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domenica 25 maggio 2008

Ma l’uomo non è un dado

Articolo citato dal Cardinale Camillo Ruini nella sua prolusione al Sesto Simposio europeo dei docenti universitari.
Vedi qui o qui o nell'archivio di Avvenire.


Nel 1821 il grande matematico Augustin-Louis Cauchy così scriveva: «… se ho tentato di perfezionare l’analisi matematica sono ben lungi dall’affermare che quest’analisi sia sufficiente a tutte le scienze della ragione. Indubbiamente, nelle scienze cosiddette naturali, il solo metodo che possa essere impiegato con successo consiste nell’osservare i fatti e nel sottoporre le osservazioni al calcolo. Ma sarebbe un grave errore pensare che la certezza non possa essere trovata altro che nelle dimostrazioni geometriche o nella testimonianza dei sensi; e nonostante nessuno fino ad oggi abbia tentato di dimostrare con l’analisi l’esistenza di Augusto o di Luigi XIV, ogni uomo sensato converrà che questa esistenza è per lui altrettanto certa del quadrato dell’ipotenusa o del teorema di MacLaurin. Dirò di più: la dimostrazione di quest’ultimo teorema è alla portata di poche menti […]; al contrario tutti sanno molto bene da chi sia stata governata la Francia nel diciassettesimo secolo, e che non è possibile sollevare al riguardo alcuna contestazione ragionevole. Ciò che ho detto a proposito di un fatto storico si applica parimenti a una quantità di problemi, nel campo religioso, morale e politico. Occorre convincersi che esistono verità diverse dall’algebra, realtà diverse dagli oggetti sensibili. Coltiviamo con ardore le scienze matematiche, ma senza volerle ostentare al di là del loro dominio; e non illudiamoci che si possa affrontare la storia con delle formule, né sanzionare la morale con dei teoremi o con il calcolo integrale».
Si potrebbe pensare che siffatti propositi – che toccano brillantemente il tema oggi tanto discusso di una visione della ragione non ristretta all’approccio delle scienze naturali e matematiche – fossero un’eccezione nel panorama scientifico, che esprimessero le vedute di un matematico cattolico e conservatore. Al contrario, questa era l’opinione prevalente nel mondo scientifico dell’Ottocento. Ad esempio, nel 1836, un altro celebre matematico, Louis Poinsot, definiva «ripugnante» l’applicazione del calcolo delle probabilità alle «cose dell’ordine morale»: «rappresentare con un numero la credibilità di un testimone, assimilare gli uomini a dadi», trattare matematicamente le qualità morali e ricavare su questa base conclusioni che possano «determinare un uomo sensato a prendere una decisione o a dare un consiglio su una cosa di qualche importanza, è un’aberrazione della mente, una falsa applicazione della scienza e che non potrebbe altro che screditarla».
Potrei continuare, ma basti dire che l’opposizione diffusa ai tentativi di matematizzare le scienze sociali provenne dai matematici ancor più che dagli economisti e condusse alla disperazione il pioniere dell’economia matematica Léon Walras, isolato dallo scetticismo di scienziati di primissimo piano come Henri Poincaré. L’Ottocento fu un secolo fondamentalmente dualista che chiuse la parentesi del materialismo settecentesco estremo secondo cui l’anima è una secrezione del cervello come la bile lo è del fegato (Cabanis), e attribuì statuti distinti alle scienze naturali e alle scienze umane. Del resto, anche i grandi protagonisti della rivoluzione scientifica del Seicento quando dicevano che “il mondo è matematico” intendevano per “mondo” soltanto la sfera dei fenomeni materiali. Anche Cartesio, che pure si era spinto avanti nell’“esilio” di Dio dal mondo, asserendo che «il concorso ordinario di Dio nella conservazione del moto non impedisce che la natura sia autonoma nella sua propria sfera», ribadiva nettamente che questa sfera «è quella della materia». E nonostante egli considerasse la matematica come la suprema scienza dell’ordine e della misura che fornisce il modello del metodo (mathesis universalis), si guardava bene dall’estenderne il dominio al di là della sfera naturale. Al punto di proscrivere ogni tentativo di dominare il concetto di infinito; con il che non voleva dire che l’uomo non possieda tale concetto: al contrario, il possesso da parte dell’uomo dell’idea di infinito e di perfezione manifesta la presenza divina. Ma la mente umana è finita e «sarebbe ridicolo che tentassimo di determinarne qualcosa [dell’infinito] e in tal modo supporlo finito cercando di capirlo». Per questo, secondo Cartesio, non bisogna chiedersi se la metà di una retta sia infinita o se l’infinito è pari o dispari. Soltanto Leibniz si spinge ad asserire che l’infinito e l’infinitamente piccolo possono essere manipolati come le quantità finite, perché vi è coerenza completa tra realtà e ragione, e addirittura propugna la creazione di un calcolo simbolico universale con cui sviluppare ogni ragionamento, quale che ne sia l’oggetto. Ciononostante anche Leibniz era un dualista convinto.
È nel Novecento che si è affermata la concezione detta “naturalismo” che ha come programma la riduzione di ogni aspetto della realtà a processi naturali, ovvero materiali, e che quindi altro non è che una forma di materialismo, seppure declinata talora nella versione blanda del “materialismo metodologico”, secondo cui non importa chiedersi se tutto sia riducibile a fatti materiali ma conviene ragionare “come se” così fosse. Oggigiorno predomina una versione forte del naturalismo: un materialismo metafisico che attribuisce alla scienza il compito di mostrare che ogni aspetto della realtà consiste di processi materiali. Ed è così che l’esilio di Dio dalla natura predicato da Cartesio e da Leibniz – e tanto criticato dai filosofi newtoniani, come Clarke – diventa un esilio totale, ateismo radicale e la scienza viene investita del compito di distruggere la “superstizione” religiosa. Anzi – a leggere certi testi e a seguire certi dibattiti – sembra quasi che la sua attività si riduca esclusivamente a questo fine. Questi sviluppi non potevano non avere come conseguenza la caduta della barriera che si era frapposta contro la matematizzazione di ogni aspetto della realtà. Il Novecento segna il dilagare della matematica in ogni campo ed oggi questo processo assume contorni parossistici. Tutti i premi Nobel per l’economia vengono conferiti a matematici; la biologia si ripartisce tra un approccio sperimentale volto ossessivamente a ricercare le basi materiali della vita e del pensiero e un approccio matematico modellistico; praticare le scienze sociali, psicologiche e pedagogiche senza mettere in opera un approccio se non strettamente matematico, quantomeno ispirato alla logica formale e alla modellistica, sembra sconveniente. Pare che non sia più lecito pensare se non in termini di procedimenti logico-formali.
