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mercoledì 18 gennaio 2006

Ebrei e sinistra: una risposta a Clara Sereni

È ora che si discolpi Golia


Da qualche tempo provo l’impulso a rigurgitare ricordi. Mi si perdoni il verbo volgare, ma è proprio quello che descrive perfettamente la situazione. Ad esempio, mi è successo recentemente, a proposito di un dibattito sulla rivista “Primato”. Ho visto giustificare con supponenza una marmaglia di opportunisti che, dopo essersi sporcata con le peggiori compromissioni nella politica razziale fascista, era stata lavata alla candeggina dall’amnistia togliattiana, quindi assurta a gotha dell’intellettualità e di nuovo oggi esaltata come crema della cultura italiana. E mi è tornata in mente la memoria di tante persone di ben altra levatura intellettuale massacrate da quei personaggi e dal cinismo con cui è stata traghettata la classe dirigente di questo paese. I ricordi possono stare fermi sul fondo in nome del sano desiderio di vivere nel presente e per il futuro. Ma se qualcuno ti ripropone una menzogna che, per giunta, offende di nuovo gli offesi, allora i ricordi rigurgitano. Così mi è tornato in mente il caso di un illustre professore intellettuale antifascista e comunista che non trovò di meglio che assolvere l’ex Capo dell’Ufficio Razza del Minculpop col dire che era tanto bravo a trovar soldi.
Quello era un piccolo campione di ricordi assopiti. Ne usciranno fuori altri? Dopo aver letto l’intervento di Clara Sereni su L’Unità – “La colpa di essere Ebrea” – temo proprio che non soltanto ciò possa accadere, ma che ciò debba accadere, per una sorta di dovere civile ed etico.
Ho molta simpatia per Clara Sereni, anche se non la conosco di persona. Ci accomunano non soltanto la generazione e il tipo di esperienze, ma ricordi comuni. Mio padre era grande amico di Enrico Sereni, suo zio, e della sua famiglia che frequentava assiduamente da giovane, e tante tante volte ho sentito racconti da lui al riguardo. Ricordo, ad esempio, quando mi raccontava di Emilio Sereni che, da molto giovane e prima di diventare fervente comunista, era non soltanto sionista ma credente, girava per casa con la kippà e il libro di preghiere in mano. Evoco questo ricordo perché porta al tema che è al centro dell’intervento di Clara Sereni: la difficoltà di conciliare un’identità ebraica con una militanza comunista. È un problema che hanno vissuto tutti i dirigenti comunisti che non hanno accettato di sopprimere totalmente ogni legame con la loro identità ebraica, come fu il caso di Umberto Terracini. Nella mia modesta esperienza l’ho vissuto anch’io per lunghi anni ed è chiaro che Clara Sereni lo vive ancora e con tormento.
Nel suo intervento Clara Sereni denuncia due episodi che l’hanno ferita – e quanto duramente è facile capire da come ne parla! – l’uno pubblico e l’altro privato: essere stata presentata a una tavola rotonda della CGIL come “ebrea e scrittrice” e l’aver dovuto ascoltare, durante un pranzo di compleanno di amici di sinistra, espressioni di vero e proprio pregiudizio antiebraico.
Capisco il suo turbamento e le esprimo la mia solidarietà. Ma mi chiedo: delle due l’una, o il livello di pregiudizio antiebraico ha raggiunto nella sinistra livelli esplosivi, oppure Clara Sereni è in stato di catalessi da qualche decennio. Precisamente dal 1967, da quasi quarant’anni.
Non dico che già prima non vi fossero aspetti a dir poco equivoci nell’atteggiamento del movimento comunista nei confronti della questione ebraica. Al contrario, tutto nasce di lì. Valga per tutti il silenzio attorno alle politiche razziali fasciste, attorno alla “congiura dei medici ebrei” inventata da Stalin o la complicità nel caso Slansky. Anzi, il recente dibattito sull’amnistia togliattiana mi induce a ritenere che vi sia un terreno ancora tutto da scavare. Ma è innegabile che, fino al 1967 – alla Guerra dei Sei Giorni e alla rottura totale dell’URSS nei confronti di Israele – aveva prevalso un linguaggio, a suo modo, “politically correct”. Quando, nel 1967, inviammo in molti a L’Unità una lettera di protesta per la scelta israeliana, la risposta privata del direttore Maurizio Ferrara fu dura e negativa, e tuttavia, anche oggi, non mi è dato leggervi una sbavatura fuori dal terreno prettamente politico.
Da quel momento le cose iniziarono a prendere una piega sempre più brutta. Lasciamo perdere l’analisi storico-politica e consentiamoci un piccolo rigurgito, il ricordo di un episodio analogo a quello narrato da Clara Sereni. Era la fine degli anni settanta, ed ero in vacanza nel paesino di Ginostra (isola di Stromboli), che ero fra i primissimi ad aver scoperto, portandovi gruppi di amici di sinistra, che poi si ampliarono esponenzialmente fino a trasformarlo in un affollato luogo di vacanza militante. Scenario: una cena di una ventina di ragazzi sessantottini sul terrazzo di una tipica casetta cubica bianca, nel buio illuminato da qualche lampada a petrolio. A un certo punto, tra una chiacchiera e l’altra, un “compagno” toscano prorompe in un’invettiva violentissima contro gli ebrei: capitalisti, sanguisughe, imperialisti, assassini del proletariato, e chi più ne ha più ne metta. Reagisco indignato, definendo il suo linguaggio come fascista e razzista, certo di trovare ampia solidarietà, e… sorpresa… mi trovo nell’isolamento più assoluto. Nessuno mi difende, nemmeno i più cari amici. Anzi, la mia reazione viene condannata come spropositata. Alla fine, scornato e umiliato, abbandono polemicamente la compagnia e vado via da solo, sul sentiero buio con la torcia, seguito soltanto dalla mia fidanzata, verso la nostra casetta, dove più tardi vengo raggiunto dagli amici. Costoro non trovano di meglio che sottopormi a un processo tra la psicanalisi e la politica, mettendo sotto accusa il mio attaccamento “morboso” alle radici ebraiche che non mi permette di assumere il necessario “distacco”, e di ammettere con “oggettiva serenità” le colpe che gli ebrei indiscutibilmente hanno sullo scenario del mondo. Cerco disperatamente la solidarietà di un giovane “compagno” tedesco che risponde freddamente: «Noi tedeschi abbiamo fatto cose troppo brutte agli ebrei perché io possa dire liberamente quel che penso». Coro trionfale: «Hai visto!».
Potrei raccontare tanti altri episodi del genere, pranzi e cene come quelle di Clara Sereni, a suon di «Come mai voi ebrei siete quasi tutti commercianti?». Sarà per un’altra volta. Per ora mi limito a dire che l’episodio di cui sopra mi servì a capire una volta per tutte una cosa: che potevo scegliere di restare nella sinistra comunista o uscirne ma, qualsiasi cosa avessi fatto, ai razzisti e agli antisemiti occorreva rispondere soltanto con un calcio – ovviamente verbale – nei denti e, se non basta, nel sedere. È l’unica pedagogia che può svegliare la coscienza di coloro che sono in buona fede. Ed è l’unico modo di salvare la propria dignità e integrità, la verità e la giustizia. Quel che certamente avevo appreso è che non è possibile lasciarsi colpevolizzare, subire la richiesta inaudita di dover fare un atto di discolpa. L’ha capito questo Clara Sereni? Non pare, visto che dice: «come tante altre volte, ho dovuto, come ebrea, fare il mio “Radames, discolpati”». “Tante” altre volte? L’ha fatto tante altre volte, e l’ha rifatto ancora questa volta senza trovare innaturale assoggettarsi a un simile infame ricatto?
