mercoledì 27 novembre 2013

La follia della medicalizzazione della vita...

Ecco una lettura dedicata a coloro che mi hanno quasi linciato quando ho scritto che l'ADHD (la sindrome del bambino agitato) era una malattia inventata: un giornalista mi invitò su questo blog a scusarmi...
Ora è attendersi che si scusi lui e tutti coloro che hanno usato parole violente e aggressive. La compagnia del Ritalin...
E poi c'è chi dice che gli "specialisti" sono meglio delle famiglie...
È piuttosto sintomatico quanto sia stata soffocata questa notizia.

domenica 24 novembre 2013

L'educazione dei figli spetta alla famiglia, non allo Stato

Giorni fa, su queste pagine [Il Messaggero], ho proposto di rispondere al dilagare dei casi di prostituzione minorile con un rilancio dell’educazione sentimentale: «Leggiamo una poesia alle baby-squillo». I molti commenti favorevoli ricevuti hanno colto il senso della proposta: leggere poesie ai ragazzi (e fiabe ai bambini, ha aggiunto giustamente qualcuno) è un invito a non appiattire i problemi dello sviluppo sul mero aspetto sessuale, rivalutando ed esaltando il lato emozionale, la capacità di vivere in modo pieno i sentimenti come la cosa più importante e non come una debolezza di cui vergognarsi. Qualche “esperto” ha storto il naso in modo prevedibile, proponendo la ricetta opposta: gettare alle ortiche l’amore “romantico” che, chissà perché, sarebbe una leggenda – che tristezza non aver mai provato quanto sia bello essere innamorati in modo sentimentale… –, e dedicarsi a sviluppare nei ragazzi le “competenze” della propria corporeità. Non sfiora il dubbio che il difetto di questa ricetta stia proprio nel suo materialismo radicale che declassa i sentimenti a epifenomeni della corporeità e della sessualità, e guarda con il risolino dello “scettico blu” (come si diceva un tempo), gli immaturi che ancora si attardano dietro a queste bubbole, di cui sono espressione scritta le poesie, le fiabe, i romanzi.
Se tutto questo fosse un’opinione che si confronta con altre non varrebbe neanche la pena di scriverne. Ma quando si constata che non si tratta di opinioni, ma di qualcosa che rischia di tramutarsi in direttive da seguire obbligatoriamente, il discorso cambia. Desta autentico sconcerto la lettura del documento “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, prodotto dall’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS (Organizzazione Mondiale per la Sanità). Sarebbe lungo riassumere 68 pagine. Diremo soltanto che sono ispirate a un’ideologia sessuocentrica, nella cornice di un politicamente corretto così spinto da confermare l’impressione che in materia ormai l’Europa stia stracciando gli USA. Dopo una premessa “filosofica” farraginosa, il documento indica le linee guida operative per le fasce di età 0-4 anni, (in cui già il bimbo va introdotto alla “gioia” della masturbazione precoce), 4-6 (in cui approfondisce la conoscenza dei genitali e viene informato sulle diverse concezioni di famiglia), 6-9 (in cui è informato dei propri “diritti sessuali”), fino a 9-12 e oltre, in cui gli si parla di mutilazione genitale femminile, circoncisione, anoressia e bulimia (tutto messo assieme).
La cornice descrittiva è quella tipica del più piatto burocratismo psico-pedagogico. In colonna sono le informazioni da trasmettere, le competenze da creare, gli atteggiamenti da sviluppare, in riga corpo, fertilità e riproduzione, sessualità, affetti, stili di vita, sessualità, diritti. Così, per la fascia 0-4 anni, all’incrocio affetti-competenze si prescrive il gioco del dottore e a quello sessualità-informazione il diritto di esplorare le identità di genere e la nudità.
Fin qui, è un’opinione come un’altra la nostra secondo cui questo documento, prima ancora che moralmente deplorevole è intellettualmente infimo, meriterebbe una solenne bocciatura e una pessima valutazione dei suoi autori. Purtroppo, non si tratta di teoria, quando si apprende che in Svizzera, nel Cantone Basilea, sono state introdotte lezioni obbligatorie di sessualità nelle scuole dell’infanzia, munendo addirittura i maestri di una “sex-box” contenente peni di legno e vagine di peluche, e un gruppo di lavoro è in azione per estendere queste iniziative a tutto il paese, al punto che contro di esse è partita una petizione che ha raccolto più di 90.000 firme. Ma il vero problema è che un documento del genere aspira manifestamente a diventare una direttiva europea.
La famiglia è sempre stata la sede di formazione affettiva e sessuale dei figli. E, si badi bene, anche dei genitori, i quali sanno quale lezione (e crescita) sia per loro affrontare tutte le fasi delicatissime della crescita di un figlio. Per questo, le famiglie hanno un ruolo sociale tanto importante. Lo hanno esercitato bene e male. Il miglioramento va perseguito, con il confronto e lo stimolo; ma solo chi crede che sia possibile mettere le braghe al mondo pensa di risolvere tutto d’un colpo, mettendo l’educazione in mano allo stato, secondo regole calate dall’alto. Conosciamo questa visione: si chiama totalitarismo. L’hanno praticata i paesi fascisti, la si è vista all’opera negli asili sovietici di Aleksandra Kollontai, nelle teorie pedagogiche che Makarenko applicava agli orfani dei deportati nel Gulag. Come è possibile che una simile mala pianta attecchisca in società democratiche e liberali? Sembra impossibile, e proprio per questo la vigilanza è bassa. E invece è possibile, se si creano centri di potere formati da burocrazie fuori controllo che si scelgono in modo arbitrario i propri esperti per formulare teorie da trasformare in direttive continentali. Non è solo la famiglia a essere espropriata del proprio ruolo, trasformando gli insegnanti in meri esecutori delle direttive promulgate da quei centri di potere; ma anche la politica è espropriata della propria autonomia di decidere le forme dell’istruzione nazionale. La scuola viene così ridotta a centro di costruzione del “nuovo cittadino europeo” secondo direttive imposte dall’alto. Come chiamare tutto ciò, se non una forma neanche tanto subdola di totalitarismo che rende banale la profezia del “mondo nuovo” di Huxley?

