domenica 29 giugno 2008

EUROFOBIE

Perché l'antropologo Goody non può accettare il fatto che la scienza sia nata in occidente

La tentazione è grande di liquidare un libro quando ci si imbatte subito in affermazioni che urtano la propria sensibilità. Tale è il caso de Il furto della storia di Jack Goody (Feltrinelli, 2008) e della sua ricostruzione delle vicende della formazione dello stato di Israele, ispirata ai più logori e falsi stereotipi, nonché della bizzarra affermazione secondo cui Israele non dovrebbe essere presentato come uno stato democratico poiché possiede un potente esercito: la democrazia e l’esercito sarebbero incompatibili. Ma Goody è uno dei più celebri antropologi viventi – Goody è un uomo d’onore – e un suo libro di quattrocento pagine non merita di essere liquidato per idiosincrasia nei confronti di qualche affermazione isolata. È un libro il cui bersaglio è l’eurocentrismo e il “mito” secondo cui l’Occidente avrebbe diritto a rivendicare una serie di creazioni: la cultura dell’antichità classica, l’umanesimo, il Rinascimento, la scienza, la tecnologia, il capitalismo, la democrazia, in breve i capisaldi della “civiltà” moderna. Si tratterebbe, secondo Goody, di un “furto della storia” compiuto a molteplici livelli e che egli smaschera prendendo di mira l’opera di tre grandi intellettuali “eurocentrici” come Joseph Needham, Norbert Elias e Fernand Braudel.
Compulsando il libro l’occhio corre all’indice analitico e lo storico della scienza non resiste alla tentazione di cercare nomi di scienziati – in fin dei conti, la scienza non è una delle più grandi conquiste vantate dall’Occidente? – e non se ne trova praticamente nessuno: Galileo è citato soltanto tre volte e, incredibilmente, Newton neanche una sola. I nomi dei più grandi filosofi dell’“Occidente” non compaiono neppure: né Cartesio, né Spinoza, Kant e Platone figurano un paio di volte. Altro attacco di idiosincrasia… anche se stavolta assai più fondato, perché riguarda la materia centrale del libro. Ma Goody è un uomo d’onore e bisogna andare fino in fondo.
Certo, le dimensioni del libro di cui è autore un così esimio personaggio vieterebbero una critica contenuta nelle dimensioni di un breve articolo. Eppure, proprio la faccenda della scienza ci mette sulla pista giusta per enucleare la metodologia del libro e la sua profonda fragilità. Di fronte alla tesi secondo cui la scienza si sarebbe sviluppata sul continente europeo, Goody esclama scandalizzato: «Seguendo questo tipo di ragionamento gli scienziati cinesi insigniti in anni recenti del premio Nobel raggiunsero i loro risultati soltanto per una sorta di processo di imitazione!». Ebbene, sì, è proprio così e il punto esclamativo è comico. Ma cosa crede, Goody? Crede forse che in Cina si faccia matematica algoritmica con le bacchette di bambù come un tempo? La scienza che si pratica in Cina è quella occidentale, la quale rappresenta il più straordinario fenomeno di globalizzazione della storia. Che la scienza europea sia debitrice di apporti provenienti dalla civiltà indiana e araba (assai poco dalla Cina), oltre che di quella greca, è fuor di dubbio, ma è la sintesi che conta, quel modo tutto speciale di concepire la conoscenza scientifica e il suo rapporto con la natura. Ma andiamo per gradi. Goody cita lo storico Mark Elvin secondo cui «intorno al 1600 la Cina possedeva in vario grado tutti gli stili di pensiero» individuati comunemente come caratteristici della scienza, a parte il pensiero probabilistico. La rivoluzione avvenuta in quel momento in Europa consistette soltanto in «un’accelerazione del ritmo con cui questi stili si svilupparono». Si tratta di una tesi completamente sballata: chi conosca un minimo la matematica cinese sa che in essa non v’era pensiero geometrico, quantomeno nulla di sia pur lontanamente paragonabile agli Elementi di Euclide. Invece, la matematica europea è nata dalla scoperta di Euclide assieme all’assimilazione dell’algebra araba e del sistema numerico indiano. Il fatto è che la cantonata di Elvin, ripresa acriticamente da Goody, è rafforzata dall’interlocutore che si sono scelto, ovvero lo storico della scienza marxista Needham il quale si è posto il problema (detto da Goody “di Needham”) del perché la scienza sia nata in Occidente (il che Needham dava per scontato) e ha tentato di spiegarlo in termini di strutture sociali. È evidente che in questi termini si perdono gli aspetti più caratteristici e originali della scienza europea. Per coglierli, occorre sviluppare un’analisi in termini di storia delle idee e comprendere che quel che caratterizza la nascita della scienza moderna sono una serie di idee filosofiche e metafisiche assolutamente originali e che non si trovano in nessun’altra civiltà: l’idea di “legge naturale” e l’oggettivismo, da cui discende il principio che ogni fenomeno si ripete immutato a parità di condizioni iniziali, da cui discende a sua volta la possibilità stessa di una tecnologia. È una visione che rivoluziona il concetto di strumento: dalla macchina artigianale, “individuale” e concreta (ottenuta strappando segreti alla natura) si passa allo strumento “concettuale”, basato su leggi scientifiche, come il cannocchiale di Galileo o l’orologio “preciso”.
Tutto questo Goody lo ignora o meglio decide di ignorarlo in quanto discendrebbe da un modo di concettualizzare tipicamente “eurocentrico”… Ma in tal modo, il problema è semplicemente eliminato. Goody ragiona soltanto in termini sociologici, antropologici, di modi di produzione, commerciali, e mai e poi mai in termini di “idee” e di concetti. Questi ultimi, come il concetto stesso di “cultura” impedirebbero l’analisi e la comparazione “razionali” in quanto ricorrono a distinzioni categoriali. Goody propone di ricorrere a un sistema di “griglie”: «si dovrebbe partire da un tratto specifico, poniamo il vincolo di dipendenza dei proprietari terrieri e costruire una griglia delle sue varie tipologie». Inutile dire che nelle griglie di Goody non possono mai trovar posto concetti o idee: sarebbe come “essenzializzare” l’analisi e stabilire a priori l’eurocentrismo. Nelle griglie di Goody il confronto tra scienza europea e altre scienze viene appiattito su questioni in cui il carattere altamente concettuale, diciamo pure deduttivo della scienza europea viene fatto sparire. Tutte le vacche diventano grigie e le differenze si riducono a questioni di intensità o di velocità. Ma, in tal modo, il problema non è risolto, bensì eliminato dichiarandolo inesistente per decreto.
È una visione che rappresenta la quintessenza di quel pensiero postmoderno che fu efficacemente definito “una forma di marxismo debole per le società opulente”. Esso è il paradigma del suicidio della cultura occidentale che nega se stessa con lo strumento di categorie concettuali (perché, alla fin fine, altro non sono le griglie di Goody) le quali sono ironicamente la quintessenza di un approccio “essenzialista”.
(Il Foglio, 27 giugno 2008)

