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lunedì 19 dicembre 2005

Una replica

Questa è la replica all'articolo di Paolo Franchi (Corriere della Sera del 14 dicembre 2005, v. sotto), per ora non pubblicata:


«È impossibile, in storia, evacuare i fatti e spiegare tutto» (A. Koyré). Nel nostro caso i fatti sono che, dopo la liberazione, vi furono vendette ed esecuzioni sommarie e che vi fu un’epurazione-amnistia che troppo spesso infierì su personaggi imputabili di colpe minori e assolse autentici mascalzoni, soprattutto gli attori delle politiche razziali. In che modo – si chiede Paolo Franchi – queste due movenze, a prima vista antitetiche, permettono di individuare un coerente capo d’imputazione nei confronti del comunismo togliattiano? Non è detto che sia possibile racchiudere in una sola spiegazione unitaria tanti fatti disparati (senza che tuttavia ciò autorizzi a evacuarli). Ma, per cercare una spiegazione, non bisogna mettere tutto nello stesso calderone. Restringiamoci al livello dei ceti dirigenti, soprattutto intellettuali. Qui, nell’ambito della prima movenza, spicca l’esecuzione di Giovanni Gentile, che fu istigata in alto loco, con parole indegne. Gentile era un fascista non pentito, ma non coinvolto in atti criminosi e che più di chiunque altro si tenne alla larga dalle politiche razziali. Era un intellettuale di primo piano (altro che Bottai!) e un grande organizzatore culturale (ben più di Croce), autore di una riforma dell’istruzione che ha plasmato l’Italia moderna e di una straordinaria impresa culturale (l’Enciclopedia Treccani). Poteva essere un temibile riferimento per una cultura di destra nell’Italia del dopoguerra. Non altrettanto temibili erano tanti altri intellettuali, chiaramente pronti a servire ogni padrone e ad adattare di conseguenza la loro “cultura”, compromessi non soltanto con il fascismo ma spesso con il razzismo e l’antisemitismo, e pertanto ricattabili e pronti a cambiar casacca in cambio di un lavacro purificatore. Franchi non ritiene che l’amnistia sia stata ingiusta. Certo, esisteva un problema di riconciliazione nazionale: costoro non andavano certo passati per le armi, pur essendosi sporcati ben più di Gentile. Tuttavia, si poteva collocarli a riposo o pretendere un periodo di pensoso ritiro, quantomeno privarli delle posizioni di comando che avevano acquisite sotto il regime, spesso approfittando immeritatamente dei vuoti aperti dalle leggi razziali. (Persino la rivista fascista “Vita universitaria” aveva segnalato il fenomeno avvertendo che non erano stati cacciati gli ebrei dalle università «per saturarle di impreparati o di furbi». E il libro di Mirella Serri documenta con quanta “magnanimità” Bottai creò cattedre e posti per servi spesso neppure diplomati). Il processo di epurazione-amnistia andò in senso opposto. Si preferì riciclare e privilegiare un’intero ceto intellettuale compromesso col fascismo e persino col razzismo. Mentre professori e funzionari ebrei venivano reintegrati su posti strapuntino in attesa del pensionamento, fascistoni e razzisti conservavano, con una nuova divisa, le posizioni di comando. Questa non era riconciliazione nazionale ma perpetuazione della struttura culturale dirigente del regime fascista sotto mentite spoglie. Le vittime del razzismo e il loro diritto a riprendere le posizioni perdute furono sacrificati all’intento di conquistare l’egemonia culturale, creando delle “casematte” sul modello di un “Primato” cambiato di segno politico rispetto a quello di Bottai. Il riciclaggio di questi intellettuali fu facilitato dal fatto che si chiedeva loro non di aderire a un antifascismo qualsiasi, ma a un antifascismo comunista, anticapitalista, antioccidentale, che guardava all’URSS, e quindi capace di offrire una certa continuità ideologica.
Quindi il capo d’imputazione è preciso, coerente e per nulla contraddittorio. Mi creda Paolo Franchi: non sono cose che si dicono a cuor leggero, ma con autentico turbamento. Difatti, si tratta di una storia che in tanti abbiamo vissuto inconsapevolmente, per tutto ciò che è stato occultato, accanitamente negato o minimizzato. Se avessimo saputo cosa avevano fatto e scritto personaggi come Galvano della Volpe o Mario Alicata – senza mai farci i conti e offrendosi persino con arroganza come modello di pensiero e azione, mentre altri avevano fatto pubblica ammenda di colpe molto minori, riflettendo a fondo sul senso di quel che era successo loro – avremmo capito che costoro stavano trasportando da una parte all’altra la loro visione e il loro animo totalitario, illiberale e antidemocratico e stavano ingannando alcune generazioni di giovani. Le responsabilità di Togliatti – che ha costruito un nuovo ceto dirigente intellettuale con questi personaggi, mentre additava Gentile come figura da eliminare – sono immense. Per questo, non può che essere un gran bene per una sinistra che è una componente così fondamentale della vita politica e sociale del nostro paese, guardare ad occhi aperti e fino in fondo in questo passato storico.

Giorgio Israel


mercoledì 7 dicembre 2005

Un bel tacer non fu mai scritto

"Se rifiuto la politica degli intellettuali progressisti, è per le stesse ragioni per cui ho rifiutato quella degli intellettuali collaborazionisti"
Albert CAMUS


