(Il Foglio - sabato 15 settembre 2007)
La relazione tenuta da Jürgen Habermas a Roma su “La rinascita della religione: una sfida per l’autocomprensione laica della modernità?” suscita una riflessione. Prima o poi occorrerà ammettere che più di un secolo di sociologia “scientifica” inspirata al modello delle scienze esatte ha lasciato poche acquisizioni e molti detriti. Ciò emerge anche dalla relazione di Habermas, per esempio quando osserva che «la debolezza della teoria della secolarizzazione è dovuta a inferenze affrettate che tradiscono un uso impreciso dei concetti di “secolarizzazione” e di “modernizzazione”». Perché parlare di “imprecisione” e non di uso astorico? Il concetto di precisione si addice a definizioni relative a oggetti aventi caratteristiche di invariabilità, non a fenomeni, addirittura soggettivi, dipendenti dal tempo storico. In tal caso, il tentativo di dare definizioni “precise” è vano. Habermas ricorda i tre cardini su cui poggia la tesi della secolarizzazione risalente a Durkheim e Weber: il progresso della scienza e della tecnologia promuove una visione antropocentrica e umanistica del mondo inconciliabile con le visioni teocentriche; la differenziazione funzionale dei sottosistemi sociali dissolve la funzione pubblica delle religioni; la crescita di benessere e di sicurezza esistenziale elimina il bisogno di fede in un potere più “alto”. Ma questa tesi era soprattutto una credenza dei padri della sociologia scientifica che non ha corrisposto agli sviluppi storici successivi. Che il progresso scientifico e tecnologico implichi di per sé antropocentrismo e umanesimo poteva essere creduto nel periodo trionfale del positivismo. Oggi quest’idea si scontra con i fatti: il prevalere del meccanicismo spinge in una direzione antiumanistica e per nulla antropocentrica. Così, l’idea che la diffusione del benessere dissolva l’esigenza di trascendenza era un “wishful thinking”, pesantemente smentito dalla storia del Novecento: l’insoddisfazione per la società del benessere non ha ricondotto alle religioni tradizionali, ma è stata convogliata entro altre correnti di forza inaudita.
L’analisi dei padri della sociologia non può essere considerata fuori dalla storia, come se dovessimo discutere delle equazioni di Maxwell. Vi è certamente stato un processo di secolarizzazione nel senso sopradetto. Ma occorre chiedersi se lo spazio sottratto alle religioni sia stato riempito dalla razionalità illuministica o positivistica o, piuttosto, l’esigenza di assoluto non si sia incanalata in altre direzioni, e altri attori abbiano occupato la scena. È stupefacente che si possa sviluppare un’analisi di questi temi escludendone i più ingombranti protagonisti del Novecento: i totalitarismi. Appare molto più significativa la categoria di “teologie sostitutive” introdotta da George Steiner. Secondo tale visione il vuoto lasciato libero dalle religioni è stato riempito da teologie sostitutive, sistemi “mitopoietici” che offrono risposte alle problematiche tipiche del pensiero religioso: visioni totalizzanti ed escatologiche che rispondono ad aneliti messianici; la sostituzione dei testi sacri con testi canonici, nuove “tavole della legge”; il conseguente conflitto fra ortodossia ed eresia; la costituzione di linguaggi e riti formati da metafore, simboli, gesti, scenari aventi un valore d’identificazione. Queste caratteristiche si ritrovano tutte nei movimenti totalitari del Novecento e poco hanno a che fare con il razionalismo secolare, anche se ne ereditano lo scientismo, piegato però a una prospettiva escatologica che, pur dicendosi terrena, è talmente fuori dalla storia reale da rivelare il suo carattere di surrogato dell’esigenza frustrata di trascendenza e di redenzione.
Tanto è inverosimile un’analisi delle relazioni tra secolarismo e religiosità in Europa senza riferimento ai totalitarismi, quanto lo è discutere le condizioni presenti dell’Europa senza occuparsi di cosa stia accadendo nel vuoto lasciato libero dal comunismo. A nostro avviso, l’esigenza di palingenesi messianica del comunismo, privata di prospettive concrete, dei suoi “libri sacri” e dei suoi simboli identificativi, li ha sostituiti con una visione ridotta al mito salvifico della tecnoscienza, in quanto capace di redimere la società e di ricostruire scientificamente l’uomo, depurandolo dagli errori inerenti alla sua “imperfetta” costituzione naturale. Ed ecco che un altro mito escatologico novecentesco, l’eugenetica, si riaffaccia nei panni di un ideale di progresso. Questo bisogno inesausto di escatologia spiega perchè tanti orfani del marxismo siano in prima linea nel lanciare la singolare formula della scienza come “religione della ragione”. E spiega il paradosso per cui il bersaglio della critica storico-scientifica delle religioni sono cristianesimo ed ebraismo e i loro libri sacri mentre si presta un deferente omaggio al Corano, e si manifesta comprensione nei confronti del fondamentalismo islamico. Simili manifestazioni hanno poco a che fare con il secolarismo e con la laicità. Giustamente si parla di “laicismo” – ne ha parlato Habermas suscitando fastidio – ovvero dell’erigere l’antireligiosità a fede, rinunciando alla tolleranza voltairiana in favore dell’intransigenza delle teologie sostitutive.
