«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
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mercoledì 30 aprile 2008
giovedì 24 aprile 2008
Caro Severino, la tecnica ha perso la testa. Non ci rende onnipotenti, semmai confusi
In un saggio pubblicato sulla rivista “Kos” (e di cui il Corriere della Sera ha presentato uno stralcio) Emanuele Severino ha indicato la via attraverso cui l’Europa può ancora proporsi come agente di una “nuova potenza”. Osserva Severino che «la potenza che oggi consente agli Stati di sopravvivere è dovuta alla tecnica guidata dalla scienza moderna». Essa può produrre il «dispiegamento infinito della massima potenza» soltanto «all’interno e sul fondamento dell’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo» che rimuove l’ostacolo principale a tale dispiegamento, ovvero l’idea che esista un ordinamento assoluto e divino che stabilisca i limiti all’agire dell’uomo. Secondo Severino l’essenza del pensiero filosofico mostra «l’impossibilità di ogni Dio eterno che si ponga come il padrone del dispiegamento totale della massima potenza». L’Europa, che ha generato questo pensiero filosofico, possiede la capacità di realizzare «l’onnipotenza planetaria». Basta che ne prenda coscienza, anche se «a questo punto incomincia la questione decisiva, quella che riguarda la verità della potenza».
Emanuele Severino è un pensatore profondo e la questione che pone alla fine è decisiva. Ed ha ragione a osservare che il pensiero scientifico moderno ha sottratto a Dio il privilegio di dispiegare la massima potenza. Quando Cartesio afferma che «il concorso ordinario di Dio nella conservazione del moto non impedisce che la Natura sia autonoma nella propria sfera, che è quella della materia», di fatto esilia Dio dal mondo. Egli lo ha creato abbandonandolo poi al suo funzionamento, rendendo così l’uomo padrone di conoscerlo e trasformarlo a suo piacimento. Ma la natura lasciata libera da Dio era per Cartesio soltanto la sfera della materia e l’onnipotenza materiale dell’uomo ha convissuto a lungo con la presenza divina, concedendo autonomia alla sfera spirituale. Peraltro la scienza non si è posta a lungo l’obbiettivo di intervenire nella sfera vitale e spirituale.
L’analisi di Severino è acuta ma ha un limite profondo nel suo carattere puramente speculativo e nel disinteresse per la storia reale, muovendosi in una sfera di categorie atemporali. Bisogna fare i conti con il fatto che gran parte della storia della scienza europea e occidentale – anche nelle fasi in cui ha esibito la sua massima potenza – ha saputo accomodarsi della presenza divina. Ma c’è un altro punto cruciale. Giustamente Severino individua la chiave del successo della civiltà europea nel fatto che la tecnica fosse «guidata dalla scienza». Ma questa gerarchia, per cui è la scienza teorica a guidare la tecnologia (essendo a sua volta influenzata da una filosofia), rappresenta una circostanza eccezionale nella storia dell’umanità che non è durata più di tre secoli. Oggi la tecnologia va da sola, senza l’impaccio della guida della scienza teorica, sviluppandosi in forme tanto impetuose quanto caotiche e che talora appaiono senza orientamento, carenti come sono di conoscenza. Si spendono somme incredibili per trovare un vaccino per l’Aids per rendersi conto dopo vent’anni che si tratta di un progetto chiaramente infondato sul piano teorico. Qui si manifesta una crisi profonda dell’occidente e dell’Europa in particolare. Pertanto, invocare un dispiegamento di potenza sulla base di un modello che si sta disgregando rischia di essere un esercizio teorico attorno a una realtà che appartiene a un periodo storico trascorso – quello che va da Galileo a von Neumann – e che sta svanendo. Molto più concreto sarebbe riflettere attorno alle forme e alle cause di questa dissoluzione.