Debbo iniziare con un’ammissione. Stavo scrivendo una severa critica del libro di Giorgio Fabre “Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita”, che mi è parso manifestare il ritorno di una storiografia antifascista militante che rialza sempre la posta, spingendosi ora a proporre l’insostenibile tesi di un Mussolini costituzionalmente antisemita. Ed ecco questa polemica sulla rivista “Primato”, che fa venir la voglia di strappare tutto e di chiedersi se sarà mai possibile fare un discorso razionale sul fascismo senza doversi infangare nella palude del giustificazionismo.
Il comunismo è morto e sepolto, anzi è in metastasi. E chissà quanto bisognerà sopportare ancora l’insostenibile pesantezza dell’eredità del gran cadavere, che ci ha regalato, tra i suoi peccatucci minori, l’ostruzione a una storiografia non militante del fascismo, l’incomprensione totale della questione ebraica, e ora i sentimenti offesi di parenti che, pur di non veder macchiata la memoria dei loro cari, si producono nelle più improbabili rivalutazioni delle manifestazioni più impresentabili del fascismo. Ai documenti prodotti da Mirella Serri si è risposto con una caterva di insulti in stile inconfondibilmente baffuto. Giuliano Ferrara invita a tenere sotto controllo le emozioni per non rendere impossibile una “vera discussione storica”. Ma le esperienze personali, e persino le emozioni, possono dare un utile apporto all’analisi storica, purché non si ipotizzi di risolvere i dissensi in tribunale, perché allora si è al di qua di ogni discorso razionale. Fulvia Trombadori si chiede sdegnata come possa essere sospettata di antisemitismo una medaglia della resistenza antifascista. Ma qui non è in gioco la rispettabilità personale, bensì qualcosa di più complesso, che merita di essere compreso e non può essere esorcizzato agitando medaglie. A meno che non si vogliano riesumare sparate retoriche alla Giancarlo Pajetta che, quando era interpellato sul tema, ricordava sempre quel che avrebbero usato dire i nazifascisti ai loro prigionieri: «Un passo avanti gli ebrei e gli antifascisti». Come se non fosse esistito un modo di ispezione genitale per individuare gli ebrei e gli antifascisti fossero così cretini da fare un passo avanti.
Il peso delle vicende personali… E va bene, partiamo da queste, e vediamo se è possibile non finire incastrati nella contrapposizione fra emozioni opposte, fra medaglie ottenute e risarcimenti negati, e imboccare un percorso razionale anche da un simile punto di partenza.
Quando mi iscrissi all’Università di Roma nel 1964 fu per me un autentico shock trovare in calce al mio libretto universitario la firma dell’allora preside della Facoltà di Scienze, Sabato Visco. Era un nome da brividi a casa mia. Mio padre era stato primo aiuto e sostituto in ogni funzione del biologo senatore Giulio Fano. Quando questi morì improvvisamente, egli si vide piombare davanti Visco come successore del Fano. Innumerevoli racconti circolano circa l’incompetenza scientifica di costui (anche a me narrati qualche anno fa dal Nobel Emilio Segré). Ma al di là degli aneddoti c’è di oggettivo la mediocrità della sua produzione scientifica e il suo curriculum razzista a tutto tondo culminato nella funzione di Capo dell’Ufficio Razza del Minculpop. Rese impossibile la vita a mio padre, che tormentava con discorsi antisemiti che propinava dietro la sua scrivania roteando un mazzo di chiavi, fino a determinarlo a rassegnare le dimissioni, quando ancora non erano state promulgate le leggi razziali.
Vedendo quella firma mi rivolsi a Lucio Lombardo Radice e gli chiesi come un simile personaggio potesse essere preside di una facoltà così prestigiosa (e progressista). Ne ricevetti una stupefacente risposta: «Si, va bene, ma è tanto bravo a trovare denaro». Fu di certo la mia militanza comunista a farmi accontentare di una simile spiegazione. Certo, mi chiesi molte volte come un illustre scienziato (vittima delle leggi razziali) come Beniamino Segre accettasse di sedere accanto a Visco nelle sedute dell’Accademia dei Lincei. Allora Segre era presidente dell’Associazione Italia-URSS e (che cantonata!) fu proprio questa carica a farmelo apparire al disopra di ogni sospetto.
La comprensione di fatti come questi – ne potrei raccontare altri – è iniziata per me prima di ricercarla sul terreno storiografico. Essa è nata dalla progressiva constatazione dell’assoluta incomprensione del mondo comunista per la questione ebraica, al punto da indurla persino nei militanti ebrei. Non si trattava soltanto di un’incomprensione culturale, che pure esisteva: come definire altrimenti la condizione di chi dichiari apertamente che per lui il processo di “emancipazione ebraica” è un oggetto inafferrabile, di cui ignora persino l’esistenza storica? No, si trattava di qualcosa di più profondo, che aveva a che fare con un vero e proprio rigetto ideologico e psicologico. In fondo, di fronte alla vicenda Visco, da buon militante comunista, mi ero chiesto più volte se non ci fosse qualcosa di errato nei giudizi e addirittura negli atti di mio padre. Come spiegare altrimenti l’atteggiamento condiscendente di un rispettabile esponente dell’antifascismo come Lombardo Radice? Me lo chiedevo anche a causa di una domanda corrosiva che metteva in discussione la credibilità di mio padre. Era una domanda non ipotetica, che mi ero sentito rivolgere tante volte dai miei “compagni”: «Che faceva tuo padre mentre gli altri facevano la resistenza?». Ed ero costretto ad ammettere, con un sentimento di vergogna e di menomazione, che egli era stato “soltanto” un perseguitato, magari nascosto in un convento, una specie di imboscato. So bene quante facce di bronzo circolino ancor oggi che sarebbero capaci di negare che un tema caratteristico degli anni ’60 e ’70 (e oltre), sia stato quello di considerare le vittime del nazifascismo per ragioni di militanza antifascista come aventi dignità superiore alle vittime per “semplici” motivi razziali. «I primi affrontavano coscientemente la morte, mentre i secondi la subivano come pecore incoscienti inviate al macello»: una frase udita quante volte! Era un giudizio rafforzato dalla constatazione che molte di queste vittime erano “persino” fasciste…
Sarà opportuno un giorno narrare e analizzare le devastazioni prodotte da un simile modo di pensare nelle coscienze di tanti militanti comunisti ebrei, quelli che non avevano imbracciato il fucile e non si erano conquistati il diploma di eroi o vittime di prima classe.
Gli esempi di questa perversa forma di intimidazione sono sotto gli occhi di chiunque voglia tenerli aperti. Anni fa citai il caso del film All'armi siam fascisti, un documentario storico di Del Fra, Mangini e Micciché, su testo di Franco Fortini, che pure aveva destato le mie passioni di giovane militante. In quel film le immagini di Auschwitz era commentate con una sola frase: «Chi vuol comandare ha bisogno di servi. I servi avranno un contrassegno: la stella di David. L’odio di classe si traveste da odio di razza». Un puro travestimento… Insomma, lo sterminio razziale poteva rientrare negli schemi mentali di un comunista e nei parametri di ciò che è condannabile nella misura in cui era riconducibile a una manifestazione di odio di classe. Si potrebbe dare una migliore illustrazione di quanto sopra descritto?
Sì, può essere data. Ed è la storiografia a darcela. O meglio: la constatazione che la questione della politica razziale del fascismo è stata sempre sistematicamente ignorata dalla storiografia comunista che l’ha scoperta soltanto molto tardi, mentre è stato il vituperato storico “revisionista” Renzo De Felice a scoperchiare per primo la maleodorante pattumiera.
Ma su questo torneremo fra poco. In una polemica che ebbi con Micciché a proposito del detto film, questi ammise che la sinistra aveva dei cadaveri nell’armadio circa le leggi razziali, ma che anche gli ebrei avevano dei cadaveri nell’armadio, perché parecchi di loro erano stati fascisti. (Affermazione singolare che conferma perfettamente l’analisi fatta prima…). Chiediamoci a quali cadaveri nell’armadio potesse alludere Micciché. Andiamo per le spicce. La risposta sta in due momenti fondamentali della transizione fra il regime fascista e la repubblica antifascista: l’epurazione e l’amnistia. Il loro effetto veniva così descritto dal fisico Enrico Persico in lettera inviata nel 1946 al suo collega Franco Rasetti definitivamente trasferitosi all'estero: «Qui come sai abbiamo fatto la repubblica, alla quale io ho dato il mio voto, ma senza farmi troppe illusioni. Il suo primo atto è stata una pazzesca amnistia che rimette in circolazione ladri, spie fasciste, rastrellatori e torturatori, eccetto quelli le cui torture erano “particolarmente efferate” (sic). Viene proprio il rimpianto di non aver fatto, a suo tempo, il torturatore moderatamente efferato. L’epurazione, come forse saprai, si è risolta in una burletta, e fascistoni e firmatari del manifesto della razza rientrano trionfalmente nelle Università».
Una sparata superficiale e viscerale? Certo, qualche forma di riconciliazione nazionale doveva pur essere promossa. Ma quel che avvenne con l’epurazione e l’amnistia fu qualcosa di molto peggiore di quanto denunciato da Persico. Per ovvie ragioni di spazio mi limito a pochi esempi emblematici. Nel gennaio 1946 l’Accademia dei Lincei dichiara decaduti una serie di accademici compromessi col fascismo: fra questi, assieme a gerarchi fascisti come Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni e Sabato Visco figurano alcuni accademici ebrei che erano stati cacciati nel 1938 per effetto delle leggi razziali antiebraiche… Ad esempio, Carlo Foà, Tullio Terni, Mario Camis. Le vittime, colpevoli di aver prestato il giuramento di fedeltà al regime, vengono epurate assieme ai loro persecutori. Per effetto di un simile affronto Tullio Terni si suicida. Non fa in tempo, per sua fortuna, ad assistere al lavaggio in candeggina dei suoi persecutori e, in molti casi, al loro trionfale ritorno sulle precedenti posizioni di potere. Non mi soffermo sulle modalità miserande del reintegro dei professori cacciati per motivi razziali – su posti “strapuntino” appositamente creati per loro – fino a casi tragicomici come quello di Guido Tedeschi cui non si voleva restituire il posto di professore ordinario, non avendo egli svolto (in periodo razziale…) il prescritto triennio di straordinariato.
Il tragico suicidio di Terni è l’emblema di una colossale ingiustizia, di una connivenza di stile mafioso con gli aguzzini. Può forse dirsi che non vi sia stata epurazione nel periodo post-fascista? No, di certo. C’è stata l’epurazione dei poveretti come Terni o Camis, colpevoli soltanto di aver messo la “cimicetta” e che sono morti dalla vergogna, fino al suicidio. C’è stato l’assassinio di Giovanni Gentile, fascistissimo ma uno dei pochi intellettuali che non si sporcarono con la politica razziale. Infine, c’è stata l’epurazione raccontata da Pansa, quella violenta, fuori della legalità, che mirava al fascista della porta accanto. E poi – mentre nessuno si preoccupava di abrogare le leggi razziali: come ha documentato una ricerca del Senato della Repubblica le delegificazione razziale è terminata nel 1987! – è venuta l’amnistia. L’amnistia togliattiana, rapida e generosa, soprattutto per quei ceti della classe dirigente, in particolare intellettuali, che potevano offrire la complicità e la fedeltà in cambio del lavacro dei peccati, che potevano garantire l’egemonia, soprattutto culturale, in perfetta applicazione delle prescrizioni gramsciane: conquistare le “casematte” della società.
È in questo contesto che va visto il connubio che si è verificato in “Primato”. Non si tratta certo di riesumare l’improbabile teoria secondo cui Bottai preparava qui la covata degli intellettuali atti a gestire la caduta del fascismo: Bottai è stato fascista e razzista fino in fondo. Ma la coesistenza di un così alto numero di intellettuali – fascisti, cattolici, comunisti – in questa iniziativa, ha creato il terreno atto a favorire il trasferimento in blocco di tutta la compagine sotto nuove ali e a realizzare una nuova egemonia culturale. “Primato” è stato la premessa ideologica dell’amnistia togliattiana e, al contempo, la condizione per il suo successo. Del resto, come era possibile convincere tanti personaggi, che si erano letteralmente insozzati di razzismo, a passare armi e bagagli dall’altra parte, se non offrendo in cambio un robusta cortina di silenzio? E, viceversa, come si poteva agire diversamente, quando tanti intellettuali non fascisti o addirittura antifascisti avevano accettato certi compromessi, come quello di scrivere su “Primato”, una pagina più in là di Bottai? Quando si fanno dei patti con il diavolo se ne pagano i prezzi. Certo, si poteva uscire dal fascismo in modo diverso, con un’opera di pulizia radicale, pratica e morale, per esempio facendo sì che i personaggi più compromessi nella politica razziale stessero almeno per un po’ in disparte. Si decise esattamente l’opposto.
Non è in gioco l’onorabilità dei singoli – quantomeno di quelli che non parteciparono in prima persona alla “canea di quegli anni” (per dirla con De Felice). Resta il fatto che una serie di scelte politiche della dirigenza politico-culturale dell’antifascismo (non soltanto comunista!) hanno spinto nella direzione di una falsa epurazione e di un’amnistia ingiusta, per cui se siamo qui – a tanti anni di distanza – a parlare ancora di quelle vicende è perché si è scelto di mettere in opera una straordinaria e vergognosa operazione di lavacro e di occultamento.
Ma, si dice, mettere sotto accusa “Primato” è quanto mettere sotto accusa tutta la cultura italiana, il che sarebbe ridicolo. E Duccio Trombadori stende la poderosa lista della crema della cultura italiana che scriveva su “Primato”. Ma che argomento è mai questo? Viene da dire, con Totò: ma ci faccia il piacere… Lo ha raccontato già De Felice quarant’anni fa: la cultura italiana «aderì su larghissima scala all’antisemitismo» e «pochi uomini di cultura anche tra coloro che godevano di tali posizioni di prestigio da non avere nulla da perdere, seppero mantenersi estranei alla canea di quegli anni», dando luogo a una pubblicistica antisemita «vastissima quanto mai si possa immaginare». Fecero eccezione pochissimi, tra cui Gentile: ma lui ci ha pensato un eroe partigiano ad abbatterlo, mentre ai “difensori della razza” si stendevano i tappeti del potere.
Così è stato. Tanto vasto è stato il livello di compromissione del mondo della cultura. E allora che dovremmo dire? Che, siccome la crema della cultura italiana si è macchiata di razzismo antisemita, questo non è mai esistito? O che altro diamine dovremmo dire, per non provocare l’irato fastidio di chi non vuol vedersi sbattere ancora tra i piedi questa vecchia storia? Dispiace se qualcuno si sente disturbato nella sua pennichella, ma sono passati i tempi in cui quattro insulti di stile baffuto potevano intimidire e indurre al silenzio. Poteva accadere ancora ai tempi del primo libro di De Felice. Difatti, mentre egli caratterizzava a quel modo il comportamento del mondo culturale italiano, si guardava bene dal fare troppi nomi: avrebbe dovuto pagare dei prezzi ben più alti di quelli che ha pagato, in un’università in cui ancor oggi abbondano le aule intestate a mascalzoni del regime portati tuttora sugli scudi dai loro allievi progressisti. Ancora nel 1987, il catalogo che illustrava lo spirito del progetto di esposizione E42 (“Utopia e scenario del regime”), si guardava bene dall’insistere sulla componente pesantemente razziale della mostra e presentava addirittura Visco come un nobile scienziato ispirato da un amore disinteressato per la conoscenza. E quando, nel 1998, pubblicai – assieme a Pietro Nastasi – il volume “Scienza e razza nell’Italia fascista”, alcuni canuti allievi degli accademici razzisti del tempo non mancarono di manifestare la loro ira per il reato di lesa maestà nei confronti dei loro maestri. Casi sempre più isolati, per fortuna, e per questo si è finalmente sviluppata una storiografia che ha scoperchiato i tombini e posto il problema della comprensione del drammatico fenomeno dell’adesione di massa del mondo culturale italiano – non di certo della società italiana in generale, al contrario – alle politiche razziali del fascismo.
Ma si dice che “Primato” non era una rivista razzista e che neppure Bottai lo era. Quando si ha il coraggio di accompagnare il nome di “Primato” o quello di Bottai con l’ironica virgolettatura accompagnata da punto esclamativo “ariano e antisemita” (!), è chiaro che si mira a provocare una reazione emotiva, che sarebbe sacrosanta. Ci vuole una bella dose di incoscienza provocatoria nel prodursi in simili sghignazzate, in barba a centinaia di pagine di documenti che mostrano come Bottai sia stato il campione della politica razziale, uno dei suoi più pedanti, accaniti e spietati esecutori nell’ambito culturale, e un dichiarato assertore della centralità della tematica razziale nell’ideologia del fascismo. Bottai intellettuale di prim’ordine? Certo, si accomodi – e in tal modo si qualifichi – chi vuole abbeverarsi alla fonte del fine pensatore che vedeva nella filosofia di Spinoza un prova del “pervertimento giudaico” o che concludeva il Congresso dell’Unione Matematica del 1940 proclamando: «la matematica italiana, non più monopolio di geometri d’altre razze, ritrova la genialità e la poliedricità tutta sua propria per cui furono grandi nel clima dell’unità della Patria, i Casorati, i Brioschi, i Betti, i Cremona, i Beltrami, e riprende, con la potenza della razza purificata e liberata, il suo cammino ascensionale». Se si vuole andare a braccetto di simili figuri, e proporre questo pattume come crema della cultura, ci si accomodi: vuol dire davvero che il modello politico-culturale di “Primato” per certuni è ancora attuale.
I percorsi individuali tormentati e difficili sono da considerare con rispetto: quel rispetto che le ideologie totalitarie non hanno mai avuto. Nessuno può pensare che Giovanni Spadolini non fosse persona rispettabile, soltanto perché aveva compiuto un peccato di gioventù. Peraltro, fu proprio lui a promuovere la ricerca sulla lentezza della delegificazione razziale. Piovene si macchiò di colpe ben peggiori, ma ebbe il coraggio di una radicale autocritica. È una pretesa inaudita pretendere la chiusura emotiva di una partita di quasi settant’anni fa facendo diventare bianco quel che è nero. Personalmente sono favorevole ad abbattere tutti i muri e trovo deplorevole ogni censura, anche nei confronti della pubblicazione del “Mein Kampf”, il che è però altra cosa dal presentarlo come la “Critica della Ragion pratica”. Si lasci una buona volta la possibilità di sviluppare una storiografia libera e senza reticenze, che rifugga dalle tentazioni ideologiche di una demonizzazione assoluta del fascismo – come è quella di chi vuol equiparare Mussolini a Hitler – o di un’opera di rivalutazione, magari per occultare i misfatti della transizione. Se invece si vuol continuare a dire che Gentile era un intellettuale mediocre e responsabile della politica razziale e proclamare che Bottai era un grande intellettuale che col razzismo antisemita non ebbe mai nulla a che fare – il tutto per il sordido motivo che il primo fu fascista fino in fondo e il secondo coccolò furbescamente gli antifascisti –, ebbene non ci sarà barba di aristocrazia postcomunista capace di imporre il silenzio. Giuliano Ferrara si è giustamente stufato e teme che si continui così fino al 2018: timore fondato.



