con ben maggiore dignità all’attentato di Londra, ma ha commesso lo svarione solenne di assumere come consigliere Tariq Ramadan. Dopo l’uccisione di Theo van Gogh la morsa della paura stringe l’Olanda più di prima. Si è avuta la rivolta delle periferie parigine. E, in una sequenza tutt’altro che casuale si sono accavallati altri eventi dirompenti: la campagna forsennata e pretestuosa sulle caricature danesi; la vittoria elettorale di Hamas; il dilagare di una nuova campagna anti-israeliana e antiebraica che punta direttamente su tematiche negazioniste della Shoah; e infine la barbara uccisione, previa tortura di un mese, del giovane ebreo francese Ilan Halimi da parte di un gruppo nel cui covo sono state scoperte carte che riconducono a un gruppo dedito alla raccolta di fondi per le “vittime” palestinesi, ovvero per le famiglie dei kamikaze, e di cui sono provate le relazioni con gruppi presenti nella consulta islamica riconosciuta dal governo francese. Sequenza non casuale e pretestuosa, dicevamo, perché è ormai noto che le celebri vignette erano state pubblicate dal giornale egiziano Al Fager il 17 ottobre 2005 senza che ciò destasse il minimo scandalo.
Ogni volta che l’aggressione è salita di un gradino, un gradino è stato sceso nella scala dell’umiliazione e dell’ignavia. Persino il direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Islamiche ed ex-mufti di Marsiglia, Soheib Bencheikh ha definito (Le Monde, 9 febbraio) la reazione di tante organizzazioni e regimi musulmani «al di là del surrealismo», ha definito assurda la richiesta di scuse ai governi e l’aggressione contro un paese «tranquillo e pacifico» come la Danimarca, e ha condannato questa ondata isterica come contraria ai principi di ogni religione degna di essere considerata tale oltre che della libertà di espressione. E invece, politici e uomini d’informazione europei si sono precipitati in massa a scusarsi, a prosternarsi nella moschea più vicina. Sono gli stessi che non hanno detto una parola di fronte alle dissacrazioni del cristianesimo, alle stragi di cristiani, alle innumerevoli vignette offensive dell’ebraismo, alle campagne antisemite nutrite della peggiore blasfemia, che perdonano ogni atto del genere se a compierlo è un estremista islamico, giustificano le campagne di boicottaggio nei confronti di Israele e le bandiere bruciate in nome dei “diritti” del popolo palestinese. Se esiste una logica a questo mondo, il direttore di Liberazione, che ebbe a dire che coloro che protestavano per lo scempio delle sinagoghe da parte palestinese dopo il ritiro da Gaza erano “razzisti”, si sarebbe dovuto presentare da tempo a chiedere scusa in una sinagoga. Questo sarebbe il trattamento di favore riservato agli ebrei e a Israele, questa sarebbe la lezione storica ricavata dalla Shoah?
Qui torniamo alla profezia di Hitler di cui parlavamo all’inizio. Perché, se la profezia principale di Hitler (la realizzazione del Reich millenario) è fallita, alcune altre si sono purtroppo avverate. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, le autorità germaniche stimavano la consistenza ebraica in Europa (inclusa l’URSS) in poco meno di undici milioni. Oggi tale consistenza è ridotta a circa due milioni. La questione ebraica europea è stata effettivamente quasi completamente “risolta”, secondo gli auspici del Führer. La questione ebraica mondiale è stata così “risolta” per un terzo, essendosi concentrati i due restanti terzi negli USA e in Israele. In attesa di fare i conti con il Grande Satana, il poligono dell’estremismo islamico, con portavoce il presidente iraniano, ha ripreso il programma hitleriano proponendosi di realizzarne il secondo terzo con la distruzione di Israele.
Sarebbe desiderabile poter distinguere tra questione ebraica e questione israeliana, perché ciò segnerebbe, più o meno, la fine dell’antisemitismo. Ma se questa distinzione era difficile prima, ora il presidente Ahmadinejad e i suoi alleati si incaricano quotidianamente di avvertirci che essa è impossibile. La questione ebraica oggi è la questione israeliana. È perfettamente inutile, al riguardo, riesumare la solita litania circa il fatto che la difesa di Israele non implica la condivisione di ogni singolo atto dei suoi governi. Ovvio, ma secondario. Perché il vero problema che abbiamo di fronte oggi è che il progetto del secondo atto della Shoah è chiaramente indicato nella distruzione dello stato di Israele, ed è contro questo progetto che occorre battersi senza quartiere.