Pare che il nostro governo abbia stanziato ben 10 milioni di euro per l’“aumento delle competenze relative all’educazione all’affettività”. Visto il rischio che, per superiori direttive, tali “competenze” assumano la forma sopra descritta, non sarebbe il caso di esercitare qui una radicale “spending review”? In un paese in cui una grande città ha i mezzi pubblici fermi da giorni e si viaggia nei treni locali con l’ombrello, non sembra proprio una buona idea spendere 10 milioni per far fare il gioco del dottore a bambini di tre anni.
(Il Messaggero, 23 novembre 2013)

Un interessante link a proposito della scuola dei test

sabato 23 novembre 2013

Il test sull'educazione sentimentale funziona...

Non si sa cosa pensare quando si viene chiaramente citati in modo obliquo, evitando di nominarti. Personalmente ne sono sempre gratificato: è come una manifestazione di fragilità e di timore del confronto.
Esce sul Corriere della Sera di oggi un articolo di Gustavo Pietropolli Charmet (psichiatra e psicologo) dal titolo “Gli adolescenti e il sesso vissuto solo come collaudo di sé”; sottotitolo “Il bisogno di sperimentare il potere della nuova corporeità”; occhiello ancor più significativo: “Consigli ai genitori, Dimenticate il mito dell’amore romantico e aiutateli con intelligenza”.
Vi leggo questa frase che pare direttamente indirizzata al mio articolo sul Messaggero (vedi il post precedente) e alla proposizione di una ripresa dell’”educazione sentimentale” (non ho letto altri che l’avessero fatto in questa settimana):
«Gli adulti, genitori ed educatori, dovrebbero provvedere alla elaborazione di una rinnovata educazione sentimentale che tenga presente i rischi attuali e lasci perdere i miti e le leggende dell’amore romantico, per dedicarsi con intelligenza e competenza reale a garantire alle adolescenti attuali un sostegno nella lunga fatica e nelle peripezie rischiose dedicate a verificare il potere della nuova corporeità».
È una replica nello stile della “razionalità disincantata”: parliamo pure di “educazione sentimentale” purché sia “nuova” - l’aggettivo “nuovo” è il passe-partout per dire qualcosa che appaia accettabile e non il relitto di miti passatisti.
Gettiamo quindi alle ortiche miti e leggende dell’amore romantico: eravamo tutti una massa di deficienti quando ci innamoravamo e portavamo regalini alla persona desiderata, sognando di starle sempre accanto, ecc. ecc. Immaturi e tonti. 
Ora siamo nell’era dell’intelligenza e della “competenza reale”“competenza” è l’altro termine d’ordinanza nei paradigmi della burocrazia psicopedagogica dominante ("nuova", manco a dirlo). 
Quindi, la questione è tutta e soltanto di “corporeità”. I sentimenti sono un epifenomeno della corporeità, in questo caso della “nuova corporeità”.
Facciamo grazia del fatto che qui con “nuovo” non s’intende una forma di corporeità che sarebbe emersa negli ultimi anni… anche nell’abuso del nuovismo talvolta c’è un senso del limite… È la corporeità che emerge nell’adolescenza. 
Ma quella non l’abbiamo avuta tutti, noi e centinaia, migliaia di generazioni passate? Non dico che ce la siamo (se la sono) cavati sempre bene, ricorrendo ai sentimenti ai miti dell’amore romantico; ma di certo non tanto peggio – e talora meglio – di ora, quando l’esaltazione della centralità del corporeo sta producendo i fenomeni cui assistiamo e l’assenza di reazioni affettive (sentimentali, in senso classico) facilità l’accettazione dell’uso del proprio corpo come merce.

