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martedì 30 maggio 2006

Reazioni sbagliate al discorso del Papa ad Auschwitz

Articolo pubblicato su Il Foglio, 30 maggio 2006

C’è qualcosa di superficiale e di esagerato se, dopo un discorso meritevole di una riflessione distaccata e seria, come quello tenuto da Benedetto XVI ad Auschwitz, inizia una corsa frettolosa alla dichiarazione sdegnata e all’invettiva.
Per ragioni di coerenza occorrerebbe tenersene fuori, se non fosse che certi argomenti sgangherati – e quindi pericolosi – meritano una risposta.
Sono felice di sapere che una persona autorevole e rappresentativa come Marek Edelman abbia detto che «è stato un discorso di grande forza sentimentale ed emotiva», aggiungendo: «Il Papa è venuto ad Auschwitz, e là sulla terra ancora bagnata dal sangue dei morti ha detto che Dio allora non era là. Che cosa doveva dire di più?». Sono felice di saperlo perché il discorso di Benedetto XVI a me è piaciuto e, come a Edelman, è parso «una eccezionale sequenza di emozioni per la Memoria di oggi».
Sono passati pochi decenni da quando autorevolissime voci della Chiesa auspicavano come una “liberazione” la morte di tutti i Giudei e interpretavano Auschwitz come «conseguenza dell’orribile delitto che perseguita il popolo deicida ovunque e in ogni tempo». Oggi la massima autorità della Chiesa dice che i nazisti «con la distruzione di Israele volevano strappare anche la radice su cui si basa le fede cristiana». Misuro questa distanza e sono colpito e commosso dallo straordinario passo avanti che è stato compiuto.
Si è detto che il Papa ha parlato troppo del silenzio di Dio e poco delle colpe degli uomini. Dai Salmi citati dal Papa al Libro di Giobbe, il tema del silenzio di Dio percorre tutto l’Antico Testamento e le riflessioni del pensiero religioso ebraico. «Non ti farai idoli davanti alla Mia faccia», dice il secondo comandamento; e un midrash lo interpreta nel senso: «quale che sia il volto che Io ti presento, per quanto esso possa essere per te incomprensibile e anche terribile, tu non dovrai rinnegare la fede in Me». Mille riflessioni sono state e possono essere sviluppate su questo tema. Perché mai esse escluderebbero il tema delle colpe degli uomini?
Abbiamo letto su L’Unità che il Papa si è reso colpevole di revisionismo per non aver menzionato le responsabilità collettive del popolo tedesco. Si tratta di una critica priva di fondamento, sia sotto il profilo morale che sotto il profilo storiografico. Dal punto di vista morale, rendere un intero popolo responsabile di una colpa collettiva è un’aberrazione in cui soprattutto gli ebrei – vittime del mito del deicidio – non possono cadere. Essi debbono essere fedeli al precetto del Deuteronomio secondo cui nessuno può essere punito se non per il proprio delitto. Durante la cena della Pasqua ebraica è d’uso leggere un “rituale della rimembranza” della Shoah, in cui si parla di coloro che furono sterminati «da un tiranno malvagio» e dagli «esecutori del suo perfido progetto». Sembrano le parole del Papa. Per quanto estesa sia la responsabilità, essa resta soggettiva e non può essere estesa al concetto di responsabilità collettiva di un “popolo” – concetto eminentemente razzista. Nessuno può responsabilmente parlare di responsabilità collettiva del popolo italiano per il fascismo, o dei popoli sovietici per i crimini dello stalinismo.
L’entità del coinvolgimento della popolazione tedesca nella Shoah – così come di altre popolazioni in altri crimini di massa – è una questione eminentemente storiografica che deve essere mantenuta su questo terreno e non può essere usata come una mazza per condanne morali. Porre la questione nei termini: “O dici che tutti erano responsabili oppure sei corresponsabile morale”, è un ricatto inaccettabile che uccide alla base ogni possibilità di libera riflessione. È assolutamente sconcertante che l’attacco a pretese interpretazioni riduttive dell’adesione del popolo tedesco al nazifascismo venga da certi pulpiti che per decenni hanno propinato una storiografia secondo cui il fascismo in Italia era opera di pochissimi mascalzoni che erano riusciti a irreggimentare un intero popolo che vibrava di fervidi sentimenti antifascisti repressi dal tallone dei Tribunali Speciali. Il peso di questa storiografia è tale che ancor oggi viene demonizzato come “revisionista” Renzo De Felice, per aver messo in luce l’entità dell’adesione del popolo italiano al fascismo. E ci tocca leggere uno scritto di Furio Colombo – evidentemente ignaro di quanto in Germania sia stato approfondito il tema delle colpe del nazismo, senza reticenza e in modo persino spietato, come qui non ci siamo neppure lontanamente sognati di fare, viste le recenti vergognose reazioni al libro “I redenti” di Mirella Serri, perché ha osato ricordare i trascorsi antisemiti di alcuni mostri sacri dell’intellettualità italiana – che si permette di parlare di «molti cittadini tedeschi» che avrebbero trovato «una scorciatoia per non convivere con un passato vergognoso», magari «parlando più di Stalin che di Hitler». Di certo, Colombo di Stalin ha poca voglia di parlare, visto che riesuma una logora retorica su chi ha abbattuto i cancelli di Auschwitz, come se il merito tecnico di essere arrivati per primi contasse di più del trattamento criminale che Stalin riservò agli ebrei resistenti.
È comprensibile l’attenzione spasmodica con cui, da parte ebraica, si analizza ogni affermazione concernente la Shoah. Ma essa non giustifica un atteggiamento che, anziché guardare al senso generale di certe affermazioni, indugia su dissezioni meticolose e persino cavillose (quante volte è stata pronunziata la parola Shoah? perché non è stato pronunziato il nome di Hitler?). Del tutto inaccettabile è poi pretendere che quando si parla di Shoah sia vietato persino accennare ad ogni altro crimine di massa: in tal caso, spesso non è più l’ebreo che parla ma l’inconsolabile vedova del comunismo.