Per quasi duemila anni la storia dell’ebraismo è stata prioritariamente intrecciata con la storia d’Europa, nel bene e nel male. Ed è per questo che è perfettamente sensato parlare di “radici giudaico-cristiane” della civiltà europea, accanto a quelle greco-romane. Oggi l’ebraismo rischia di uscire definitivamente dalla storia d’Europa, se l’Europa rinnega i legami storici profondissimi che dovrebbero legarla a Israele e se lascia che il suo ebraismo residuale venga terrorizzato, dissolto e disperso.
Voltare le spalle a Israele, voltare le spalle al problema ebraico, quello “attuale”, non sarebbe soltanto un atto atroce nei confronti degli ebrei, non sarebbe soltanto lavarsi le mani del tentativo di proseguire la soluzione finale, ma sarebbe un atto suicida. Difatti, la Shoah non è stata una faccenda degli ebrei, ma una tragedia dell’Europa: il compimento dello sterminio razziale è stata una separazione dell’Europa dai principi migliori della sua tradizione morale e civile, quelli che erano frutto, per l’appunto, della tradizione giudaico-cristiana. Un’Europa che – dopo quel che è successo mezzo secolo fa – non comprendesse la portata della posta in gioco, compirebbe il secondo e irreparabile atto della propria autodistruzione.
È difficile non vedere che le comunità ebraiche europee e le loro istituzioni sono spossate dalla continua lotta contro l’antisemitismo mai spento e anzi ora rinfocolato dall’aggressione dell’estremismo islamico, e che sono intimorite. Il loro futuro dipende dalla loro capacità di essere coscienza critica e testimone di quanto rischia di avvenire. Gli ebrei d’Europa – e d’Italia – non possono non apprezzare lo sforzo per la conservazione della memoria del loro martirio. Ma non possono accettare che la compassione per gli ebrei morti sia un alibi per odiare liberamente quelli vivi e per chiudere gli occhi di fronte alla nuova spaventosa minaccia. Dopo decenni di resistenze è ormai diffusa l’accettazione dell’idea dell’unicità della Shoah. Troppa grazia, vien da dire. Soprattutto se questa accettazione è suggerita dal poco limpido intento di declassare altre stragi, come quelle del Gulag. E francamente inaccettabile se è un modo di declassare la questione ebraica attuale ad “altra” cosa, persino a qualcosa in cui la parte degli ebrei è invertita e trasformata in quella dei persecutori. Nessun ebreo che abbia un minimo di dignità, in quanto tale e in quanto cittadino consapevole e leale del proprio paese e del continente, può accettare di essere messo sotto protezione in una riserva indiana a condizione di abbandonare Israele al proprio destino o persino di rinnegarlo. Quegli ebrei che accettassero una simile condizione o che si accodassero al grido del “dialogo ad ogni costo” si assumerebbero una grave responsabilità anche nei confronti del destino dello stesso ebraismo europeo. A quest’ultimo si richiede quindi, in questi frangenti, un grande atto di coraggio e di dignità.
Hitler è stato abbastanza buon profeta rispetto all’obbiettivo di sradicare la presenza ebraica dall’Europa. Ma proprio le modalità e gli effetti della “soluzione” hitleriana e il ripresentarsi sulla scena dei prosecutori dichiarati di quel progetto, fanno della questione ebraica, oggi israeliana, la principale pietra di paragone della capacità dell’Europa di riprendere il proprio cammino recuperando i propri migliori valori e rifiutando di lasciarsi ridurre in stato di schiavitù. Nessun cittadino europeo può sfuggire a questa sfida. Altrimenti, la resa dell’Europa di fronte a coloro che hanno dichiarato una guerra di civiltà contro l’Occidente sarà segnata non soltanto dalla totale separazione dei destini dell’Europa e di Israele, ma dalla dissoluzione di quel che resta dell’ebraismo europeo.


