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domenica 26 novembre 2006

Fortuna che c’è D’Alema, lui sì che la realtà “la compete”

(pubblicato sul settimanale TEMPI di giovedì 23 novembre 2006)
Il ministro D’Alema ha un vantaggio su chiunque altro: ha uno stuolo di “ammiratori” che ripete da mane a sera che egli è l’uomo più intelligente del mondo. Ciò gli rende possibile dire qualsiasi cosa, tanto ci sarà sempre chi dirà che nessuna mente è intelligente e razionale come la sua. E forse lo incoraggia a trattare sprezzantemente i suoi critici, come ha fatto di recente liquidando come “artificiose”, “pretestuose” e “caccia alle streghe” le critiche alla sua intervista in cui ha chiesto che Israele venga “fermato” con toni che molti hanno ritenuto unilaterali e tutt’altro che “equivicini”. Ha concluso sentenziando: “fine della polemica”; così dimenticando che non è in suo potere accendere e spegnere le polemiche a comando. Ci sarebbero molte altre cose da rilevare, tra cui la singolare pretesa di voler stabilire quali sono gli ebrei “democratici” e quali non lo sono.
Dice D’Alema che il governo italiano è addirittura più vicino a Israele che non al governo di Hamas contro cui applica l’embargo, “ancorché democraticamente eletto”. A parte l’ulteriore inciampo sulla democrazia, ci mancherebbe altro che l’Italia non rispettasse la decisione dell’Unione Europea. La questione è piuttosto che il ministro D’Alema non perde occasione per dare addosso a Israele, qualsiasi cosa faccia, e se critica Hamas, Hezbollah o l’Iran deve trattarsi di un caso di endofasia, visto che nessuno ha mai sentito le sue proteste, neppure quando Ahmadinejad dichiara che chiunque al mondo ha diritto ad essere tollerato salvo Israele. D’Alema imputa alla politica “di forza” di Israele persino la nascita di Hamas e di Hezbollah, che “qualche anno fa non esistevano”. Al contrario, esistono rispettivamente dal 1987 e dal 1982… E poi sarebbero i suoi critici a manifestare “assoluta incompetenza della realtà”. Quando parla di “violenza che chiama la violenza” trascura il fatto che Israele non ha nessun interesse a mettere piede a Gaza: se lo fa è perché da Gaza si continua a bombardare il suo territorio. Ma il ministro ha un’idea personale dei rapporti di causa-effetto. Difatti, egli addebita a Israele addirittura il prossimo ingresso sulla scena di Al Qaeda…
C’è da chiedersi se questo non sia un modo per mettere le mani avanti e colpevolizzare Israele persino del fallimento della missione Unifil. Questa missione – vantata dal ministro e dal premier Prodi come un evento “storico” – non ha realizzato neanche un solo punto della risoluzione 1701, salvo… il ritiro israeliano dal Libano. Non sono stati liberati “incondizionatamente” i soldati rapiti, il governo libanese non si sogna di “disarmare i gruppi armati” e di esercitare da solo l’autorità sul paese. Al contrario, Hezbollah si riarma, si rafforza e chiede maggior peso nel governo libanese. Intanto, l’Unifil non è in grado neppure di stabilire un checkpoint, ma è stato capace di minacciare Israele di usare la contraerea nel caso continui a fare voli di ricognizione. Insomma, l’Unifil serve solo a stendere un paravento sui preparativi di guerra di Hezbollah.
Questi sono i fatti. Eviti quindi il ministro di accusare i suoi critici di “incompetenza della realtà”. Oltretutto, che strano uso dell’italiano… Aver tanto a che fare con le lingue straniere non è un motivo per fare un uso discutibile della propria. Sembra un film di Totò: “lei è incompetente della realtà”, “lei si sbaglia, io la realtà la competo e la competetti!”