Giorgio Israel

Pubblicato su Il Foglio, martedì 6 dicembre 2005

Mistificazioni

Come si usa dire, il troppo stroppia. Già, circa un anno fa, Giulio Giorello, dichiarò che l’Illuminismo non è nato in Occidente ma nell’Islam. Divertente. E, per una volta, passi. Ha anche più volte insistito sul fondamentale apporto dell’Islam alla nascita della scienza moderna. Affermazione che, messa giù così, richiede non poche precisazioni. E passi ancora. Ma quel che abbiamo letto giorni fa suscita la domanda se Giorello abbia perso la trebisonda oppure stia facendo un lavoro sistematico di disinformazione.
Egli scrive: “per quanto riguarda le conquiste della scienza e della tecnica, mi sembra che il Cristianesimo sia ampiamente battuto da religioni come il Buddhismo”. Affermazione cui evidentemente soggiace una revisione storiografica epocale, poiché a noi miseri ignoranti non era giunta mai notizia di una grande scienza sviluppatasi in contesto buddista, né avevamo mai sentito parlare di Galilei e Newton buddisti. Restiamo in attesa di documentazione bibliografica, perché in questa corta vita c’è sempre da imparare qualcosa.
E Giorello così continua: “per non dire che nei due altri grandi monoteismi non c’è stato un caso Galileo, anche se c’è stato un caso Spinoza per l’Ebraismo, ma qui si trattava non tanto di scienza quanto di filosofia”. In quanto ebreo, ringrazio per la cortesia, ma la respingo al mittente. In primo luogo, perché non si vede perché l’intolleranza filosofica sia meno grave di quella scientifica. In secondo luogo, perché distinguere tra scienza e filosofia nell’epoca dell’autore dell’“Ethica more geometrico demonstrata”, di Leibniz (creatore del calcolo differenziale) o di Descartes, è alquanto bizzarro. Che il caso Spinoza sia stato meno grave del caso Galileo, perché non si trattò di una condanna della comunità di Amsterdam e non di tutto il mondo ebraico (in cui non esiste un’unica autorità), può esser vero. Ma è meglio non cercare scusanti: si trattò di una bruttissima pagina, e si potrebbe raccontarne altre analoghe.
Ma veniamo ora all’Islam, in cui non ci sarebbe mai stato alcun caso Galileo. Lasciamo perdere Maimonide, che per salvare la pelle dalla persecuzione dei principi Almohades dovette tagliar la corda in tutta fretta e tanti altri episodi analoghi di intolleranza. Parliamo piuttosto di Averroé che dal 1195 fu bandito e perseguitato nell’ambito del suo mondo musulmano per le sue idee filosofico-scientifiche. Non risulta che sia stato vittima della Santa Inquisizione. I suoi libri furono dati alle fiamme e, anche se negli ultimi anni ebbe un po’ di pace, il suo insegnamento fu cancellato nel mondo islamico e venne tramandato piuttosto nell’Occidente cristiano, dove le sue opere vennero tradotte in latino e in ebraico. Sul tema è stato fatto pure un film (“Il destino” di Youssef Chahine), ma evidentemente a Giorello il cinema non piace.
Il caso Averroé come il caso Galileo? Peggio. Perché, se Galileo è stato riabilitato nel mondo occidentale – e molto molto prima della riabilitazione ufficiale da parte della Chiesa –, la vicenda di Averroé rappresenta una sorta di pietra miliare del divorzio dell’Islam dalla modernità perché uno dei capisaldi del pensiero integralista islamico è il rifiuto del razionalismo di cui era intriso il pensiero averroistico. Senza andar troppo sul sofisticato, consiglierei la lettura dell’articolo di una studiosa musulmana, Farida Faouzia Charfi, comparso sulla rivista “Prometeo” nel 1996 (“Islamismo e progresso tecnologico”), in tempi in cui ancora non si rischiava una fatwa per scrivere certe cose. Charfi richiamava la figura di Averroé in quanto, a suo avviso, “riattingere alle idee dei pensatori più illuminati rappresenta una possibilità di apertura per le società musulmane”, e ne ricordava la tesi secondo cui “niente prova la saggezza divina meglio dell’ordine del cosmo. L’ordine del cosmo può essere provato dalla ragione. Negare la causalità è negare la saggezza divina … e colui che nega la causalità nega e disconosce la scienza e la conoscenza”. Parole scritte nel testo “Autodistruzione dell’autodistruzione”, in risposta all’“Autodistruzione dei filosofi” di Ghazali (profeta ante litteram dell’integralismo islamico, vissuto nel XI secolo). Ghazali sosteneva che “il cosmo è volontario. È creazione permanente di Dio e non obbedisce ad alcuna norma. … la natura è al servizio dell’Onnipotente: essa non agisce in modo autonomo, ma è utilizzata al servizio del suo creatore. … Benché non abbiano rapporto con la religione, le scienze matematiche sono alla base delle altre scienze, dai cui vizi lo studioso rischia di rimanere contagiato. Sono pochi coloro che se ne occupano senza sottrarsi al pericolo di perdere la fede.”
Si può dire, in sintesi, che il mondo islamico ha finito col scegliere Ghazali contro Averroé e, in tal modo, si è autoescluso dal processo fondante del pensiero scientifico moderno, rifiutandone radicalmente l’idea portante e cioè il concetto di “legge naturale”. Nessuno può seriamente contestare lo straordinario apporto del mondo musulmano alla nascita della scienza moderna, sia per il contributo alla riscoperta dei classici greci, sia per gli originali apporti alla matematica, all’astronomia e alla tecnica. Ma tale contributo, per quanto importante, non fu decisivo perché – come osserva Charfi – “gli Arabi non hanno proposto nuovi modelli di rappresentazione del mondo, non hanno rimesso in discussione il modello tolemaico: il loro contributo all’evoluzione della scienza del cosmo si è dunque mantenuto modesto”. E Charfi prosegue osservando che “un modo di reagire a questa lacuna consiste nel dare un eccessivo rilievo all’apporto degli Arabi in campo scientifico e nel manifestare riserve circa il reale contributo degli occidentali ai progressi della scienza.”
Per ragioni politiche fin troppo evidenti siamo in piena esplosione di questo tipo di campagna propagandistica, contro cui occorrerebbe ricordare l’osservazione del celebre storico della scienza Alexandre Koyré, secondo cui la rivoluzione scientifica è avvenuta nell’Occidente cristiano, e non altrove, e il mondo musulmano si è semplicemente ritirato ed estraniato da questo sviluppo. E non si venga a dire che questo è avvenuto perché l’Europa cristiana ha espulso i musulmani. Ben peggio avvenne per gli ebrei, i quali tuttavia non hanno mai smesso di intrattenere il loro rapporto preferenziale con l’Europa cristiana, per quanto esso fosse drammaticamente difficile. I grandi sviluppi della mistica ebraica medioevale si sono avuti principalmente nel mondo cristiano, in Provenza, in Spagna, in Italia e nell’Europa dell’Est, e anche gli sviluppi avvenuti in terra palestinese non risentirono di un influsso o rapporto col mondo musulmano circostante. Del resto, è opportuno notare che le interazioni più proficue tra le tre culture nella Spagna medioevale si sono avuti soprattutto nelle terre amministrate dai re cristiani, che a lungo hanno difeso un regime di tolleranza, anche resistendo alle pressioni dell’Inquisizione. È in questo contesto, e non in altri, che si sono sviluppate le celebri scuole di traduzioni, come quella di Toledo, che hanno trasmesso i testi dell’antichità greca alla nascente Europa moderna.
L’analisi delle origini del concetto di legge naturale è tema infinitamente complesso e comunque le ricerche convergono verso l’individuazione delle radici giuridiche e teologiche di questo concetto. Legge naturale non vuol dire affatto che la natura obbedisce a regole sue proprie, bensì a un ordine stabilito da Dio e che, tuttavia, non è arbitrio puro, ma ordine. Perciò, le origini della scienza moderna non hanno niente a che fare con una filosofia “naturalista” nel senso moderno (materialista e antireligioso) del termine, bensì – come ha osservato efficacemente Amos Funkenstein – di “un modo nuovo ed originale di affrontare i problemi teologici, una sorta di teologia laica, secolare. … Galileo e Descartes, Leibniz e Newton, Hobbes e Vico, non erano degli ecclesiastici … eppure trattarono ampiamente di problemi di natura teologica. La loro era una teologia secolare, anche nel senso che era orientata verso il mondo terreno”. La nascita della scienza moderna non è stata la discesa di un gruppo di extraterrestri atei e naturalisti in un mondo di bigotti che l’ha prontamente perseguitato: è stata piuttosto il risultato e la germinazione di un lungo processo di riflessioni filosofiche, teologiche e religiose (inclusi gli aspetti mistici di queste ultime) in una forma di teologia secolare, volta a scoprire le leggi del disegno divino di costruzione della natura. Non c’è dubbio che anche il mondo musulmano abbia contribuito a porre le basi di questi sviluppi, ma altri ne hanno tratto i frutti, mentre l’Islam si è ritirato dal processo della formazione della scienza e della filosofia moderne.
Ché poi quell’Europa cristiana che aveva posto le premesse per la rivoluzione scientifica e filosofica sia stata anche il luogo in cui ne sono stati perseguitati i principali protagonisti, è indiscutibile. Come ha osservato Frances Yates, la rivoluzione scientifica progrediva proprio mentre avanzava un cupo periodo di caccia alle streghe. Tuttavia, della complessità e delle contraddizioni degli sviluppi storici occorre farsi carico, e non risolvere le difficoltà con semplificazioni di comodo, come quella di inventare un’inesistente contrapposizione fra scienza e religione, di principio e fin dalle origini.
Nessuno mette in discussione il diritto di essere atei, e magari di avere pure in antipatia la religione. Figuriamoci. Ma di qui a dire amenità come quella secondo cui “si è religiosi per caso (per esempio, per l’accidente della nascita), ma si diventa illuministi nel senso genuino della parola solo per scelta”, ne corre. Anche perché, in tal modo, si da mostra di un rifiuto intollerante a capire le esperienze altrui che è la negazione di quella tolleranza illuminista di cui si mena vanto. Ma forse è proprio questo l’illuminismo figlio dell’integralismo islamico… Si da invece il caso che c’è chi diventa religioso attraverso un processo di scoperta e di scelta, e chi nasce fanatico integralista (ateo o credente che sia) e resta tale per tutta la vita.


Giorgio Israel

martedì 18 ottobre 2005

Polemiche su Shoah e aborto

Alcuni giorni fa (14 ottobre) ho pubblicato un articolo su Il Foglio che interveniva nella polemica sul parallelo fra Shoah e aborto istituito da Giuliano Ferrara.
A questo articolo ha risposto sempre su Il Foglio, martedì 18 novembre, Luigi Manconi: il suo articolo si trova sul sito del giornale http://www.ilfoglio.it, dove si può scaricare in pdf.
Riporto sotto il mio articolo e una controrisposta a quella di Luigi Manconi.