venerdì 27 giugno 2008

Quella foga di misurare tutto che ci porta a considerare Einstein un emerito somaro

Se c’è una disciplina che fornisce definizioni rigorose e univoche questa è la matematica, anch’essa entro certi limiti. Già, perché appena si esce da un contesto puramente formale, in cui contano sono le relazioni e le proprietà degli enti in gioco e non la loro natura, cominciano i problemi. La definizione di “punto” di Euclide – «il punto è ciò che non ha parti» – ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. Perciò, appena si ha a che fare con oggetti concreti le definizioni diventano vaghe e opinabili, come lo sono i lemmi dei dizionari, tanto più se gli oggetti non sono puramente “materiali”.
Tutto ciò per dire che definire cosa sia l’intelligenza, il talento e il genio è una vera e propria sfida, ed è una sfida perdente se si pretende di dare una definizione rigorosa e univoca nello stile di quelle della matematica astratta (assiomatica). Tuttavia, siccome oggi pare che solo coloro che procedono alla maniera dei matematici (assiomatici) siano persone serie, ci si ingegna a dare definizioni siffatte dell’intelligenza. Ne risulta un’idea di intelligenza bene descritta da Edoardo Boncinelli in un recente articolo sul Corriere della Sera: «un costrutto i cui contorni sono delineati interamenti dagli strumenti di misura utilizzati nelle ricerche empiriche». Insomma, poiché la definizione di intelligenza è subordinata al fine di misurarla, essa è «l’insieme delle capacità che contribuiscono a favorire risposte corrette a quesiti di natura verbale o logico-matematica». Con una simile definizione la creatività non fa parte dell’intelligenza. Ne consegue che individui geniali ma ribelli alle convenzioni e alle regole e persino di rendimento scolastico non eccelso non sono da considerarsi “intelligenti”: tali sono i casi di Leonardo da Vinci, Darwin, Churchill o Einstein. Osserva Boncinelli che tutto dipende dalla definizione scelta, ovvero se si ritiene che la creatività faccia parte dell’intelligenza oppure no. Questa insulsa diatriba nasce perché i test di intelligenza non creativa sono facili ed efficaci – in definitiva si tratta di questionari – mentre non si è riusciti finora a ideare test efficaci di misurazione della creatività.
Bella scoperta. Se la parola “creatività” ha senso – e indica quindi un comportamento assolutamente imprevedibile e contrario a qualsiasi procedura meccanica predeterminata – è evidente che ogni tentativo di misurarla è destinato all’insuccesso. Ma siccome – come si è detto – misurare è diventato un’ossessione e pare che qualcosa non è misurabile non esiste o non è degno di considerazione, ecco che si propende per una definizione “esatta”, e pesantemente riduttiva dell’intelligenza. A quali conseguenze portino questo genere di elucubrazioni è mostrato dai titoli apposti all’articolo di Boncinelli (il cui testo è invece del tutto ragionevole): “L’intelligente non è creativo, troppo talento frena il genio”, “Test e studi psichiatrici dimostrano come lo sviluppo della sfera intellettuale renda gli individui prudenti e tradizionalisti”. Insomma si suggerisce che per essere geniali è meglio non essere troppo intelligenti e che per non essere prudenti e tradizionalisti è meglio non sviluppare la sfera intellettuale… Un altro incitamento a non studiare?
La verità è che chi limita la propria ragione a esercizi di logica formale è un mediocre, anche se sa molte cose. Non è intelligente. È un “idiot savant”. Anche i migliori matematici sono i creativi e non i “meccanici”. Ci voleva tanto dispendio di scienza statistica e psichiatrica per confezionare simili trivialità? Ma questi sono i prezzi da pagare sull’altare della “misurazione delle qualità”.
(Tempi, 26 giugno 2008)

