lunedì 28 aprile 2014

ATTUALITA' DELL'INTERVENTO APPENA FATTO SUL LICEO CLASSICO (E DEI PRECEDENTI)

La stampa informa che il MIUR ha autorizzato altri cinque licei (tre statali e due paritari) a “sperimentare” il percorso di studi di di 4 anni anziché 5.  Come ha scritto il Messaggero, «il MIUR continua la sua opera di avvicinamento alla riduzione di un anno della scuola superiore».
Così si fanno le riforme in questo paese, come ho scritto nell'articolo: si lanciano “ballon d'essai”, si lascia che i fessi si sfoghino a protestare e a dibattere, ignorandoli con occhio sornione, poi si torna alla carica per indottrinare – indottrinare, non discutere. Infine, si fa un altro passo avanti di fatto, e poi un altro, e un altro ancora. Fino a che ci si trova di fronte a una realtà cambiata in modo irreversibile e tutta la discussione è stata una logomachia riservata ai fessi. Quali siamo. Ci vorrebbe una vigorosa protesta di massa. Ma ormai tutti sono esausti…

sabato 26 aprile 2014

IL LICEO CLASSICO NON E' MORTO, ECCO PERCHE'

“Perché se muore il liceo classico muore il paese” era il titolo di un articolo pubblicato su queste pagine [Il Mattino] a fine agosto 2013 e che ha avuto una grande diffusione; è stato discusso largamente nelle scuole ed è capitato di sentirlo citare nella presentazione dell’offerta formativa di alcuni licei classici. Si è forse sviluppato in questi mesi un dibattito culturale che abbia difeso o contestato la tesi di quell’articolo? Nulla di tutto ciò. La tecnica collaudata per far passare un progetto senza discutere è ben nota: prima si lancia il “ballon d’essai” provocatorio – la riduzione del liceo a quattro anni, la riforma radicale del classico, il ridimensionamento della filosofia – poi si assiste in silenzio alle reazioni, senza alimentare alcun dibattito, quindi si torna alla carica su un altro terreno, quello dell’indottrinamento; il quale, manco a dirlo, è rivolto agli insegnanti. È questa una categoria che ha mele sane e marce come tutte ma che gode di uno speciale “privilegio” oltre a quello di essere la più malpagata d’Europa: di essere l’oggetto speciale dell’attenzione di “esperti” della scuola che si dedicano a riformarne le teste sulla base di teorie insindacabili e al disopra di ogni possibile contestazione.
Forse per sottrarsi a questa tecnica di indottrinamento coatto alcuni licei classici romani hanno promosso incontri sul tema del futuro del liceo classico che avrebbero dovuto mettere a confronto, su un piede di parità, difensori e detrattori, in una sorta di processo, con tanto di accusa, difesa, giuria e sentenza finale. Non posso dare un giudizio completo di come sia andata non avendo partecipato alle iniziative, ma mi ha assai colpito la lettura dei dettagliati rendiconti per due aspetti. In primo luogo, l’ammissione che l’accusa era stata più nutrita, incisiva e coordinata, mentre la difesa era stata più debole e minoritaria, il che suggerisce che forse non è stata scelta la migliore politica degli inviti. In secondo luogo, e soprattutto, mi ha colpito la sentenza finale espressa con una formula di pessimo gusto: all’imputato (il liceo classico) «non arresti domiciliari ma impegno nei servizi sociali»…
Difatti, le cronache raccontano il solito contenzioso, francamente ripetitivo: il liceo classico è lontano dalla vita, manca di pratiche esperienziali, si arrocca su una didattica fine a sé stessa, non collega lo studio delle lingue classiche all’acquisizione di “competenze”, non contempla pratiche laboratoriali, e così via. La ricetta del riscatto è prevedibile: rinnovamento delle pratiche didattiche basate sull’acquisizione di “competenze” più che di “nozionistiche” conoscenze, apertura al mondo esterno anche con l’alternanza scuola-lavoro. Facciamo grazia al lettore di trascinarlo nella diatriba competenze/conoscenze tipica della scolastica didattichese: una persona esterna a tale gergo difficilmente può capire come si possa avere una buona conoscenza di