La vera domanda è se tutto ciò abbia qualcosa a che fare con la scienza come è stata intesa per qualche secolo, sia in termini di finalità che in termini di risultati oggettivi. Al riguardo, considero fondamentali le osservazioni proposte da Gershom Scholem una trentina di anni fa. Egli osservava che «un ebraismo vivo, quale che sia la sua concezione di Dio, dovrà opporsi risolutamente al naturalismo» – e mi pare che ciò valga in modo del tutto identico per il cristianesimo. Secondo Scholem, questa opposizione dovrà mettere in luce che l’idea secondo cui il progresso è di per sé sorgente di produzione di senso è assurda, e che l’ipotesi secondo cui il mondo è «luogo di assenza di senso è ricevibile a condizione di trovare un solo uomo che sia pronto ad accettarne le conseguenze». A costo di ripetere quel che ho già scritto altrove, dirò che lo spettacolo odierno di persone che impiegano tempo ed energie a dimostrare che tutto è prodotto senza senso di interazioni casuali – e così si mettono nella tragicomica situazione di chi da senso alla propria vita proponendosi di convincere gli altri che nulla ha senso – costituisce la migliore prova della tesi di Scholem. Cui egli ne aggiunge un altra, e cioè che «la frivolezza filosofica con cui molti biologi cercano di ricondurre le categorie morali a categorie biologiche è una delle caratteristiche più oscure del clima culturale della nostra epoca ma non può ingannarci circa il carattere disperato di una simile impresa. Basta studiare attentamente una sola di queste opere per percepire gli equivoci, le petizioni di principio, le latenze teologiche, le incrinature e le fessure di questo genere di edifizi intellettuali».
Questo è stato scritto una trentina di anni fa ma è ancor più vero oggi. E quaranta anni non hanno modificato – se mai aggravato – il giudizio del celebre storico della scienza Alexandre Koyré circa i risultati dell’«imitazione servile» del metodo di analisi e ricostruzione per atomi applicato al di fuori delle scienze naturali propriamente dette: egli li definiva «mostruosità». Bisogna avere il rigore e il coraggio di esaminare in profondità e mettere in luce l’estrema povertà dei risultati dell’estensione del metodo delle scienze fisico-matematiche al campo delle scienze umane. Non farlo significa subire passivamente un conformismo trionfalistico privo di fondamento e lasciare campo libero al dilagare del peggiore naturalismo. Questo non significa assumere un atteggiamento antiscientifico. Al contrario. Per dirla con Poinsot e Cauchy, questo è l’unico modo sensato per difendere l’onore della scienza in quanto attività conoscitiva contro i tentativi di ridurla a un’impresa di propaganda del materialismo e dell’ateismo.
Occorre pertanto sviluppare un elevato livello di vigilanza critica. Quando leggiamo le indicazioni governative per l’istruzione e constatiamo che la matematica non viene intesa come una scienza, bensì come “la” modalità per eccellenza del pensiero che deve plasmare ogni forma di esercizio della ragione, ci troviamo di fronte al riflesso di una visione “ridotta” della razionalità che considera inferiore qualsiasi forma di ragionamento diversa da quella logico-formale e precipita le materie umanistiche nel purgatorio del pensiero, in quanto incapaci di produrre verità.
Ma non basta essere vigili. Occorre essere coerenti. A che vale proporre come centrale il “senso” nella vita e nei rapporti con gli altri se poi si finisce con l’accettare passivamente una concezione dell’educazione e dei rapporti affettivi in contraddizione con tale proposito? Oggi dilagano teorie pedagogiche ispirate al più smaccato scientismo. Esse proclamano che l’insegnante non deve più essere un “maestro” bensì un “facilitatore”, che il rapporto con gli allievi non deve essere “dichiarativo” (ossia basato sui contenuti) bensì “procedurale”, ovvero centrato su metodi e tecniche dell’insegnamento; e, in quanto esperto di tali metodi e tecniche, l’insegnante deve divenire un “professionista”. Pretendono inoltre di oggettivizzare in modo quantitativo i processi di valutazione, sottraendoli alla soggettività “arbitraria” del rapporto tra insegnante e studente per consegnarli alle procedure di una “scienza”, la “docimologia” che ha la pretesa sconfinata di misurare le competenze, la cultura, il pensiero. Infine, pretendono addirittura di trasformare in “scienza” i rapporti affettivi e la morale delegando la formazione della persona in tali ambiti a corsi di “affettività” e “convivenza civile”.
Da un lato, occorre mettere in luce l’estrema fragilità delle premesse teoriche di tali teorie e la desolante miseria dei loro risultati. Ma occorre anche che si risolva l’incoerenza di coloro – e non sono pochi – che, da un lato, sono convinti che il processo educativo sia un rapporto tra persone in cui l’insegnante si presenta come “rappresentante del mondo” (per dirla con Hannah Arendt) che fornisce all’allievo gli strumenti conoscitivi per costruire il progetto e il senso del proprio futuro, e non è il mero agente di procedure meccaniche e standardizzate; e, d’altro lato, accettano passivamente di praticare queste procedure. In tal modo si permette al più vieto scientismo di ridurre al rango di vuoti proclami ciò di cui più si è convinti.
(L’Osservatore Romano, sabato 24 maggio 2008)