Giorgio Israel

giovedì 9 febbraio 2006

Quelli che dicono: “Non disegnare il volto di Dio invano”

C’è qualcosa di straordinariamente ipocrita nelle reazioni violentissime alle famose vignette pubblicate in Danimarca sul profeta Mohammad. Un osservatore sceso da un altro pianeta crederebbe che questa sia la prima volta che qualcuno osa fare satira su temi religiosi, oppure che ciò accada raramente, ma susciti sistematicamente reazioni di sdegno corale in un mondo che è profondamente devoto. Resterebbe stupito nell’apprendere che poco tempo fa un signore è venuto a dire, nel corso di una ascoltatissima trasmissione della televisione italiana, che il crocefisso è un ripugnante cadaverino appeso, senza che nessuno scendesse per strada, senza che le autorità religiose cristiane protestassero in modo più che flebile, mentre è accaduto che molti difendessero quelli parole in nome della libertà di espressione. Che dire poi della religione ebraica? Il nostro extraterrestre, girando per emeroteche, biblioteche, librerie si troverebbe di fronte a uno sterminato campionario di ingiurie blasfeme, per lo più ad opera di quel mondo islamico che scende in piazza a protestare contro le vignette, e dei suoi alleati in Occidente. Costoro si stracciano le vesti – e promettono di stracciare i “nemici” ben più che le loro vesti (abbiamo visto in televisione troppi cartelli esaltanti Bin Laden, gli attentati alle Torri Gemelle e la sorte di Theo van Gogh) – dichiarando che quelle vignette, pubblicate in Danimarca e riprese da molti altri giornali europei, feriscono i sentimenti religiosi e il rispetto di ciò che è sacro per un musulmano. Non si mette in discussione – si dice – la legittimità della satira politica: quel che è inaccettabile è ferire i sentimenti religiosi dell’Islam, profanare ciò che per l’Islam è più sacro. A chi ha osservato che in tanti paesi islamici viene condotta una forsennata campagna razzista antiebraica è stato replicato ancora una volta che trattasi soltanto di satira politica, che riguarda gli israeliani, tutt’al più gli ebrei, e non la religione ebraica.
Un piccolo florilegio di esempi – per lo più tratto dal volume di Joël e Dan Kotek, Au nom de l’antisionisme, Paris, Complexe, 2003 – permette di vedere quanto sia falsa questa dichiarazione di innocenza. Molti altri esempi si potrebbero dare, ma ci limitiamo ad pochi significativi, che – se tanto dà tanto – avrebbero dovuto suscitare un’ondata di proteste e di sdegno almeno paragonabile a quella cui stiamo assistendo.
Che cosa sia la Bibbia ebraica lo spiegava la vignetta di un quotidiano del Kuwait: sembra un libro, ma è soltanto un contenitore di pugnali, bombe e pistole. Che si tratti della Bibbia ebraica viene ricordato ai distratti apponendo sulla copertina sia il candelabro a sette braccia che la stella di David.

Un giornale libanese riservava una sorte analoga al Talmud, che appare soltanto come il contenitore di un fucile con cui un cecchino nascosto trucida un povero palestinese.

Che i testi sacri ebraici siano un oggetto diabolico è tema ricorrente, come si vede da un'altra vignetta pubblicata in Egitto nel 1992, in cui il forcone del diavolo è il candelabro a sette braccia (la Menorah) cui è appesa la Bibbia.