Giorgio Israel

mercoledì 17 maggio 2006

Risposta ad Alberto Asor Rosa

Lettera inviata al Corriere della Sera e non pubblicata

La lettera di Alberto Asor Rosa al Corriere della Sera (16 maggio 2006) è basata sul seguente ragionamento: "la causa ebraica non coincide con quella dello Stato d'Israele"; quindi egli ha diritto di criticare il secondo senza essere accusato di ledere la prima; invece, i suoi critici non fanno che confondere le due cause e così lo fanno oggetto di una forma acuta di intolleranza. Così messa sembrerebbe ineccepibile. Se non fosse che colui che ha fatto confusione è proprio Asor Rosa quando, nel suo libro, ha dedotto dalla critica allo Stato d'Israele conclusioni pesantissime nientemeno che nei confronti della "razza ebraica" - espressione che non dovrebbe uscire dalla penna di un intellettuale contemporaneo, tenuto a sapere che il concetto di razza non ha basi scientifiche ed è soltanto un aggregato di pregiudizi dalle tragiche conseguenze -, una "razza" che da perseguitata sarebbe diventata persecutrice, e altre consimili deduzioni riguardanti gli ebrei nel loro complesso che è soltanto triste ricordare. Ad Asor Rosa è stato chiesto ripetutamente di rivedere questa infelice uscita. Al contrario, qui, con un gioco dialettico, per nasconderla egli ne scarica la colpa sui suoi critici. In tal modo, egli ha dato soltanto prova della fondatezza della tesi secondo cui la manifestazione attuale dell'antisemitismo è l'antisionismo. Sta a lui, se e quando vorrà finalmente farlo, correggersi e dimostrare di essere soltanto vittima di questa manifestazione, e combattere ora e qui l'antisemitismo nel modo che serve.
Tralascio per brevità di entrare su altri aspetti di merito, come il richiamo all'"ingiustizia della fondazione dello Stato d'Israele" cui - per sua grazia - non si deve porre rimedio con la sua distruzione. E' davvero curioso che si debba parlare di ingiustizia soltanto nel caso della fondazione dello Stato d'Israele e non di innumerevoli altri casi analoghi di cui è intessuta la storia. Per esempio, la fondazione della Grecia è stata pagata al prezzo di ingiustizie, come quella della famiglia di chi scrive, deprivata di case e averi. Eppure viviamo qui tranquilli senza rivendicare diritti al ritorno, come non li rivendicano il milione e passa di ebrei deprivati di case e averi nei paesi arabi. Se dovessimo rifare le bucce alla storia trasformeremmo la terra in uno scannatoio.
Infine, se il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche non ha il diritto di esprimere perplessità di fronte a chi parla (e in termini così negativi) di razza ebraica, tanto vale sciogliere l'Unione e mandarne a casa organi e presidenza. In tal caso, sarà stato Asor Rosa ad aver esercitato una pressione indebita e intimidatoria volta a inibirne la libertà di espressione.