(Tempi, 24 aprile 2008)
Emanuele Severino è un pensatore profondo e la questione che pone alla fine è decisiva. Ed ha ragione a osservare che il pensiero scientifico moderno ha sottratto a Dio il privilegio di dispiegare la massima potenza. Quando Cartesio afferma che «il concorso ordinario di Dio nella conservazione del moto non impedisce che la Natura sia autonoma nella propria sfera, che è quella della materia», di fatto esilia Dio dal mondo. Egli lo ha creato abbandonandolo poi al suo funzionamento, rendendo così l’uomo padrone di conoscerlo e trasformarlo a suo piacimento. Ma la natura lasciata libera da Dio era per Cartesio soltanto la sfera della materia e l’onnipotenza materiale dell’uomo ha convissuto a lungo con la presenza divina, concedendo autonomia alla sfera spirituale. Peraltro la scienza non si è posta a lungo l’obbiettivo di intervenire nella sfera vitale e spirituale.
L’analisi di Severino è acuta ma ha un limite profondo nel suo carattere puramente speculativo e nel disinteresse per la storia reale, muovendosi in una sfera di categorie atemporali. Bisogna fare i conti con il fatto che gran parte della storia della scienza europea e occidentale – anche nelle fasi in cui ha esibito la sua massima potenza – ha saputo accomodarsi della presenza divina. Ma c’è un altro punto cruciale. Giustamente Severino individua la chiave del successo della civiltà europea nel fatto che la tecnica fosse «guidata dalla scienza». Ma questa gerarchia, per cui è la scienza teorica a guidare la tecnologia (essendo a sua volta influenzata da una filosofia), rappresenta una circostanza eccezionale nella storia dell’umanità che non è durata più di tre secoli. Oggi la tecnologia va da sola, senza l’impaccio della guida della scienza teorica, sviluppandosi in forme tanto impetuose quanto caotiche e che talora appaiono senza orientamento, carenti come sono di conoscenza. Si spendono somme incredibili per trovare un vaccino per l’Aids per rendersi conto dopo vent’anni che si tratta di un progetto chiaramente infondato sul piano teorico. Qui si manifesta una crisi profonda dell’occidente e dell’Europa in particolare. Pertanto, invocare un dispiegamento di potenza sulla base di un modello che si sta disgregando rischia di essere un esercizio teorico attorno a una realtà che appartiene a un periodo storico trascorso – quello che va da Galileo a von Neumann – e che sta svanendo. Molto più concreto sarebbe riflettere attorno alle forme e alle cause di questa dissoluzione.
(Tempi, 24 aprile 2008)
lunedì 21 aprile 2008
Impertinente, impenitente... in fin dei conti un poveraccio
Mi è stato chiesto di leggere e commentare l'ultima "fatica" di Piergiorgio Odifreddi, "Il matematico impenitente". Me ne guarderò bene. Quanto avevo da dire l'ho detto, per mostrare di che stoffa sono fatti il nostro e i suoi prodotti. Tuttavia, mi sono imbattuto navigando su Internet - s'incontrano le cose più inattese con qualche parola chiave adatta - in un passo che più di qualsiasi altro mostra la qualità della persona, al punto che nulla più serve aggiungere.
Circa un anno fa, in un dibattito in rete sul sito web di Panorama, l'ineffabile ha osservato, rispondendo a un lettore, che nella mia recensione al suo libro più che di lui avevo dato la miglior definizione di me:
«cioe', di un ex comunista, ed ex marito della figlia di ingrao, che ha abiurato la propria ideologia del passato, sposando la figlia di un militare franchista, e diventando un fascista. pace all'anima sua»
È vero che sono stato iscritto al Partito Comunista, fino al 1981. Ho cambiato le mie vedute, e l'ho fatto alla luce del sole e sulla base di argomenti razionali: la categoria dell'"abiura" appartiene alla dimensione del fanatismo. Sono stato sposato con una figlia di Ingrao, la quale pure ha "abiurato" ed è stata la prima firmataria del recente appello al Presidente della Repubblica perché venga a garantire con la sua presenza una dignitosa accoglienza a Israele (lo "stato fascista", secondo l'impertinente) come ospite d'onore alla Fiera del Libro di Torino. Sono sposato con la figlia di un colonnello spagnolo. Non so in quale discarica l'impertinente abbia fabbricato la calunnia che si tratti di un colonnello franchista. Certo, se il colonnello si degnasse potrebbe anche trascinarlo in tribunale. Quanto al fatto che io sia diventato fascista... lasciamo perdere.