giovedì 19 giugno 2008

Torna la meritocrazia nella scuola. E la laurea breve è al tramonto

Va apprezzato il coraggio del ministro Gelmini di aver rimesso in circolazione la parola “merito”, impronunciabile da quando (decenni fa) “meritocrazia” è stata eletta a sinonimo di tutti i mali del mondo. È tanto più apprezzabile che, dopo averne fatto un riferimento centrale per la scuola secondaria, l’abbia accostata ad “autonomia” e “valutazione” per comporre la triade cui vuole ispirare la sua azione nell’ambito universitario. Ha fatto anche bene a enunciare chiaramente il dilemma: tornare a un sistema centralizzato o scommettere sull’autonomia. Convince la scommessa sull’autonomia che però richiede la valutazione, la quale deve fondarsi sulla promozione del merito, nella sostanza e non per obbedienza a parametri formali. Se l’idea dell’autonomia convince per l’università – mentre è da considerare con molta maggiore cautela per gli istituti scolastici – occorre tuttavia ripensarla perché è stata sperimentata e siamo in condizione di dire quali rischi vadano evitati. Difatti, la falsa autonomia introdotta nell’università ha stimolato cattivi risultati, come la proliferazione di migliaia di lauree, e non ha prodotto i risultati sperati, come la promozione della qualità della ricerca e della didattica. Le università, impossibilitate ad agire in vera autonomia – per esempio sul fronte delle tasse – hanno esaurito (non senza colpe) la quota di bilancio dedicata agli stipendi. Ne è risultato un effetto drammatico: non vi è più mobilità tra le università, il corpo docente è ingessato in forme mai viste ai tempi del più rigido centralismo e le conseguenze negative sulla qualità della ricerca e della didattica sono gravissime.
Le modalità di reclutamento dei docenti proposte dal ministro – chiamata diretta su una lista nazionale di idonei – ci convincono pienamente e saranno tanto più efficaci quanto più le università saranno messe in condizione di promuovere la mobilità del corpo docente, ma anche stimolate e quasi costrette a farlo.
Un altro problema sottolineato dal ministro sono i pessimi risultati del sistema 3+2 (laurea triennale e specialistica). Tutti riconoscono che le lauree triennali non servono a niente e tanto varrebbe tornare alla vecchia normativa. Quantomeno occorrerebbe por mano a una semplificazione estrema del sistema dei crediti – Salvatore Settis ha addirittura proposto di abolirlo con una circolare – che è fonte di uno squallido mercato. Per esempio, occorrerebbe vietare l’idea aberrante di misurare un credito con le pagine di testo da studiare (pagine di quanti caratteri e di che difficoltà?!). Quando poi certe commissioni di valutazione di ateneo addirittura invitano i docenti a stimare un credito come un impegno di 25 ore di studio ci si rende conto del degrado culturale cui siamo arrivati e della metastasi manageriale dell’egualitarismo di stampo sessantottino. Esiste infatti una categoria di professori che preferiscono dimenticare di essere tali e giocare a fare i manager con un’attrazione quasi erotica per la “governance” e la “valutazione” quanto più sono formali e complicate.
Non può darsi autonomia senza valutazione, ma anche la valutazione deve essere seria e non ridursi agli esercizi formali di certe commissioni o alla burofrenia di carrozzoni autoreferenziali. Bisogna rifuggire dall’ossessione della valutazione “oggettiva” e “automatica” che sfocia inevitabilmente nella proposta di criteri assurdi e arbitrari, come quello letto di recente: attribuire un valore 20 a un libro pubblicato “all’estero” e 12 a un libro pubblicato in Italia. Quel che conta è il valore intrinseco del libro o dell’articolo e neppure della rivista in cui è stato pubblicato. Con certi criteri da “citation index” articoli epocali di grandi scienziati sarebbero oggi valutati poco in quanto pubblicati su riviste di secondo piano. L’unica valutazione seria è di contenuto e deve essere svolta da commissioni imparziali che ispezionino sul campo. Circa la valutazione degli studenti e delle famiglie, eviterei da parte del ministro di definirla in termini di “customer satisfaction”, termine che non andrebbe usato nell’ambito dell’istruzione.
Infine, così come il ministro ha ricordato l’importanza per la scuola della quarta “i”, l’italiano, siamo certi che sarà sensibile al ruolo motore della ricerca di base e alla necessità di riportare al centro dell’università la cultura e il rapporto con le tradizioni culturali senza di che non si potrà evitare che la didattica si riduca a esamificio e la ricerca a produzione di brevetti.
(Libero, 18 giugno 2008)