Giorgio Israel

martedì 16 maggio 2006

L’Occidente ormai si disprezza fino a tollerare il nuovo odio per gli ebrei

Il Foglio - martedì 16 maggio 2006


Il presidente iraniano Ahmadinejad è un politico ideologo, la specie più pericolosa. Sembra che nella lettera al presidente Bush abbia parlato soprattutto del ruolo della religione nel mondo contemporaneo. «Il liberalismo e la democrazia occidentale non sono serviti a realizzare gli ideali dell’umanità. Oggi queste due dottrine hanno fallito. I più perspicaci riescono già a sentire il suono del frantumarsi e crollare dell’ideologia e delle idee dei sistemi democratici liberali. Signor Presidente, che ci piaccia o no, il mondo gravita intorno alla fede». Naturalmente, Ahmadinejad pensa che l’Islam, il suo Islam, riempirà il vuoto che quel crollo sta aprendo nel mondo: chi altro può esserne capace? Ma, se ci è consentita un po’ di libera esegesi, forse egli non è tanto sicuro di sé. Infatti, perché scrive a Bush? Perché gli dicono che «Sua Eccellenza segue gli insegnamenti di Gesù e crede nella promessa divina sul regno dei giusti»: perciò più di altri dovrebbe capire i suoi argomenti. E forse anche perché, più di altri, è capace di resistere. Forse Ahmadinejad percepisce che il crollo è più difficile dove il sistema democratico liberale è sorretto da una visione etica e morale – che sia religiosa (come la intende lui) o secolare. Lui non si rivolge all’Europa, perché ha capito benissimo che l’Europa è ormai vicina al crollo. La nostra libera esegesi non si spinge al punto di accreditare al presidente iraniano la conoscenza del pensiero postmoderno che, non contento della liquidazione delle religioni, ha liquidato anche ogni morale secolare, ritenendo che essa riporti inevitabilmente alla religione; e la conoscenza di quelle brillanti analisi che hanno disvelato il bigotto mascherato che si nasconderebbe in Kant. Ma è assai probabile che senta nell’aria l’andazzo; anche se non sa che, in buona parte della cultura occidentale, le parole “etica” e “morale” suscitano tanto imbarazzo che, dopo essere state liquidate in quanto frutto della rivelazione o della storia umana, si attende con trepidazione di poterle gettare nella pattumiera dell’oscurantismo e sostituirle con parole come “neuroetica”. Frattanto, nell’attesa millenaria che vengano a galla le basi biologiche della morale, sarà la sharia di Ahmadinejad a fare da supplente. Se Ahmadinejad sapesse tutte queste cose sarebbe felice di aver fatto la scelta giusta: rivolgersi a uno dei pochi avversari ancora in piedi.
Non che i dissacratori dell’etica, della morale e della religione non esistano nel Nuovo Continente: al contrario, le università americane ne sono strapiene, se non dominate. Ma la società americana è più articolata, ed è percorsa da forti correnti che vanno in tutt’altra direzione. L’etica e la morale non sono ancora parole ridicole e, oltre ai neuroetici e ai neo-eugenisti, c’è chi segue percorsi scientifici diversi, oppure considera razionale conservare una robusta fede religiosa. Per questo, Ahmadinejad si rivolge a Bush e non si cura dell’Europa, che vede soltanto come un territorio vuoto da occupare. L’ostacolo al crollo finale permane dove la democrazia liberale trae forza e vitalità da un afflato etico e morale, cui l’esperienza religiosa autentica (e non formalistica) da un contributo importante. Come in Israele. Anzi, qui l’ostacolo è talmente forte che le uniche soluzioni possibili sono quelle radicali. Perché l’ebreo, anche quando non è religioso, vive di utopia. Anzi, come scrive Henri Meschonnic «la sua utopia è sé stesso, è utopia di sé» e anche utopia della società, «utopia degli altri, per sé e per gli altri». Perciò per un popolo che mostra di credere nell’utopia, e con l’utopia del sionismo ha ricostituito sé stesso, Ahmadinejad vede possibili soltanto due trattamenti: l’atomica – previa verifica del rapporto costi-benefici, e secondo autorevoli esponenti iraniani, un costo di una ventina di milioni di morti sarebbe accettabile – o, in alternativa, la soluzione di spedirlo nel Vecchio Continente, in parcheggio in attesa della liquidazione finale dell’azienda. Anche qui emerge la folle lucidità dell’ideologo. Poco importa che l’idea sia delirante e insensata, perché passa sopra al fatto che gran parte degli israeliani non sono europei e che Israele non è il mero frutto della Shoah, ma dell’utopia sionista. C’è una logica (consapevole o no) in questa follìa: costringere l’Europa a prendere definitivamente posizione sulla questione ebraica, o manifestando un sussulto di dignità e moralità, oppure scegliendo la “soluzione” che Fiamma Nirenstein ha chiamato l’“abbandono”. Perché la questione ebraica europea non è una faccenda degli ebrei, ma qualcosa che ha a che fare con l’identità stessa dell’Europa. Pur in mezzo a tanti drammi, incomprensioni e orrori, duemila anni di storia dell’ebraismo sono stati dentro e con l’Europa. Come dice ancora Meschonnic, con la sua utopia, l’ebraismo è legato all’Occidente quanto l’Occidente lo è a lui, e la separazione definitiva dell’ebraismo da una parte dell’Occidente – l’Europa – è uno scacco di portata epocale.