Non sono dissacranti e blasfeme nei confronti dell’ebraismo simili “satire”? Che dire allora della vignetta pubblicata da Al Ahram Weekly on line (Al Ahram è il massimo quotidiano governativo in Egitto) in cui il razzismo viene addirittura indicato come il contenuto delle tavole della legge? Un rabbino mostra difatti la scritta razzismo incisa sulle tavole di pietra.
Un’ampia casistica di offese alla religione ebraica e ai suoi testi può essere trovata nei manuali scolastici palestinesi, lautamente finanziati con i fondi dell’Unione Europea: anche qui ci limitiamo all’aspetto strettamente religioso. (Consigliamo in merito la lettura del libro di Y. Manor, Les manuels scolaires palestiniens, Une génération sacrifiée, Paris, Berg, 2003). Vi si parla del Talmud come di un libro di odio e di sangue, di cui si riportano brani inventati che appaiono tratti di peso dai Protocolli dei Savi di Sion. «Coloro che non sono ebrei, sono porci cui Dio ha dato forma umana in modo da farli servire gli ebrei» (“Storia degli Arabi e del mondo moderno”, livello 12, ANP, Ramallah). Ma non soltanto il Talmud, bensì anche la Torah sarebbe un manuale che insegna agli ebrei come meglio odiare e sterminare i loro avversari (Ibidem). In molti di questi testi si ripropone agli allievi il quesito di come gli ebrei ritengono di “spegnere la luce di Allah” e si “dimostra” che gli ebrei erano addirittura nemici dei profeti e di Dio. Inoltre, la tematica del deicidio è ripresa in “Educazione Islamica” (livello 4, seconda parte, ANP, Ramallah), dove si afferma che Allah inviò Gesù come Messaggero, gli ebrei cercarono di ucciderlo, ma Allah lo salvò…
Non si vorrà certo dire che il tema del deicidio non sia particolarmente offensivo e atroce per gli ebrei: esso è alle radici di una persecuzione bimillenaria nei loro confronti basata su una tematica teologica. Ebbene, quel tema è un luogo comune della campagna antiebraica nel mondo islamico, e ha trovato ampia eco nella satira occidentale, e di certo non si tratta di satira politica: perché mai altrimenti tirare in ballo l’uccisione di Gesù Cristo? Gli esempi sono tanti che non si sa da dove iniziare. Ci limitiamo a pochi casi emblematici.
La vignetta palestinese di Al-Istiqlal è talmente efferata da non aver bisogno di commenti.

La vicenda dell’occupazione della Chiesa della Natività a Betlemme ha dato la stura a “satire” del genere. Una vignetta di Arabia.com del 7 aprile 2002 presenta quello che è ormai un classico – il soldato israeliano che trucida di nuovo Gesù – e che è stato ripresentato in tutte le salse e infinite volte, per esempio dal nostro Forattini (anzi, visto che la vignetta di Forattini è apparsa il 3 aprile si potrebbe ritenere che sia servita di modello).


E ancora negli stessi giorni, il 6 aprile, con scarsa fantasia un giornale fiammingo pubblica una vignetta analoga: i Palestinesi barricati nella chiesa della Natività dicono di trovarsi bene là dentro e Cristo risponde: «Non mi parlate degli ebrei» (come se lui non lo fosse stato: ignoranti, oltre che blasfemi).

Potemmo continuare a lungo sulla sterminata vignettistica antiebraica e ferocemente offensiva della religione che dilaga nei paesi islamici. Ci limiteremo invece a due soli esempi tratti dalla satira europea filopalestinese.
Il primo esempio riguarda il dileggio feroce del precetto ebraico di nutrirsi secondo i principi della kasherut. In una vignetta di Libération del 2001, Arafat osserva i corpi squartati esposti dal macellaio Sharon e commenta: «Non è neppure kasher». Si tratta peraltro di una vignetta che ne copia, anche qui con scarsa fantasia, una francese degli anni quaranta, dovuta a Ralph Soupault, un comunista seguace di una corrente di antisemitismo sociale.


La vignetta di Web.matin.com del 2001 si riferisce alle proteste legate al tentativo di mettere sotto accusa in Belgio Sharon per crimini di guerra. Essa recita: «Il Belgio è divenuto un nemico. Giudicare un macellaio non ha nulla a che vedere con l’antisemitismo». E, per darne una prova, il vignettista fa ben più che dell’antisemitismo: scantona sul terreno religioso e dileggia la pratica ebraica della circoncisione…

Ancor più volgare è la vignetta di Cuore che ripropone la solita efferata leggenda dei quattromila impiegati ebrei che sarebbero stati assenti dalle Torri Gemelle il giorno in cui furono abbattute, a riprova che si sarebbe trattato di una congiura ebraica. Cosa dicono gli ebrei rappresentati nel solito modo caratteristico della vignettistica antisemita da che mondo è mondo? Non siamo andati al lavoro perché “si doveva circoncidere il pupo”… E il commento è: «Circoincidenze, eh?».