giovedì 12 giugno 2008

L’occasione irripetibile per liberare la scuola dal dominio del sindacato

Rigore, lotta al bullismo, niente abbuono dei debiti formativi, docenti meritori premiati a livello retributivo – sono propositi del ministro dell’istruzione Gelmini che non possono non rallegrare. Tuttavia, poiché questo è un passaggio cruciale la chiarezza s’impone. Vediamo rapidamente tre questioni.
Il ministro chiede atteggiamenti costruttivi e una mobilitazione trasversale per salvare la scuola mettendo da parte le contrapposizioni ideologiche. Giusto. Purché sia chiaro che la scuola italiana non è stata massacrata dalle contrapposizioni ideologiche bensì dal dominio trentennale incontrastato di una sola ideologia: la miscela della pedagogia per obbiettivi e dell’autoapprendimento con l’egualitarismo e l’antiautoritarismo sessantottino. L’invito va rivolto in primo luogo a chi considera come una bestemmia la sola messa in discussione di questa ideologia, a chi ha coperto di insulti libri come “Segmenti e bastoncini” di Lucio Russo o, assai di recente, ha inveito contro i firmatari dell’appello al merito e alla responsabilità, che mi pare sia stato apprezzato dal ministro. I firmatari di questo appello (Sartori, Galli Della Loggia, Schiavone, Veca, Bodei, Pirani e altri tra cui lo scrivente) sono stati definiti da un ex-ministro “relitti del passato”, sacche di conservatorismo rappresentanti una cultura morta e deduttivistica di stile gentiliano, e invitati da un sindacalista a render conto di come sono andati in cattedra. Perciò, sgomberiamo il terreno dalle congreghe ideologiche che si ritengono proprietarie dell’istruzione e diamo spazio a una discussione culturale (non ideologica) aperta e costruttiva.
Il secondo punto riguarda i sindacati e le varie associazioni. Fa benissimo il ministro a sentire tutti con la massima disponibilità. Poi, però, scelga in modo indipendente, senza tavoli di contrattazione e riservando la decisione finale alla sede istituzionale appropriata, che è il parlamento. Su sindacati e genitori hanno rispettivamente ragione il ministro Brunetta e Pierluigi Battista: facciano un passo indietro per quel che non riguarda le loro competenze. È assai malsano che i sindacati mettano bocca sui programmi scolastici o sull’organizzazione didattica: si attengano alle questioni normative e salariali del personale. Altrettanto vale per le associazioni degli insegnanti o degli studenti: per evidente conflitto d’interesse non devono metter bocca su temi didattici, come la questione degli esami di riparazione autunnali.
Il terzo punto riguarda la valutazione dell’istruzione, circa la quale molti confondono la valutazione individuale dello studente (per cui non credo che esista miglior sistema del voto) e la valutazione del singolo docente, degli istituti o dell’intero sistema. Il Corriere della Sera titola: “Sui criteri di valutazione tutti divisi”. Giorgio Allulli propone una graduatoria per istituto misurando il tasso di abbandono scolastico e premiando gli istituti che riescono a contenerlo. Ci risiamo. Si capisce che docimologi e valutatori vogliano difendere la professione ma qui sono in gioco interessi più grandi dei loro. Quei criteri sono un’assurdità e lo si è già visto, come nel caso del parametro della laurea universitaria in tempo. Basta promuovere tutti ed ecco che il tasso di abbandono scolastico crolla a zero con conseguente premio per i fannulloni e gli inefficienti. Si rassegnino gli “esperti”: le griglie di valutazione non funzionano perché possono essere aggirate in mille modi. Occorre il controllo diretto, personale. È quanto osservava Silvio Garattini a proposito dello scandalo della clinica milanese: si sono messi in atto sistemi sofisticati come il DRG (Diagnosis Related Group), ma qualunque soluzione formale può essere aggirata, e l’unico sistema valido sono «ispezioni regolari, con ispettori esperti, indipendenti da chi decide e da chi paga».
Perciò non vanno bene le soluzioni prospettate dal presidente di TreeLLLe Attilio Oliva (procedure che mettano insieme i giudizi di presidi, famiglie ed ex-studenti) e dal presidente dell’Associazione Presidi Giorgio Rembado (preside, docenti, famiglie, studenti e un docente interno o, al più, esterno). Si formino piuttosto commissioni di docenti di altri istituti e di ex-docenti che piombino senza preavviso nell’istituto e, in collaborazione col preside, lo rivoltino da cima a fondo per alcuni giorni, esaminando ogni aspetto didattico e organizzativo e interrogando anche studenti e famiglie, tenendoli però fuori dal giudizio didattico (essi possono aver peso nella valutazione delle strutture e dei servizi). Basterebbe anche intervenire su un campione del 20% degli istituti per indurre comportamenti virtuosi. È un sistema adottato in diversi paesi e, con iniziativa autonoma, anche in alcune università italiane. Se si vuole procedere seriamente questa è la via. Le altre vie servono o a svicolare o a creare baracconi autoreferenziali che producono montagne di statistiche inutili per constatare poi che le cose vanno sempre peggio.
(Libero, 12 giugno 2008)