Se ripeto – perché l’ho già scritto in un libro e su queste pagine – che la tesi dell’assoluta unicità e incomparabilità della Shoah, nel contesto di tutte le stragi di massa della storia, è un’idea assurda e devastante, spero che nessuno mi accusi di sacrilegio e di profanazione. Chi facesse questo meriterebbe soltanto la commiserazione da riservare ai miserabili. Occorre sapere che cosa significhi la solitudine che deriva dalla scomparsa di una famiglia numerosa, in parte sterminata, in parte disintegrata ai quattro angoli della terra. Occorre sapere che cosa significhi constatare che, nel ricostruire una nuova famiglia, ai tuoi figli non puoi fare a meno di gettare sulle spalle quel vuoto incolmabile, e che esso farà sentire i suoi effetti per alcune generazioni. E se sai questo non puoi sottovalutare l’orrore della Shoah. Ma allora devi anche sapere che non puoi neppure farne un fatto soltanto “tuo”, qualcosa che sta al di sopra e al di fuori della storia, e che non ha rapporti e metro di paragone con le tragedie, gli orrori e i crimini che hanno tormentato e tormentano l’umanità.
Un episodio mi ha segnato molti anni fa: non c’era ancora il Giorno della Memoria, ma si trattava comunque di una manifestazione per raccontare e spiegare la Shoah agli studenti. Un liceale ci chiese perché mai gli stermini nei Gulag non avessero diritto alla stessa considerazione degli stermini nei Lager. La risposta altezzosa del mio compagno al tavolo della presidenza fu che non c’era comparazione possibile, perché i secondi erano stermini per motivazioni razziali, i secondi per motivazioni politiche, e quindi meno gravi. Ancora oggi provo vergogna per non aver contestato pubblicamente quell’affermazione sciagurata.
Ma non si tratta soltanto di una questione morale, che vieta di stabilire una graduatoria di rispetto tra i massacrati. Se si vuole che la Shoah sia patrimonio di tutti, che ognuno sia coinvolto nell’intento di prevenire il ripetersi di altri drammi del genere, occorre che la Shoah sia pensata nella storia, sia commisurata agli eventi analoghi, che divenga uno strumento per capire e non qualcosa che non può essere capito per definizione.
All’isolamento della Shoah come evento incomprensibile e fuori della storia ha contribuito la sventurata tesi della “banalità del male” di Hannah Arendt – anche i grandi intellettuali hanno le loro cadute –, un mediocre slogan, come lo definì Scholem. Al contrario, uno dei contributi più imponenti del pensiero religioso ebraico – dal Libro di Giobbe in poi – è proprio l’aver cercato di esplorare il mistero profondo del male: da dove nasce il male, e perché i giusti e gli innocenti ne sono vittime, e quale ne è il senso? Altro che “banalità”, qualcosa senza spessore, dietro cui non c’è nulla da scoprire!
Le conseguenze di questa elevazione a una sfera intoccabile sono state e sono devastanti. Perché così la Shoah diventa una faccenda degli ebrei e non dell’umanità in generale e, alla lunga, insopportabile, se il più timido tentativo di parlarne in relazione a qualcos’altro suscita reazioni irate e la riaffermazione che soltanto essa rappresenta il male assoluto e senza termini di paragone. Peggio. L’effetto straordinariamente paradossale è che, in tal modo, viene stimolata la più perversa tentazione a ogni tipo di comparazione, anche le più assurde. L’ha notato Finkielkraut venti anni fa, ma nessuno gli ha dato retta. Se la Shoah è un “unicum”, il prototipo del male supremo, quale maggior privilegio di essere la vittima di “una” Shoah? E così da tempo ormai, come effetto della tesi dell’unicità della Shoah, le Shoah proliferano in ogni contesto. L’ultima delirante affermazione in tale ordine di idee è di ieri: il centro di accoglienza degli immigrati clandestini di Lampedusa sarebbe un “lager nazista”… La quintessenza della demagogia: che cosa più di questa parola può evocare il male supremo?
È pieno diritto del senatore Debenedetti ritenere che il confronto fra aborto e sterminio degli ebrei d’Europa istituito da Giuliano Ferrara appartenga a questo genere di affermazioni infondate. Ma egli chiede di “lasciar stare” la Shoah non perché “il rapporto non regge all’analisi”, bensì perché “la terribilità della Shoah sta in se stessa, non è né simbolo né misura né termine di paragone per altri orrori, palesi o nascosti”. È chiaro che con una tesi del genere sono in totale disaccordo. Inoltre, mi chiedo: perché mai, se così stanno le cose, non si chiede l’abolizione del Giorno della Memoria? Perché mai dedicare una giornata a parlare di qualcosa che è indicibile, imparagonabile, senza relazione con alcunché? Cos’altro si potrà fare, in quella giornata, di fronte a un evento la cui terribilità è assolutamente trascendente, se non inginocchiarsi in silenzio e piangere per il dolore che ne è scaturito? Suvvia, lo sappiamo tutti che durante il Giorno della Memoria, si fanno paragoni a non finire, e che anzi la “paragonite” è direttamente proporzionale al grado di trascendenza in cui viene collocata la Shoah. Fare paragoni è cosa inevitabile, naturale, giusta. Il problema, per l’appunto, è proprio la fondatezza dei paragoni e degli accostamenti. Prendiamo il genocidio rwandese: non è forse stato abbondantemente provato che lo sterminio degli ebrei ne è stato il modello costitutivo? Al contrario, è una cialtroneria asserire che in Palestina è in corso una Shoah e che il centro di Lampedusa è un lager nazista. Tanto più quando coloro che fanno questi accostamenti sono gli stessi che dicono che il Gulag non può essere confrontato al male supremo e inconfrontabile della Shoah: era cosa molto meno grave, perché – udito in un convegno di storici – almeno il Gulag aveva una finalità positiva: lavorare…
Venendo ora alla questione dell’aborto, sbaglia chi continua a considerarla come si poteva fare un tempo: e cioè come una scelta drammatica individuale, fatta nella propria coscienza e spesso in solitudine. Da anni ha preso corpo la tendenza a considerare l’aborto come una pratica socialmente riconosciuta e a cancellarne i connotati negativi. Non è più qualcosa da evitare, il fine sociale primario non sembra più essere quello di limitarne l’incidenza ma, al contrario, di farne uso come strumento di programmazione della procreazione, fino a configurare le caratteristiche di una nuova eugenetica. L’aborto è sempre più presentato come uno strumento di programmazione delle nascite, in funzione delle nostre esigenze personali, anche di quelle più futili ed egoistiche, e persino in funzione della selezione dei figli geneticamente “migliori”. Separare la questione dell’aborto come pratica di massa dai progetti di ingegneria genetica delle specie umana è ormai sempre più difficile. Difatti, la progettazione genetica è basata sul ricorso sistematico all’aborto artificiale. E che la riprogettazione genetica della specie umana abbia contatti con il programma eugenetico nazista non c’è bisogno neppure che lo spieghi Fukuyama. Basta lasciar parlare i protagonisti, come il genetista Gregory Stock, il cui libro ho commentato su queste pagine. Egli ammette a più riprese che questo collegamento esiste. E in che modo se ne difende? In un caso osservando che si tratta di una sensibilità prettamente “europea” ma che gli ipersensibili si debbono rendere conto che “abbiamo sborsato miliardi per migliorare le nostre vite e non abbiamo intenzione di allontanarci da questa direzione”. In un altro caso, ammettendo che vi possono essere certamente abusi di tipo nazista, ma che forse non avranno troppo peso perché i tiranni possono far peggio con mezzi più tradizionali…
Se c’è una caratteristica distintiva del male del Novecento, e di cui il Lager (ma anche il Gulag) sono il simbolo, l’espressione suprema e il modello, è l’idea di plasmare ex novo il corpo sociale con qualsiasi mezzo, fino alla soppressione di parti intere di esso ricorrendo a principi e metodi scientifici e secondo criteri di massima efficienza. È il perseguimento del mito della palingenesi sociale realizzato – come anticipò profeticamente Dostoevskij – con “misure oltremodo ammirevoli, fondate sui dati delle scienze naturali e perfettamente logiche”. Ora, se l’aborto non è più un dramma consumato di fronte alla propria coscienza, ma un mezzo disinvoltamente usato per programmare la nascita di un figlio in modo che essa non interferisca con i nostri programmi (“desiderio di incontrare il mio eventuale compagno di vita senza l’ingombro di un figlio, resistenza a dover abbreviare la mia permanenza in Europa”, come scrive Naomi Wolf su Il Foglio del 6 ottobre); e se l’aborto è addirittura un mezzo per eliminare un soggetto che appare “difettoso” o non ha il sesso che vogliamo, ebbene, è difficile sostenere che non abbiamo a che fare con qualcosa che incide sui fondamenti etici della nostra vita associata. È ovvio che qui non vi sono camere a gas e, sotto questo profilo, il paragone non regge. Ma c’è qualcosa di comunque terribile: un cinismo profondo, una disumanizzazione radicale, un crollo del rispetto per la vita umana. Nessuno può ritenersi così insopportabilmente arrogante da “giudicare e mandare” chi patisca il dramma dell’aborto. Purché non si dimentichi che la scelta di abortire è il frutto di un dilemma drammatico che può anche distruggerti l’esistenza, scatenarti addosso le furie (sempre per dirla con Naomi Wolf); è una scelta in cui è in gioco il sì o il no a una vita, e non il decidere se togliersi o no una verruca. Se l’aborto è stato così banalizzato non è perché la gente sia diventata intrinsecamente perversa. Questo è il risultato di un’immensa pressione sociale che induce a considerare primari la progettazione ottimale della procreazione e il perseguimento dell’edonismo individuale: è la miscela efferata di un’ambizione di programmazione sociale efficiente e dell’ideologia del “politically correct”. Ed è più che lecito ritenere che, sulle basi di simili “ideali”, la negazione dell’umanità si stia ripresentando davanti a noi con il suo ghigno perverso. Fortunatamente la resistenza a quella pressione sociale appare sempre più diffusa: certamente non per merito di chi tende a minimizzare.


Giorgio Israel


Risposta all'articolo di Luigi Manconi dal titolo “I paragoni traballanti tra lager e Ctp, tra Shoah e aborto (polemica con Giorgio Israel) (v. il sito del Foglio)


Leggendo la risposta di Luigi Manconi mi sono chiesto – tanto per ricorrere a uno stile simile al suo – se egli ci è o ci fa. E, siccome so che Manconi è un uomo intelligente, ho deciso senza esitazione che ci fa.
Non si poteva fare una polemica più incapace di cogliere la struttura logica del mio articolo; il quale partiva dalla considerazione che l’idea dell’unicità della Shoah è sbagliata e perniciosa. Su questa considerazione, a metà della sua replica, Manconi si dichiara d’accordo. Quindi, spiegavo la perniciosità di quell’idea dicendo che l’asserzione dell’incomparabilità della Shoah produce l’effetto contrario: una “paragonite” senza freni e delle analogie assurde. Esempi: il considerare i Cpt come lager o dire che in Palestina è in corso un genocidio. Manconi trascura il secondo esempio (cosa pensa in proposito resta a noi ignoto), e si butta sul primo asserendo che io avrei costruito il mio intero ragionamento sull’assunto che c’è chi dice che i Cpt sono lager. Ma di parla Manconi? Non conosce la differenza tra un esempio e un “assunto”? Peraltro, si tratta di un esempio documentatissimo e non di un “assunto”. Se Manconi leggesse i giornali non direbbe che “se” c’è qualcuno che dice ecc. è uno “sciocco”. Perché saprebbe che questo qualcuno c’è eccome, e saprebbe di aver dato dello sciocco ad almeno due dei segretari dei partiti dell’Unione. Quindi, invece di prendersela con me in questo modo scombiccherato, farebbe meglio a chiedere al capo ormai riconosciuto dell’Unione di trasmettere l’epiteto di “sciocco” ai detti esponenti politici. Guarda caso, quei signori sono proprio quelli che non amano che si dica che il Gulag è paragonabile al Lager, perché nel primo almeno si lavorava (e, di conseguenza, sono doppiamente sciocchi, oltre che privi di qualsiasi senso morale). Il problema è che domani questi sciocchi potrebbero diventare ministri o sottosegretari. Perciò il mio esempio non è un assunto ma un fatto, e un bel po’ pesante.
Per il resto, Manconi continua a far finta di non capire. Non percepisce nulla del mio discorso circa la natura delle stragi del Novecento e si ferma soltanto sulla questione se l’aborto sia o no diventato una pratica sociale diffusa che si collega sempre di più alla procreazione programmata, e lo nega con un brillante argomento: “Eeeelamadonna”. Aggiunge che non do dati, né ricerche, né analisi, salvo citare un libro. Ma si da il caso che come quel libro ce ne siano, di libri e articoli, a centinaia che parlano così, e anche Manconi, sebbene scriva sul Foglio non legge a un centimetro dai suoi articoli se non ha letto quanto pubblicato nei giorni e mesi precedenti. Né gli passa per la mente il fatto che la Fiv ha introdotto la possibilità di eseguire quella che è né più né meno una pratica abortiva di massa, ovvero qualcosa che ai tempi del referendum sull’aborto non era nemmeno pensabile. Abbiamo creduto in tanti a certe cose allora, forse ora dovremmo rivedere i nostri pensieri guardando alla realtà mutata e ricordando il celebre detto: “la coerenza è la virtù degli imbecilli”.
Per il resto, ovvero per quelli che vengono considerati gli aborti veri e propri, mi limiterò a dare qualche “dato” per chi abbia voglia di sentirne parlare - Manconi certamente non ne vuol sapere per principio.
Qualche mese fa il caso di una donna ventenne originaria dell’Est europeo e abitante a Londra, e che ha avuto sei aborti legali in un anno, ha scatenato una polemica feroce attorno al sistema sanitario inglese. Ne è venuto fuori che molte donne hanno fatto ricorso per abortire, fino a quattro volte l’anno, al British Pregnancy Advisory Service (BPAS). In un anno il BPAS ha eseguito circa 50.000 aborti, di cui l'83% dopo la ventesima settimana. Il BPAS dichiara senza problemi che “i metodi contraccettivi attualmente disponibili non possono prevenire tutte le gravidanze indesiderate, e che l'aborto legale è necessario alle donne per regolare la propria fertilitá”. E il già Direttore Esecutivo della BPAS Ian Jones, in un convegno organizzato nel gennaio 1999 dichiarava: “Talvolta la contraccezione fallisce e a volte noi sbagliamo nell'usarla con efficacia. Se la societá crede che le persone debbano pianificare le proprie famiglie, deve consentire alle donne di terminare le gravidanze non volute in aborti”. Non vado oltre, perché lo scandalo rivelato dal Sunday Telegraph è stato raccontato da Il Foglio, a qualche centimetro dagli occhi di Manconi. E, siccome tutto è raccontato molto bene nel sito http://www.stranocristiano.it/ rinvio a questo per maggiori dettagli. Naturalmente per chi abbia voglia di documentarsi e di ragionare con la propria testa.

mercoledì 28 settembre 2005

Rileggendo la dichiarazione "Nostra Aetate"

