domenica 28 ottobre 2007

Il creazionismo una minaccia per la democrazia? Suvvia

Il 4 ottobre 2007 il Parlamento europeo ha approvato a maggioranza un documento dal titolo “I pericoli del creazionismo nell’ambito dell’educazione”, che condanna le teorie creazioniste, includendovi le teorie del “disegno intelligente”. Il tono è particolarmente acceso: si manifesta preoccupazione per i “possibili effetti deleteri” che queste teorie possono avere sul sistema dell’istruzione e addirittura per le “conseguenze che potrebbero avere per le nostre democrazie”. Secondo il Consiglio d’Europa “se non stiamo attenti, il creazionismo potrebbe divenire una minaccia per i diritti umani”.
Il documento ha sollevato reazioni di segno opposto. Di particolare interesse ci sembra il commento di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera del 16 ottobre), in quanto, pur partendo da posizioni equilibrate e da talune affermazioni interessanti, arriva a salutare come “razionale e liberatoria” la delibera. Piattelli Palmarini non si profonde in un peana della teoria dell’evoluzione, a differenza dei darwinisti professionali. Anzi, sostiene – con notevole coraggio, dati i tempi che corrono – che “la dottrina darwiniana tradizionale fa acqua da molte parti”. Cita l’illustre genetista americano Gregory C. Gibson, che su Nature ha parlato della “concezione emergente che la selezione naturale è solo uno dei fattori dell’ordine biologico, e forse nemmeno il più importante”. Secondo Piattelli Palmarini il vero approccio scientifico consiste nell’offrire nella scuola una visione complessa dell’evoluzione del vivente, e “non il tradizionale fumetto darwiniano”. Fin qui potremmo sottoscrivere parola per parola. Anzi, potremmo aggiungere che, per quanta acqua faccia la teoria dell’evoluzione, ciò non basta a motivare un ritorno al creazionismo. Secondo Piattelli Palmarini attenersi al “caricaturale” fumetto darwiniano significa “non fare tesoro della saggia risoluzione del Parlamento europeo”. Ma è proprio certo che sia questo lo spirito che ha animato quel consesso?
L’assunto del ragionamento di Piattelli Palmarini è che la scienza avrebbe stipulato con la società un “contratto implicito” consistente nello “spiegare i fenomeni della natura, vita compresa, in termini accessibili all’intelligenza umana, senza invocare fattori esterni alla natura stessa”. Ne deduce la necessità di mantenere una barriera impenetrabile tra scienza e credenze non naturalistiche, in particolare tra scienza e religione: l’una non si deve immischiare delle seconde e viceversa. Ma, per quanto possa si provare simpatia per la tirata d’orecchie che egli fa a Richards Dawkins, Daniel Dennett e Piergiorgio Odifreddi (“improvvisato teologo”) non mi pare che si possa seguirlo in questa distinzione rigida, tanto meno nell’ammettere l’esistenza di quel “contratto implicito”. Il contratto non è stato mai scritto perché quella barriera, se è mai esistita, è stata un colabrodo e, soprattutto, un colabrodo in continuo movimento. Chi conosca un minimo la storia della scienza sa che definire i confini esatti tra scienza e non-scienza è impossibile, a meno che non si assuma come “scienza” il suo stato attuale e tutto il resto, o quel che precede, venga vagliato alla luce di questa pietra di paragone. È la posizione “cumulativa” che tanto efficacemente ha demolito Thomas Kuhn quarant’anni fa. Dimenticare quella lezione non è una buona idea.
Prendiamo proprio il caso al centro di questa discussione. Secoli di biologia creazionista – e quindi intrisa di visioni teologiche – sono stati secoli di non-scienza? Eppure, questa non-scienza ci ha lasciato in eredità una grande mole di conoscenze “positive”, quantomeno in termini di classificazione, senza la quale sarebbe stato impossibile allo stesso Darwin pensare la teoria dell’evoluzione. Nessuna persona seria potrà sostenere che l’idea della fissità delle specie non abbia un’ispirazione teologica. La teologia creazionista è stata il motore metafisico della ricerca scientifica dei naturalisti pre-evoluzionisti, come la metafisica del “matematismo” (ovvero l’idea che il mondo è matematico) ha guidato la ricerca dei fondatori della fisica-matematica moderna. La scienza non può fare a meno di una metafisica influente, anzi parte da essa, a differenza di una scienza di tipo aristotelico, come osservava Alexandre Koyré, ammonendo di non dimenticare questo fatto essenziale. In realtà, nel sostenere che la scienza ha soltanto bisogno di osservazione e confronto con i fatti empirici si assume una metafisica ancora più pesante: il positivismo mascherato da anti-metafisica.
La scienza non evolve in una sorta di tubo sotto vuoto, isolata dal resto del mondo. Essa è intrisa di preconcetti metafisici, di visioni del mondo, di teologie, di filosofie di vario tipo. Nel suo percorso storico, associa sovente vecchi risultati con interpretazioni del mondo nuove e magari contrapposte a quelle precedenti. È arduo sostenere che il darwinismo non possieda una sua metafisica influente: basta sentire cosa predicano da mane a sera i darwinisti professionali. Sono questioni complesse che non dovrebbero essere trattate in un organismo politico-istituzionale. Ad esempio, mentre l’ipotesi creazionista si associa a un’idea di fissità delle specie, le teorie del disegno intelligente sono interpretazioni filosofiche ed eventualmente teologiche che possono associarsi a una teoria evolutiva. Pertanto, quando il Parlamento europeo ha associato nella condanna creazionismo e disegno intelligente non ha soltanto messo nero su bianco una sciocchezza ma ha anche esibito il presupposto ideologico fazioso che dettava la sua presa di posizione.
Piattelli Palmarini ha scritto un articolo corredato di osservazioni coraggiose e ispirate a un autentico spirito critico. Si è invece rinchiuso in una visione angusta e inesistente della scienza, come qualcosa di separato dal resto del pensiero e che si svolgerebbe in una purezza incontaminata, e ne è stato indotto a valutare positivamente un documento scandaloso. Dovrebbe essere inutile ripetere che qui non è in gioco la rivalutazione del creazionismo. Qui è in gioco la libertà di pensiero, il fatto elementare che le contese filosofiche, scientifiche, culturali si fanno fuori dalle aule parlamentari e dai tribunali e non si risolvono votando. La teoria dell’evoluzione non dovrebbe avere bisogno di un voto per reggersi in piedi. Tanto più è scandaloso arrivare addirittura a parlare di minacce per le democrazie e per i diritti umani. Qualcuno può forse asserire seriamente che secoli di creazionismo hanno messo in pericolo i diritti umani ed hanno ostacolato la formazione delle democrazie? Se si volesse entrare nella logica aberrante del Parlamento europeo occorrerebbe osservare che, piuttosto, è stato nel secolo del darwinismo che il nazifascismo e il comunismo hanno celebrato i loro lugubri trionfi.
Le persone autenticamente libere dovrebbero rinviare al mittente questo scandaloso e avvilente documento che mostra da dove vengano i veri pericoli per la libertà di pensiero, per la cultura e per la scienza.