mercoledì 11 giugno 2008

Test gradimento? La scuola non è un discount

Nulla da eccepire contro una gestione efficiente e “manageriale” delle scuole pur di aver chiari i limiti entro cui ciò ha senso. Entro tali limiti si possono anche accettare i test di “customer satisfaction” vantati su Libero dallo stimatissimo preside Mario Rusconi. Possono esser utili se si tratta di sondare i pareri di studenti e famiglie circa le strutture scolastiche (aule, gabinetti), l’efficienza dell’amministrazione e l’organizzazione delle gite scolastiche o delle altre (sempre troppe) iniziative “culturali” annesse ai POF (piani di offerta formativa). Ma sul resto – che poi rappresenta la vera sostanza della funzione della scuola – la “customer satisfaction” non dovrebbe neppure mettere il naso.
La “customer satisfaction” in un supermercato è definita abbastanza bene da quella nozione che gli economisti chiamano “massimizzazione dell’utilità”: è ottenere il prodotto migliore e più desiderato al minimo costo. A scuola ciò si traduce nell’ottenere il massimo voto e la promozione con il minimo sforzo. Anche uno sprovveduto dovrebbe capire che la cosa non funziona affatto, per il semplice motivo che la cultura e la conoscenza non sono prodotti e servizi e nell’istruzione l’interesse sociale e nazionale deve imporsi sugli interessi specifici. Chiunque – singoli o gruppi – si limiti a difendere il proprio particolare non ha alcun vantaggio ad accettare questo fatto, al contrario; e la debolezza di chi governa (a tutti i livelli) ha come effetto il cedimento alla pressione degli interessi particolari. Pertanto, la “customer satisfaction” applicata non ai gabinetti ma alla conoscenza è fonte di colossale inefficienza e di degrado.
Gli esempi sono innumerevoli. Laurearsi in tempo è qualcosa che soddisfa tutti: governanti e “utenti” – termine che occorrerebbe proscrivere quando si parla di educazione. Ma per ottenere questo risultato basta abbassare il livello dell’istruzione. Come ha osservato Angelo Panebianco, coloro che si ostinano a lodare la riforma universitaria del “3+2” (laurea triennale e specialistica) ripetono che ora ci si laurea in minor tempo rispetto a prima: ma ciò accade al costo di «un drammatico abbassamento della qualità” di «una corsa a distribuire lauree triennali anche a gente impreparata». Quando poi questo sfacelo viene testimoniato da sondaggi e statistiche, invece di porsi il problema di “cosa” s’insegna tutti si affannano ad architettare nuove riorganizzazioni dell’apparato ostinandosi sulla linea della soddisfazione dell’utente e del rispetto di parametri quantitativi. C’è chi se la prende con la pedagogia “tradizionale” che ammaestra i ragazzi a presentarsi come “persone a modo”; come se fosse un male e come se questa pedagogia esistesse ancora, visto che da un trentennio vige il pensiero unico della pedagogia progressista di stato. C’è chi propone di abolire l’ora di lezione e di trasformare ogni scuola in una “comunità educante”, in cui un gruppo si raccoglie a parlare di storia, un altro discute dell’impatto antropico sulla biosfera e un altro fa matematica creativa; sul modello del paese dei balocchi di Collodi, in cui «chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta, chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo». Questi sono i rimedi che ci vengono proposti, ma di contenuti non parla mai nessuno, per il semplice motivo che ciò condurrebbe a individuare obbiettivi imprescindibili indipendenti dalla “customer satisfaction” e ciò urterebbe assai i gruppi d’interesse.
In un recente intervento a favore della “bocciatura” del latino, il presidente di TreElle Attilio Oliva ha osservato che l’obbligatorietà del latino ne fa una delle materie meno amate («snobbata e rifiutata») e che presenta un primato nei debiti formativi. Meglio quindi renderla facoltativa. Con questo ragionamento occorrerebbe rendere facoltativa anche la matematica, essendo di certo una delle materie meno amate, snobbata, rifiutata, anzi detestata… Si dirà che ciò è impensabile in una società moderna. Appunto. Discutiamo allora di cosa sia essenziale per una formazione seria lasciando da parte la “customer satisfaction” e i gusti dell’“utenza”.