Sì, ho l'anima in pace. Ma non nel senso che ci si augura comunemente con questa frase. Mi dispiace per l'impenitente ma sono ancora qui.
Chiuso. Non si può mettere le mani in questi materiali per lungo tempo.
Soltanto quel che basta affinché appaia evidente senza possibili dubbi di cosa si tratti.
Circa un anno fa, in un dibattito in rete sul sito web di Panorama, l'ineffabile ha osservato, rispondendo a un lettore, che nella mia recensione al suo libro più che di lui avevo dato la miglior definizione di me:
«cioe', di un ex comunista, ed ex marito della figlia di ingrao, che ha abiurato la propria ideologia del passato, sposando la figlia di un militare franchista, e diventando un fascista. pace all'anima sua»
È vero che sono stato iscritto al Partito Comunista, fino al 1981. Ho cambiato le mie vedute, e l'ho fatto alla luce del sole e sulla base di argomenti razionali: la categoria dell'"abiura" appartiene alla dimensione del fanatismo. Sono stato sposato con una figlia di Ingrao, la quale pure ha "abiurato" ed è stata la prima firmataria del recente appello al Presidente della Repubblica perché venga a garantire con la sua presenza una dignitosa accoglienza a Israele (lo "stato fascista", secondo l'impertinente) come ospite d'onore alla Fiera del Libro di Torino. Sono sposato con la figlia di un colonnello spagnolo. Non so in quale discarica l'impertinente abbia fabbricato la calunnia che si tratti di un colonnello franchista. Certo, se il colonnello si degnasse potrebbe anche trascinarlo in tribunale. Quanto al fatto che io sia diventato fascista... lasciamo perdere.
Sì, ho l'anima in pace. Ma non nel senso che ci si augura comunemente con questa frase. Mi dispiace per l'impenitente ma sono ancora qui.
Chiuso. Non si può mettere le mani in questi materiali per lungo tempo.
Soltanto quel che basta affinché appaia evidente senza possibili dubbi di cosa si tratti.
giovedì 17 aprile 2008
È più facile rifare una testa che educare, per questo temono la “scuola del merito”
Il documento del Gruppo di docenti fiorentini “per la scuola del merito e della responsabilità”, da taluno ritenuto generico, è invece bastato a suscitare le ire del segretario scuola della Cisl. Questo signore, anziché render conto delle competenze che gli darebbero diritto a parlare di come gestire la scuola, ha intimato ai firmatari di non aprir bocca prima di aver spiegato come hanno raggiunto le loro posizioni professionali. Insomma, professori come Sartori, Schiavone, Bodei, Craveri, Ferroni, Galli Della Loggia, Vassalli, Veca, eccetera dovrebbero render conto a lui di come sono andati in cattedra… Il ministro Fioroni, presente, non ha fatto una piega. Né ha fatto una piega il professor Tagliagambe, che anzi si è adoperato a spiegare come invece di riforme bisogna occuparsi di metodologie didattiche e del passaggio dal “sapere” al “saper fare”. «Meglio una testa ben fatta che una testa piena», ha proclamato nello stile sovietico di chi si arroga il diritto di determinare come “rifare le teste” delle persone, invece di fornir loro saperi che li rendano autonomi nel giudizio. Difatti, è più facile controllare le teste vuote che non quelle piene. E ha ammannito la solita tiritera sugli insegnanti che devono essere rimodellati a “guide”, “facilitatori”, insomma a passivi esecutori delle metodologie di modellazione delle teste.
Non è ancora chiaro che esiste un connubio naturale tra il corporativismo statalista dei sindacati e il pedagogismo metodologico (la solita scienza dei nullatenenti)? Non a caso, nei documenti in circolazione, i “metodologi” si spostano da tutte le parti pur di trovare quella che continui a dar loro la possibilità di seguitare a vivisezionare la scuola con le loro teorie. Non è un caso che la bestia nera di questi signori siano i contenuti e le conoscenze. L’ho sperimentato direttamente nella mia esperienza nella Commissione ministeriale per il miglioramento dell’insegnamento della matematica. Appena mi è scappata di bocca la parola “programmi”, qualcuno mi ha detto con supponenza che quella parola era impronunciabile in quanto espressione di un insegnamento “trasmissivo” e “impositivo”, che bisogna parlare soltanto di “indicazioni”: i programmi si fanno concretamente in classe. Il risultato è che, siccome qualcuno i programmi, in fin dei conti, li deve fare, tutto è delegato alle case editrici che pubblicano qualsiasi cosa, anche testi di matematica dove s’inventa la “legge dissociativa” dell’addizione.