Questo scacco è ormai a un passo dal suo definitivo avverarsi e i prossimi eventi decideranno se il passo sarà compiuto oppure no. Dipenderà da quello che l’Europa deciderà di fare per i suoi ebrei e per gli ebrei che stanno di fronte a lei, dall’altra parte del mare “nostro”. Il che è quanto dire cosa deciderà di fare di sé stessa. Pensiamo alla vecchia faccenda delle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Che vi sia tanta reticenza in giro a tenere in piedi il primo termine (giudaico) è malinconico, ingiusto, ma purtroppo non stupisce più di tanto. Di recente, passeggiando per il ghetto di Venezia, un collega ebreo francese mi diceva: «Per noi sarebbe tragico, triste, ma non sarebbe la prima volta. Anche fare le valigie. Ma che l’Europa non abbia il coraggio di dire che le sue radici sono cristiane, questo è veramente incomprensibile, stupefacente. Che dire? Cosa resta all’Europa se rinnega anche queste radici?». Non si tratta di ritornare sulla faccenda del rifiuto di costituzionalizzare di quel termine, che era probabilmente una scelta sensata. Si sarebbe dovuto parlare anche delle radici greche, anche perché la tradizione giudaica e cristiana si è contaminata profondamente di pensiero ellenico ed ellenistico e poi non si sarebbe potuto trascurare la romanità. Insomma, si sarebbe dovuto fare un trattato di storia culturale anziché l’articolo di una costituzione. Ma quel che è stato stupefacente è stato il rifiuto del tema in sé. Gli ebrei sono abituati ad essere considerati una vergogna, tanto che una delle loro utopia è trovare un posto dove “sporco ebreo” significa soltanto un ebreo che non si è lavato. Ma che dal “non possiamo non dirci cristiani” si dovesse passare al “ci vergogniamo di essere cristiani”, questo francamente era al di là di ogni immaginazione. Ed è al di là di ogni immaginazione la debolezza con cui si reagisce a tale stato di cose, la timidezza con cui si dice una verità evidente, e cioè che se qualcuno avesse osato scrivere un Codice da Vinci in chiave islamica avrebbe già fatto una brutta fine, ed anche l’errore di credere che si possano contrastare queste aberrazioni per via legale e di divieto.
Lo si creda o no, per uno che si chiama Israel parlare troppo di antisemitismo e di antisionismo è una noia. Non una noia esistenziale. Perché l’utopia della fine dell’antisemitismo è talmente proiettata verso la fine della storia, che esiste una panoplia consolidata di tattiche di resistenza. È una noia razionale: quando una parte troppo importante del tempo di un ebreo europeo deve essere impiegata a difendersi, a decrittare le forme attuali dell’antisemitismo, a dimostrare invano che la manifestazione attuale dell’antisemitismo è l’antisionismo, allora c’è qualcosa che proprio non va.
Difatti, ogni giorno si ricomincia daccapo. Il 27 maggio il più importante sindacato dei professori universitari inglesi (NATFHE) chiamerà a votare i suoi 67.000 membri un appello al boicottaggio delle istituzioni universitarie israeliane e, individualmente, dei loro professori. Bisognerà ricominciare a spiegare a chi non vuol capire che questo è puro e semplice razzismo?
Giorni fa, sul Corriere della Sera, Sergio Luzzatto ha osservato che «l’opinione pubblica europea si sta mostrando distratta davanti ai recenti sviluppi della situazione politica in Polonia», dove sono entrate al governo due formazioni cattoliche reazionarie apertamente antisemite, uno dei cui leader ha dichiarato che «il peggior nemico della Polonia è la nazione giudaica». Per un breve tempo, si era sperato che le nuove nazioni orientali entrate in Europa fossero più aperte di altre a un rapporto con il Grande e Piccolo Satana. È una speranza durata poco, e pare che i vecchi fantasmi si stiano riaffacciando, davanti a un’opinione pubblica “distratta”. Ma il guaio è che l’elenco di queste distrazioni è ormai infinito. Questo è il vero problema.