Giorgio Israel

(pubblicato sul Foglio del 24 ottobre)
Tra le legittime critiche che si possono muovere a questo articolo, prego soltanto non venga mossa quella illegittima: che sarei un creazionista alla maniera degli evangelici americani. Tra l'altro, non apprezzo neppure la maggior parte della letteratura del cosiddetto "disegno intelligente", che considero una forma di riduzionismo grossolano. È un argomento molto interessante e delicato di cui bisognerebbe occuparsi seriamente, invece di fare guerre di "religione".

venerdì 19 ottobre 2007

Sulla scuola la politica cede alla piazza e sbaglia strada

Una classe politica degna di questo nome deve possedere due qualità: saper capire che cosa si muove nella società e avere il coraggio di decisioni anche impopolari. Quel che è accaduto ieri in Senato merito alla scuola e alla faccenda dei cosiddetti esami di riparazione autunnali dimostra che queste due qualità sono merce rara nel nostro paese.
Chi conosca un minimo gli umori circolanti nel nostro paese sa che da molto tempo cresce il desiderio che nella scuola ritorni rigore e serietà e che vengano smantellate certe deliranti riforme degli ultimi quindici anni. Sa anche che questo desiderio è cresciuto a dismisura nell’ultimo anno, anche in relazione al diffondersi del bullismo a scuola, che il crollo di autorità degli insegnanti – largamente dovuto anche all’impossibilità di sanzionare il cattivo rendimento scolastico – non riesce a frenare. Basta leggere le lettere inviate ai giornali e parlare in giro, per rendersi conto che la stragrande maggioranza degli insegnanti, la stragrande maggioranza delle famiglie e anche un consistente numero di studenti ha accolto con favore i pur timidi provvedimenti del ministro Fioroni, incluso quello teso a compiere una verifica dei debiti formativi entro l’anno e non ogni due anni. Casomai, Fioroni andrebbe stimolato ad essere più coraggioso e incalzato ad affrontare anche una profonda revisione dei contenuti dell’insegnamento. Che poi ci sia chi si oppone, è ovvio. Ed è altrettanto ovvio che si tratta delle minoranze più vocianti, tanto vocianti da far credere a chi non ha capito nulla della situazione, che si tratti della maggioranza.
Dar retta alle manifestazioni studentesche di questi giorni non significa soltanto non aver capito niente, ma anche non avere il coraggio che si richiede ad una classe politica degna di questo nome, la quale non dovrebbe esitare a fare quel che è giusto anche di fronte alle proteste, soprattutto tenendo conto che una scuola la cui organizzazione viene decisa dagli studenti è morta e sepolta.
Il senatore Calderoli – pronto a esibire rigore e fermezza estrema quando si tratta di questioni padane o di immigrazione – ha sbagliato tre volte: ha mostrato di cedere miseramente di fronte alle sgangherate richieste della piazza; ha dimostrato di non avere il polso della situazione, perché se crede di conquistare un po’ di voti di famiglie che non hanno il senso del dovere perderà molti più voti di altre famiglie e di insegnanti; e infine non ha capito il merito della questione, perché il provvedimento di Fioroni non ripristina gli esami autunnali, che richiedevano la formazione di commissioni, bensì accorcia i tempi di verifica del recupero dei debiti formativi e cerca di porre rimedio allo scandalo immorale di studenti che non fanno nulla e vanno avanti lo stesso.
Se poi è proprio questo cui mirava Calderoli, e cioè stoppare il provvedimento di Fioroni, per lisciare il pelo ai nullafacenti, agli asini, ai bulli e alle loro irresponsabili famiglie – come risulterebbe dalla sua dichiarazione tesa a restituire “tranquillità ai nostri ragazzi” – ha fatto il peggio del peggio in nome di un misero vantaggio di popolarità che peraltro non incasserà mai. In cambio, ha vibrato una picconata micidiale alla scuola, lanciando un segnale che va in direzione opposta al recupero di rigore, di serietà, di disciplina e di efficacia.
Quel che è stato sconvolgente è l’immagine di un Senato che si è accodato quasi tutto a una simile sconsiderata iniziativa, probabilmente sempre per la paura della piazza, per insipienza e incomprensione della realtà.
Arrivano molte telefonate sconsolate. Qualcuno si chiedeva anche in quale paese civile si potrebbe emigrare. Si continui pure così, ma poi non ci si lamenti se il vento della sfiducia e dell’antipolitica s’ingrosserà sempre di più.
(L'Occidentale, 18 ottobre 2007)