Un’altra questione delicatissima è quella dell’autonomia, che è in linea di principio un’esigenza sacrosanta, a patto di pensarla in modo razionale e responsabile, tale da non produrre risultati come l’attuale libanizzazione dell’università in 5434 corsi di laurea. A me pare che l’assunzione diretta dei docenti da parte di università e istituti scolastici sia una prospettiva ragionevole a condizione che questa venga fatta all’interno di liste nazionali di idonei risultanti da seri e rigorosi processi di selezione. Si resta invece sconcertati di fronte a proposte che prevedono una carriera dei docenti tutta interna all’istituto. Chiunque capisce che un istituto gestito seriamente potrà anche conseguire livelli di eccellenza, mentre un istituto gestito con criteri poco trasparenti potrà diventare luogo di assunzioni clientelari o familiari. E non si venga a dire che la concorrenza renderà giustizia ai migliori, perché l’istituto peggiore sarà anche quello che regala voti e promozioni e, offrendo il massimo di soddisfazione all’utente, vedrà le folle assiepate alle sue porte. Né basta dire che a ciò si porrà rimedio con un processo di valutazione. La valutazione ci vuole, a condizione che sia seria e condotta con criteri qualitativi, ovvero di sostanza. Se invece si tratta dei processi di valutazione proposti dai “docimologi”, allora è da attendersi il disastro finale: ci si prospettano baracconi di centinaia di specialisti che valutano lo stato dell’istruzione dai loro terminali sulla base della “somministrazione” di test improbabili, dalle risposte improbabili e stimati in base a teorie improbabili (se non talora francamente improponibili), le quali sono al disopra di ogni valutazione.
Queste tendenze hanno al centro lo svilimento del ruolo del docente e il disinteresse totale per i contenuti dell’insegnamento a favore dell’ossessione per le procedure. Esse emergono anche nelle proposte di sostituire i consigli d’istituto con consigli di amministrazione composti da docenti, amministrativi, ausiliari, famiglie e, al solito, “esperti” esterni. Insomma, una maggioranza di incompetenti con l’aggiunta dei soliti “esperti scolastici”, ovvero di quei personaggi che non sanno cosa sia il teorema di Pitagora ma hanno la pretesa di dettar legge su come si deve insegnare.
È il momento di lasciar da parte gli interventi di ingegneria istituzionale su una struttura esausta, e di parlare seriamente di contenuti. E occorre che lo faccia chi ha i titoli per farlo, in primo luogo gli insegnanti, che dovrebbero riassumere fino in fondo – con gli onori ed oneri relativi – il ruolo di maestri e di educatori, piuttosto che quello di pedine del gioco del piccolo manager.
(Libero, 10 giugno 2008)

domenica 8 giugno 2008

UDITE, UDITE!...

Mi sono imbattuto in un commento alla trasmissione di sabato scorso su Otto e Mezzo che parlava di scuola prendendo spunto dal mio libro, non perché sia particolarmente significativo ma perché emblematico.
È una reazione inviperita alla messa in discussione del pedagogismo. E non è certamente un caso che sia stata ripresa sul sito della Federazione dei "Lavoratori della Conoscenza" della CGIL.
Ne sottolineo alcuni punti:

1) Ricorso agli insulti: Don Ferrante, pistoleri, incompetenti, disinformati, ecc. rivolti a Pietro Citati, me e Mario Pirani (se ne facciano una ragione, la lista è molto ma molto ma molto più lunga). E si tratta di persone rispettabili: soltanto dei poveracci (veri professori di bullismo) possono pensare di liquidare una persona autorevole come Citati definendolo come un Don Ferrante pistolero. Senza contare la valanga di lettere che arrivano da ogni parte quando si esprimono critiche nei confronti dei pedagogisti. L'insofferenza giunta a livelli massimi è frutto di una congiura? O non sarebbe il caso di farsi un esame di coscienza?