Pubblicato su Il Foglio - martedì 27 settembre 2005

Un testo può essere riletto cercando di porsi nella visuale del momento in cui fu scritto, oppure con gli occhi del presente. Forse questo secondo approccio s’impone, tanto sono tormentosi i problemi dell’oggi e che già erano presenti nelle tematiche della dichiarazione “Nostra Aetate”: primo fra tutti quello della difficile conciliazione fra affermazione dell’identità e tolleranza dell’altro. Questo è forse il più grande problema che ha segnato questi quarant’anni, nei quali abbiamo assistito al dispiegarsi della soluzione multiculturalista e, al termine dei quali, ci troviamo di fronte al suo catastrofico fallimento. C’è ancora chi insiste nel riproporre le impotenti formule dell’ideologia postmodernista: di recente Luce Irigaray predicava ancora una “nuova” formula della famiglia come «luogo di apprendimento della convivenza multiculturale piuttosto che di integrazione dello straniero nella nostra Storia passata». Ma proprio questa ripetizione stanca ci fa sentire con maggiore intensità la difficoltà delle sfide da raccogliere sulle macerie del multiculturalismo.
Lo sappiamo: l’indurimento parossistico delle identità è stato (ed è) una delle sorgenti principali del razzismo e di tante intolleranze. Ma è stata un’ingenuità senza pari credere che la conciliazione fra affermazioni identitarie e tolleranza potesse realizzarsi decretando a tavolino l’assoluta uguaglianza di tutte le identità, e il progetto di una società ripartita per quote proporzionali. In tal modo, si è ottenuto l’opposto di quel che si voleva: la cristallizzazione irriducibile delle diversità. Si è voluto combattere la globalizzazione economica e decretare la globalizzazione culturale ed etnica, come se quest’ultima non fosse sempre esistita come fatto spontaneo, e non fosse stata un potente fattore di dinamica storica; e non si è capito che la sua dinamica spontanea (a differenza di quella decretata a tavolino dai multiculturalisti) preserva le differenze senza trasformarle in un fattore di disgregazione sociale.
Trentacinque anni fa Claude Lévi-Strauss tenne una conferenza su “Razza e cultura” – richiesta dall’Unesco nel quadro di un programma di lotta contro il razzismo – suscitando, per la franchezza dei suoi propositi, lo scandalo di alcuni tartufi, come capita sempre a coloro che pensano liberamente. Conviene rileggere alcune delle frasi conclusive di quella conferenza:
«Se l’umanità non vuol rassegnarsi a diventare la consumatrice sterile dei soli valori che ha saputo creare nel passato, capace di dare alla luce soltanto opere bastarde, e invenzioni grossolane e puerili, dovrà reimparare che ogni vera creazione implica una certa sordità all’appello degli altri valori, la quale può giungere fino al loro rifiuto se non anche alla loro negazione. Perché non si può, allo stesso tempo, fondersi nel godimento dell’altro, identificarsi con lui e mantenersi diverso. Se è pienamente riuscita, la comunicazione integrale con l’altro condanna, a più o meno breve scadenza, l’originalità della sua e della mia creazione. Le grandi epoche creatrici furono quelle in cui la comunicazione era divenuta sufficiente affinché dei partner lontani si stimolassero, senza essere tuttavia così frequente e rapida da ridurre gli ostacoli indispensabili tra gli individui come tra i gruppi, al punto che scambi troppo facili parificassero e confondessero le loro diversità. […] Certo il ritorno al passato è impossibile, ma la via in cui gli uomini si sono oggi incamminati accumula tensioni tali che gli odii razziali offrono un ben povera immagine del regime di intolleranza esacerbata che rischia di istaurarsi domani, senza che neppure gli debbano servire di pretesto le differenze etniche. […] occorre capire che le cause sono molto più profonde di quelle semplicemente imputabili all’ignoranza e ai pregiudizi».
Parole preveggenti! Volendo mescolare le diversità sulla base del principio che esse sono tutte assolutamente alla pari, che nessuna ha il diritto di affermare i propri valori, bensì soltanto quello di difenderne l’assoluta intangibilità, il relativismo multiculturale ha prodotto il contrario del suo obbiettivo umanitario: un regime di divisione, di “comunitarismo”, di “apartheid” culturale-etnico, che è il brodo di coltura dei disadattamenti più devastanti e delle ostilità più feroci.
Ma cosa ha a che vedere tutto ciò con la religione e, in particolare, con la dichiarazione “Nostra Aetate”? Moltissimo, se si pensa che le religioni, soprattutto quelle monoteiste, vengono additate come il luogo del massimo irrigidimento identitario e accusate di generare intolleranza – il che, sulla base dell’esperienza storica, ha un fondamento indiscutibile. L’importanza storica della “Nostra Aetate” è quella di essersi avventurata su questo difficile terreno, senza trascurare di calarsi nei casi specifici: come ammettere che le altre fedi esprimano delle luci di verità, senza annacquare la convinzione nella verità superiore della propria? Vi si dichiarava che «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo» nelle altre religioni, le quali «riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini», e, al contempo, si riaffermava che essa «annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo, che è “via, verità e vita”».
Proviamo a vedere la questione da un punto di vista ebraico. In un libro di alcuni anni fa dedicato alla figura di Mosé, il celebre studioso André Chouraqui ha condotto una sottile analisi di come l’introduzione del termine “monoteismo” abbia tradito il senso più profondo dell’idea biblica dell’unità divina. Il termine “monoteismo”, osserva Chouraqui, è inesistente nelle lingue semitiche, ed è comparso in inglese nel 1660 e in francese nel 1834. A suo avviso, l’impiego di questa parola è contemporaneo all’inizio dei colonialismi britannico e francese ed egli osserva che, «quando si decide di conquistare e dominare dei popoli, è confortante pensare che non esista che un Dio, e che questo Dio sia necessariamente quello dei vincitori». Dal punto di vista storico, questa tesi è semplicistica ed è difficile ammettere che l’intolleranza religiosa possa essere ricondotta soltanto a quel fattore e a quel periodo, dimenticando quanto essa abbia dilagato nei secoli precedenti. Tuttavia, Chouraqui dice una cosa molto profonda – anche ove la si consideri soltanto come una proposta interpretativa – quando osserva che, per l’ebraismo più che di monoteismo è appropriato parlare di “teomonismo” (secondo la formula di Henri Courbin). Difatti, questo termine riflette la formula biblica “gli Elohîm sono Uno”, la quale implica che l’affermazione dell’unità di Dio non esclude le altre manifestazioni della divinità, ma ne costituisce l’unificazione trascendente. È una idea che è altresì presente nelle dottrine kabbalistiche, che distinguono le emanazioni provenienti dall’unico “infinito” (Ein Sof) assolutamente trascendente. Di qui, secondo Chouraqui, discende la particolare “missione” affidata al popolo ebraico, che è quella di essere testimone della trascendenza di Dio, della sua assoluta irrappresentabilità e indicibilità, di combattere senza compromessi l’idolatria, ma senza per questo opporre alle altre manifestazioni della fede una negazione assoluta.
Chouraqui ricorda un midrash rabbinico su Mosé che esprime in modo straordinariamente vivido questa visione. I rabbini si sono spesso interrogati sul motivo per il quale Dio avesse affidato la difesa della sua causa a un balbuziente come Mosé. Il midrash ricorda che, in principio, Mosé era il più eloquente fra gli ebrei. Un giorno, vide un egiziano che pregava le sue divinità: si infuriò, lo colpì e bruciò le sue statue. Allora Dio disse a Mosè: «Quest’uomo al di là della statua si rivolgeva a Me. Ho ascoltato la sua preghiera e la esaudirò. Quanto a te, per insegnarti a comprendere meglio la mia Torah e il senso della mia unità, affinché tu sia più riflessivo, d’ora in poi tu balbetterai».
Questa è la via: coltivare la balbuzie della tolleranza e della riflessività senza che ciò significhi rinunziare a nulla delle proprie convinzioni. La dichiarazione “Nostra Aetate” ha aperto un sentiero di questo tipo e oggi, dopo quarant’anni, per quanto questo sentiero sia accidentato possiamo constatare gli importanti progressi che sono stati realizzati.
Per quanto riguarda i rapporti ebraico-cristiani – che occupano una parte molto rilevante della dichiarazione – è facile rendersi conto di tale progresso. Alcune affermazioni erano audaci all’epoca, ma sembrano oggi ancora generiche (per esempio, quando si dice che gli ebrei sono “ancora” carissimi a Dio e da rispettare per “religiosa carità evangelica”). Esse sono state riproposte con trasparente chiarezza teologica nel recente discorso del Papa Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia. Già la “Nostra Aetate” conteneva la fondamentale tesi che i “doni” e la “vocazione” di Dio sono “senza pentimento”; ma l’affermazione che «i doni di Dio sono irrevocabili» ha una nettezza al di là della quale è difficile andare, così come quella di Giovanni Paolo II secondo cui «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo».
Chiarezza teologica, dicevamo, che è fondamentale: difatti, su quale terreno, se non su questo, si gioca il rapporto tra le religioni? Solo da qui possono derivare quei nuovi orientamenti catechistici capaci di sgretolare progressivamente antichi pregiudizi. È il terreno più difficile, a differenza di quello storico. Su quest’ultimo, ha osservato il Papa a Colonia, è possibile perseguire «un’interpretazione condivisa di questioni storiche ancora discusse». Al riguardo, il cardinale Scola, alla domanda se il razzismo nazista non attecchì sull’antigiudaismo cristiano ha risposto: «È una questione complessa, studiare le radici dei fenomeni, gli elementi di continuità e di rottura». Quindi, sulla questione storiografica è aperta la via anche ad approfondimenti che conducano a interpretazioni equilibrate e condivise. Ma il terreno teologico è di gran lunga più spinoso. Qui il problema della conservazione dell’identità ha un peso fortemente condizionante. Ancora a Colonia il Papa ha sottolineato il difficile ma necessario equilibrio fra queste due tensioni, osservando che occorre «fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto fra ebraismo e cristianesimo», senza peraltro «minimizzare o passare sotto silenzio le differenze».
Proviamo a sviluppare questa tematica andando al centro della questione più scottante nel rapporto fra ebraismo e cristianesimo: la visione del messianismo. Ebraismo e cristianesimo hanno al cuore, come nessuna altra religione, il tema del messianismo, e da questo tema sono profondamente unite; al contempo, nulla li ha divisi di più della questione se il ruolo messianico si sia definitivamente esplicato in Cristo, oppure no. Cosa di positivo può mai nascere all’interno di una contrapposizione irresolubile – in cui ciascuno manifesta l’apice dell’adesione alla propria fede – che ha dato origine a grandi drammi storici ed è all’origine dello stesso antigiudaismo cristiano? Tenterò di spiegarlo con un esempio.
In uno dei numerosi saggi dedicati al messianismo ebraico, Gershom Scholem, dopo aver sottolineato che il messianismo «è il punto essenziale di divergenza tra ebraismo e cristianesimo» ne identificò la radice nella diversa visione della redenzione: «Ciò che il cristianesimo considera come il glorioso fondamento della sua confessione di fede e come dato essenziale del Vangelo è respinto con determinazione e combattuto dall’ebraismo. Quest’ultimo ha sempre considerato la redenzione come un evento pubblico che deve prodursi sulla scena della storia […] e che è impensabile senza una manifestazione esteriore. All’opposto il cristianesimo considera la redenzione come un evento che si verifica in un dominio spirituale e invisibile, come un evento che si gioca nell’anima. Ciò che l’ebraismo ha situato irrevocabilmente al termine della storia […] è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, che è allora promossa come “storia della salvezza”. La Chiesa è convinta di aver così superato una nozione temporale della redenzione, legata al mondo fisico, e di averla sostituita con una concezione di dignità più alta». Questa caratterizzazione suscitò la reazione di un teologo protestante che accusò Scholem di rappresentare il punto di vista cristiano secondo «clichés et semplificazioni deformanti». La risposta di Scholem fu che occorreva distinguere fra l’essenza di una contrapposizione che è stata al centro di un conflitto reale, e le dinamiche storiche del pensiero teologico che, nei fatti, hanno approdato a cambiamenti di posizione. Per diciassette secoli quei “clichés” erano stati la base di una critica incessante all’ebraismo, fino al punto di definire come “giudaizzanti” coloro che non avevano aderito all’idea del carattere essenzialmente spirituale della redenzione: questo dato storico non poteva essere discusso e non doveva essere confuso con i percorsi evolutivi del pensiero teologico che avevano finito col trasformare in “clichés” agli occhi degli stessi cristiani quelle posizioni che erano state oggetto di contrapposizione reale. Peraltro, nel suo saggio, Scholem dava conto delle interazioni che avevano progressivamente modificato le rispettive vedute della redenzione e del messianismo: «Se l’ebraismo non ha cessato di instillare nel cristianesimo un messianismo politico e millenarista, si può al contempo constatare questo: il cristianesimo, da parte sua, ha trasmesso all’ebraismo, o quantomeno ha risvegliato in esso, una tendenza mistica all’interiorizzazione del messianismo». In entrambi i casi si tratta dello stimolo di tendenze che esistevano in entrambe le religioni, e ciò proprio in ragione delle loro comuni radici. Proprio di qui discende la difficoltà – osservava ancora Scholem – di «individuare le influenze storiche che hanno potuto provocare l’incontro di queste due correnti così come gli scambi di idee che si sono potuti produrre tra ebraismo e cristianesimo».
Andiamo allora al presente per trovare una testimonianza di questo incontro e di questi scambi di idee. Apriamo l’ultimo libro di don Luigi Giussani (“Il rischio educativo”, Rizzoli, 2005). Vi troviamo riportata una frase tratta da un libro del Rabbino Elio Toaff: «L’epoca messianica è proprio il contrario di quello che vuole il cristianesimo: noi [ebrei] vogliamo riportare Dio in terra e non l’uomo in cielo. Noi non diamo il regno dei cieli agli uomini, ma vogliamo che Dio torni a regnare in terra». E don Giussani così commenta: «Quando l’ho letto sono saltato sulla sedia! Questa è esattamente la caratteristica del carisma con cui abbiamo percepito e sentito il cristianesimo, perché il cristianesimo è “Dio in terra” e la nostra opera, tutta la nostra opera, ha come scopo la gloria di Cristo, la gloria dell’uomo Cristo, dell’uomo-Dio Cristo. La gloria di Cristo è una cosa temporale, del tempo, dello spazio, della storia, nella storia…».
Potrebbe darsi un esempio più limpido – ma questo è ben più che un esempio – di come all’interno stesso di una tensione che esprime una divergenza massima, laddove si manifesta persino la “sordità” e il “rifiuto” (per usare le parole di Lévi-Strauss), possa emergere il frutto benefico di un’interazione reciproca? La storia ci consegna, con ogni evidenza, l’immagine di un’opposizione cristallizzata che rimane come uno scoglio, e non si vede neppure come possa sciogliersi, perché ha al suo centro il tema del riconoscimento della divinità di Cristo. Eppure, proprio in questa zona nevralgica, e proprio al livello teologico, sono avvenuti dei lenti spostamenti tellurici che hanno condotto a un’interazione profonda, alla costituzione di un terreno comune di intesa o quantomeno di comprensione.
Quanto precede ci insegna anche che, per dirla ancora con le parole del Papa nella Sinagoga di Colonia, occorre sempre guardare in avanti. Chi creda che determinate posizioni spirituali o concettuali possano essere racchiuse in un recipiente, definitivamente appartenente a un dato proprietario, si culla in un’illusione insensata: il contenuto esce dal recipiente e interagisce con l’esterno, se conserva ancora una vitalità e un valore per gli altri, e non soltanto per il geloso custode del recipiente. Le vicende dei rapporti ebraico-cristiani, il percorso fatto in questi quaranta anni dalla “Nostra Aetate” testimoniano di questa vitalità, che quel valore esiste per gli altri, e non soltanto per dei gelosi proprietari che si illudano di conservare nel recipiente un contenuto in via di isterilimento. Per questo, parlare di “radici giudaico-cristiane” dell’Europa ha ancora perfettamente senso.
Tuttavia, noi non possiamo trascurare le perplessità di chi teme che il richiamo a quelle radici sia l’espressione di un indurimento identitario che mira ad elevare delle frontiere invalicabili tra un “voi” e un “noi”, e per di più un “noi” costruito in modo artificioso. In effetti, se dietro alla richiesta che fu fatta di inserire il richiamo a tali radici nella costituzione europea non vi fosse stato niente di sostanziale e vitale, salvo un rialzare la bandiera del passato, si sarebbe trattato di una posizione doppiamente sterile e sbagliata. In primo luogo perché occorre chiedersi – come più d’uno si chiede – che cosa vogliamo recuperare del passato della storia cristiana d’Europa. Tutto? Anche l’Inquisizione o i ghetti? O l’idea di uccidersi in nome di Dio? Domanda non peregrina, perché esiste chi si muove in tal senso e crede che la rivalutazione delle radici cristiane significhi riscattare l’Inquisizione, giustificare la cacciata degli ebrei dalla Spagna, dimostrare che la nascita della scienza moderna è stata un gigantesco bluff, e via dicendo. Il semplice richiamo al passato nel migliore dei casi è grottesco: avrebbe senso ripetere meccanicamente oggi, come formulette scolastiche, i principi del liberalismo di Stuart Mill in società complesse come le nostre?
Le posizioni “reazionarie” – nel senso testuale del termine, più che nell’accezione politica – sono intrinsecamente destinate a non avere alcun ruolo propulsivo, tutt’al più quello di esercitare un’azione critica nei confronti dei guasti inevitabili inerenti al mutare delle cose. La proposta del recupero indiscriminato del passato – magari cercando di coprirne le magagne, a costo di sfidare l’evidenza – non potrà mai rappresentare una proposta presentabile.
Tuttavia, la proposta “reazionaria” non è soltanto impresentabile, essa è perdente in quanto è perfettamente simmetrica ed equivalente a quella multiculturalista: entrambe sono «sterili consumatrici di valori del passato». Certo, tutte le nuove grandi svolte ideali e spirituali non si sono mai fatte con materiali interamente nuovi, ed anzi hanno fatto per lo più ricorso a mattoni già consegnati dalla storia passata. Ma quel che contava è che questi pezzi del passato erano selezionati in funzione di un progetto, riaccentrati attorno a un’idea nuova. Si pensi all’Umanesimo e al Rinascimento, che assieme hanno rappresentato un grande sviluppo nella storia della civiltà europea. Esso ha proceduto recuperando materiali tutt’altro che nuovi: il pensiero filosofico e scientifico greco, lo gnosticismo antico, il misticismo, l’ermetismo, e così via. Ma tutti questi apporti del passato sono stati sintetizzati in una visione originale che poneva al centro l’uomo, la dignità dell’uomo, una visione religiosa ispirata al messaggio dell’Antico e del Nuovo Testamento. Poco importa allora che certe connessioni fossero stabilite in modo ardito e improbabile, che fosse una fantasia pensare Pitagora come un’antico ebreo o Socrate come un’anticipazione di Cristo, perché quel che contava era l’obbiettivo, ovvero incorporare la tradizione greco-ellenistica nel contesto giudaico-cristiano, fare – secondo la brillante espressione di uno storico – di Atene un suburbio di Gerusalemme.
La possibilità di un rinascimento europeo non è una fantasia o un sogno, a condizione che essa si aggreghi attorno a un’idea, a un progetto capace di fondarsi su ciò che di meglio ha dato la storia passata d’Europa. In questa storia passata c’è anche la grande vocazione filosofica che ha le sue radici nel pensiero greco, la scienza come parte di un grande progetto conoscitivo, il liberalismo e il razionalismo illuministico, quello delle origini – non ancora degenerato nelle mediocrità del positivismo – e che era anch’esso portatore di un’idea forte della dignità della persona. Sono apporti che debbono confluire in un’idea forte, in un progetto, perché soltanto le identità fondate su principi propulsivi e vitali sono capaci di essere autenticamente aperte e tolleranti.
Le grandi religioni europee, nella misura in cui si fanno carico di quello che diceva “Nostra Aetate” – l’attesa di una «risposta ai reconditi enigmi della condizione umana […]: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, ecc. – e proseguono sul cammino di dialogo proficuamente iniziato quarant’anni fa, possono diventare una componente fondamentale di un rinnovamento che, da un lato, faccia uscire dalle secche in cui ci ha gettato il fallimento del multiculturalismo, dall’altro contribuisca alla rinascita di un pensiero “razionale” nel senso pieno del termine. Un razionalismo che non si illuda positivisticamente che le domande circa il “senso” possano essere date da un pensiero e da una prassi meramente tecnologiche che hanno le spalle troppo fragili per sopportare da sole il peso di rispondere a tutti i problemi autenticamente umani.