Frattanto, cosa produce il rifiuto di parlare nel merito? Che di questioni di merito si parla lo stesso, ma in modo assolutamente incompetente. Prendiamo il recente documento ministeriale di linee guida sul “nuovo obbligo d’istruzione”. Le competenze da acquisire nell’asse scientifico-tecnologico sarebbero: «Osservare, descrivere ed analizzare fenomeni appartenenti alla realtà naturale e artificiale e riconoscere nelle sue (sic!, proprio “sue” e non “loro”) varie forme i concetti di sistema e di complessità». Qualsiasi persona un minimo “competente” sa che i concetti di sistema e soprattutto di complessità sono soggetti a definizioni diversissime e sono quanto mai sfuggenti, anche per uno specialista. I recenti atti di un convegno internazionale di specialisti sul tema sono intititolati Complessità: chimera o realtà?. E si pretende che un ragazzo sia capace di manipolare qualcosa che non è neppure ben definito sul fronte della ricerca e forse è persino una chimera! Ecco a chi è in mano la scuola italiana, a metodologi che possiedono soltanto tre “competenze”: l’ignoranza, la presunzione e la capacità illimitata di scrivere frasi vuote di senso e sgrammaticate ma pompose nella forma.
(Tempi, 17 aprile 2008)
Non è ancora chiaro che esiste un connubio naturale tra il corporativismo statalista dei sindacati e il pedagogismo metodologico (la solita scienza dei nullatenenti)? Non a caso, nei documenti in circolazione, i “metodologi” si spostano da tutte le parti pur di trovare quella che continui a dar loro la possibilità di seguitare a vivisezionare la scuola con le loro teorie. Non è un caso che la bestia nera di questi signori siano i contenuti e le conoscenze. L’ho sperimentato direttamente nella mia esperienza nella Commissione ministeriale per il miglioramento dell’insegnamento della matematica. Appena mi è scappata di bocca la parola “programmi”, qualcuno mi ha detto con supponenza che quella parola era impronunciabile in quanto espressione di un insegnamento “trasmissivo” e “impositivo”, che bisogna parlare soltanto di “indicazioni”: i programmi si fanno concretamente in classe. Il risultato è che, siccome qualcuno i programmi, in fin dei conti, li deve fare, tutto è delegato alle case editrici che pubblicano qualsiasi cosa, anche testi di matematica dove s’inventa la “legge dissociativa” dell’addizione.
Frattanto, cosa produce il rifiuto di parlare nel merito? Che di questioni di merito si parla lo stesso, ma in modo assolutamente incompetente. Prendiamo il recente documento ministeriale di linee guida sul “nuovo obbligo d’istruzione”. Le competenze da acquisire nell’asse scientifico-tecnologico sarebbero: «Osservare, descrivere ed analizzare fenomeni appartenenti alla realtà naturale e artificiale e riconoscere nelle sue (sic!, proprio “sue” e non “loro”) varie forme i concetti di sistema e di complessità». Qualsiasi persona un minimo “competente” sa che i concetti di sistema e soprattutto di complessità sono soggetti a definizioni diversissime e sono quanto mai sfuggenti, anche per uno specialista. I recenti atti di un convegno internazionale di specialisti sul tema sono intititolati Complessità: chimera o realtà?. E si pretende che un ragazzo sia capace di manipolare qualcosa che non è neppure ben definito sul fronte della ricerca e forse è persino una chimera! Ecco a chi è in mano la scuola italiana, a metodologi che possiedono soltanto tre “competenze”: l’ignoranza, la presunzione e la capacità illimitata di scrivere frasi vuote di senso e sgrammaticate ma pompose nella forma.