Ma a che giova questo pragmatismo travestito da razionalità scientifica? Che ne facciamo di ricette espresse in un linguaggio «esplorare simbolicamente le cavità generative e sessuali»che dimostrano che la vigilanza contro il ridicolo opera da una parte sola? Opera contro i sentimenti che però, non dispiaccia, al nostro specialista, esistono come tali, non sono faccenda soltanto corporea: comprimerli o decretarli un mito, invece di esaltarli e farli maturare, questo sì che è ridurre i nostri adolescenti ad animali in calore. 

martedì 19 novembre 2013

LEGGIAMO UNA POESIA ALLE BABY-SQUILLO

Contro il disprezzo dei sentimenti

Nello sgomento di fronte all’esplodere dei casi di baby-prostituzione, si rincorrono le solite diagnosi tra cui campeggia quella della crisi della famiglia. Siccome nessuno ha la più pallida idea di come si dovrebbe curare la crisi di questa istituzione – la cui natura, oltretutto, assume contorni sempre più sfuggenti – la proposta più banale, come un rifugio disperato, è affidare la terapia alla scuola. Come se non sapessimo da anni che anche qui germinano i semi della mala pianta, nelle prime forme di baby-sesso nei bagni, con il contorno efferato di filmini ripresi con il cellulare e diffusi in rete. Del resto, quale ipocrisia pensare che un problema del genere possa essere risolto da un’istituzione esausta, stremata che, con mezzi sempre più modesti, è chiamata a far fronte a tutti i mali sociali, sempre anteposti all’esercizio della sua funzione istituzionale, l’istruzione! Eppure, tra le varie ricette è circolata persino quella di introdurre nella scuola nuovi corsi di una materia che dovrebbe fornire gli elementi di un corretto comportamento – diciamo così – “morale”.