Per parte mia, il decennio abbondante di militanza comunista che seguì all’episodio ginostriano – e che fu tutt’altro che facile – terminò proprio quando venne l’epoca delle richieste pubbliche di discolpa. Se ne ricorda, Clara Sereni? Fu l’epoca della guerra del Libano, nel 1982, quando a sinistra si chiedeva e richiedeva a gran voce agli ebrei di tutto il mondo di dissociarsi da Israele e di ottenere un salvacondotto di rispettabilità attraverso una condanna del governo Begin. Rosellina Balbi denunciò con forza questa intollerabile pretesa in un memorabile articolo su La Repubblica: “Davide discolpati”. Altro che Radames… Fu un periodo cupo. Le umilianti giaculatorie di un certo numero di ebrei di sinistra non servivano a placare le arroganti richieste di dissociazione. E a forza di fomentare l’odio venne l’evento nefando: nel corso di un corteo dei tre sindacati confederali venne deposta una bara davanti al Tempio maggiore di Roma. E, infine, in questo clima di sordida ostilità, il terrorismo palestinese prese il coraggio di compiere l’assalto armato al Tempio che vide l’uccisione del piccolo Stefano Taché.
A ventiquattro anni di distanza ancora Clara Sereni non ha assimilato quella lezione e accetta di sottoporsi alla pratica umiliante della “discolpa”? Occorre forse rispiegare perché non dovrebbe? Non discuto il suo legittimo diritto di continuare ad essere comunista e di difendere l’attualità di Marx (il che mi fa venire in mente quanto diceva nel 1989 il mio amico scrittore Alberto Lecco: «Il comunismo è finito? Vedrete… Comincia adesso…). Non discuto la legittimità dei suoi giudizi su Israele e sulla questione palestinese. Siamo su posizioni diversissime, ma questo è irrilevante. Appunto: che c’entra? Perché mai, per conquistarmi il diritto a non essere afflitto da tirate antisemite, debbo fare una fede di professione comunista, antisionista, filopalestinese e dimostrare di essere un “ebreo buono”? Insomma, perché, per non essere colpito dal razzismo, debbo legittimare il razzismo? Non si rende conto Clara Sereni che questo è esattamente l’atteggiamento umiliato e umiliante che assunsero gli ebrei “camerati” del gruppo torinese de La Nostra Bandiera negli anni trenta, che, con le loro sviscerate professioni di fede fascista (peraltro perfettamente sincere!) speravano di esorcizzare il montante antisemitismo del regime e persino le leggi razziali? Perché Clara Sereni si sottopone a questi avvilenti ricatti tipici di ogni forma di totalitarismo? Non si rende conto che, se c’è ancora gente che non si vergogna di chiedere queste discolpe, e non si avvilisce a vederle fare, aveva ben ragione Alberto Lecco: il comunismo, quello stalinista cattivo, è vivo ed è fra di noi.
A ventiquattro anni dalla campagna “Davide, discolpati”, Clara Sereni, invece di continuare a sottoporsi al ricatto, a “giustificarsi di essere ebrea”, a lasciarsi brutalizzare neanche più nelle vesti di David ma in quelle di Radames, dovrebbe intimare ai Golia razzisti: discolpatevi voi della vostra infamia, e vergognatevi, se ne siete capaci.
Tutto il suo intervento è intriso di patetiche illusioni. Si può davvero credere di ammorbidire i cattivi ripetendo la solita giaculatoria anti-sharoniana (“la politica del governo Berlusconi ha spiaccicato ebrei e Italia sulla politica di Sharon”). Che senso ha, mentre mezzo mondo ha fatto ammenda dei luoghi comuni su Sharon, continuare con la tiritera su Sharon boia? E perché mai la mossa di apertura verso Israele del ministro degli esteri Fini sarebbe stata efficace ma “scorrettissima”? Dove sta la scorrettezza? Nel non essere rimasto fedele a un’ortodossia fascista? Perché bisogna dire delle cose senza senso per non lasciar dubbi sulla propria ortodossia di sinistra?
Infine, forse l’illusione più patetica è tentare di convincere la sinistra a voler bene agli ebrei, per non regalarli alla destra e perdere le elezioni. Gli ebrei sono quattro gatti, ammette Clara Sereni, ma le elezioni si vinceranno per pochi voti, e quelli ebraici potrebbero essere decisivi. Ora, posto che su 30.000 ebrei non sono pochi quelli che voteranno per il centro-destra, quale sarebbe lo spostamento possibile:1000 o 1500 voti? E la sinistra, se non ci sta a voler bene agli ebrei per intima convinzione, dovrebbe mostrarsi benevola per l’opportunità di non perdere quel migliaio di voti? Me le immagino le sghignazzate dei commensali antisemiti di Clara Sereni… Peraltro, dopo aver fatto ricorso a un simile argomento, l’unica risorsa disponibile sarebbe mettersi in ginocchio e supplicare piangendo.
Capisco perfettamente l’ansia di Clara Sereni di perdere il rapporto con la sinistra, il suo attaccamento alla sua identità progressista. Ma la domanda è: qual è il modo più costruttivo e dignitoso per mantenere un rapporto autentico e realmente proficuo con quel mondo?
Per rispondere vorrei tornare a quel lontano 1982. Dopo la deposizione della bara davanti al Tempio maggiore di Roma, lo scandalo che ne seguì fu aggravato dalla reticenza delle dirigenze sindacali e, in particolare, dall’atteggiamento a dir poco ambiguo dell’allora segretario della CGIL Luciano Lama. Per me e per tanti altri fu la goccia che fece traboccare il vaso. Scrissi una lettera di sette pagine contro Lama che, in tutto o in parte, fu pubblicata da parecchi giornali e, con altri, promossi un appello che fu pubblicato su Repubblica col titolo “Lama e gli ebrei”. Ciò mi costò l’ostracismo di tanti ex-compagni. L’avviso venne da alto loco e fu perentorio: se non si ritira la lettera e l’appello la rottura è totale. Ancor oggi c’è gente che attraversa la strada se mi vede arrivare sullo stesso marciapiede. E appena qualche anno fa, quando raccontai queste vicende nel libro “La questione ebraica oggi”, venne fuori qualche maggiordomo della memoria di Lama a sostenere che quel che dicevo era falso, che Lama si era al contrario adoperato a condannare l’atto della deposizione della bara, che non aveva mai detto nulla di lontanamente equivoco. Insomma, ero io il fazioso, il rissoso e il calunniatore e il povero Lama era il crociato in difesa degli ebrei. Da non potersi credere. Riandai a leggermi l’appello pubblicato su La Repubblica pensando di essere ormai in preda all’Alzheimer. Diceva una cosa durissima: che il commento di Lama era «reticente e tale da offrire copertura [sic!] a quanti si sono resi responsabili di quegli atti», che erano definiti senza mezzi termini «neonazisti» e non accidentali bensì «pensati e organizzati». E sapete quali firme c’erano in calce a quell’appello? Fra le altre, quelle di noti proto-berlusconiani come Massimo Cacciari, Aniello Coppola, Giacomo Marramao, Claudio Pavone, Mario Pirani, Beniamino Placido, Luigi Spaventa. Eppure, nel 2002, ero diventato io l’unico cattivo e fazioso. Una tecnica arcinota e collaudata, quella della demonizzazione e dell’isolamento del reprobo, codificata dall’immortale maestro Josif Vissarionovic Dugasvili.
Ciò detto, ho forse perso qualcosa agendo in questo modo? Non credo proprio. Che perdita è mai quella della finta amicizia di gente di quella fatta? Era meglio non perdere il saluto dell’allora segretario della sezione universitaria del PCI (che ancora fa finta di non conoscermi) oppure sentirsi riconoscere pubblicamente da Piero Fassino che la mia “furia iconoclasta” è servita a stimolare riflessioni utili e costruttive? Era meglio tenersi buoni gli intellettuali che parlano di razza ebraica, o stabilire un dialogo fertile e costruttivo con persone come Giuseppe Caldarola e Umberto Ranieri? Esiste e cresce una sinistra aperta, attenta e senza pregiudizi sulla questione israeliana e sulla questione ebraica. Con questa bisogna parlare e non amareggiarsi i pranzi con la gentaglia: esistono pur sempre le porte per andarsene e ottimi ristoranti. Cara Clara Sereni, chi cova i pregiudizi di cui lei racconta non è certamente una persona “per bene” e, se è “di sinistra”, non cambia nulla: a destra e a sinistra i razzisti sono la stessa pasta di mascalzoni.
So bene quanto certi percorsi siano difficili e tortuosi. Sono l’ultimo a pretendere di giudicare, tanto meno di condannare. Ma ogni percorso nel deserto deve prima o poi finire nella terra promessa. Che è quella in cui si vive con una coscienza libera e, tra il partito-che-rappresenta-il-destino-storico e la verità, si sceglie la verità.