martedì 9 ottobre 2007

Il pantano della politica italiana

Michele Salvati ha sollevato un dibattito molto interessante sul Corriere della Sera, sostenendo, in sostanza, che il problema fondamentale del Partito democratico sia continuare sulla linea degli accordi e dei compromessi con la sinistra radicale, oppure evitare alleanze che forse possono condurre alla vittoria elettorale ma che condannano all’ingovernabilità. Nell’attuale situazione, è quanto dire: «È meglio perdere da soli o in compagnia?». Ha risposto Marco Follini che la seconda scelta è quella giusta: «prima i contenuti e poi gli schieramenti, prima le idee riformiste e poi la compagnia (rigorosamente riformista anch’essa». Secondo Follini non è neppure detto che così si perda, se si accetta di rischiare credendo alla sfida. Tuttavia, l’intervento di Nicola Rossi ha messo il dito sulla piaga dicendo, in buona sostanza, che se la linea riformista non si afferma davvero, se non è profondamente condivisa all’interno dello stesso Partito democratico, l’alternativa posta è fallace. La consapevolezza della vera natura delle sfide da affrontare «è solitamente la conseguenza di battaglie senza quartiere, culturali prima ancora che politiche, combattute all’interno dei singoli schieramenti, associate alla convinzione che un sistema bipolare vive dello scontro trasparente tra i poli, ma soffoca se allo sconto sulle issues si sostituisce la pura e semplice negazione dell’avversario».
Rossi ha messo il dito sulla piaga. Perché il dato dell’omogeneità all’interno dello stesso Partito democratico è tutt’altro che scontato. Al contrario, l’immagine è quella di una disomogeneità che riproduce, in forme appena attenuate, la stessa disomogeneità che caratterizza l’attuale coalizione di governo. Non è un caso che il Pd si sia scelto un segretario di mediazione come Veltroni: perché, al di là delle affermazioni di principio, Veltroni è l’uomo della mediazione per eccellenza, che tenta di tenere assieme tutto e il contrario di tutto con gli equilibrismi più arditi. Ciò non si riflette soltanto nella scelta delle personalità di punta del Pd, che spesso stanno assieme come il diavolo e l’acqua santa, ma nell’impossibilità di dire che cosa voglia il Pd su tutti i temi cruciali: politica economica, politica estera, questioni etiche posti dagli sviluppi tecnoscientifici, politiche dell’istruzione e della ricerca scientifica. Il Pd non ha seguito il percorso del partito di Sarkozy, che è stato da quest’ultimo riplasmato da cima a fondo attraverso una dura e tenace battaglia politica, che ha lasciato emergere una linea chiara, talmente chiara da poter essere polo di attrazione persino per alcuni settori dell’opposizione socialista.
Il guaio è che questa situazione affligge anche il centro-destra. Al di là di un generico riferimento all’abbattimento delle imposte non si capisce bene quale politica economica verrebbe perseguita. Prospettare alleanze con personalità come Lamberto Dini apre inquietanti domande circa la futura politica estera del centro-destra, se solo si ricordano i viaggi in Siria e le dichiarazioni di quest’ultimo sulla crisi mediorientale e sull’Iran. Sulla politica scolastica la confusione è totale.Il centro-destra è generalmente più sensibile ai temi di bioetica, ma non poche personalità al suo interno professano posizioni che si spingono fino al laicismo.
Il richiamo di Nicola Rossi a battaglie culturali “senza quartiere”, prima ancora che politiche, che conducano a scelte consapevoli all’interno degli schieramenti, è quanto mai opportuno, perché se non si perverrà a un simile livello di chiarezza il paese non uscirà mai fuori dalla crisi che lo attanaglia.