Giorgio Israel

venerdì 10 novembre 2006

ALLARME ISRAELE

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Da Il Foglio - 9 novembre 2006

Per una breve stagione, dopo il ritiro da Gaza, è sembrato che qualcosa cambiasse; che il mondo guardasse più benevolmente Israele; che ne capisse le ragioni e, in particolare, l’assurdità di creare uno stato palestinese governato da un movimento terrorista che nega il diritto all’esistenza di Israele. Oggi questo clima positivo è in frantumi e Israele fronteggia una condizione esterna e interna drammatica. Nello stesso giorno (20 ottobre) in cui Ahmadinejad intimava all’Occidente di “prendere nel suo interesse le distanze da uno stato che ha perso la ragione della sua esistenza”, aggiungendo “questo è un ultimatum”, il governo francese rompeva un tabù storico, dichiarando per bocca del presidente Chirac e del ministro della difesa che ai sorvoli di Israele sul Libano doveva essere posto fine “in un modo o nell’altro” e che, se i mezzi diplomatici non fossero bastati, si sarebbe fatto ricorso ad “altri mezzi”. Dunque l’Europa profila la possibilità di un confronto militare con Israele: a tanto siamo giunti.
Mi si perdonerà l’autocitazione se dico che la previsione fatta su queste pagine (12 settembre) circa la natura perversa della “trappola Unifil” si è purtroppo avverata puntualmente. Oggi Israele è messo in pericolo da una missione fallimentare che serve da paravento al riarmo di Hezbollah e al crearsi di una tenaglia iraniana tutt’attorno, mentre non una delle condizioni previste dalla risoluzione 1701 è ottemperata: non la “liberazione incondizionata” dei soldati rapiti, non il “disarmo dei gruppi armati”, non l’esercizio esclusivo dell’autorità e la detenzione esclusiva delle armi da parte del governo libanese. Intanto piovono missili su Israele da Gaza, che si trasforma in un territorio gestito sul modello Hezbollah, senza che nessuno deplori. Nella reazione israeliana cadono tragicamente dei civili creando un clima alla Sabra e Shatila, ma con una differenza: la fragilità esterna ed interna di Israele, investito da una crisi di orientamento politico e militare senza precedenti, con un ministro che chiede scusa, un altro che ribadisce la linea fin qui seguita e un terzo che blocca le operazioni militari.
Che succede? Come è potuto accadere che Israele si sia cacciato in luglio in una campagna militare condotta in modo incerto e fluttuante, ricorrendo dapprima soltanto all’arma aerea e concludendola con un’offensiva che ha prodotto perdite e nessun vantaggio diplomatico? Come è potuto accadere che Israele abbia accettato di entrare nella trappola Unifil e che il suo governo, pur non ricavandone altro che la prospettiva di una nuova guerra, continui a ringraziare chi ha costruito la trappola? Come può accadere che Israele continui a non trovare il bandolo della matassa tra diplomazia e opzione militare e non riesca a definire una linea di azione univoca guidata da un governo di emergenza nazionale che renda chiaro al mondo che sta lottando per la sopravvivenza contro un nemico che ha come unico scopo di distruggerlo?
La risposta l’ha data un giornalista di Ha’aretz, Ari Shavit, con una magistrale autocritica condotta da sinistra (“L’illusione della normalità”). E la risposta è: “il politicamente corretto coltivato per vent’anni da un’intera generazione di dirigenti israeliani”. Israele – dice Shavit – ha finito col credere che l’occupazione dei territori sia la causa di tutti i mali e che la sua potenza sia un fatto acquisito. La spesa militare è stata ridotta e il patriottismo deriso. “Nel mondo ideale del politicamente corretto, “forza” ed “esercito” sono diventati parolacce”. “Mezzi d’informazione e intellettuali hanno portato avanti un paziente lavoro di logoramento ai danni del nazionalismo e del sionismo… istillando la pratica suicida della critica dei fondamenti esistenziali” della nazione. Israele è un frammento di occidente che vive in un contesto ostile: perdere la consapevolezza di uno di questi due aspetti è, per Israele, quanto perdere l’identità. Israele ha voluto essere Atene – prosegue Shavit – ma in quelle terre non vi è futuro per un’Atene che non sia anche Sparta.
La crisi della fiducia in sé stessi può significare non riuscire a trovare la via né per la pace né per la guerra. Sarebbe un grave errore pensare che questa sia un’anomalia israeliana che non ci riguarda. De te fabula narratur. Il ciglio su cui si trova Israele è il medesimo verso cui si avvia l’occidente. Il suo dramma è il paradigma di un dramma che sta nel nostro vicino orizzonte.