Giorgio Israel

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Questo è l'intervento di Clara Sereni su L'Unità del 16 gennaio 2006:

La colpa di essere Ebrea
di Clara Sereni

C'è una gran voglia di semplificare, nel mondo. 
Anche nel nostro mondo, il mondo della sinistra che in altri tempi aveva
assunto il paradigma della complessità come strategia per interpretare la
realtà e modificarla.

La caduta delle ideologie ci ha privato delle griglie di lettura che (nel
bene e nel male) a lungo ci hanno indicato la via.
Per prendere posizione nei confronti di avvenimenti via via più articolati e
ricchi di addentellati abbiamo ogni volta poco tempo: poco tempo per
pensare, per riflettere, per collegare gli eventi, per ripensare la storia.
Poco tempo per discernere, nella marea di informazioni da cui siamo
sommersi, quelle attendibili, importanti, utili. Gli avversari ci incalzano,
spesso con brutalità, e allora scattano l'arroccamento, l'autodifesa
istintiva e cieca, la scelta della prima soluzione disponibile.
Ho in mente tanti degli eventi di questi giorni, evidentemente, e l'amarezza
preoccupata riguarda più aspetti della scena politica. Se ho deciso di
intervenire, però, è perché con questi aspetti di semplificazione mi sono
scontrata due volte, nell'arco di pochi giorni, rimanendone ferita,
umiliata, e soprattutto preoccupata: e se ne parlo non è perché voglio
riscattarmi da «un'offesa», non è per ragioni personali, ma proprio perché
penso si tratti di qualcosa che va oltre, e che per questo deve preoccupare
non solo me.