(Tempi, 17 aprile 2008)
domenica 13 aprile 2008
sabato 12 aprile 2008
Un intervista in parallelo con Luigi Berlinguer
Al riguardo segnalo questo commento di Fabrizio Foschi che condivido completamente:
«Le rilevazioni internazionali da tempo insistono sull’importanza della dimensione relazionale dell’apprendimento: peccano quando la riducono ad un problema di tecnica. Non esiste una qualche didattica operativa, per quanto aggiornata, che garantisca il meccanico trasferimento di conoscenze grammaticali, matematiche o scientifiche da una persona (l’insegnante) ad un’altra (l’alunno). La trasformazione delle conoscenze apprese in competenze (la forma che assume nella coscienza personale ciò che si è appreso) richiede un rapporto libero tra persone, dove l’adulto comunica anzitutto, attraverso la materia o l’attività che svolge, una ipotesi di significato che vive in prima persona, e l’allievo impegna la sua libertà nella verifica, talvolta faticosa ma sempre appagante, della scelta di una strada esistenziale, culturale e professionale che si chiarifica seguendo dei maestri. Traendo le somme di queste osservazioni, viene da dire che l’esperienza di chi la scuola la fa sul campo (nella classe e non nei progetti; attraverso le materie insegnate e non mediante astruse attività di socializzazione) mostra di essere un punto di riferimento indispensabile per coloro che dal punto di vista del governo del sistema scolastico si pongono l’obiettivo di colmare la distanza tra le condizioni dell’istruzione in Italia e quelle degli altri Paesi europei. »
Mi limito a rinviare: 1) al post precedente concernente il libro di don Giussani; 2) al post precedente riguardante la "misurazione delle competenze". Si vuol misurare "la forma che assume nella coscienza personale ciò che si è appreso"? Ma siamo seri...
«Le rilevazioni internazionali da tempo insistono sull’importanza della dimensione relazionale dell’apprendimento: peccano quando la riducono ad un problema di tecnica. Non esiste una qualche didattica operativa, per quanto aggiornata, che garantisca il meccanico trasferimento di conoscenze grammaticali, matematiche o scientifiche da una persona (l’insegnante) ad un’altra (l’alunno). La trasformazione delle conoscenze apprese in competenze (la forma che assume nella coscienza personale ciò che si è appreso) richiede un rapporto libero tra persone, dove l’adulto comunica anzitutto, attraverso la materia o l’attività che svolge, una ipotesi di significato che vive in prima persona, e l’allievo impegna la sua libertà nella verifica, talvolta faticosa ma sempre appagante, della scelta di una strada esistenziale, culturale e professionale che si chiarifica seguendo dei maestri. Traendo le somme di queste osservazioni, viene da dire che l’esperienza di chi la scuola la fa sul campo (nella classe e non nei progetti; attraverso le materie insegnate e non mediante astruse attività di socializzazione) mostra di essere un punto di riferimento indispensabile per coloro che dal punto di vista del governo del sistema scolastico si pongono l’obiettivo di colmare la distanza tra le condizioni dell’istruzione in Italia e quelle degli altri Paesi europei. »
Mi limito a rinviare: 1) al post precedente concernente il libro di don Giussani; 2) al post precedente riguardante la "misurazione delle competenze". Si vuol misurare "la forma che assume nella coscienza personale ciò che si è appreso"? Ma siamo seri...
martedì 8 aprile 2008
Un antidoto contro la pedagogia debole
Dal mio punto di vista di ebreo leggo gli scritti di don Giussani e vi trovo più di un motivo di comunanza di idee, in particolare nell’accento posto sulla centralità della persona e dell’incontro tra persone nell’esperienza di vita. Nell’ultimo libro pubblicato (“Si può vivere così?”) mi colpisce l’insistenza sul ruolo di mediazione dell’altro nel rapporto con la realtà: «Io non vedo la cosa: vedo soltanto l’amico che mi dice quella cosa, e quell’amico è una persona affidabile, perciò quello che lui ha visto è come se l’avessi visto io». Trovo particolarmente significative le implicazioni sul processo della conoscenza: «Togliete questa conoscenza per mediazione, dovete togliere tutta la cultura umana, tutta, perché tutta la cultura umana si basa sul fatto che uno incomincia da quello che ha scoperto l’altro e va avanti». E ancora: «Se non ci fosse questo metodo non si saprebbe più come muoversi; sì, ci si saprebbe muovere in un metro quadrato. La cultura, la storia e la convivenza umana, si fondano su questo tipo di conoscenza indiretta, conoscenza di una realtà attraverso la mediazione di un testimone».