Il carattere sgangherato e irresponsabile – nel senso testuale della parola, ovvero della fuga dalle responsabilità – di queste proposte suggerisce che siamo ancora molto lontani dall’aver fatto una diagnosi accurata dei mali che affliggono i nostri giovani e, soprattutto, i principali responsabili: gli adulti, che dovrebbero educarli. Non è certo possibile fare questa diagnosi in un articolo di giornale ma, visto che impazza la mania dei test, ne proporremo uno molto semplice e che a qualcuno potrà apparire buffo. Si prenda un giovane, e anche i loro genitori, e si proponga loro la lettura di una poesia (meglio se molto commovente), o un brano letterario intenso, o un brano musicale, non necessariamente classico, anche una bella canzone; e si veda cosa succede. Se spunterà un sorrisino di sufficienza, o di noia, o ancor peggio la smorfia sarcastica di chi la sa lunga e non ha da perdere tempo dietro alle romanticherie, la diagnosi è fatta. La timidezza e il pudore dei sentimenti sono una caratteristica adolescenziale, ma quando sono esaltati da un clima generale di disprezzo dei sentimenti – roba da perditempo o da rimbecilliti – tracimano rapidamente nel cinismo. Ed è proprio questo il male che dilaga per responsabilità degli adulti: il cinismo, che si manifesta nel proporre come modello il furbo, colui che la sa lunga e va all’essenziale e al “pratico”, e non ha tempo da perdere dietro ai “sentimenti”. Purtroppo, facendo il nostro test, è da scommettere che si constaterà che pochi reagiranno con partecipazione e commozione, i più con un risolino annoiato e sardonico. Del resto, come potrebbe essere diversamente? Quale educazione sentimentale può trasmettere un adulto che a un funerale commenta che la soluzione migliore sarebbe buttare tutti i morti nella discarica? Cosa può discendere da orientamenti educativi che hanno ridotto le antologie dispensate nelle scuole non a raccolta di testi letterari, bensì di “testi informativi” che, quando contengono qualche concetto, si tratta per lo più o di incitare all’emancipazione da ogni forma di autorità o di propinare lezioni di politicamente corretto improntate al più arido ideologismo? I sentimenti no, da quelli meglio tenersi alla larga, quasi fossero un segnale di immaturità. Tuttavia, la scuola non è la principale responsabile di un male che pervade tutta la società. È il veleno quotidiano che incita al successo e al consumismo, e tratta le persone come mero “capitale umano” da “ottimizzare”. Come se una società potesse progredire sulle spalle di persone senza ideali, senza aspirazioni, senza emozioni, senza cultura. E come se la formazione di persone autonome e capaci di rigenerare la società si potesse fare imbeccandole con manuali d’istruzioni per l’uso, come se fossero macchine. Il carattere si forgia creando interesse, suscitando la passione ad apprendere, scoprire e fare, trasmettendo l’idea che la cosa più importante di tutte è costruire con tenacia, giorno dopo giorno, un senso per la propria esistenza. Chi scrive ha una formazione scientifica ed è convinto che anche il modo con cui si apprendono le scienze e le tecniche può e deve essere orientato in senso umanistico, eppure è arrivato a pensare che sia tale il livello di disumanizzazione cui stiamo giungendo che la prima azione di emergenza deve essere ricominciare a leggere poesie. Qualcuno ridacchierà di fronte a questa affermazione: dovrebbe piuttosto chiedersi se egli non sia un triste esito positivo del test, un esempio del declino della capacità di avere sentimenti ed empatie. Occorrerebbe parafrasare il famoso invito di Martin Luther King “vi supplico di indignarvi”, nella forma “vi supplico di commuovervi”. Difatti, la sorgente del disastro è l’incapacità di commuoversi, la corazza di indifferenza, scetticismo e cinismo che stiamo elevando attorno a noi e trasmettendo ai nostri figli. Il farmaco da impartire è una massiccia “educazione sentimentale”. Ma – sia ben chiaro a scanso di equivoci – questo è l’esatto contrario di un invito a inventare qualche corso di “educazione sentimentale” da far impartire agli “specialisti”. Ricominciamo piuttosto a leggere poesie nelle scuole ed anche a casa.
(Il Messaggero, 19 novembre 2013)