Due situazioni diverse, una privata e una pubblica. Nella prima un pranzo
di compleanno, tutta gente di sinistra e per bene, su questo non ho il
minimo dubbio mi sono trovata di fronte a tutti i più banali pregiudizi
nei confronti degli ebrei: la lobby ebraica che governa le banche mondiali,
gli ebrei che sono più intelligenti delle altre «razze», la chiusura a chi
non nasce ebreo perché non ci si può convertire, la nascita dello Stato
d'Israele per volontà imperialistica esclusiva degli Stati Uniti, e
quant'altro. Tutte quelle cose che spererei chi mi legge conoscesse bene, ma
se le scrivo è perché non è che poi ne sia tanto sicura. Come corollario, la
dichiarazione del mio interlocutore che, come ogni uomo di sinistra che si
rispetti, di fronte alla contrapposizione fra oppressi e oppressori, cioè
fra palestinesi e israeliani, la scelta non poteva essere che a favore degli
oppressi. Contro gli oppressori.

Come tante altre volte, ho dovuto, da ebrea, fare il mio «Radames
discolpati». Ho dovuto precisare che sono in disaccordo con la quasi
totalità della politica del governo di Israele, anche rispetto alle modalità
del ritiro da Gaza. Ho dovuto ricordare che sono comunista malgrado
l'ammainabandiera sul Cremlino, nel senso che il mio bisogno di giustizia
sociale e di riscatto degli umili e degli oppressi non si è esaurito nel
1989. Ho ribattuto, ho fornito informazioni e precisazioni. Ho spiegato e
rispiegato che non si aiuta il popolo palestinese, e la costituzione di uno
suo Stato degno di questo nome, facendo pendere dalla sua parte la bilancia
della sofferenza: se facciamo i conti di chi soffre di più, di chi patisce
maggiormente per i propri sradicamenti, la gara è a perdere. Gli ebrei sono
stati sradicati dall'Europa, i palestinesi dalla Palestina, ma anche i
coloni che oggi lasciano (per ottime ragioni!) gli insediamenti, sono a loro
volta degli sradicati. Le ragioni degli uni non sono necessariamente o del
tutto i torti degli altri: in quanto esseri umani, singoli, persone. Persone
che hanno sofferto e continuano a soffrire. Ho detto che le emozioni non
aiutano nessuno a sciogliere nodi che sono complessi: ci vuole la politica,
cioè una razionalità accorta, attenta, in grado di soccorrere gli uni e gli
altri in un cammino per tutti difficile. Questo è il compito che l'Italia,
l'Europa, il centrosinistra potrebbero proficuamente svolgere: portare la
ragione là dove i sentimenti rischiano di travolgere ogni possibilità di
soluzione.

In tutte queste argomentazioni, gli altri commensali mi hanno sostenuto,
hanno integrato le informazioni che fornivo, insomma li ho sentiti accanto a
me in quel tenere insieme la complessità che costa tanta fatica.
È stata una lunga discussione, a conclusione della quale il mio
interlocutore era attraversato da qualche dubbio, da qualche resipiscenza. E
questo mi aveva un po' consolato della durezza dello scontro, dell'ignoranza
sostanzialmente razzista con cui avevo avuto a che fare. Del resto, non sono
di quelli che vedono in ogni critica allo Stato di Israele un atto di
antisemitismo, visto anche che io per prima lo critico, e mi ero messa in
qualche modo tranquilla: benché le critiche delle lettere all'Unità
all'articolo «informativo» di Furio Colombo sul boicottaggio ad Israele, in
misura eccessiva astiose veementi e chiuse in trincea, mi avessero lasciato
un amaro in bocca non del tutto smaltito.
Poi mi hanno chiamata a partecipare ad una tavola rotonda sulla guerra e la
pace nell'era della globalizzazione, in uno dei tanti congressi sindacali
nei quali si celebra in questi giorni il centenario della Cgil. Sapevo che
il tema Israele-Palestina sarebbe stato affrontato, mi interessava in realtà
parlare anche di molte altre cose.

Inutile dire quanto valore io attribuisca alla Cgil, che considero fra
l'altro una delle ultime scuole-quadri rimasta alla sinistra: un luogo di
pensiero, oltreché di azione. Inutile dire, anche, che il fatto di essere
invitata in quell'occasione mi aveva lusingato non poco.
Solo che poi, al momento di essere chiamata sul palco, di me hanno detto:
«Clara Sereni, ebrea e scrittrice». Non mi era mai capitato, di essere
presentata così: il turbamento è stato forte. Quando è stato il mio turno,
ho parlato del disagio che provavo, ricollegandolo anche ad un antico e
spiacevole episodio capitatomi anche quella volta in ambito Cgil, in
quel caso nazionale. Sulla questione Israele-Palestina ho insistito, ancora
una volta, sulla necessità di non pesare le sofferenze, di non schierarsi,
ma invece di affiancare i due popoli nel cammino difficilissimo per avere
ciascuno un proprio Stato con pari dignità.

Ho avuto un applauso di sostegno dalla platea, che certamente mi ha
rinfrancato. La tavola rotonda è proseguita, fra l'altro con l'intervento
del rappresentante dell'Autorità Nazionale Palestinese, che ha detto alcune
palesi inesattezze (non dico bugie, ma ci eravamo molto vicini) sulla
questione. E poi si è parlato di molte altre cose.
Tranne il dirigente confederale, che ha liquidato la faccenda dicendo che i
cretini ci sono anche dentro la Cgil, nessuno fra coloro che sedeva alla
tavola rotonda (tutti di sinistra e perbene, senza il minimo dubbio) ha
sentito il bisogno di far rimarcare quanto razzismo profondo ci fosse in
quella definizione che di me era stata data. Nessuno ha messo un qualche
puntino sulle «i» della Storia, presentata in modo così palesemente e
capziosamente impreciso. Nessuno mi ha sostenuto nella richiesta di più
politica, e meno «tifo», rispetto alla questione due popoli/due Stati. Così,
alla fine, il suggerimento forte uscito dall'incontro è stato: schieratevi,
prendete partito, non state tanto lì a sottilizzare. Gli ebrei sono
colpevoli, il popolo palestinese vincerà.
Alla fine, in privato, il segretario provinciale della CGIL mi ha chiesto
scusa, e di questo gli sono grata: ma nessuna voce si è levata pubblicamente
anche soltanto a commentare l'errore, e questo è il punto che considero
grave di tutta la vicenda.
Ne traggo alcune considerazioni, che vi propongo:

1) l'ignoranza regna sovrana, nel senso che sono proprio troppi coloro che
ignorano, non sanno, vanno avanti a orecchio. Qualcosa andrebbe fatto, forse
anche da questo giornale, per mettere organicamente in fila una serie di
informazioni, per imporre la complessità contro le semplificazioni,
inevitabilmente perverse quando toccano temi fortemente sensibili.