È passato poco tempo da quando in Francia è avvenuto un delitto razziale che avrebbe dovuto suscitare una reazione degna di un caso Dreyfus. Parliamo del caso del giovane Ilan Halimi, torturato per un mese e poi gettato a morire su una scarpata, mentre tante persone che vivevano nello stabile maledetto udivano le sue grida disperate e facevano finta di nulla. Un delitto razzista che – come ha scritto in un bellissimo articolo il padre di Daniel Pearl – è stato possibile perché un intero paese ha introiettato l’idea che gli ebrei sono colpevoli in quanto non rinnegano Israele, quel “piccolo paese di merda”, secondo l’elegante espressione di un ambasciatore di Francia. Non è tanto o soltanto il delitto in sé, ma il clima che lo ha preparato, lo ha accompagnato e il silenzio torbido che è seguito, come una sorta di alzata di spalle collettiva. Dopo questo episodio, risulta che la già consistente emigrazione ebraica dalla Francia sia aumentata. Invece di interrogarsi su un sintomo così grave – che una comunità così integrata nel paese dia segni di cedimento e pensi ad andarsene, malgrado i disagi connessi – la “gauche” intellettuale non ha trovato di meglio che coniare lo slogan di un’Opa che il sionismo avrebbe lanciato sull’ebraismo francese.
Nel delitto Halimi si è visto lo stesso clima, lo stesso torbido silenzio, la stessa cinica indifferenza che ha accompagnato l’assassinio di Theo Van Gogh. È lo stesso insopportabile cinismo con cui viene trattato ora il caso di Ayaan Hirsi Ali, la coraggiosa donna somala che sta pagando il prezzo di essersi opposta all’estremismo islamista e che un tribunale olandese ha sfrattato dalla sua casa ritenendo prevalente il diritto dei vicini alla quiete e a star lontani dalle minacce terroriste, rispetto al suo diritto di vivere liberamente nella sua casa.
Così, il politicamente corretto, degenerato in servilismo nei confronti dei violenti, ha fatto a pezzi i principi più elementari della democrazia liberale ed ha usato persino la giustizia per calpestare la morale senza alcun ritegno. In effetti, il “politicamente corretto” in versione europea è arrivato al punto di battere largamente le peggiori manifestazioni statunitensi. Bisognerebbe un giorno fare la storia del palleggio culturale che è avvenuto tra le due rive dell’Oceano: noi abbiamo lanciato di là la palla del pensiero postmodernista dei vari Foucault, Lacan e Derrida e ne è germinato il politicamente corretto americano. Ora, negli Stati Uniti si stanno manifestano tante versioni diverse e contraddittorie del politicamente corretto da neutralizzarsi a vicenda. Mentre la palla è ritornata al mittente assumendo forme di rigidità univoca e, in taluni paesi europei, soffocanti e totalitarie: non si predica più la parità per decreto, ma l’asservimento all’“altro”. È il prostrarsi umiliante e degradante della sentenza de L’Aja, le chiacchiere tra l’insensato e l’infame della “gauche” parigina, i genitori A e B dello zapaterismo. Non ha ragione il presidente Ahmadinejad a sentire i rumori del crollo della democrazia liberale?
E noi? La situazione nel nostro paese sembra meno grave che in altri paesi europei, ma non c’è da stare tranquilli. Mentre dilaga l’esercizio del ricordo e la Giornata della Memoria si è trasformata in Settimana, anzi in Sagra della Memoria, la Brigata ebraica che sfila nel corteo del 25 aprile viene pesantemente fischiata e aggredita con grida assassine. Lo sdegno generale e unanime ha proclamato trattarsi di un gruppetto di pochi irresponsabili, ma è una bugia. Per non farsi male bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: i quattro pesci nuotavano in un bacino di consenso o quantomeno di “comprensione” molto, troppo vasto. Di che stupirsi? Sono quarant’anni che si educano generazioni all’odio del sionismo. Ne abbiamo avuto un ultimo esempio con l’indecente vignetta pubblicata su Liberazione che riprende un cavallo di battaglia dell’antisemitismo contemporaneo: l’identificazione degli israeliani come i nazisti di oggi. L’educazione all’odio continua e si raccolgono i frutti di ciò che è stato e viene metodicamente seminato. Perciò, le deplorazioni e le minimizzazioni – in un paese in cui le università sono inaccessibili a un diplomatico israeliano – sanno di ipocrisia e, nel migliore dei casi, di elusione.
Oggi per l’Europa si tratta di decidere se continuare a cavarsela “ricordando” e strofinandosi addosso il cilicio per i misfatti del passato mentre viene lasciato libero corso all’antisionismo e all’antiamericanismo; sbattendo in galera Irving e lasciando ammazzare Ilan Halimi; pretendendo la chiusura dei CPT (Centri di permanenza temporanea) in quanto sarebbero dei “lager”, e scacciando dai condomini le Ayaan Hirsi Ali. Fino a che il dilagare del disprezzo di sé non si concluda nel suicidio finale.