2) L'elencazione di una lista di "ipse dixit" - in cui compare ridicolmente persino Feyerabend, perché non anche Einstein? - che dovrebbe tappare la bocca a priori ai critici. Chissà chi è don Ferrante... Non era proprio un aristotelico dello stile "ipse dixit"? Ahi, la trave nell'occhio...

3) L'affermazione "udite, udite! osano mettere pure in discussione la metodologia dell'autoapprendimento". È esilarante questo scandalo, come se nessuna persona ragionevole potesse pensare altrimenti, come se si fosse davanti a una bestemmia in luogo sacro... Ebbene, se ne facciano una ragione, non si tratta di un dogma di fede. C'è chi ritiene e con buoni argomenti che si tratti di una metodologia da gettare nel cestino in quanto disastrosa - e sono tanti, più di quanti credano, in particolare tra gli "operatori scolastici". Ma si sa, quando si dice questo, lorsignori rispondono che è tutta colpa degli insegnanti che "resistono".

4) Non è lecito neppure ipotizzare che qualcosa del disastro attuale derivi da trentacinque anni di dominio incontrastato dei pedagogisti di stato. Bisogna avere l'onestà di mettersi in discussione. Nessuno possiede a priori il diritto all'intoccabilità.

5) Cavarsela accusando gli altri di incompetenza. Come se chi vive da 40 anni nel sistema dell'istruzione non abbia diritto a parlare. Insomma la solita solfa: solo loro "sanno". La dittatura degli esperti... Esperti che non sanno cosa sia l'aritmetica ma pretendono di importi come insegnarla, magari con la legge "dissociativa" (arrivano lettere di insegnanti che confermano che ci sono in giro perfino emerite facce di bronzo che sostengono che la legge dissociativa ha senso!). E ci fanno pure la lezione di filosofia della scienza.

Infatti questo è il punto: siamo di fronte a una corporazione che ha il terrore di discutere e di confrontarsi, che ha il terrore di essere espropriata del potere di cui gode. E che reagisce, di conseguenza, in un modo che nulla a che fare con la discussione critica, con lo spirito scientifico, insomma con il metodo caratteristico di chi sa che cosa sia la cultura e l'educazione allo spirito critico. Dovremmo continuare a lasciare l'istruzione in queste mani?

Ad atteggiamenti così villani si può soltanto - cortesemente - rispondere con la celebre frase con cui Oliver Cromwell sciolse il parlamento inglese nel 1653: «Siete stati seduti qui per troppo tempo per quel poco di bene che avete fatto. Andatevene e liberateci dalla vostra presenza. In nome di Dio, andatevene».
Meno cortesemente un lettore di questo blog ha commentato dicendo che si tratta di patetici orfani del comunismo che, non avendo speranza di imporre la dittatura "sul" proletariato, vogliono consolarsi imponendola sugli insegnanti.