2) Il rifiuto della complessità, e il conseguente arroccamento in posizioni
preconcette, non è problema che riguardi soltanto la vicenda
israelo-palestinese: anzi questa è per certi aspetti più circoscrivibile.
Affrontarla potrebbe costituire anche un esempio di scuola per cominciare a
guardare dentro altre questioni, con un'apertura, una disponibilità, una
intelligenza diverse.

3) Apertura, disponibilità, intelligenza sono le precondizioni per
cominciare a costruire i punti di vista nuovi di cui la sinistra e l'intero
Paese hanno drammaticamente bisogno: Marx, a mio avviso, non va
assolutamente messo in soffitta, ma è indubbio che urgono strumenti teorici
nuovi, in grado di interpretare un mondo per il quale le antiche categorie
possono fornire risposte soltanto parziali.

4) La politica del governo Berlusconi, e in particolare quella del ministro
degli esteri Gianfranco Fini, in un sol colpo (scorrettissimo quanto
efficace) ha cancellato le ferite inferte dal fascismo, ha fatto sentire
agli ebrei che il governo era «dalla loro parte», ha spiaccicato ebrei ed
Italia sulla politica di Sharon, confermando il pregiudizio «di sinistra»
secondo il quale, fra palestinesi ed ebrei, la scelta non può essere che a
favore degli uni e contro gli altri. La destra ha scelto Israele e «di
conseguenza» gli ebrei. Gli ebrei italiani sono circa 30.000: pochi,
pochissimi, e anche questa è una nozione che non molti hanno chiara in
mente. Le prossime elezioni si giocheranno probabilmente sui piccoli numeri.
Vogliamo consegnare 30.000 voti alla destra?

5) Personalmente, alla destra non mi consegno di sicuro. Ma vorrei non
dovermi più giustificare di essere ebrea.
Vorrei non dovermi discolpare delle mie opinioni. Vorrei che la mia
specificità di ebrea, insieme alle altre (donna, comunista, madre
handicappata, intellettuale), trovasse un'accoglienza più competente nella
casa comune della sinistra, e non sentirmi mai più ospite, certe volte
gradita e certe volte no.

lunedì 9 gennaio 2006

Un commento al botta e risposta con Messori

La mia risposta a Messori è stata improntata a massima cortesia e ha tralasciato i punti più scabrosi e inaccettabili del suo intervento sul Foglio.
Forse nel residuo filo di speranza non dico di un ravvedimento ma almeno di un confronto nel segno della verità. Magari persino nella speranza che accettasse di rendere pubblico il nostro carteggio.
Come prevedibile, nulla di tutto ciò.
Allora, è bene sottolineare alcuni punti del suo intervento per mettere bene in chiaro con chi abbiamo a che fare.

1)Dice Messori, in relazione alla famosa frase di Bergson: "Sono stato ricoperto da insulti, con il professor Giorgio Israel a capofila: non mi si contestava l’autenticità (inoppugnabile) della citazione, ma che l’avessi riprodotta nella sua interezza. Cose da non fare, e basta: pena accuse infamanti e contumelie." Non soltanto - come ho già detto - è assolutamente falso che io l'abbia ricoperto di insulti: ho, al contrario, tentato di convincerlo con la massima disponibilità, come dimostrerebbe il carteggio se soltanto Messori avesse la condiscendenza di renderlo pubblico. Ma è assolutamente falso che io abbia detto che che non si doveva riprodurre la citazione nella sua interezza. Sfido Messori a dimostrare come e quando io avrei detto o scritto una frase simile. Insomma, è un'autentica calunnia.
Aggiunge il nostro: "colpevolizzato da ogni parte, finii io stesso per chiedermi se la rivelazione di quelle parole “scandalose“ fosse davvero opportuna". No, diciamo piuttosto che egli finì con l'ammettere di aver detto parole maldestre e sbagliate e chiese persino aiuto per venir fuori dal guaio in cui si era cacciato. Io gli proposi di pubblicare parte della nostra corrispondenza, ed egli preferì fare un intervento molto ma molto più ambiguo sulla rivista Jesus, in cui comunque una qualche rettifica la faceva.

2) Dice Messori che io l'avrei coperto di insulti per la sua "trouvaille" concernente il caso Mortara. Falso anche questo. Diciamo piuttosto che tra me e lui si sviluppò una polemica di merito sull'interpretazione del caso Mortara. Ai lettori il giudizio circa la maggiore fondatezza dei rispettivi argomenti. Ma anche qui, cosa c'entrano gli insulti e chi ne ha mai fatti? Provi a dimostrarlo Messori, se può, altrimenti taccia.

3) Il terzo episodio è inventato di sana pianta. Non so neppure quale sia l'articolo e la rivista su cui Messori l'ha pubblicato. Quale sarebbe la mia risposta carica di "contumelie". Forse l'avrà fatto Gad Lerner, io no di certo.

4) Il quarto episodio è pure totalmente inventato. Non ho la minima idea di quale sia la trasmissione cui Messori allude, e francamente non mi è stato dato di vederlo in TV da tempo immemorabile. Certo, c'è stata la polemica sulle conversioni forzate sul Corriere della Sera nel gennaio 2005, ma in quella occasione ho polemizzato con altre persone, e della trasmissione di Messori, con tutto il rispetto, non mi sono mai occupato. A meno che Messori non alluda a una trasmissione a Porta a Porta che non ho visto ma di cui mi venne riferito in cui diede una esilarante interpretazione del termine "perfidi judaei". Chi ritrovi il mio commento a quell'interpretazione sul sito Informazione Corretta constaterà che ho certamente preso in giro il latinorum di Messori, ma se l'ironia è insulto e contumelia, allora Messori ha bisogno di un ripasso di italiano, non soltanto di latino.