Giorgio Israel

lunedì 15 maggio 2006

Nota pubblicata su INFORMAZIONE CORRETTA

ll direttore di Liberazione Piero Sansonetti dice che era "una vignetta punto e basta" e che non c'è altro da aggiungere, tanto meno scusarsi. Certo, una vignetta è una vignetta, una bandiera bruciata è una bandiera bruciata, un proiettile è un proiettile, e via dicendo. Il signor Sansonetti deve essere una reincarnazione del signor de La Palice, quello che un'ora prima di morire era ancora in vita. E, se non è M. de la Palice redivivo, deve avere bisogno di una buona vacanza per restaurare le sue cellule grigie.
Comunque, l'esimio direttore si distinse all'epoca dell'assassinio di Quattrocchi dicendo alla trasmissione Otto e mezzo che, se Quattrocchi era un eroe allora erano eroi anche i kamikaze. Poi, quando Sharon ha evacuato Gaza e le sinagoghe di Gaza sono state profanate, devastate e bruciate ha scritto che chi si lamentava per questa oscenità era un razzista. Ancora mi sento profondamente offeso, come tanti, per questa affermazione scomposta e sconsiderata. Adesso pubblica una vignetta ignobilmente antisemita e non capisce perché lo sia. È grave che non lo capisca: lui è un direttore di giornale, del giornale del Presidente della Camera, non è uno che passa per caso di là, dovrebbe avere un minimo di cultura storica. Se non ce l'ha se la faccia con un corso accelerato in ritiro e poi torni sulla ribalta. Per ora si vergogni e taccia, invece di scrivere insulsaggini come quelle trasmesse da un'agenzia come anticipazione di un articolo che deve comparire domani su Liberazione, secondo cui la vignetta non sarebbe antisemita ma soltanto "drammaticamente filopalestinese"... Ripetiamo l'invito: si ritiri a meditare e studiare e, se ne sente il bisogno, si faccia aiutare. Gli possiamo fornire una bibliografia e anche qualche lezione gratuita. Ma non provi ad impancarsi e a fare la predica, proponendo addirittura un quartetto di proposte che si dovrebbero sottoscrivere insieme, per poi fare un corteo sventolando insieme bandiere israeliane e palestinesi dall'ambasciata iraniana a quella israeliana. Su queste basi c'è poco da sventolare insieme.
Sansonetti dice che non ci sono problemi fra Liberazione e gli ebrei. Si sbaglia. Ce ne sono grandi come una casa.
Intanto, come prima tema di riflessione gli presentiamo il seguente. Provi a chiedersi come mai si bruciano bandiere israeliane e si gridano frasi oscene alla Brigata Ebraica al corteo del 25 aprile. E invece di rispondersi con la solita litania autoconsolatoria e propagandistica - ovvero che la colpa è della politica di Israele che suscita la reazione indignata delle masse democratiche - si chieda se dopo anni e anni di avvelenamenti mentali come quelli in cui si sta producendo il suo giornale, non sia del tutto naturale che generazioni di giovani siano ormai plasmati dalla disinformazione, dal pregiudizio, e da un odio che stanno dando i loro frutti perversi.
Prima di chiedere di sventolare bandiere insieme, bisogna guardarsi dentro modestamente e correggersi. Bisogna curare il male oscuro della sinistra.

Giorgio Israel