A questo punto, pochi commenti finali. Non saremo certamente noi a giustificare un simile genere di satira. Ma è un conto è condannarla, combatterla, persino procedere contro di essa per vie legali, altra cosa è chiedere la limitazione della libertà di stampa. Malgrado il carattere efferato di molte di quelle vignette “satiriche” e il loro evidente carattere blasfemo per un ebreo credente, vi sono state proteste, anche energiche, ma nessuno si è sognato di mettere in atto iniziative di questo tipo: chiedere conto e scuse al Presidente della Repubblica Italiana delle vignette dei giornali italiani; chiedere conto e scuse ai Presidenti greci o danesi delle vignette sui loro giornali; invitare i proprietari dei giornali a cacciare i loro direttori; assaltare le ambasciate dei paesi arabi e islamici in Europa o negli Stati Uniti; chiedere scuse ufficiali a tutti i Presidenti o capi politici dei paesi arabi o islamici in cui sono state pubblicate quelle vignette; chiedere scuse ufficiali da parte della Lega Araba; chiedere scuse ufficiali a tutte le autorità religiose del mondo islamico o la recitazione di un “mea culpa”. Eppure, nel caso del mondo islamico, simili richieste avrebbero avuto fondamento, perché è difficile negare che la stampa, in molti di quei paesi, sia sottoposta a uno stretto controllo di regime, o addirittura dica ciò che il regime vuole.
Ebbene, tutto ciò non è avvenuto, e le proteste hanno distinto i ruoli e gli ambiti, in ossequio a una visione liberale e sulla base dei principi più elementari della convivenza democratica. È lecito deplorare un vignettista o un umorista, è possibile querelarlo, è più che ragionevole chiedere che si scusi, ma il principio della libertà di opinione e della indipendenza dei poteri e della libertà della stampa è intangibile. In Francia, l’umorista Dieudonné, autore di tirate antisemite di violenza inaudita, è al centro di aspre polemiche e di denunce, ma nessuno si è sognato di chiedere al Presidente Chirac di presentare le scuse per l’esistenza di questo individuo. Il giorno in cui venisse accettato il principio che il potere esecutivo può intervenire sull’esercizio della stampa e sulle libertà fondamentali, sarebbe la morte della democrazia liberale, che è una delle più grandi conquiste dell’Occidente.
Dispiace constatare che, nelle discussioni di questi giorni si stia facendo strada una confusione inaccettabile da parte di parecchie autorità religiose. Sembra che la difesa del principio della libertà di stampa e secondo cui l’esecutivo non può avere il diritto di limitare le libertà, implichi l’accettazione del contenuto delle vignette, la complicità nei confronti di chi dileggia la religione. Un simile atteggiamento dimostra insensibilità nei confronti del valore dei principi dello stato liberale e da adito all’accusa di non capire che la messa in discussione di questi principi implica una visione teocratica dello stato, la stessa che vediamo all’opera in certi paesi islamici con esiti tragici.
Dispiace constatare che, a livello politico, siano state fatte dichiarazioni che non hanno alcun senso se non quello del tentativo di placare e compiacere per mere ragioni di opportunità. Il Dipartimento di Stato americano ha emesso una condanna delle vignette del tutto condivisibile in quanto al loro contenuto, ma che non si capisce come possa promanare da un’autorità istituzionale, soprattutto in un paese in cui la satira anche più dissacrante non ha mai conosciuto limiti, se non quelli dell’azione legale a posteriori.
Le reazioni caotiche e contraddittorie che si stanno manifestando in Occidente, scompongono i fronti e creano schieramenti inediti. La ragione di questa grande confusione sono state bene spiegate da André Glucksmann: la religiosità non c’entra nulla o almeno non dovrebbe entrarci: “ci sono religiosi tolleranti, e atei che muoiono di paura, pronti a piegarsi di fronte al ricatto”. E, come ha detto Glucksmann, quel che molti non capiscono o fanno finta di non capire – per paura o per l’errato calcolo di poter così difendere meglio la propria religiosità – è che “se cediamo si introduce la sharìa in Europa”. Quelle autorità religiose, cristiane ed ebraiche, che credono di poter restaurare un maggior rispetto per le loro religioni, e per la religione in generale, accodandosi all’offensiva islamica, cadono in un trabocchetto e compiono un tragico errore. Essi dimenticano che l’Islam integralista non ha alcuna intenzione di difendere la libertà religiosa, tantomeno quella delle altre fedi religiose, bensì soltanto l’intangibilità e la supremazia della propria. Essi trascurano che non è così che si difende l’Islam tollerante, poiché gli islamici “tolleranti” che si accodano a questa offensiva lo sono a parole, e sono in realtà dei campioni del doppio linguaggio.
