mercoledì 30 ottobre 2013

IL FLOP DELLA RICERCA SCIENTIFICA

L’ultimo numero dell’Economist denuncia con un dossier (“How the science goes wrong”) il preoccupante declino della qualità della ricerca scientifica. Un numero sempre maggiore di articoli si rivelano privi di fondamento, basati su dati o statistiche sbagliati o taroccati, su analisi approssimative; il rigore nella selezione delle pubblicazioni è in caduta libera. La scienza – osserva la rivista – dal Settecento ha cambiato il mondo e ancora ha diritto a un enorme rispetto, ma il suo status privilegiato si basa sulla capacità di fornire risultati quanto più possibile esatti e, soprattutto, di correggere i propri errori. Poiché questo accade sempre meno, ora è la scienza a dover cambiare.
Negli stessi giorni la rivista New Scientist batte sullo stesso tasto, mettendo sotto accusa, in particolare, le neuroscienze, ritenendo «ormai chiaro che la maggioranza dei risultati» ottenuti in questo campo «sono spuri come le onde cerebrali di un pesce morto». L’allusione è a una celebre esperienza di alcuni anni fa, in cui si sottopose a risonanza magnetica un salmone morto rilevando un’attività cerebrale quando il cadavere del pesce “vedeva” delle persone. Un approccio serio avrebbe dovuto suscitare un approfondimento delle correlazioni tra quelle tecniche e l’attività cerebrale, ma si è fatto finta di niente.
Le ragioni di questo andazzo preoccupante sono almeno tre. In primo luogo, il numero crescente di ricercatori che sgomitano per farsi largo in un palcoscenico troppo affollato. Poi il principio del “publish or perish” che, soprattutto nel contesto statunitense, obbliga il ricercatore a pubblicare secondo precisi obbiettivi quantitativi, altrimenti è spazzato via. Se un ricercatore, per essere confermato, deve pubblicare in quattro anni due libri e sei articoli, baderà poco alla sostanza e s’ingegnerà a inventare qualsiasi cosa pur di sfangarla. Ma la produzione di risultati davvero originali richiede talvolta lunghi periodi in cui si studia, si riflette o si sperimenta, senza pubblicare. Il terzo aspetto è dato dalla degenerazione dei sistemi di valutazione dei lavori. Si è ritenuto che l’introduzione dell’anonimato di chi dà un parere su un lavoro presentato a una rivista sia garanzia di autonomia, e invece esso si è rivelato un sistema perverso che consente al recensore di scrivere nel giudizio qualsiasi cosa senza metterci la firma e la faccia, e di compiere impunemente operazioni mafiose, come favorire gli amici e penalizzare i nemici o i concorrenti. A ciò si aggiunga l’idea “geniale” di valutare la qualità di un ricercatore o di una rivista senza leggere la loro produzione, mediante sistemi bibliometrici basati sul calcolo del numero di citazioni. In questi anni si sono moltiplicate le denunce degli effetti perversi di questo sistema, ma esso è sostenuto dai potenti interessi delle ditte che fanno i conteggi bibliometrici e la macchina infernale sembra inarrestabile.