Giorgio Israel

sabato 4 novembre 2006

Ma sì, ha ragione Giorello. Buttiamola in allegria

Pubblicato sulla rivista TEMPI (distribuita il giovedì con Il Giornale), 2 novembre 2006

Giulio Giorello mi bacchetta per aver difeso il discorso del Papa a Ratisbona. È turbato perché sarei intriso di “fondamentalismo religioso”; e trova deplorevole il mio discorso sulla necessità che l’occidente si liberi dei “demoni” dell’odio di sé, del relativismo e dello scientismo. Dice di non essersi imbattuto in simili “lagne” da molto tempo.
Non è un buon segno che uno sia ridotto a controbattere gli argomenti altrui con epiteti (“lagne”, “fondamentalismo religioso”), oppure parlando di pretesi “errori” contenuti in un mio libro su tutt’altro argomento. Oltre a evocare la classica situazione della casa dell’impiccato in cui si parla di corda, è una manifestazione di forza argomentativa e di “stile” che parla da sola.
Nel merito, Giorello mi rimprovera di aver criticato l’ex presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Amos Luzzatto perché aveva invitato il Papa ad andare addirittura “oltre le scuse” nei confronti di chi lo stava minacciando di morte per aver espresso il suo pensiero. Luzzatto aveva incitato a restare sul terreno politico, che permette il compromesso, mentre il confronto ideologico o teologico non lascerebbe possibilità di soluzione. Osservavo, e ribadisco, che la questione si gioca sul terreno religioso e che è mediocre pragmatismo far finta che le difficoltà che nascono su questo terreno possano essere aggirate politicamente. Giorello ne deduce che avrei accusato Luzzatto di non essere stato ideologico… e invita l’“amico Giorgio” a coltivare un sano pragmatismo invece di attardarsi nelle “lagne”.
Sarebbe interessante approfondire cosa dovrebbe essere questo pragmatismo. Di sicuro non impicciarsi delle idee altrui. Il motto potrebbe essere una parafrasi dell’appello per l’educazione: «Se ognuno si facesse i fatti propri tutti starebbero meglio». Per esempio, se il professore francese Redeker fosse stato pragmatico, avrebbe tenuto la penna a posto, e non si sarebbe attirato la condanna a morte degli “ideologi” con quell’articolo sul Corano. E quanto starebbe meglio Magdi Allam se fosse un po’ più pragmatico, invece di parlare di Corano e di Islam un giorno sì e l’altro pure. Certa gente se la tira proprio, come Daniela Santanché: se uno ha l’idea balzana di discutere con l’imam di Segrate è ovvio che si becca una condanna come “infedele” e “seminatrice di odio”. Insomma, agiscono bene quei politici e intellettuali che alle sparate teologiche e storiche del presidente Ahmadinejad sull’inevitabile trionfo della vera fede e sulla Shoah che non sarebbe mai esistita, oppongono un pragmatico silenzio o stendono la mano. Oppure fanno i raffinati, come quell’esponente del Pdci secondo cui il negazionismo di Ahmadinejad sarebbe la risposta “folle” a chi pretende di giustificare ogni azione di Israele sulla base del ricordo dell’Olocausto ebraico. Per cui, occorre “interrompere immediatamente ogni strumentalizzazione”: l’offeso non è l’indifendibile Israele ma l’antifascismo…
Mi viene voglia di definire questo pragmatismo “odio di sé”, ma dopo la reprimenda di Giorello non oso più. Basta con le “lagne”. “Allegria!”, diceva Mike Buongiorno. Anche l’amico Giulio sia coerente e la prossima volta, invece di cercare argomenti finti, la butti sul leggero: ricorra al pernacchio napoletano, almeno ci divertiremo tutti. Non meno di quanto ci ha fatto divertire dichiarando di preferire alle metafore del Papa il razionalismo del profeta Muhammad.

Giorgio Israel