Nella scuola il testimone è l’insegnante e tutto il processo dell’insegnamento è fondato su questo rapporto tra persone, un rapporto che deve essere di fiducia e di comprensione. È un modo di vedere in consonanza con quanto dice Hannah Arendt: l’insegnante è un rappresentante del mondo in cui il giovane è venuto ad essere e che gli presenta i fondamenti della tradizione, le basi su cui andare avanti. Salendo sulle spalle dell’insegnante, di questo testimone che conquista la sua fiducia, il giovane può andare oltre, incominciando da quello che egli gli trasmette.
È esattamente l’opposto delle sgangherate teorie pedagogiche basate sul principio dell’autoapprendimento, e che dicono di no alla trasmissione delle conoscenze tramite l’insegnamento perché sarebbe impositivo e autoritario: bisogna ricominciare tutto daccapo riscoprendo tutto da sé, con il solo ausilio di un insegnante ridotto a “facilitatore”. Don Giussani avrebbe detto che, se si sceglie questo punto di vista, bisogna togliere tutta la cultura umana, non resta niente, tutt’al più un misero metro quadrato. La cultura e la conoscenza – egli ricorda – non sono mai dirette, bensì mediate da un testimone, sono frutto di un incontro.
La contraddizione è tanto più clamorosa perché quelle teorie – miscela di una forma di pragmatismo che risale a Dewey e dei cascami dell’antiautoritarismo sessantottino e contestatario – negano radicalmente il ruolo della persona. Ciò è clamorosamente evidente in due aspetti tanto cari ai fautori di quelle teorie: il primo è la sostituzione della valutazione basata sul rapporto interpersonale tra maestro e allievo (il voto) – che sarebbe troppo soggettivo – a favore di una valutazione impersonale svolta da enti esterni, che si pretende sia oggettiva, in quanto sarebbe fondata su (inesistenti) basi scientifiche; il secondo è la dissoluzione del ruolo della famiglia. Quest’ultima verrebbe investita della funzione di determinare i percorsi scolastici – per cui è totalmente impreparata – e, per converso, verrebbe espropriata del ruolo che gli compete primariamente, ovvero di formare la personalità etica e morale dei figli. È il punto di vista della “educación para la ciudadania” promosso in Spagna dal governo Zapatero e che ha trovato anche qui dei seguaci in coloro che hanno promosso gli sciagurati corsi di educazione alla Convivenza civile (con la C maiuscola!) e persino di “affettività”. La rilettura delle pagine di don Giussani dedicate all’educazione è un sano antidoto contro queste assurdità.
(Tempi, 3 aprile 2008)
Nella scuola il testimone è l’insegnante e tutto il processo dell’insegnamento è fondato su questo rapporto tra persone, un rapporto che deve essere di fiducia e di comprensione. È un modo di vedere in consonanza con quanto dice Hannah Arendt: l’insegnante è un rappresentante del mondo in cui il giovane è venuto ad essere e che gli presenta i fondamenti della tradizione, le basi su cui andare avanti. Salendo sulle spalle dell’insegnante, di questo testimone che conquista la sua fiducia, il giovane può andare oltre, incominciando da quello che egli gli trasmette.
È esattamente l’opposto delle sgangherate teorie pedagogiche basate sul principio dell’autoapprendimento, e che dicono di no alla trasmissione delle conoscenze tramite l’insegnamento perché sarebbe impositivo e autoritario: bisogna ricominciare tutto daccapo riscoprendo tutto da sé, con il solo ausilio di un insegnante ridotto a “facilitatore”. Don Giussani avrebbe detto che, se si sceglie questo punto di vista, bisogna togliere tutta la cultura umana, non resta niente, tutt’al più un misero metro quadrato. La cultura e la conoscenza – egli ricorda – non sono mai dirette, bensì mediate da un testimone, sono frutto di un incontro.