5) Per finire, la polemica con Messori sull'Inquisizione l'ho fatta sul Foglio. E in quel caso, sì, ho attaccato duramente Messori, non certamente con insulti, è una cosa che non ho mai fatto, nessuno potrà mai dimostrare il contrario. E quell'attacco duro lo ripeterei. Perché parlare di una storiografia che avrebbe restituito una storia diversa dell'Inquisizione è una vergogna: storiografia negazionista è l'unico modo con cui può essere definita. Come è negazionista dire che l'Inquisizione è stata una sorta di istituzione benefica che ha prodotto si e no qualche decina di vittime. Per simili affermazioni Messori dovrebbe vergognarsi. Ma come potrebbe conoscere la vergogna una persona che è capace di raccontare storie come quelle di cui abbiamo appena parlato?

In conclusione: ancora una volta un bel tacer non fu mai scritto.

Botta e risposta con Messori

Il Foglio – 3 gennaio 2006

Caro Direttore,
lasci che, approfittando del torpore semifestivo, Le racconti qualche piccolo aneddoto curioso.
Cominciando, ad esempio dal “Testamento morale“ di Henri Bergson, ebreo, premio Nobel, accademico di Francia, uno dei maggiori filosofi del Novecento. Approssimandosi alla morte , sopravvenuta nel 1941, nel 1938, a cinque anni dall’ascesa di Hitler, Bergson scriveva: «Le mie riflessioni mi hanno portato sempre di più verso il cattolicesimo, dove vedo la realizzazione completa del giudaismo. Mi sarei convertito, se non avessi visto prepararsi da anni (in gran parte, ahimè !, per colpa di un certo numero di ebrei interamente sprovvisti di senso morale) la formidabile ondata di antisemitismo che sta per scatenarsi sul mondo. Ho voluto restare tra coloro che saranno domani dei perseguitati. Ma spero che un prete cattolico vorrà, se il cardinale arcivescovo di Parigi lo autorizza, venire a dire delle preghiere alle mie esequie>>.
E’ un testo ben conosciuto in Francia ma quasi del tutto ignorato in Italia dove, le poche volte in cui è stato riprodotto, si è provveduto spesso a censurarlo, omettendo quanto Bergson ha messo tra parentesi su quella che egli, ebreo, chiama <> di <>. Mi è capitato, un paio di anni fa, di citarlo sul Corriere della Sera. Sono stato ricoperto da insulti, con il professor Giorgio Israel a capofila: non mi si contestava l’autenticità (inoppugnabile) della citazione, ma che l’avessi riprodotta nella sua interezza. Cose da non fare, e basta: pena accuse infamanti e contumelie. Tanto che , colpevolizzato da ogni parte, finii io stesso per chiedermi se la rivelazione di quelle parole “scandalose“ fosse davvero opportuna. Ma era forse colpa mia se Bergson le aveva vergate?
Qualche tempo dopo, pubblicavo da Mondadori una trouvaille non insignificante: in un archivio romano avevo rintracciato le memorie manoscritte e inedite di Edgardo Mortara, il bambino ebreo che fu sottratto da Pio IX alla sua famiglia perchè –battezzato segretamente in punto di morte dalla fantesca– secondo il diritto sia civile che canonico doveva essere allevato cristianamente sino alla maggiore età. Il “caso Mortara“ fu usato come un randello contro la Chiesa e ancora di recente lo si è tirato in campo per cercare di impedire la beatificazione di Pio IX. Quando Giovanni Paolo II si recò, ed era la prima volta per un papa, nella sinagoga di Roma, gli ebrei che lo accolsero gli ricordarono l’affaire come segno inespiabile dell’infamia cattolica. I molti che si sono occupati e si occupano di Mortara parlano di lui sempre e solo come il <> ma dimenticano gli 83 anni che sono seguiti: il “rapito“ volle farsi religioso, diventò un ardente missionario cristiano, morì novantenne, benedicendo per l’ennesima volta Pio IX e la serva che lo aveva battezzato, rammaricandosi soltanto che i suoi parenti non avessero voluto seguirlo sulla strada del Vangelo. Il manoscritto che ho ritrovato e che ho pubblicato per la prima volta, è un inno di gratitudine commossa al papa e alla Chiesa ed un duro atto di accusa verso coloro –Cavour, Napoleone III, massoni, protestanti, comunità ebraiche del Vecchio e Nuovo Mondo– che strumentalizzarono il caso di cui fu protagonista l’autore di quelle memorie.
Ancora una volta Giorgio Israel ed altri non vollero confrontarsi con un testo autentico ma mi copersero – prima ancora di leggere -di accuse infamanti e di contumelie. Dunque, uno storico che si imbatte in un importante documento inedito non dovrebbe pubblicarlo se i contenuti non sono secondo le attese di un gruppo?
Per passare a un terzo aneddoto: in una rubrica che tengo su un mensile, mi capitò di ricordare, en passant, che l’emancipazione ottocentesca degli israeliti fu accolta da molti, ovviamente, con sollievo ma suscitò anche inquietudini in una larga fascia dell’ebraismo, preoccupato per assimilazioni, matrimoni misti, perdita di identità. La “nostalgia del ghetto“ è un fenomeno ben provato e ben noto agli storici. Del resto, sin dai tempi precristiani, gli ebrei della Diaspora scelsero di vivere tra loro, in quartieri separati dai “gentili“ . In ogni caso, la Roma pontificia fu la sola capitale, in Europa, nella quale nel quale il ghetto non fu mai svuotato perché gli ebrei non furono mai espulsi e da Roma non emigrarono neanche quando i correligionari si rifugiavano nelle Americhe a navi intere. Ma cose simili sembrano far parte, essa pure, delle constatazioni che, pur oggettive, non si possono fare. Dunque, da Giorgio Israel, e altri (tra essi, Gad Lerner, addirittura sulla prima pagina de la Repubblica) ne ricavai il frutto consueto: accuse infamanti e contumelie .
Un quarto episodio: in un dibattito televisivo, avvertii che bisogna distinguere con cura, come esigono giustizia e verità: l’indubbio antigiudaismo cristiano fu cosa sola religiosa e nulla aveva a che fare con l’antisemitismo razziale, che è cosa tutta moderna, darwiniana (il nazismo fu una forma radicale di darwinismo, una ideologia della modernità atea e postcristiana, alla pari del comunismo). Insomma, i Padri della Chiesa non vanno messi nel mazzo di Adolf Hitler. Da Giorgio Israel e da altri, accuse infamanti e contumelie.