Non sorprende che un discorso moderato e aperto sulla ragione – un’autentica difesa della razionalità – venga oggi in Europa soprattutto dal vilipeso ceppo giudaico-cristiano. Il discorso di Benedetto XVI a Regensburg ha destato scandalo perché ha proposto una nuova alleanza tra ragione e religione in opposizione alla visione della fede come alternativa alla ragione o della ragione eretta a fede. Come parlare di secolarismo tollerante europeo, se la “religione della ragione” respinge questa mano tesa e preferisce mostrare comprensione nei confronti di chi predica la supremazia assoluta della fede?
Nella sua relazione Habermas propone una critica del laicismo in quanto capace di provocare conflitti altrettanto profondi di quelli tra fedi religiose ostili. Egli identifica il laicismo come devianza da una condizione ideale di coesistenza tra visioni contrastanti, derivante dall’accettazione di un minimo comun denominatore di regole – una condizione che individua come ipotesi controfattuale. Crediamo poco all’uso di ragionamenti controfattuali nelle scienze sociali. Le scienze fisico-matematiche ricorrono a ragionamenti controfattuali in quanto l’essenza del loro metodo è immergere il reale in un immaginario controllato. Ma non esiste un virtuale nella sfera sociale e per questo una sociologia teorica è impossibile. Pertanto, lo schema utilizzato da Habermas, ricorrendo all’idea di equilibrio, che ha dato sempre cattivi risultati nelle scienze umane, non corrisponde a situazioni realistiche e praticabili. Ma questo è un altro discorso. Qui ci interessa sottolineare che, anche a partire da un siffatto approccio, Habermas perviene a conclusioni nette sul pregiudizio che una visione laicista può portare alla tolleranza.
Tuttavia, la parte più interessante del testo di Habermas è dove egli, scendendo sul terreno storico, critica «la presa di posizione polemica dell’Illuminismo nei confronti del potere temporale della religione», che «tende ad oscurare il fatto che il pensiero postmetafisico si è appropriato criticamente di contenuti della tradizione giudaico-cristiana non meno importanti dell’eredità della metafisica greca». Egli sottolinea che «i concetti moderni della persona individuale e della forza individuante di una storia di vita traggono le loro connotazioni di unicità, insostituibilità e soggettività o interiorità dalla nozione biblica di una vita vissuta sotto lo sguardo divino». «La morale laica dell’eguale rispetto per ciascuno» ha un carattere di imperativo categorico perché «mantiene una traccia della trascendenza intramondana dalla prospettiva divina del Giudizio Universale». Si potrebbe aggiungere che questo apporto è stato determinante anche sul terreno della razionalità scientifica: la formazione della scienza europea ha avuto come attori principali “teologi laici” che ne hanno fondato i concetti sulla base di riflessioni teologiche sull’infinito, lo spazio, il tempo e il rapporto tra matematica e realtà.
È bastato che Habermas ponesse la domanda «intorno a che cosa la ragione secolare possa apprendere dall’acquisire coscienza del suo rapporto genealogico con l’eredità giudaico-cristiana» per destare fastidio in molti commentatori. Si è tentato di far credere che il suo intervento sia stato «una sfida alle tesi di Papa Ratzinger». Al contrario. Per Habermas, la ragione laica deve «astenersi dal valutare la razionalità o irrazionalità della religione in quanto tale»: un richiamo che incontra le tesi di Benedetto XVI. E quando conclude dicendo che il «riserbo cognitivo» di un «agnosticismo riflessivo» «può soltanto operare a favore di quelle religioni che a loro volta hanno imparato a riconoscere la democrazia, il pluralismo religioso e l’autorità laica della scienza», egli fa l’affermazione più imbarazzante per chi ha voluto presentare il suo intervento come un’apologia della ragione laica europea in quanto sola capace di gestire l’incontro delle civiltà. Provatevi a chiedere quali sono quelle religioni: la risposta l’ha data poco prima Habermas, più chiaramente non si potrebbe.
5 commenti:
Le riflessioni di Habernmas sul rapporto fra religione e fede dovrebbero aiutare a risolvere l'equivoco secondo il quale una visione religiosa non debba avere posto nello spazio pubblico perchè non sarebbe "razionale" mentre lo sarebbero le visioni "laiche".