sabato 2 novembre 2013

Ma non tocchiamo i nostri licei, che restano istituti decorosi

Il Ministero dell’Istruzione ha autorizzato tre licei a sperimentare un percorso abbreviato, e così si è tornato a parlare dell’opportunità di accorciare la durata di tutti i licei di un anno. Come al solito, l’argomento principe è adeguarsi a quanto si fa in altri paesi, anche se la motivazione autentica è la spinta confindustriale a gettare quanto prima i giovani sul mercato del lavoro.
In generale, da noi ci si è sempre mossi in senso opposto. Avevamo eccellenti lauree universitarie quadriennali: un buon laureato in fisica o in matematica aveva l’accesso garantito a un dottorato negli Usa. Si pensò di creare dei diplomi biennali per funzioni più ristrette della ricerca o dell’insegnamento. Un’ottima idea che fu accantonata per la sciagurata riforma 3+2 (laurea triennale più laurea magistrale) col risultato che una laurea triennale non va oltre il livello di un diploma e la laurea quinquennale fornisce una preparazione inferiore alla vecchia quadriennale. Per diventare insegnanti occorrevano ben 7 anni, con le Ssiss (Scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario) in cui, pur di allungare la broda, si arrivava a reclutare un investigatore privato in pensione che insegnava come classificare i vari tipi di classe scolastica. La riforma che ha soppresso le Ssis biennali in favore di un solo anno di Tfa (Tirocinio formativo attivo) è stata combattuta e stravolta.
Quindi nell’università si è stiracchiato in tutti i modi e ora, invece di guardare all’unica soluzione ragionevole – tornare per molte lauree al percorso quadriennale – circolano proposte sconsiderate, come quella di accorciare la specializzazione dei medici, quando l’unica cosa che non va toccata è la preparazione di chi ha in mano la salute.
Per la scuola si è prospettato di anticipare l’ingresso alle primarie all’età di 5 anni, ma sono insorti alcuni pedagogisti appesi alle teorie fasulle di Jean Piaget secondo cui i bambini prima dei 7 anni non avrebbero i circuiti cerebrali pronti. Nel ciclo primario domina la “didattica della paura”, secondo cui meno si fa e meglio è: una visione riflessa nelle Indicazioni nazionali, recentemente riscritte per peggiorare le già grottesche precedenti. Sta di fatto che il ciclo settennale primario è una gran perdita di tempo, mentre i poveri maestri vengono forniti, mediante una buona laurea, di conoscenze di cui è vietato far uso. Ogni genitore attento alla crescita dei propri figli freme dal desiderio che escano dalle primarie per iniziare a far qualcosa. Invece di rafforzare, accorciare o anticipare il percorso primario, le proposte circolanti sono da brivido: trasformare il primo anno e il terzo anno delle medie in “anni ponte” con le primarie e le superiori.
Occorrerebbe piuttosto ragionare nel merito: porsi seriamente il problema di riqualificare il primo ciclo e, per i cicli successivi, distinguere per settori. La formazione professionale, la formazione tecnica (da distinguere fra loro) e la formazione liceale (nei vari indirizzi), vanno considerate partitamente e la loro durata va pensata in relazione alla loro funzione. È sacrosanto sviluppare le formazioni tecnica e professionale, anche accorciando percorsi inutilmente lunghi, ma per i licei (soprattutto per il classico e lo scientifico) occorre chiedersi se vogliamo mantenere una formazione di livello superiore, altamente qualificata, nella speranza di sopravvivere nel campo della ricerca scientifica e umanistica. Se la risposta è affermativa, come si spera, non si dica che la durata quinquennale di un liceo è eccessiva, con la mole di conoscenze necessaria (e crescente) per una formazione adeguata. Alcuni dei licei in sperimentazione si difendono dicendo che loro hanno insegnanti inglesi, iPad, Lim e videochat: argomenti da palline colorate, come se questi mezzi di per sé migliorassero l’apprendimento.
Chiediamoci piuttosto come mai, in paesi in cui è in vigore il liceo di 4 anni, si pensa di tornare indietro. In Germania – dove è diffuso l’apprezzamento per il sistema scolastico italiano, malgrado i nostri sforzi per farlo a pezzi – una nuova legge dà alle scuole la facoltà di aumentare la durata del corso di studi allungando di un anno la durata delle superiori. Nell’Assia numerose scuole hanno deciso di prolungare la durata del Gymnasium, con il plauso delle famiglie, per mettersi alla pari dei licei italiani…
D’altra parte, occorrerebbe porsi una semplice domanda: come mai l’imponente emigrazione intellettuale italiana non conosce un’ondata di ritorno e tanti trovano un impiego? Non sarà perché chi ha studiato in Italia, ancora, nonostante tutto, gode di una preparazione di livello molto alto? Ce lo ripetono in tanti dall’estero, ma noi preferiamo farci ipnotizzare da statistiche discutibili: la lettura di “mentire con le statistiche” di Darrel Huff dovrebbe essere resa obbligatoria nelle scuole. Perciò, prima di mettere le mani per l’ennesima volta in modo sconsiderato sul sistema, pensiamoci bene e, nel frattempo, non tocchiamo i licei, una delle poche cose ancora decorose, nonostante tutto.

(Il Mattino, 31 ottobre 2013)