Per quanto riguarda i musulmani che vivono fuori o dentro l’Occidente occorrerebbe ricordare due cose.
La prima è che non si ha il diritto morale di scatenare una campagna di queste dimensioni contro una satira ritenuta offensiva, quando non soltanto non si dice una parola contro la satira violentemente blasfema e offensiva nei confronti di altre religioni, come quella ebraica, che dilaga nel mondo islamico; ma addirittura la si giustifica. Chi si impanca a chiedere scuse ai governi, e addirittura al Papa, e si straccia le vesti per i sentimenti offesi dovrebbe, in primo luogo, per rendersi minimamente credibile, deplorare espressioni come quelle contenute negli esempi che abbiamo dato sopra. Al contrario, esse vengono comunemente giustificate come legittime espressioni della sofferenza del popolo palestinese per la “criminalità” ebraico-israeliana. Pertanto, una campagna che si accompagna alla giustificazione di analoghi atti offensivi compiuti contro altre religioni è la prova di quanto dicevamo sopra: e cioè di un’intenzione integralista e di una volontà di sopraffazione.
La seconda è che in Occidente si vive sulla base dei principi sopra ricordati, e che il rispetto a questi principi è dovuto quanto è lecito difendere con i mezzi offerti dalla legge il rispetto dei propri sentimenti. Fare causa a chi si ritiene ci abbia offeso è legittimo – naturalmente ricorrendo alla magistratura e non emettendo fatwe o incitando al delitto –, chiedere interventi dei governi a limitazione della libertà di stampa, assaltare ambasciate o ritirare gli ambasciatori è una vergogna.
Noi che viviamo in Occidente dobbiamo fare alcune riflessioni. Quel che sta accadendo è l’ennesima prova di una dichiarazione di guerra, “guerra di civiltà”. Una cosa odiosa, la “guerra di civiltà”, ma ancora una volta dobbiamo chiederci chi la stia dichiarando e conducendo. Ha ragione Magdi Allam: siamo a un tornante decisivo. Se si cede sui principi fondanti della democrazia liberale, è finita. È già troppo che delle autorità istituzionali abbiano chiesto scusa. È indecente che un finanziere franco-egiziano abbia licenziato il direttore di un giornale. Dobbiamo chiederci cosa abbiano in mente i numerosi musulmani residenti in Europa che, in questi giorni, si spendono a giustificare e difendere questa campagna. Fanno così perché non hanno capito e assimilato i principi fondanti delle nostre democrazia? In tal caso, dovremmo stimolarli fermamente a cercare di comprenderli, assimilarli e rispettarli. Tanti immigrati – come fu il caso della mia famiglia – sono venuti in Europa perché erano attratti dai suoi ideali e dai suoi principi di vita, ne sono divenuti fautori ed hanno seguito le sue leggi scrupolosamente. Altrimenti, avrebbero potuto, e dovuto, restare dov’erano. Se, invece, costoro agiscono così perché hanno capito benissimo qual è la posta in gioco, e pertanto parlano con un doppio linguaggio – cioè vogliono vedere fino a che punto le nostre società sono capaci di difendere i principi su cui sono fondate, e provocare un cedimento che le spinga parecchi gradini in basso, verso il loro disfacimento e il loro asservimento – allora il discorso cambia. Perché saremmo allora al tornante decisivo di cui parla Magdi Allam. E che può essere l’inizio di una disgregazione senza rimedio, soprattutto se il mondo religioso occidentale confonde la difesa della propria causa e della lotta contro l’irreligiosità e il relativismo morale con la lotta contro le vignette, e contribuisce così a distruggere le basi della società in cui vive accodandosi, magari senza neppure rendersene conto, a una deriva integralista. Se questi impulsi suicidi non prevalgono, potremmo sperare di trovarci di fronte al manifestarsi dell’errore tipico di tutte le ideologie totalitarie: le quali alla fine hanno sempre fallito per eccesso di presunzione e di prepotenza.

Giorgio Israel