2 commenti:

Enrico ha detto...

Professore, innanzitutto complimenti per l'articolo come al solito interessante e, per quel che mi riguarda, largamente condivisibile. Sebbene la mia richiesta non sia del tutto pertinente, volevo approfittare dell'occasione per avere un suo parere su un recente articolo apparso su Nature (http://www.nature.com/neuro/journal/vaop/ncurrent/full/nn.2112.html) e ripreso dalla stampa nazionale (http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/scienza/grubrica.asp?ID_blog=38&ID_articolo=688&ID_sezione=243&sezione=News), che sembra dimostrare l'esistenza di un ritardo nella consapevolezza rispetto al momento in cui si attivano le aree cerebrali che determinano la decisione. La ricerca, condotta sulla scia del lavoro di Benjamin Libet, per come è stata presentata sembra porre pesanti interrogativi sulla reale responsabilità delle nostre azioni (si parla al massimo di una capacità "negativa" della nostra volizione di fermare la decisione presa a livello inconscio). Lei che ne pensa?

Giorgio Israel ha detto...

Naturalmente bisognerebbe conoscere a fondo le modalità dell'esperimento. Comunque questo "risultato" (di cui ero a conoscenza) avrebbe fatto la gioia di Bergson, in quanto conferma della sua tesi secondo cui il cervello "prepara" tutte le possibilità di azione su cui si inserisce (e quindi dopo) la scelta consapevole ovvero l'attività cosciente. Non mi soffermo, ma basta rileggersi le prime pagine di "Matière et mémoire" che - come mi diceva un ricercatore in neuroscienze giorni fa - conserva una sorprendente attualità per chi non voglia farsi suggestionare acriticamente dalle tesi materialiste. Starei attento a usare una terminologia come "le aree cerebrali che determinano la decisione", perché in tal modo si da per scontato quel che non lo è, ovvero proprio la tesi che si vorrebbe dimostrare. Se vi sono aree cerebrali che DETERMINANO la decisione, che perdiamo tempo a fare a dimostrare che la decisione consapevole viene dopo? Questo è proprio il punto da discutere. Che si attivino aree cerebrali e quindi si manifesti la "consapevolezza" - ovvero la scelta cosciente - non è affatto una prova che la scelta soggettiva è un'illusione. Al contrario. Vedi, appunto, Bergson.

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