Giorgio Israel

venerdì 16 settembre 2005

Cronache dal "dietro-mondo"

Ovvero, come si può non discutere mai di niente ed evitare i problemi, fuggendo nel mondo eccitante della dietrologia


Da Informazione Corretta (12 settembre 2005)

Lo sappiamo benissimo dove si va a finire quando si comincia a parlare di finanza e di massoneria: vengono fuori gli ebrei ed ecco il complotto pluto-giudaico-massonico (“demo” all’inizio è un optional).
Sappiamo anche che il personale politico italiano non è di livello straordinario e che quello di Forza Italia lascia alquanto a desiderare, ma quel che più lascia esterefatti è che al responsabile economico di Forza Italia Guido Crosetto - secondo cui «in questo momento stiamo aprendo alla grande massoneria americana ed ebraica le porte del sistema creditizio del nostro Paese» - nessuno dei dirigenti del suo partito e nessun esponente del governo abbia ancora detto le quattro parole che merita. Peggio. Andiamoci a leggere Padania-on-line e troviamo che la frasaccia di Crosetto viene ripresa pari pari, con ostinazione degna di miglior causa, e con l’aggiunta che però lui «non tira in ballo la religione»… E meno male… Gli è bastato tirar fuori la razza.
Quindi non soltanto, come dice Informazione Corretta, i fantasmi del passato ritornano ma non c’è nessuno che si dia la pena di cacciarli via.
Noi non vogliamo dire una sola parola nel merito, per quanto ridicolo sia questo panorama di uno scontro tra lobby giudaico-massonica sponsorizzata da Montezemolo e Prodi e lobby cattolico-fazista sponsorizzata da D’Alema. Perché ci basta e ci avanza l’infortunio di Amos Luzzatto, Presidente dell’ UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche) nella sua intervista sul Corriere della Sera, a proposito della quale ripetiamo – con Informazione Corretta – che, dopo aver giustamente denunciato il carattere odioso delle affermazioni di Crosetto, avrebbe fatto meglio a non addentrarsi nelle questioni economiche di merito, data la sua carica. Non pensiamo invece che egli abbia fatto “meglio di niente”. Ha fatto invece peggio di niente, molto peggio di niente.
Difatti, prendendo posizione così nettamente contro il Governatore Fazio, ha avvallato l’ipotesi che gli ebrei stiano tutti su quel fronte visto che lui parlava come Presidente dell’UCEI. Quindi, potrebbe dire qualcuno, l’ombra di qualche congiura c’è. Non basta. Richiesto di dire se l’Opus Dei c’entri con la difesa del Governatore, Luzzatto ha risposto: «E chi lo sa. Certo che buona parte del mondo cattolico ha reagito a favore di Fazio in una maniera piuttosto accesa e questo ha alimentato tutta una serie di illazioni». Un maligno tradurrebbe: «C’entrano gli ebrei con l’attacco al Governatore? E chi lo sa? Visto che il presidente dell’UCEI l’ha attaccato in maniera piuttosto accesa, questo ha alimentato una serie di illazioni». Come se ancora non bastasse – e dopo aver sottolineato di non aver «a che fare né con l'"Osservatore Romano" né con "Avvenire" né con queste organizzazioni», come se ci potessero esser dubbi in proposito – Luzzatto ha aggiunto che da parte di queste “organizzazioni” c’è stata una difesa del Governatore «un po’ accesa», che «si poteva evitare».
Insomma, gli altri debbono parlare a bassa voce, altrimenti si alimentano illazioni. Mentre, se il Presidente degli ebrei italiani parla e si schiera in modo acceso, non si debbono fare illazioni. Così uscirà fuori qualcuno a dire che gli ebrei possono fare le congiure che vogliono, ma è vietato dirlo.
Un autentico disastro.
Giorgio Israel


Al Direttore del Corriere della Sera (16 settembre 2005)

Signor Direttore,
l'articolo a firma Paolo Conti pubblicato sul Corriere del 15 settembre a proposito delle dimissioni di Amos Luzzatto, contiene alcune gravi inesattezze che mi riguardano e mi attribuisce un influsso spropositato (la mia opinione avrebbe un "peso enorme") che potrebbe gratificarmi ma non ha fondamento. Non è vero che io sia "l'esponente di punta dell'ala romana della lista "Per Israele", di cui non sono mai stato candidato. Questo è un dato di fatto. Non è vero che io sia "uno dei possibili candidati alla successione di Luzzatto". Apprendo questa notizia dal Corriere per la prima volta, dato che nessuno, tantomeno io stesso, ha mai avanzato tale prospettiva.
Poi, certo, ho le mie opinioni e le esprimo senza reticenze proprio perché non ho alcun incarico nelle istituzioni comunitarie ebraiche. Malgrado non sia un professionista della politica, non sono così ingenuo da non capire che, se fossi davvero candidato, dovrei guardarmi dal rilasciare dichiarazioni nette che diano il destro a qualcuno di "bruciare" la mia "candidatura"... E'chiaro che questo è quel che è avvenuto e, per parte mia, trovo il comportamento di coloro che hanno informato Paolo Conti comicamente inutile, oltre che scorretto. Se Paolo Conti avesse chiesto anche la mia opinione, avrebbe evitato di farsi usare propinando una storia di fantasia e si sarebbe occupato soltanto delle questioni di merito su cui si svolgerà l'autentico confronto al prossimo Congresso dell'UCEI tra posizioni indubbiamente differenziate.
Nel merito, ritengo che un Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche debba pronunziarsi con nettezza assolutamente imparziale contro qualsiasi manifestazione di antisemitismo, che venga da destra o da sinistra, e debba tenere per se le sue simpatie politiche personali. Mi auguro che così sia nel futuro, ma non mi sono mai candidato per farlo.
Con i migliori saluti,
Giorgio Israel


Da Informazione Corretta (16 settembre 2005)