qualsiasi cosa senza saperne far uso (competenza), se non per colpa di un cattivo insegnamento. Lasciamo anche perdere lo slogan sull’alternanza scuola-lavoro: o ci si spiega in che modo può realizzarsi per certe materie o siamo alla pura chiacchiera da bar. Ma quel che soprattutto colpisce è l’ostinazione. Se è vero – come ripete l’accusa – che il calo di iscrizioni testimonierebbe che il liceo classico è irrimediabilmente morente, e che esso se lo merita in quanto detestabile relitto di una visione gentiliana e aristocratica della cultura, perché mai agitarsi tanto? Il corso delle cose realizzerà l’esito agognato: rimarrà un numero sempre più piccolo di persone, amanti della cultura classica, del latino, del greco, della filosofia, che magari saranno utili per intrattenere i residui relitti dei nostri beni culturali e mantenere un legame, ormai solo sentimentale, con il passato su cui si è costruita la nostra identità. Il punto è che il liceo classico, malgrado il declino delle iscrizioni, è lungi dal rappresentare una fetta marginale dell’istruzione liceale italiana. E la vitalità dei licei classici è lungi dall’essere spenta: chi frequenti le presentazioni dell’offerta formativa resta colpito, al contrario, dal fatto che questi licei, nonostante tutto, offrono l’immagine di una serietà, di un entusiasmo, di un impegno e – diciamolo pure – di uno stile che contribuisce a dare linfa all’intero sistema delle scuole superiori. E allora l’unica spiegazione è un’ostilità di principio, incomprensibile per chi non capisce le guerre di religione ed è convinto della positività dello sviluppo dei licei scientifici e dell’assoluta necessità di restituire alla formazione tecnica e professionale la qualità e il prestigio che appartengono alla tradizione nazionale, in vista di una necessaria ripresa tecnologica del paese. Ma forse è un’ostilità non tanto incomprensibile se l’intento è quello di puntare a trasformare la scuola in un sistema di formazione di quadri per le imprese: le manifestazioni di intenti in tal senso sono troppo smaccate per poterle ignorare.
Nessuno vuol negare a priori la necessità di miglioramenti didattici; al contrario, purché questo venga fatto con serietà e – valga qui il termine – con competenza, e non con slogan, come se ripetere “didattica laboratoriale” voglia dire di per sé nulla di sensato (ad esempio, o si configura in modo serio e concreto cosa possa essere un laboratorio di filosofia, o è meglio tacere). Ma la domanda è un’altra. Qualcuno pensa davvero che, anche nella necessaria riqualificazione di tutto il sistema dell’istruzione e anche concentrando l’attenzione sulla formazione tecnica e professionale, non sia necessaria più cultura per tutti, anche per chi andrà a fare l’elettricista o il panettiere? Qualcuno può credere seriamente che si possa formare un buon cittadino, una persona capace di buoni comportamenti emotivi e relazionali, che abbia senso etico, morale, senza aver letto buoni libri, grandi romanzi, belle poesie (anche su un tablet), e senza aver avuto almeno qualche sentore dei temi fondamentali della filosofia? Chi può credere seriamente che si possa formare un buon cittadino rispettoso delle leggi e dei principi della convivenza civile che non abbia ricevuto un’adeguata conoscenza della storia che lo renda consapevole delle origini dei principi della democrazia? Tutto questo deve esserci in ogni scuola, e non basta certamente l’alternanza scuola-lavoro e il legame con il territorio a crearlo. Quindi, più preparazione tecnica e maggiore concretezza, ma anche più cultura, quella che non si mangia; più cultura dappertutto, nelle scuole di ogni ordine e grado. E poiché il liceo classico è il luogo in cui – come tutti, convinti o obtorto collo, concedono – viene dato il massimo spazio alla coltivazione di quelle basi culturali che sono il fondamento della nostra identità italiana ed europea, molto giustamente fu detto che “se muore il liceo classico muore il paese”.