Si aggiunga un aspetto che è forse il più grave di tutti. La qualità della ricerca è compromessa soprattutto in alcuni settori delle scienze biologiche, in particolare della genetica e delle neuroscienze. In questo ambito dominano due postulati: che tutto sia nei nostri geni e che i nostri pensieri siano rivelabili con tecniche di risonanza magnetica funzionale. Il carattere ideologico di questi postulati è confermato dal fatto che essi resistono a qualsiasi confutazione, anche ai salmoni morti: gli studiosi più avvertiti ripetono che il primo postulato è manifestamente falso, soprattutto nella pretesa di individuare mediante i geni, in modo meccanico, le nostre capacità intellettuali; e che la risonanza magnetica funzionale rileva processi macroscopici che individuano correlazioni troppo vaghe con l’attività mentale. Ma ogni avvertimento è vano perché è facile far ricerca su questi presupposti, “scoprendo” un giorno il gene della gelosia e l’altro il gene della generosità, o analizzando i flussi sanguigni cerebrali di una persona mentre fa una versione in prosa o legge una poesia; e su questa base scrivere articoli di valore nullo ma che servono a far carriera.
Fin qui il danno sarebbe serio ma resterebbe interno alla ricerca. Tuttavia, le cose si fanno gravi per tutti se dilagano di personaggi di dubbia competenza che vanno in giro a far seminari (magari nelle scuole) per spiegare che i bambini che hanno difficoltà con la matematica hanno difetti neuronali, senza essere ovviamente in grado di proporre altro che chiacchiere nebbiose. Attorno a questo fenomeno si coagulano interessi che sfruttano la buona fede di persone intimidite dal richiamo all’autorità della “scienza”. Ma di gran lunga più gravi sono i tentativi di mettere in piedi interventi massicci e promossi dallo stato. Di recente, lo psicologo americano Robert Plomin, professore al King’s College di Londra, ha proposto di sottoporre i bambini a dei test genetici di massa per individuare la scelta scolastica migliore perché, secondo lui, dai geni si può dedurre in quale disciplina risulteranno migliori. Inutile dire che si tratta di affermazioni prive di qualsiasi base scientifica seria. Se è già problematico stimare quanto sia consigliabile fare certi interventi chirurgici per prevenire una malattia sulla base di un test genetico, la correlazione tra geni e disposizioni mentali e intellettuali è un territorio inesplorato, ammesso che la sua esplorazione possa dare frutti. Difatti, è fin troppo evidente (e viene ripetuto invano dagli studiosi seri) che in questo ambito giocano tanti di quei fattori epigenetici, sociali, culturali, da rendere marginale il fattore genetico. Eppure c’è chi prende sul serio queste proposte e discute persino sulla loro attuabilità. Non ci si rende conto di riproporre l’immagine del Brave New World di Huxley: una società totalitaria in cui la persona non ha scelta, perché nasce predeterminata a fare questo o quel mestiere, e a vivere in un certo modo. Già un secolo fa l’eugenetica, diffondendo miti analoghi, ha fornito basi pseudoscientifiche per i razzismi che hanno devastato il Novecento. Ora vediamo risorgere lo stesso spettro che, con la stessa inconsistente pretesa di scientificità, promette nuovi disastri sociali.