Dunque Informazione Corretta è tanto influente che una nota di poche righe sull’intervista di Amos Luzzatto, Presidente dell’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche) è capace di provocare un terremoto ai vertici della stessa UCEI. Questo risulterebbe dalla lettura di diversi articoli comparsi sulla stampa.
Poteva rimanere un incidente circoscritto, ma poi ci è messo il sito Internet IC – commenta La Stampa. Il Corriere della Sera inizia la sua cronaca addirittura citando la nota su IC, definendo il peso di chi l’ha scritta (il sottoscritto) “enorme”… E anche secondo Europa, non è tanto per le critiche seguite all’intervista sul caso Crosetto che è scoppiata la crisi, con la minaccia di dimissioni di Luzzatto, ma per gli “attacchi interni” fra cui – guarda un po’ – viene citato principalmente quello comparso su IC. Tutto ciò, secondo il quotidiano della Margherita “in attesa dell’attacco finale”…
Va bene, IC è importante e prestigiosa, ma qui c’è qualcosa che non quadra, qualcosa di eccessivo. Forse una chiave di questo eccesso si ritrova in una vera e propria opera di disinformazione: è la presentazione del sottoscritto come uno dei principali candidati alla successione ad Amos Luzzatto, sostenuto dalla corrente più filo-israeliana (e “oltranzista”) dell’ebraismo italiano, di cui viene definito come “l’esponente principale” (e ci cui, invece, non ha mai fatto parte). Addirittura, secondo Europa, di Giorgio Israel “si dice che aspiri alla successione”.
In verità, alla carica di Presidente dell’UCEI non ci ho teso né ci tesi mai – avrebbe detto Petrolini – tantomeno l’ho aspirata. Si tratta di falsità che non meriterebbero commenti, se non mettessero in due luce due aspetti.
Il primo, è il solito vizio: la dietrologia. Se qualcuno esprime un’opinione è impossibile che lo faccia perché ci crede: ci deve essere qualcosa dietro, un disegno, una trama, un complotto, un’”aspirazione”.
Ma – e questo è il secondo punto – se dieci righe pubblicate su IC fanno tanto scalpore dietrologico e – guarda un po’ – danno luogo alla stessa ipotesi completamente falsa, vuol dire che qualcuno quell’ipotesi alla stampa l’ha suggerita: saranno i signori “si dice” di Europa. Qualsiasi insegnante sa che l’indizio sicuro che più studenti hanno copiato da qualcuno non è che scrivano nel compito la stessa cosa giusta, ma la stessa cosa sbagliata. I signori “si dice” debbono aver davvero creduto che questa candidatura era in ballo, e perciò debbono aver pensato che, per stopparla, era utile ricorrere a una tecnica antica della “politica politicante”: enfatizzarne la prospettiva, estremizzandone i connotati, in modo da “bruciarla”. Però, i nostri strateghi da “gioco del piccolo uomo politico” hanno bruciato il nulla, ed hanno fatto soltanto fare una cattiva figura ai giornalisti che hanno dato loro retta, per non voler controllare le fonti, o per l’intento di denunciare un complotto oltranzista nel seno dell’ebraismo contro l’”intellettuale progressista” Luzzatto, che starebbe per culminare nell’”attacco finale” dei tanks Merkavah (naturalmente).
Ma a parte queste miserie, la sostanza dei problemi resta la stessa. Noi abbiamo appoggiato Amos Luzzatto nella sua denuncia del caso Crosetto e, al contempo, ribadiamo le critiche espresse nel commento incriminato. Constatiamo, con autentico sconforto che, in questi giorni, si sono verificati eventi gravissimi, ben altrimenti gravi del caso Crosetto. Per esempio, l’esito dei lavori delle commissioni nominate da Tony Blair per combattere culturalmente l’estremismo islamico, che hanno sortito come unica proposta l’abolizione del Giorno della Memoria della Shoah. Avremmo voluto leggere qualche intervista in merito: silenzio assoluto. Vi è stato l’incendio e devastazione delle sinagoghe a Gaza: silenzio assoluto. Questi incendi e devastazioni sono stati commentati con un editoriale a dir poco inaudito da parte del direttore di Liberazione Sansonetti, che ha tacciato di “razzismo” i critici di questi misfatti. Silenzio.
Sarebbe stato invece opportuno che la Presidenza dell’UCEI chiedesse formalmente all’Unione e al suo leader se, nel loro futuro governo, intendono nominare, per esempio, come sottosegretario agli esteri, agli interni, o addirittura come ministro, qualcuno che la pensi come Sansonetti. Il quale, nel caso di un attentato a una sinagoga in Italia – che è già avvenuto e speriamo non si ripeterà mai – magari accuserà di razzismo coloro che protestano. Sarebbe bene saperlo, per regolarsi di conseguenza. Ma niente, silenzio assoluto.
Giorgio Israel

mercoledì 7 settembre 2005

Su darwinismo ed evoluzionismo

Ho ricevuto alcuni commenti all'articolo pubblicato sul Foglio di ieri che mostrano sorpresa circa l'affermazione che già un secolo fa il darwinismo fosse una teoria in crisi nella comunità scientifica.
Naturalmente si potrebbero dare molti riferimenti bibliografici per illustrare quanto fosse vivace la polemica e quanto fossero stati smontati interi capisaldi del darwinismo. Del darwinismo, si badi bene, non necessariamente dell'evoluzionismo.
Ma forse, ancora più emblematico del clima - tanto più perché relativo a un periodo in cui la teoria sintetica dell'evoluzione si era costituita - è il carteggio di un noto biologo e zoologo italiano - certamente in sintonia con il clima dell'epoca e tutt'altro che eterodosso (al contrario!) e certamente non creazionista... -, Umberto D'Ancona. D'Ancona era genero del celebre matematico Vito Volterra con cui collaborava in ricerche di biologia matematica. Ed ecco cosa scriveva la suocero in alcune lettere degli anni trenta: che dirsi darwinista era antiscientifico, che l'evoluzionismo restava soltanto come un'ipotesi di lavoro, e che anche la teoria delle mutazioni (base della teoria sintetica) non era in grado di dimostrare la teoria darwiniana.

Da una lettera inviata il 23 febbraio 1935:

In merito all'evoluzione non credo che oggi nessuno zoologo possa obbiettivamente dire di essere darwinista. Oramai questa è una fase superata. Si può essere evoluzionista, ma non più darwinista.
In quanto poi all'evoluzione essa è entrata su un terreno obbiettivo di sperimentazione e soltanto su quest'ultimo si può discutere. Effettivamente i risultati finora non sono molto promettenti, per cui lo scetticismo della maggior parte degli zoologi è ben giustificato.
Si può riconoscere però che l'evoluzione è sempre l'unica ipotesi plausibile di cui noi disponiamo e che fino a che non abbiamo di meglio dobbiamo ammetterla come ipotesi di lavoro.
Ma non più. Certamente si andrà avanti e si formuleranno nuove ipotesi più aderenti ai fatti. Probabilmente l'evoluzione ritornerà sotto altra forma. Ma non credo sotto la forma darwiniana perché sarebbe un ritorno indietro.
In ogni modo non si può dire d'essere darwinista o no; tale espressione sarebbe antiscientifica. È soltanto sul terreno sperimentale che si può discutere e questo è molto diverso da quello che era ai tempi di Darwin.


Da una lettera inviata il 28 febbraio 1935:

Non che io voglia discutere gli enormi meriti di Darwin, che è stato veramente geniale nella sua teoria e che ha portato il più grande contributo che mai sia stato dato alle ricerche zoologiche. Indubbiamente delle sue ricerche, oltre allo stimolo che hanno dato, molto rimane ancora, fra altro nel caso specifico la teoria della lotta per l'esistenza nei suoi riguardi all'economia della natura. Ma che la lotta per l'esistenza abbia importanza per l'evoluzione non ci crede più nessuno. Non ci crederebbe più nemmeno Darwin se vivesse.


Da una lettera inviata il 1° maggio 1936:

In Inghilterra poi, un po' anche per ragione di sentimentalismo nazionale, prendono ancora le parole di Darwin come fatti sicuri.
Invece bisogna riconoscere che dal 1859 a oggi, per merito di Darwin anzitutto, le conoscenze zoologiche hanno fatto grandissimi progressi. Quanto allora sembrava sicuramente documentato oggi non ci sembra più così sicuro. Perciò dobbiamo cercare prove nuove, fatti nuovi. Non si può quindi riesumare la teoria darwiniana senza appoggiarla su fatti nuovi. I fatti vecchi sono stati esaurientemente esaminati e discussi. Di fatti nuovi però finora non se ne vedono.
Al momento attuale l'ultima evoluzione che abbia avuto una sicura dimostrazione sperimentale è quella delle mutazioni. Ma queste non dimostrano l'evoluzione darwiniana.

martedì 6 settembre 2005

Povera scienza, in che mani

Pubblicato su Il Foglio, martedì 6 settembre 2005 :