Per finire (a causa dello spazio, non della serie degli aneddoti, ben più numerosi) un quinto episodio. In un articolo ricordavo ciò che ogni storico aggiornato conosce: la ricerca moderna ha smontato buona parte della “leggenda nera“ sulla Inquisizione, ridimensionando drasticamente il numero delle vittime e riconoscendo che quei tribunali seguivano regole e concedevano garanzie ben superiori a quelle della contemporanea giustizia laica. In ogni caso, lo studioso degno del nome non deve cadere nell’anacronismo e deve cercare di comprendere le motivazioni dei protagonisti della storia, inquadrandoli nel loro tempo: humanas actiones intelligere! Altrimenti, che dire della inquisizione ebraica che scomunicò e perseguitò Baruch Spinoza, rammaricandosi che la legge dei Paesi Bassi le impedisse misure più radicali? Citavo anche il laicisssimo, l’anticlericale Luigi Firpo (mio maestro, tra l’altro, all’università di Torino) che scrisse, e mi ripetè più volte, che avrebbe preferito di gran lunga comparire davanti a un inquisitore domenicano che al giudice imparruccato di qualunque reame. Citazione insospettabile; ma, ancora una volta, da Israel e amici, accuse infamanti e contumelie.
Vedo ora (il Foglio di sabato scorso) che Israel sintetizza alcuni di questi temi per mettermi tra coloro che, come l’ebreo Harold Bloom, <> e mi invita ironicamente a un pic nic con Fernando Savater (con il quale, però, ho avuto una dura polemica sulle colonne del Corriere, giusto su argomenti religiosi: in questo il mio interlocutore è distratto). Ora: è logico, è comprensibile che Israel abbia bisogno di sbozzarsi la sagoma di alcuni “cattivi“ per far risaltare le virtù dei “buoni“, i cristiani, cioè, che accettano senza discutere ogni vulgata corrente e rinunciano a ogni tentativo di capire, di spiegare, se necessario di replicare. Credenti che sembrano immemori del motto crociano: << La storia non ha mai da essere giustiziera ma sempre giustificatrice>>. Se la ricerca di verità, anche difficili, è istigazione all’odio, se il confronto con testi autentici e con fatti provati è criminogeno, se il dire e scrivere quanto emerge dagli archivi è riprovevole: ebbene, se è così non intendo rammaricarmi degli insulti.
Lo dico con rammarico: Giorgio Israel ed io non ci conosciamo personalmente, mai ci è stato dato di incontrarci. Amici comuni mi parlano di lui con simpatia: e non ho difficoltà alcuna a credere loro. Se questo incontro ci sarà, come mi auguro, forse questo eccellente docente- cui, tra l’altro, va la mia stima per le sue cose, che ho letto con interesse e frutto, a metà come sono tra umanesimo e scienza, scritte con competenza e al contempo con una passione che mi è simpatetica– potrà rendersi conto che, da un cattolico come me (e siamo la maggioranza: creda a me, che conosco il milieu ), un ebreo ha da temere una cosa soltanto. Ciò che lo minaccia non sarà mai altro che l’invito a confrontarsi, con franchezza fraterna, su quel tema del messianismo che per Israel –e in questo concordo in pieno con lui- è il tema cruciale: è Gesù il Cristo annunciato dai Profeti o occorre attendere un altro? Non è questo, parola di vangelo, il dovere primario di ogni cristiano? Eppure, Israel mi ha diagnosticato -anche sull’ultimo numero di Shalom, la rivista ebraica- una <> nevrotica e pericolosa perchè cercherei di <>. Le auspicate discussioni a tu per tu con Israel saranno innaffiate, per quanto mi riguarda, da bottiglie di buon vino rosso, di cui sono estimatore e consumatore: la sola cosa che mi riesca difficile perdonare a Israel è che mi sospetti di essere persino un tristo astemio! Bacco, Tabacco e (a suo tempo) Venere ridurranno pure l’uomo “in cenere” ma mi sono cari e familiari: come dice il cardinal Biffi, la fede non significa rinunciare a nessun tortellino della vita ma gustarlo ancor di più, pensando a quelli che mangeremo in eterno.
In ogni caso, un auspicio. Che il confronto, se ha da esserci, avvenga sui fatti e sugli argomenti e non sul pregiudizio che sia un pericoloso avversario chi cerca una verità che non appare in linea con quella stabilita e autorizzata una volta per tutte. Tanto per dire : nessuno tra coloro che mi hanno aggredito con epiteti pesanti si è confrontato con l’autobiografia di Mortara, che volle divenire Padre Pio Maria in onore di Pio IX e della Madonna. Gli insulti erano motivati solo dalla decisione di pubblicarla, per giunta presso un editore come Mondadori che le ha assicurato una vasta diffusione. Attenzione –lo dico con affetto preoccupato- a non dare il sospetto di una “polizia del pensiero“: conoscendo le traversie troppo spesso tragiche del giudaismo, comprendo e rispetto una suscettibilità che non può però spingersi a considerare come nemica, e dunque da tacitare, ogni voce dialettica. Penso, ad esempio, a quanto avvenuto con un amico di Israele (al pari, almeno, di me) come Sergio Romano. Penso a certe leggi di un’Europa, libera in tutto, ma non nella possibilità per gli storici -fossero pure irritanti e persino faziosi- di indagare su momenti essenziali della storia del Continente. Per tornare a un caso specifico, è davvero giustificato che Giorgio Israel si sia liberato del memoriale Mortara, che imporrebbe di riconsiderare tutta la vicenda, con un aggettivo e un sostantivo: <> ? Un po’ poco, mi pare, come dialogo con l’esperienza di un uomo generoso che, nato ebreo, morì come Canonico Regolare Lateranense in odore di santità e che scrisse perchè fosse ascoltata anche la sua voce, dopo che tanti avevano parlato di lui solo per usarlo, rifiutando di rispettare le libere scelte cui era stato fedele per una lunghissima vita.
Grazie, caro Direttore, dell’ospitalità. E buon anno.