(Il Messaggero, 30 ottobre 2013)

venerdì 18 ottobre 2013

NEGAZIONISMO: rischi con il nuovo reato


La verità è molto più fragile della menzogna perché la seconda si avvale del dubbio, dell’insinuazione e della calunnia, mentre la prima deve sempre ricorrere a prove positive; e il dubbio insinuante è capace di mettere in discussione anche le prove più evidenti. In questi giorni, il tema del negazionismo è tornato alla ribalta in modo così forte che ho sentito persino l’esigenza di toccare ancora con mano la realtà della deportazione dei miei parenti, rileggendo le schede che si trovano sul sito di Yad Vashem. Lo dicono registri tenuti con cura da burocrati del massacro: due di loro risultano partiti col trasporto n. 44 da Drancy per Auschwitz-Birkenau il 9 novembre 1942 e proprio qualche giorno dopo uno zio scrive un terribile annuncio a mio padre: “risultano inviati verso destinazione sconosciuta”; aggiungendo che un altro zio è riuscito fortunosamente a sottrarsi. Ma anche lui poi viene preso ed è registrato come deportato, sempre da Drancy, col trasporto n. 46 del 9 febbraio 1943. E così molti membri della famiglia. E così per tante altre famiglie, formando il bilancio impressionante che tutti dovrebbero conoscere. Nessuno ha mai più viste queste persone. Saranno morte di vecchiaia in vacanza alle Seychelles?
I negazionisti più spudorati sarebbero capaci di dire anche questo, ma i più astuti usano una tattica più sottile: cavillano sui numeri, ma soprattutto mettono in dubbio le “modalità”. Potrebbero essere morti di fame, di malattie. Per quanto i campi fossero attrezzati – c’erano persino bordelli per i detenuti, secondo Priebke – alla fin fine si era nel pieno di una guerra… Il dubbio mira alle camere a gas. E il dubbio è facile da disseminare, confutando le testimonianze a pezzetti, mettendo in discussione ogni prova, ogni foto, ogni documento, per insinuare che le camere a gas non siano mai esistite, e quindi neppure lo sterminio di massa. Anche il “matematico impertinente” Odifreddi, pur ammettendo che negare la Shoah è da “deficienti” ha detto furbescamente di non saper nulla delle camere a gas salvo la vulgata del “ministero della propaganda alleato” e che le potrebbe stare “molto diversamente” da quanto insegnato. Ha giustificato un frequentatore del suo blog dicendo che si può ben essere antinazisti senza che questo comporti «accettare l’esistenza delle camere a gas senza prove, solo perché a tutti noi da sui nervi anche solo immaginare la possibilità che esse siano un’invenzione».
È il modello perfetto di quanto si diceva all’inizio: la verità è fragile perché deve far fronte all’insinuazione che chiede sempre nuove prove, ignorando quelle a disposizione. Per giunta, con uno sfrontato ribaltamento, chi insinua il dubbio si presenta come la voce della ragione positiva a fronte di chi, sostenendo la verità, viene presentato come un dogmatico, uno che non vuole discutere e vuole soltanto imporre un’opinione propagandistica. Chi si presenta in tal modo avrebbe buon gioco, se fosse condannato a qualche pena da una legge contro il negazionismo, a presentarsi come una vittima, come simbolo della persecuzione della ragione. Per questo, non credo che una legge contro il negazionismo sia utile, e penso anzi che sia controproducente. Far tacere d’autorità la menzogna serve solo a rivestirla dell’aureola di vittima. Non può in alcun modo distruggerne l’esistenza e, mettendola in clandestinità, la renderà ancor più pericolosa. Si rischia di stimolare la creazione di una rete dei “samizdat” della menzogna negazionista; qualcosa di assai facile a farsi nei tempi della rete e dei social network.
Quindi, occorre affrontare questa situazione difficile – in cui il pullulare del negazionismo e dell’antisemitismo rischia (con buone ragioni) di far perdere la testa – con calma e razionalità. Anch’io penso che la vicenda di Priebke sia stata gestita malissimo, amplificandola a dismisura mentre doveva essere risolta in modo autorevole con poche mosse silenziose: come Aharon Applefeld penso che Priebke sarebbe felice di sentirsi odiato e che la scelta migliore sarebbe stata seppellirlo in fretta, in silenzio, senza perdono. Inutile censurare il suo “testamento”: forse è meglio fargli fronte, come è profondamente sbagliato vietare la lettura di “Mein Kampf”, invece di farne uno strumento per descrivere l’abisso della perversione. La verità è difficile ma è l’unico strumento che abbiamo, da difendere con la discreta e determinata forza della ragione – quella autentica, non quella dei seminatori di insinuazioni. Non serve moltiplicare le commemorazioni rituali, le manifestazioni esteriori e neppure gli insegnamenti impositivi: alla larga dall’idea dei corsi scolastici sulla Shoah. In questi giorni, invece di tanti discorsi, spesso vacui e retorici, di storiografia in pillole che provoca lo sbadiglio tra i giovani, una buona idea sarebbe stata proiettare nelle scuole il film di un grande regista tragicamente scomparso da poco, Carlo Lizzani, un uomo sensibile, un artista raffinato, un cittadino politicamente impegnato. Mi riferisco a quel capolavoro che è Hotel Meina, che può dire ai cuori e alle menti dei più giovani molto più di tanti discorsi.

(Il Messaggero, 18 ottobre 2018)






giovedì 10 ottobre 2013

VINCENZO M'E' PATE A ME.....