Cosa pensereste di un volume di storia della letteratura in cui si affermi che la Divina Commedia è stata scritta da Giacomo Leopardi? Ebbene, anche se non è evidente per chi non conosca un po’ di matematica, è una pari castroneria asserire che siano “risolti” i problemi della duplicazione del cubo (costruzione di un cubo di volume doppio di un cubo dato) e della trisezione dell’angolo (divisione di un angolo in tre parti uguali) con riga e compasso: per il semplice motivo che si tratta di problemi insolubili, salvo casi particolari. Eppure questo si legge nella Piccola Enciclopedia delle curiosità scientifiche presentata dal Corriere della Sera con il motto evangelico “Chiedete e vi sarà detto”.
Torniamo al nostro immaginario volume di storia della letteratura che così presenta il Romanticismo: movimento letterario i cui principi sono stati stabiliti da Herder in tre punti: 1) il cuore è tutto e il cervello non è niente; 2) scopo della letteratura è di far piangere il lettore; 3) il Medioevo è l’unica epoca bella della storia. Con un risultato di pari comicità, la nostra enciclopedia scientifica si cimenta con la definizione de “il” metodo scientifico. Questo metodo sarebbe stato introdotto da Galileo, lui solo, il demiurgo della scienza. Insomma, una mattina Galileo, tra un caffè e un cornetto, si disse: “È ora di farla finita con tutta questa confusione: adesso enuncio una volta per tutte il metodo scientifico!”. E lo fece in cinque “fasi”, che forniscono la ricetta con cui la scienza scopre “le sue verità” come una ricetta di cucina insegna a confezionare le melanzane alla parmigiana.
È umiliante ridursi a obiettare cose che dovrebbero far parte del bagaglio minimo di una cultura scientifica: che “il” metodo scientifico non esiste, che la metodologia della scienza è una tematica complessa, che presenta una ricca articolazione storica e innumerevoli approcci; che “il” metodo sperimentale non esiste e che, se pure non si riduce (per dirla con René Thom) a tradizioni locali di laboratorio, non è codificabile in un insieme di regolette. Ed è avvilente che vengano propinati su scala di massa non soltanto errori, ma leggende storiche, come quella secondo cui Galileo, lanciando oggetti dalla torre di Pisa, capì che “una palla di legno e una di piombo cadono esattamente allo stesso modo” e quindi che l’accelerazione di gravità è la stessa per tutti i corpi. Semplicemente perché una siffatta esperienza l’avrebbe condotto al risultato opposto. L’affermazione che tutti i corpi cadono con velocità uguale riguardava il caso astratto del movimento nel vuoto, che non esiste in natura (tantomeno attorno alla torre di Pisa) e che esprime una situazione ideale. Perciò, è pietoso raffigurare Galileo che lancia palle dalla torre di Pisa, un’esperienza che, come disse Alexandre Koyré, egli “non ha mai fatto e neppure immaginato”. Ed è parimenti assurdo asserire che Galileo “notò” che se su un corpo non agiscono forze esso “continua a muoversi di moto rettilineo uniforme”: per il semplice motivo che una simile situazione nessuno potrà notarla mai, ma soltanto pensarla come un caso ideale. Proprio così lo pensò Galileo (che peraltro abbozzò un principio d’inerzia per moti circolari e non rettilinei). Ed è diseducativo non trasmettere l’idea più importante, e cioè che la caratteristica della scienza moderna è l’aver rovesciato l’approccio aristotelico. Quest’ultimo parte dalla mera osservazione dei fatti: procede dalla fisica verso la metafisica. Al contrario, la scienza del Seicento assume come fondamento un complesso di astrazioni matematiche e tramite queste analizza i fatti: dalla metafisica si procede verso la fisica.
A questo punto chiediamoci: perché mai le scienze naturali e matematiche e la loro divulgazione meritano trattamenti che non sono considerati ammissibili per le scienze umane, per quanto grande sia il degrado culturale complessivo? Prima di tentare una risposta vogliamo dissipare nel lettore il sospetto che i casi citati siano punte patologiche isolate. Purtroppo, con l’eccezione di pochi casi – come quello di un maestro della divulgazione scientifica come Franco Prattico – il panorama è desolante. Qualche esempio ulteriore servirà di conferma e a decostruire i connotati ideologici di questa débacle culturale.
Consideriamo la pagina del Corriere della Sera (11 agosto) dal titolo: “Scoperto il mistero dei numeri primi”. I numeri primi sono quei numeri divisibili soltanto per 1 e se stessi, come 1, 2, 3, 5, 7, 11, ecc. Esiste una legge che governa la distribuzione dei numeri primi? Questo è il “mistero”, perché una legge siffatta nessuno l’ha mai trovata. Il guaio è che i tre matematici indiani di cui parla l’articolo non l’hanno trovata neppure loro e quindi il titolo è un inganno: il mistero non è stato svelato. È stato soltanto escogitato un nuovo algoritmo per scoprire nuovi numeri primi. Un algoritmo è un metodo di calcolo numerico e non una “formula”, come dice erroneamente l’articolo: se possedessimo la formula dei numeri primi, allora sì che il mistero sarebbe svelato. L’articolo prosegue introducendo il lato più intrigante: e cioè che l’algoritmo è segreto perché i numeri primi hanno applicazioni cruciali in crittografia, nella codificazione segreta della comunicazione. Una buona divulgazione suggerirebbe di tentare una spiegazione di quest’aspetto e di lasciar perdere l’algoritmo, tanto più che è segreto… Ebbene no: cosa c’entrino i numeri primi con la crittografia resta per il lettore un assoluto mistero, mentre per l’algoritmo si fa quel che non si dovrebbe mai fare e cioè brandire termini incomprensibili del gergo tecnico, senza neppure fornire gli strumenti per capirli attraverso letture di approfondimento. Cosa potrà mai dire al lettore l’espressione “metodo di classe polinomiale”? Insomma, un’intera pagina di giornale per trasmettere un paio di idee sbagliate assortite di un paio di concetti incomprensibili.
L’esempio delle costruzioni con riga e compasso, citato all’inizio, richiama alla mente il paginone che, un anno fa, La Repubblica dedicò al caso di un oscuro matematico libanese che, da 10 anni per 15 ore al giorno, si adopera a dimostrare l’indimostrabile: il quinto postulato di Euclide (“per un punto esterno a una retta passa una ed una sola parallela”). L’articolo non raccontava questa vicenda come si farebbe parlando dello stravagante di turno che proclama di aver ottenuto il moto perpetuo, ovvero l’energia infinita a costo zero. No, il caso veniva preso sul serio. E veniva raccontata senza ironia la richiesta che il matematico libanese aveva avanzato alle maggiori accademie scientifiche europee di riconoscere i suoi risultati e bandire per sempre dalla scienza e dai testi le geometrie non euclidee (quelle che non suppongono la validità del quinto postulato, come la geometria della relatività einsteiniana). Geometrie “ispiratrici del caos”, secondo il nostro, la cui faccia, quando ne parlava, “si scomponeva per il disgusto di una visione infetta, anarchica e atea” che sopprime il “linguaggio eterno che collega Dio all’uomo”.
Come mai il più diffuso quotidiano nazionale ha potuto dedicare una pagina a una simile penosa faccenda senza che nessuno dei tanti paladini della scienza, atei e laici, pronti a insorgere contro il fanatismo teologico-religioso e le sopraffazioni del libero pensiero, abbia protestato? Sarà forse perché si trattava di un matematico libanese che si ergeva a mani nude contro la prepotenza delle accademie “occidentali”? Siamo troppo maligni nel pensare che concetti analoghi avrebbero avuto ben altra accoglienza se espressi da un vescovo cattolico, da un pastore evangelico o da un rabbino? Ma il tema dell’“odio di sé”, e delle deroghe che provoca nella difesa della scienza, meriterebbe un trattamento a parte.
Sempre in tema di ideologia, è interessante notare quali passioni susciti la difesa del darwinismo. Si legga, ad esempio, l’articolo di Vittorio Zucconi (La Repubblica del 24 agosto) dal titolo “Tutti contro Charles Darwin, l’America si scopre “neo creo””. Zucconi dispensa due mistificazioni che sono ormai moneta corrente: la prima è che la teoria dell’evoluzione in gioco oggi sia quella di Charles Darwin; la seconda è che sia in atto uno scontro tra scienza e fede, tra una teoria scientifica provata e le prime pagine della Genesi. Identificare la teoria dell’evoluzione con Darwin è una castroneria peggiore dell’identificazione di Galileo con il metodo scientifico. E non soltanto perché esistono molte teorie dell’evoluzione ma perché la teoria darwiniana in senso stretto è morta e seppellita da ormai da cent’anni, fin da quando le sue numerose e gravi falle condussero quasi tutta la comunità scientifica a rigettarla. L’orientamento largamente prevalente fu che, sebbene l’ipotesi evolutiva rimanesse in campo, nessuno poteva seriamente dichiararsi “darwiniano”. Anche il “principio dell’esclusione competitiva” non ha trovato alcuna dimostrazione, al livello dei sistemi biologici macroscopici, per non dire di quelli sociali, ed è possibile costruire modelli matematici con cui esso può essere convalidato e falsificato a piacimento.
Il recupero del principio evolutivo darwiniano è avvenuto attraverso la teoria mendeliana e la creazione della cosiddetta teoria “sintetica” dell’evoluzione. Ma se la teoria sintetica ha risposto efficacemente ai problemi dell’evoluzione “in piccolo”, il problema dell’evoluzione in grande, ovvero sulla scala storica, resta in tutta la sua complessità e la difficoltà irrisolta è il raccordo tra i due aspetti, cioè la dimostrazione che i cambiamenti indotti dalla microevoluzione siano responsabili del processo evolutivo in grande. Lasciar credere che queste difficoltà siano piccole pecche o “vuoti presenti nella formula [sic] evolutiva” o un’abile strategia di attacco dei creazionisti che “costringono gli evoluzionisti a difendere quello che fino a pochi anni or sono era pacifico”, è una mistificazione. Non si trattava affatto di teorie “pacifiche”, anche molto prima che venissero alla ribalta i “neo creo”. Ne è la riprova il succedersi di diversi tentativi di riparare le falle (e non vuoti) della teoria, come l’ipotesi dell’evoluzione discontinua avanzata da Stephen J. Gould e che tuttavia non è riuscita a creare unanimità fra gli studiosi. E ne è prova ancor più evidente il fatto che la grande maggioranza dei paleontologi – coloro che dovrebbero fornire le prove empiriche per eccellenza della teoria evolutiva – è stata da sempre diffidente o reticente e in parecchi casi apertamente contraria alla teoria sintetica. Siamo pertanto in presenza di un dibattito scientifico su una questione aperta, attorno a una teoria che non è “pacifica”, bensì traballante sia sul piano concettuale che sul piano empirico; per cui un atteggiamento scientifico e razionale consiste nel partire dalla constatazione di una situazione di profonda incertezza, e nell’esporre lo stato delle conoscenze nella sua realtà effettiva e non secondo un “wishful thinking”. È ovvio che le falle della teoria dell’evoluzione non autorizzano a concludere circa la validità di una tesi creazionista. Ma non autorizzano neppure ad assumere la posizione simmetrica, ovvero a parlare di “revanscismo teocratico mimetizzato da alternativa scientifica”, di costruire l’inaccettabile immagine di una contrapposizione, per cui da un lato vi sarebbero le persone serie, razionali, illuminate, i veri scienziati, dall’altro i ciarlatani, i fanatici, gli oscurantisti e i falsi scienziati. Del resto, che sia un giornalista privo di competenza specifica ad arrogarsi il diritto di decidere cosa sia scienza e cosa non lo sia, chi sia scienziato vero e chi millantatore, la dice lunga sul carattere ideologico e oscurantista di questa battaglia condotta addirittura in nome della ragione.
Potremmo continuare con gli esempi. Una larga messe ci viene fornita da quella che viene chiamata la “gene-for sindrome”, ovvero la tendenza a ricercare il gene determinante di ogni fenomeno concernente gli esseri umani: il gene della gelosia, il gene della paura, il gene della timidità, e così via. Un delirio anche questo puramente ideologico, espressione di una frenesia materialistica, visto che il principio secondo cui “tutto è genetico” non ha alcun fondamento. Del resto, che ad ogni evento “mentale” sia inevitabilmente associato un evento “materiale” non implica affatto il carattere determinante del secondo rispetto al primo. Tanto più avrebbe dovuto suscitare interesse l’esperimento – raccontato in un articolo di buon livello su Repubblica (24 agosto) – condotto da un’équipe di scienziati statunitensi su un gruppo di volontari sottoposti a stimoli dolorosi e curati con dei placebo. La tomografia a emissione di positroni ha dimostrato che il cervello ha reagito producendo endorfine, ovvero sostanze chimiche che bloccano il dolore. Il leader dell’équipe ha correttamente osservato che questo risultato getta un ponte tra aspetto psicologico e aspetto organico, e mostra come una sensazione psicologica – l’illusione del beneficio del farmaco – scateni un meccanismo chimico. Tanto più bizzarra appare allora l’osservazione dello studioso secondo cui lo studio sarebbe “un serio colpo all’idea che l’effetto placebo sia un fenomeno psicologico e non anche fisico” e timidamente avvallata dal divulgatore con l’affermazione: “niente autosuggestione: è un meccanismo chimico a far guarire i pazienti”. Ma quale differenza vi sarebbe tra illusione e autosuggestione? L’aspetto più interessante non è proprio che il meccanismo chimico sia “scatenato” da un processo psicologico? E quale persona dotata di un minimo di raziocinio potrebbe mai sostenere il carattere totalmente e isolatamente psicologico di un fenomeno che induce un effetto fisico? In realtà, un simile pasticcio concettuale è frutto del freno ideologico che impedisce di dire a chiare note che l’esperimento costituisce una confutazione del materialismo.
Facciamo il punto sulla casistica che abbiamo esaminato. Pur senza indulgere alla ricostruzione razionale forzata di un quadro unitario, alcuni aspetti emergono con sorprendente persistenza. In primo luogo, l’immagine della scienza, che è vista come un metodo che dispensa certezze, sotto forma di sentenze apodittiche. Le diverse concezioni del mondo, le visioni filosofiche non entrano mai in gioco in questo processo, che quindi è indipendente da ogni altra forma di conoscenza. Anzi, la specificità della scienza implica la sua separatezza dalla cultura, perché l’assenza del dubbio critico la divide da tutto il “resto”. È una visione che mira alla formazione, per usare le parole del fisico-matematico Clifford Truesdell, di “un proletariato intellettuale che presta al fanatismo della scienza una credulità superiore a quella del contadino medioevale verso il suo parroco”. È funzionale a questo scopo la presentazione dei concetti e dei metodi della scienza in una forma semplificata e stereotipata, che non stimola lo spirito critico, bensì una pura e semplice fede che si pretende sostitutiva di quella religiosa: “Chiedete e vi sarà detto”. Perciò, alla larga da ogni tentazione di far percepire la complessità del metodo scientifico: esso viene ridotto a un ricettario, a un prontuario, a un manuale di istruzioni. Tutti sanno che i manuali di istruzioni degli apparecchi sono incomprensibili. Tuttavia, nessuno usa un manuale di un apparecchio per capire o porsi domande circa i principi del suo funzionamento, ma soltanto per applicarne in modo efficace le prescrizioni. Tale è l’idea della scienza che ci trasmette questa divulgazione. Naturale complemento di una simile visione è la presentazione esaltata e trionfalistica delle conquiste scientifiche e, in particolare, di un progresso tecnologico senza limiti, capace di risolvere ogni problema e di costruire un paradiso materiale in cui ogni inquietudine ed esigenza spirituale e morale si trasforma in un problema materiale “risolubile”. Insomma, nella divulgazione corrente, la scienza diventa l’espressione suprema dell’ethos della società industriale e il baluardo di un’ideologia materialista, antireligiosa e pragmatistica.
Non c’è dubbio che il risultato del referendum sulla procreazione assistita e le polemiche sul relativismo, anziché suscitare riflessioni critiche, hanno convinto più d’uno che l’Italia è un paese malato di incultura scientifica e che deve essere curato con un trattamento massiccio di inni alla scienza. Di qui un atteggiamento “militante” che si è espresso in due forme assolutamente contraddittorie: da un lato il crescente esplodere della divulgazione trionfalistica di cui si è fin qui parlato; d’altro lato, la tesi secondo cui il relativismo sarebbe l’essenza stessa del metodo scientifico. Conviene sottolineare schematicamente, alcuni punti.
1) La scienza classica non ha nulla a che fare con il relativismo. Essa nasce al contrario come un progetto di acquisizione progressiva di verità. Per dirla con Jacques Monod, l’asse portante della scienza è il principio di oggettività. La scienza ricerca “leggi”e non opinioni.
2) Ciò non implica affatto che le acquisizioni della scienza siano verità assolute. Esse sono asserti continuamente rivedibili e perfezionabili. Secondo la visione che da Cusano in poi la scienza ha posto alle sue basi, la verità assoluta non è acquisibile dall’uomo (essere finito e imperfetto) una volta per tutte, bensì è indefinitamente approssimabile con un processo infinito e progressivo. Ma di qui al relativismo corre un abisso, in quanto il relativismo nega la possibilità di stabilire un qualsiasi confronto fra conclusioni o punti di vista diversi e non si limita affatto a negare che esistano verità assolute.
3) Non è un caso che le grandi “crisi” della scienza del primo Novecento siano state vissute come sconfitte e non come il trionfo dello spirito critico. È altrettanto indubbio che l’ottimismo “classico” non sia stato più ripristinato. Ma la conseguenza di ciò è stata una progressiva separazione tra scienza e tecnologia che ha prodotto gli sviluppi tecnoscientifici attuali, marcatamente caratterizzati da tendenze antiteoriche e pragmatistiche che è lecito criticare come l’ingresso di una vera e propria forma di relativismo nella scienza. Si tratta di sviluppi considerati inquietanti anche da una parte consistente della comunità scientifica. Inoltre, la tendenza a ridurre la scienza a un’attività di “problem solving” pone una barriera fra essa e le altre forme di attività intellettuale, negandole un ruolo culturale. Difatti, come potrebbe ambire una forma di razionalità “ridotta” come il “problem solving” a rappresentare il problema della “razionalità” in generale?
In conclusione, se l’immagine della scienza proposta dalla divulgazione dominante rappresenta un vacuo esercizio retorico, l’idea di rispondere alla critica antirelativista presentando la scienza come espressione del relativismo – di cui si fa portavoce Giulio Giorello – è priva di qualsiasi fondamento. Colpisce al riguardo che un intellettuale avvertito come Michele Salvati, mentre giustamente invita Giorello a prestare maggior attenzione alle “critiche non banali”, prenda per oro colato l’idea che il relativismo – confuso con il “rifiuto di verità rivelate e indiscutibili” – coincida con “la grande tradizione laica e scientifica dell’Occidente”. Se questi sono i risultati della campagna militante in difesa della razionalità scientifica, stiamo freschi – o meglio, stanno freschi i protagonisti di tale campagna.
La situazione si fa particolarmente penosa quando i fautori della tesi “scienza = relativismo”, per non disunire il fronte dei “difensori della ragione”, avvallano o cavalcano la divulgazione fideistica e sgangherata. Perché allora l’immagine che viene alla mente è quella di chi cavalchi un ronzino, facendo finta che sia un destriero e di non vedere che, mentre lui sguaina la spada invitando alla carica da un lato, quello se ne va dal lato opposto.


Giorgio Israel