giovedì 5 giugno 2008

La dittatura degli esperti

Non dimenticherò mai una vicenda che mi fece capire molte cose dei bambini. Fu mentre il mio figlio maggiore frequentava le elementari. Per premiarlo di avere appreso a scrivere bene decisi di regalargli una bella penna: niente di speciale, ma appena qualcosa di più di una comune biro. Un giorno tornò a casa senza la penna e non si riusciva a capire che fine avesse fatto. Raccontò una storia senza capo né coda che mi mise in agitazione perché era una balla evidente. Lo interrogai e mi propinò un’altra storia ancora più incredibile della prima. E siccome non la bevevo cominciò un crescendo di storie, una dopo l’altra, una più assurda dell’altra. Credevo di diventare matto e mi chiedevo chi avevo di fronte. Risolse tutto la sua tata che, con la saggezza dell’età e dell’esperienza, evitò il clima da interrogatorio, e riuscì a sapere come stavano le cose: aveva fatto uno scambio con un compagno per una volgare penna replay e poi aveva temuto di dispiacermi.
Da quel momento guardo con sconcerto alle recenti fallimentari inchieste su bambini ritenuti vittime di abusi, tutte basate su “deposizioni” che alla fine risultano costruzioni sulla sabbia. Soltanto un genitore inesperto o una persona che non abbia mai frequentato un bambino può credere di poterne ottenere una testimonianza affidabile in una condizione di “interrogatorio”, in cui egli sa che quel che dirà è decisivo in qualche senso e, a seconda dell’idea che si farà di questo “senso”, propinerà questa o quella versione. Il colmo è che si tratta di “specialisti” che pretendono di saperne più dei comuni mortali della psiche infantile, confezionano disastri che scassano in modo gravissimo equilibri familiari – come hanno dimostrato i casi recenti – e sembrano non essere tenuti a pagare alcuna penale per i loro banali errori.
Quel che spaventa è la concorrenza di tre “competenze” – psicologi, assistenti sociali e magistrati – che conferisce a questi interventi un potere straordinario e insindacabile e permette di compiere senza esitazione atti di portata enorme, come quello di sottrarre dei bambini alle famiglie per un vago sospetto basato su testimonianze prive di fondamento serio. Ricordo il caso di un bambino che diceva di aver sentito che i suoi genitori talvolta di notte lottavano… In una condizione sana una simile vicenda dovrebbe essere oggetto di ilarità e, al più, di una raccomandazione ai genitori di stare più attenti nelle loro effusioni. Invece oggi crea la paura che, se la storia arriva alle orecchie dell’“esperto” di turno, il bambino potrebbe essere sequestrato in attesa di accertamenti.
Siamo di fronte a quella situazione patologica ben definita da Nicoletta Tiliacos come “la dittatura degli esperti”, la quale si manifesta in ogni campo: è un pullulare di metodologi che appaiono investiti del potere di decidere come ci si debba comportare in ogni cosa, anche se del contenuto specifico di quei comportamenti mostrano di non sapere nulla. Com’è appunto il caso di quegli psicologi che pontificano teoricamente sull’“affettività” e poi dimostrano concretamente di essere un disastro sul piano affettivo. Spero che questo spieghi perché insisto a denunciare i guasti del pedagogismo nell’istruzione. Anche se i danni non appaiono così immediatamente macroscopici come la sottrazione di un bambino alla famiglia, in prospettiva non sono minori. Cosa direste di una persona che non sappia un acca di matematica o di letteratura e pretenda però di dettare legge su “come” le si debba insegnare? L’educazione è in mano a apprendisti stregoni del genere.
(Tempi, 5 giugno 2008)

martedì 3 giugno 2008

Con questi maestri andremo lontano...

Tre giorni fa La Stampa ha pubblicato un articolo dal titolo "E se bocciassimo il vecchio latino?" che meriterebbe un commento dettagliato. Speriamo di trovare il tempo per farlo. Intanto però vorrei sottolineare un passaggio dovuto al professore emerito dell'Università di Roma "La Sapienza" Carlo Bernardini: «Chi ha lavorato con i bambini sa quale ricchezza si nasconda nella loro disponibilità a imparare. Ma appena passano sotto le grinfie della burocrazia pedagogica tradizionale e incominciano a essere ammaestrati a "presentarsi" da persone a modo, la curiosità e la voglia di capire vanno via». Ci piacerebbe davvero sapere dove resiste questa "pedagogia tradizionale". Noi conosciamo, almeno da trent'anni soltanto una pedagogia: quella "progressista", che domina incontrastata. E quale sarebbe la colpa della "pedagogia tradizionale" (burocratica, manco a dirlo, come se i pedagogisti progressisti di regime non fossero ammanicati con la burocrazia come nessuno al mondo)? Sarebbe quella di "ammaestrare" i bimbi a "presentarsi da persone a modo". Così perdono curiosità e voglia di capire. Insomma per essere intellettualmente curiosi ed avere voglia di capire bisogna non essere "a modo"... Qual è la condizione necessaria e sufficiente per essere intellettualmente curiosi e aver voglia di capire? Ruttare in faccia alla mamma? Scorreggiare in autobus? Tirare giù le brache al professore? Fate voi. L'importante è non essere "a modo".
Ma questa solfa l'abbiamo capita, è vecchia come il cucco. Bisogna saper occupare, occupare e occupare. Occupare aule, scuole e rettorati, andare a tirar pugni sulle porte delle presidenze, fare e srotolare striscioni, urlare coi megafoni e fare cortei. Creatività, ragazzi, e vedrete come si diventa intellettuali. Il professor Bernardini ama evocare sempre la figura di Lucio Lombardo Radice come un modello ideale di intellettuale che oggi non esiste più. Per parte mia sono lontano dal comunismo esattamente da 28 anni. Ma, siccome ho conosciuto bene Lombardo Radice, posso dire con certezza che, da vecchio comunista tradizionalista, una qualità l'aveva certamente: apprezzava soprattutto le personcine "a modo". E difatti detestò sempre il Sessantotto. Se oggi fosse in vita e l'avesse sentito fare questi discorsi l'avrebbe inseguito per scale e corridoi fino a fargli passare la voglia di dire simili insulsaggini.
Questo è quel che rimane del comunismo: cascami di sessantotto irrancidito. Il guaio è che ancora sono influenti. Permetta il ministro Gelmini. La scuola non ha sofferto per troppe contrapposizioni ideologiche. Magari fosse... Ha sofferto di essere stata assoggettata da almeno trent'anni a un pensiero unico: questo.