(Il Mattino, 26 aprile 2014)

mercoledì 9 aprile 2014

VUOI FARE IL MEDICO? PARLAMI DI CHOMSKY

Se si facesse un sondaggio entro un campione qualsivoglia di persone sulla figura del medico ideale si raggiungerebbe facilmente l’unanimità. Chi non vorrebbe che un buon medico sia innanzitutto appassionato alla sua disciplina e dedito ad approfondirne continuamente i molteplici aspetti? Chi non pensa che un buon medico debba essere soprattutto una persona riflessiva, che ascolta e medita, e compone insieme con prudenza i tanti aspetti delicati che intervengono nella formulazione di una buona diagnosi e di una terapia efficace? Chi potrebbe non desiderare che il proprio medico sia una persona colta e consapevole di operare nell’ambito forse più complesso che esista, in cui intervengono disparate forme di conoscenza scientifica, capacità pratiche e psicologiche e doti umane? La medicina non è semplicemente una scienza – diceva un grande medico – è molto di più: è una sintesi di scienza, tecnica e arte. Per questo, la selezione dei futuri medici è un atto di responsabilità enorme, visto che riguarda un settore strategico nella vita della comunità nazionale.
La verifica dell’esistenza delle doti necessarie a esercitare una professione tanto difficile e tanto importante, è un’operazione delicata che non può che essere fatta sul terreno specifico. Per questo, e giustamente, in Francia non esiste un numero chiuso per l’accesso alle facoltà di medicina, bensì un concorso a numero chiuso durante il primo anno di corso, diviso in due parti, alla fine del primo e del secondo semestre. E, manco a dirlo, verte sulle materie studiate: biologia, embriologia, istologia, anatomia, farmacologia, chimica, incluse discipline umane e sociali. Lo si può ripetere due volte e, alla fine soltanto il 15-20% degli studenti lo supera.
Da noi, invece, si procede con un test selettivo di accesso, addirittura molto prima del conseguimento della maturità: ormai in Italia trionfa la selezione ex-ante e mai ex-post. Ovviamente, la selezione ex-ante non può vertere sulle materie che saranno studiate, e quindi deve ridursi a “misurare” le generiche “abilità” del soggetto in ambito logico, aritmetico, nozionistico, ecc. Inevitabilmente ne viene fuori l’ennesima pagliacciata, per quanto grandi siano gli sforzi delle persone che si prestano ad arzigogolare le domande dei quiz. Ancora si conoscono soltanto spezzoni delle domande di questa tornata, ma il poco che emerge fa cascare le braccia. A quanto pare si è deciso che un prerequisito per essere un buon medico sia di essere un conoscitore delle opere di Hobsbawm e di Chomsky: ogni preferenza è lecita, difatti conosco eccellenti medici che li ignorano con buone motivazioni e sarebbero bocciati perché invece di Hobsbawm leggono François Furet. Sembra che un altro prerequisito sia di conoscere la normativa per cambiare un articolo della costituzione. All’inizio abbiamo tentato di elencare le qualità di un buon medico: non penso che tra queste rientri la capacità di calcolare quanti km percorre una signora che prima corre per n minuti e poi cammina per altri m ripetendo questo ciclo per un certo numero di volte; né la capacità di calcolare il numero di caramelle vinte in un gioco a carte di bambini. Poi c’è il solito contorno di domande di logica che, inevitabilmente, si riducono a quesiti di carattere formale più facilmente risolvibili da un patito di rompicapo e di sudoku, il quale può rivelarsi un perfetto incapace o peggio, di fronte ai ragionamenti complessi richiesti in un processo diagnostico. Difatti, quel che non si vuol capire è che nella maggior parte delle professioni difficili non è la velocità il requisito più importante – l’unica cosa che riescono a misurare i test – ma la capacità di mettere in opera in modo competente e meditato una profonda conoscenza delle questioni in gioco.
Mentre arrivano le notizie dei test di medicina, veniamo investiti dall’annuncio della solita ricerca sull’importanza della valutazione, accompagnato dal solito appello a «superare le sterili contrapposizioni tra sostenitori e detrattori dell’uso dei test», superamento che –  manco a dirlo – consiste nell’accettare la modalità dei test. D’altra parte, arriva la notizia che il solito funzionario ministeriale ha annunciato (in nome dell’autorità che promana dal suo ruolo di burocrate) che l’introduzione per legge del Clil (Content and language integrated learning) in tutti i licei e gli istituti tecnici, ovvero l’insegnamento di una materia tutto in lingua straniera, servirà a trasformare la scuola in un luogo in cui «non s’insegnano più materie ma abilità».
Insomma, volenti o nolenti, per via buro-tecnocratica, si sta imponendo la distruzione delle competenze disciplinari a favore di generiche “abilità”. Il buon senso fa desiderare un medico competente nelle discipline che intervengono nella sua professione. Al bando il buon senso: la società va messa in mano ai “genericamente abili”. Così, da queste mediocri vicende emerge l’unica vera drammatica questione nazionale: l’assoluta incapacità di affrontare in modo sensato la questione del merito. Tutti i giorni, fino alla nausea, veniamo investiti dalla parola d’ordine “largo al merito” e dagli slogan sulla “meritocrazia”. Ma la tragedia è che si è smarrito il senso autentico di queste parole. Non ci si rende più conto del fatto elementare che merito significa competenza, e competenza significa conoscenze specifiche, di contenuto, disciplinari – beninteso, continuamente vivificate da un’attività sul campo, lo sappiamo, ci si faccia grazia di dover ripetere questa giaculatoria. Competenza significa cultura – altra parola abusata di cui stiamo perdendo il senso. Non significa generica capacità di trafficare tra le nozioni più disparate e di cavarsela zigzagando in velocità tra i trabocchetti fabbricati nei lugubri corridoi dei burocrati e degli “esperti”.


(Il Mattino, 8 aprile 2014)