Chi non ricorda l’esilarante tormentone della commedia “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta (immortalata nella versione cinematografica con Totò e Sofia Loren)? Al piccolo Peppiniello è stato raccomandato di dire che è figlio di Vincenzo, ma lui, per non sbagliare, qualsiasi cosa gli si chieda risponde sempre: «Vincenzo m’è pate a me».
La stessa cosa ormai accade quando si riaffaccia periodicamente la notizia che l’Italia è in cattiva posizione nelle graduatorie internazionali dell’istruzione. Secondo le recenti classifiche Ocse siamo all’ultimo e penultimo posto in competenze linguistiche e matematiche? Risposta: «Vincenzo m’è pate a me». Che, nella fattispecie si declina così: occorre un legame più stretto tra università e industria, servono stage in azienda molto precoci, incrementare l’istruzione professionale a scapito dei licei, più valutazione (ovviamente con test), valorizzare il “capitale umano” con investimenti. Ci si mette anche il ministro Giovannini traendo la conclusione che siamo “con le ossa rotte” e che gli italiani sono “poco occupabili”.
In primo luogo, poiché siamo adulti, è saggio non prendere queste statistiche come oro colato. Come sono state fatte, con quali metodi, su quali contenuti? Nessuno lo spiega, eppure da questo dipende tutto. Il fatto che finisca in cattiva posizione un paese come la Francia – che, per quanto decadente ha la tradizione che sappiamo – fa nascere più di un sospetto. Ed è ancor più sospetto che venga messo sempre al primo posto il modello finlandese, ignorando che dalla stessa Finlandia sono venute voci autorevoli a spiegare che il successo nei test Ocse deriva dall’aver trasformato la matematica che s’insegna in un “oggetto didattico” che con la disciplina propriamente detta ha poco a che vedere e che prepara difficoltà serie a livello superiore. Tant’è che tutti questi trionfi scientifico-tecnologici finlandesi non sono visibili.
Ma supponiamo pure che tutto sia attendibile e che noi si sia con le ossa rotte. In tal caso, il problema va affrontato nei nodi nevralgici e non ripetendo un «Vincenzo m’è pate a me». Se vi sono carenze sul piano linguistico e matematico occorre andare a vedere come e cosa s’insegna. Davvero qualcuno può farci credere che una carenza linguistica e matematica si risolva facendo uno stage in un’azienda di piastrelle? Chi può negare l’utilità di sviluppare gli istituti tecnico-professionali, dopo che sono stati massacrati da riforme demagogiche, ma perché mai questo dovrebbe accompagnarsi allo strangolamento dei licei? Un paese che non voglia suicidarsi non deve forse far avanzare tutto il fronte dell’istruzione? “Literacy” e “numeracy” miglioreranno scaricando tutto il problema sui tecnico-professionali e sugli stage? Non è serio pensarlo, e non è serio parlare a casaccio di investimenti, come se questi problemi si potessero risolvere con pioggerelle di quattrini su discutibili sperimentazioni didattiche o marchingegni gestionali.
Chi voglia esaminare la situazione in modo serio non ha bisogno di perdere tempo per rendersi conto della situazione. Basta aprire le antologie di letteratura in uso nella scuola, ridotte a brani tratti da fonti di infimo livello, spezzettati in formato sms e alternati con quesiti a crocette. Basta analizzare come viene insegnata la matematica, ridotta a un ammasso di regolette, algoritmi, “leggi” che vengono moltiplicate in misura tale da disgustare la persona più ben disposta. Del resto veniamo da anni in cui cattivi maestri hanno predicato che correggere l’ortografia era un pregiudizio passatista e che la matematica non doveva essere considerata come una disciplina concettuale ma come una “scienza procedurale”. Le ciliegie sulla torta le sta mettendo la pressione a studiare per superare le prove Invalsi che fanno dilagare l’insegnamento in funzione dei test. Nella vita quotidiana della scuola il dialogo disteso tra insegnante e allievi è sempre più rimpiazzato da un percorso meccanico sminuzzato in continue “verifiche” in cui prevale una visione burocratica e formale.
Se si vuole affrontare la questione seriamente occorre andare a vedere il problema dov’è. Qualsiasi persona che abbia un’idea minimamente fondata di cosa sia la matematica non può stupirsi di nulla dopo aver letto le ultime Indicazioni nazionali per il primo ciclo, che peggiorano le già mediocrissime precedenti. Il male sta quindi in quello che s’insegna e nel modo con cui s’insegna, e di questo portano la responsabilità primaria coloro che controllano il sistema scolastico, incluso ora l’Invalsi con i suoi discutibili test e modelli statistici. In anni passati si parlò delle responsabilità di taluni pedagogisti “di stato”. Viene quasi da rimpiangere quei tempi di fronte alla tendenza odierna a buttarla sull’economicistico e il manageriale, mettendosi nelle mani dei fabbricanti di test fuori controllo e di quell’ambigua categoria detta degli “economisti della scuola” che, a differenza dei pedagogisti, propinano ricette senza aver mai messo piede in una scuola e ignorando i contenuti dell’insegnamento. Se vogliamo giovani che sappiamo leggere, scrivere e far di conto, come possiamo pensare di istruirli se non ponendoci il problema dal punto di vista dei contenuti?
(Il Mattino, 10.10.13)

sabato 5 ottobre 2013

A PROPOSITO DI LICEO CLASSICO E DI STUDI UMANISTICI

Da una lettera scritta il 1° luglio 1860 dal matematico Gaspare Mainardi (1800-1879), professore all'università di Pavia, al conte Mamiani, ministro dell'istruzione e degli affari religiosi:

«HO DETTO AI MIEI DILETTISSIMI SCOLARI CHE GARIBALDI DOMANDA UN MILIONE DI MILITI PER RENDERE L'ITALIA LIBERA E S.E. IL CONTE MAMIANI VORRA' MILIONI DI FILOSOFI PER CONSERVARLA»

A Garibaldi bastarono mille combattenti, ma di filosofi per conservarla pare che non se ne voglia più neanche uno.