Consente anche di compiacerci del disappunto di tutta quella schiera di intellettuali che avevano eletto il filosofo guru dell'interpretazione scientifica dei fatti sociali ed ora si trovano spiazzati.
E' interessante, ma quanto è più semplice e scorrevole il discorso di Benedetto XVI!
Basta rileggersi il discorso di Ratisbona e il celebre confronto con lo stesso Habermas nel gennaio 2004.
....accidenti, mi scusi ma ho contrassegnato questo blog come inacettabile per errore.
Mi cospargo il capo di cenere, accidenti a me.
Lei è un'autore geniale e la leggo sempre sul foglio.
Con la mia massima stima
Tiziano
ho appena finito di leggere il suo articolo di oggi sul foglio, copiato, incollato, consigliato, citato, SFAVILLANTE, come spesso le capita, complimenti
Salve, sono d'accordo sostanzialmente con i contenuti dell'articolo. Vorrei aggiungere solamente alcune osservazioni:
1) La religione della ragione può essenzialmente corrispondere, a mio avviso, con quella "religione dell'umanità" ipotizzata (e auspicata) da autori positivisti (come ad esempio Auguste Compte), che la vedevano come un superamento necessario delle religioni storiche;
2) Accanto ai totalitarismi (che senza dubbio, sia nelle forme esteriori come nei contenuti, costituiscono vere e proprie forme religiose) si possono mettere diverse forme para-religiose moderne (come, ad esempio, certe forme esasperate di divismo nello spettacolo);
3) "Il pensiero postmetafisico si è appropriato criticamente di contenuti della tradizione giudaico-cristiana non meno importanti dell’eredità della metafisica greca": appropriazione consapevole o no? Certo che quella storia delle radici ...
con stima
Augusto
augustoc.splinder.com
GIORGIO, (PIER)GIORGIO, GIORGIO E (PIER)ANGELO
(Non si allarmi il prof. Israel: non sto inaugurando un mio nuovo “blog”…
Solo che, ogni tanto, si ha bisogno di un po’ di rinforzi…)
“L’opposizione della tradizione al progresso, in termini moderati o radicali, continua a essere indicata, retoricamente, come cifra caratteristica della modernità occidentale.
[…]
La critica radicale della tradizione, che la intende come eredità dogmatica di un sapere dispotico e a senso unico, ha investito [paradossalmente] la tradizione stessa della ragione illuministica. La sua pretesa infallibilità di orientamento del senso ha infatti mostrato con abbondanza di prove la sua tragica ingenuità (Horkheimer e Adorno). L’elaborazione di questa critica ha finito per produrre una riabilitazione delle tradizioni di senso, di contro all’univocità di un logos separato dalla trasmissione e dall’iniziazione all’umano, che si pensa razionale e progressivo proprio in virtù di questa astrattezza. La ragione contemporanea si è così rivolta a sviluppare la sua funzione di riconoscimento e di apprezzamento (sia pure critico) delle tradizioni che ne articolano storicamente il senso possibile.
Il ruolo insostituibile della tradizione, intesa come disponibilità di orientamento del senso, non può essere sostituito dall’autofondazione della ragione. Anzi, in quanto trasmissione di una verità e di una giustizia dell’umano che motiva eticamente l’elaborazione della ragione, la tradizione di senso ha un ruolo fondamentale nell’offerta delle condizioni che rendono umanamente affidabile l’uso della ragione. La questione della tradizione di senso – come si forma e con quale autenticità, quale forma di autorevolezza impiega e quale maturazione della libertà rende disponibile, in che modo concorre alla formazione di un’identità umana, e quali risorse offre per la circolazione e la condivisione di identità interumana – diventa, in questo modo, oggettivamente fondamentale. E lo diventa proprio come tema importante della ragione universale e critica.
La ragione illuministica, avendo dimenticato questa articolazione fondamentale fra offerta e appropriazione razionale dell’umanità del senso, ha finito per opporvi una tradizione del pensiero unico che occultava la sua natura di tradizione. La sua astrattezza esponeva la ragione alla separazione dalla soggettività concreta. E la sua accentuazione della soggettività razionale, come un a-priori dell’accertamento della verità e della giustizia fondato su se stesso, espone la sua realizzazione concreta alla sua separazione dalla concretezza dell’umano condiviso: con la tendenza a considerarlo un ostacolo da superare (o da abbattere). Nei casi peggiori come totalitarismo violento. Nei casi meno appariscenti, come burocrazia coatta di un logos anaffettivo e anestetico”.
[Pierangelo Sequeri (sacerdote, teologo, compositore di brani musicali liturgici), “Il cortocircuito dei Lumi”, Avvenire del 5 settembre 2009]
Giorgio Della Rocca
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