Vittorio Messori


Il Foglio – 4 gennaio 2006

Vittorio Messori è persona molto audace o che confida troppo nell’amnesia altrui. Sostiene di non avermi mai conosciuto, di aver sentito parlare di me da amici comuni, di auspicare un incontro e un dialogo, che io l’avrei sempre e soltanto ricoperto di contumelie e, a riprova, cita il caso di un suo articolo del 2001 sul Corriere della Sera in cui proponeva una frase di Henri Bergson come una pista per spiegare la Shoah. Quell’articolo suscitò reazioni sdegnate, fra cui quella di Claudio Magris. Al contrario, fra Messori e il sottoscritto – che egli non ha mai conosciuto – si sviluppò una corrispondenza che ho sottomano. Per dare un’idea quantitativa della mia disponibilità al dialogo, dirò che consta di 50401 battute, salvo altre lettere e telefonate.
Se Messori acconsente a pubblicarla (magari in rete) si potrà constatare quanto egli abbia apprezzato le mie critiche, che lo avevano fatto riflettere sulle sue frasi maldestre, dichiarando la sua amicizia nei miei confronti, della persona che non ha mai conosciuto. Frattanto, il Corriere pubblicava una sua lettera che ribadiva puntigliosamente le tesi dell’articolo su Bergson. Alle mie proteste, Messori dichiarò di averla scritta prima che io l’avessi fatto riflettere. Pubblicò quindi un articolo sulla rivista Jesus in cui ritornava sulla questione, limitandosi a dire che io gli avevo fornito una pista interpretativa.
Quindi, a dialogare apertamente e civilmente con Messori ci ho provato, eccome. Del resto, i lettori del Foglio sanno che non sono certamente un difensore dell’intangibilità degli ebrei, e che ho criticato – attirandomi non poche ostilità – il mito dell’unicità della Shoah. E proprio su queste pagine ho sostenuto polemiche con Messori (21 e 26 febbraio 2004 e 25 febbraio 2005), dure quanto si vuole, ma sui contenuti e senza contumelie. Non dice il vero quindi Messori quando pretende che io avrei liquidato i suoi argomenti sul caso Mortara con mere invettive. È lui piuttosto a esibire un’assoluta impenetrabilità agli argomenti altrui e a non vedere le travi nei suoi occhi. Chi provi a farlo, constaterà che dialogare con Messori è come sbattere la testa contro un muro di pietra. Mi sono dovuto progressivamente arrendere alla constatazione che Messori nutre un interesse spasmodico per gli ebrei che lo porta sempre e comunque a rivalutare i peggiori stereotipi e a giustificare (o “spiegare”) l’ingiustificabile, persino i processi dell’Inquisizione o le tirate antisemite di padre Ballerini su “Civiltà Cattolica”. E mi sono reso conto che Messori compie queste operazioni con un metodo che con la storiografia ha poco a che fare: spigola notizie disparate, seleziona una frase qua e là e ne ricava costruzioni senza fondamento, ma che magari portano a trovar prove del complotto dei “Protocolli” nel Talmud. (E che cos’è, di grazia, l’“inquisizione ebraica”?)
Un anno fa ho scritto sul Foglio un articolo dal titolo “Ebrei e cattolici smettano di ferirsi a colpi di passato”. È una cosa a cui credo profondamente. Non bisogna lasciarsi afferrare indefinitamente per i piedi dal passato. Tantomeno penso che si debba chiedere ai discendenti di chi ti ha fatto un torto di vivere in stato di eterna prostrazione. Ma, per favore, si aiuti un poco a coltivare simili sentimenti. È un aiuto sbatterti in faccia un’interpretazione storica che nega fino alla più totale sfida dell’evidenza qualsiasi responsabilità cristiana nell’antisemitismo? Quando, per la prima volta, scesi dall’aereo a Berlino ero molto emozionato perché calcavo la terra del paese in cui era stata distrutta la mia famiglia. Era un congresso internazionale scientifico, e nell’atrio incontrai un’esposizione dedicata al dramma dell’emigrazione degli scienziati ebrei tedeschi con l’avvento del nazismo. Mi fece così bene che, in quei giorni, circolavo per le vie di Berlino come se fosse casa mia, con un sentimento di riconciliazione profonda. Era bastato poco. Ma quali sentimenti avrei provato se mi fossi trovato di fronte ad affermazioni negazioniste o minimizzatrici? Invece Messori, con le sue minimizzazioni dell’Inquisizione, è capace di farti tornare un rigurgito di rabbia per la violenza subita, nel lontano 1492, dalla famiglia originaria della Spagna.
Un ultimo esempio. Nel suo libro sul caso Mortara, Messori ha parlato dell’Alliance Israélite Universelle. Chiunque conosca un minimo di storia seria sa che questa organizzazione s’inscriveva nella linea dei diritti dell’uomo del 1789 e mirava a organizzare il giudaismo su una base universalistica, ispirata ai principi illuministici di libertà, uguaglianza e laicità. I fondatori ritenevano che il progresso morale degli ebrei potesse conseguirsi attraverso la diffusione dell’istruzione fin nei territori più perduti e difatti venne creata una grande rete scolastica mondiale. Ebbene, per Messori, l’AIU sarebbe stata «la prima organizzazione ebraica di autodifesa in prospettiva mondiale», e non di autodifesa generica, ma propriamente militare. Insomma, un’organizzazione che preparava «incursioni» che erano «quasi una prefigurazione degli omicidi mirati dell’esercito israeliano»…
Non ho nulla contro i militari o i servizi di sicurezza, figurarsi. Ma sarebbe ragionevole affermare che l’ordine dei francescani è un reparto di teste di cuoio? Che dire? In questo caso, soltanto che, come pronipote del fondatore in Oriente dell’AIU, il rabbino Judah Nehama, spirito illuminato e tollerante, mi sento semplicemente offeso. Continui pure Messori a tirarci per i piedi con il passato, ma poi non si lamenti se il dialogo con lui è impossibile.


Giorgio Israel