La contraddizione è tanto più clamorosa perché quelle teorie – miscela di una forma di pragmatismo che risale a Dewey e dei cascami dell’antiautoritarismo sessantottino e contestatario – negano radicalmente il ruolo della persona. Ciò è clamorosamente evidente in due aspetti tanto cari ai fautori di quelle teorie: il primo è la sostituzione della valutazione basata sul rapporto interpersonale tra maestro e allievo (il voto) – che sarebbe troppo soggettivo – a favore di una valutazione impersonale svolta da enti esterni, che si pretende sia oggettiva, in quanto sarebbe fondata su (inesistenti) basi scientifiche; il secondo è la dissoluzione del ruolo della famiglia. Quest’ultima verrebbe investita della funzione di determinare i percorsi scolastici – per cui è totalmente impreparata – e, per converso, verrebbe espropriata del ruolo che gli compete primariamente, ovvero di formare la personalità etica e morale dei figli. È il punto di vista della “educación para la ciudadania” promosso in Spagna dal governo Zapatero e che ha trovato anche qui dei seguaci in coloro che hanno promosso gli sciagurati corsi di educazione alla Convivenza civile (con la C maiuscola!) e persino di “affettività”. La rilettura delle pagine di don Giussani dedicate all’educazione è un sano antidoto contro queste assurdità.
(Tempi, 3 aprile 2008)
domenica 6 aprile 2008
TESTE VUOTE MA "BEN FATTE"
«Meglio una testa ben fatta che una testa piena». Questo è uno dei tanti slogan di coloro che propugnano la sostituzione della “scuola delle conoscenze” con la “scuola delle competenze”, il primato delle metodologie didattiche sui contenuti dell’insegnamento, il passaggio dal “sapere” al “saper fare”. Tralasciamo qui l’imbarazzante questione di chi si arroga il diritto di stabilire come sia una “testa ben fatta” (presupponendo che tale sia la sua) e ha la presunzione di “fare” quella degli altri su questo modello: è un modo di vedere che evoca un’inveterata propensione totalitaria di stile sovietico a “rifare gli uomini” su basi ideologiche, qui rappresentate dalle ideologie didattiche. Concentriamoci piuttosto sulla visione soggiacente della conoscenza e della scienza. È una visione che ispira anche il documento prodotto dalla commissione per la cultura scientifica e tecnologica presieduta dall’ex-ministro Luigi Berlinguer, che ha proposto come panacea per la crisi attuale la sostituzione di un apprendimento «scolastico, cartaceo, nozionistico e deduttivistico» – si noti l’attribuzione di una valenza negativa al termine “scolastico” – con un approccio sperimentale, pratico, «laboratoriale». È una proposta basata su una visione riduttiva, se non banalmente sbagliata della scienza. Come ha osservato il matematico Enrico Giusti, in una pungente e dettagliata critica del documento (Notiziario di ottobre 2007 dell’Unione Matematica Italiana) «il laboratorio non è la scienza, meno che mai tutta la scienza» e «appiattirsi su un’immagine unidimensionale della scienza porta a un impoverimento altrettanto se non più grave di quello lamentato».
Non è fuggire nell’astrazione ricordare l’idea su cui si è costruito il successo della scienza moderna. Essa è stata così descritta dal grande storico della scienza Alexandre Koyré: «È curioso: Pitagora aveva proclamato che il numero è l’essenza stessa delle cose, e la Bibbia aveva insegnato che Dio aveva fondato il mondo sopra “il numero, il peso, la misura”. Tutti l’hanno ripetuto, nessuno l’ha creduto. Per lo meno, nessuno fino a Galileo l’ha preso sul serio. Nessuno ha mai tentato di determinare questi numeri, questi pesi, queste misure. Nessuno si è provato a contare, pesare, misurare. O più esattamente, nessuno ha mai cercato di superare l’uso pratico del numero, del peso, della misura nell’imprecisione della vita quotidiana – contare i mesi e le bestie, misurare le distanze e i campi, pesare l’oro e il grano – per farne un elemento del sapere preciso». Koyré spiegava che il padre della scienza moderna non è Bacone – che proponeva la semplice registrazione e classificazione dei fatti – bensì Galileo e la sua visione matematica del mondo. Può sembrare paradossale che un grande sperimentatore come Galileo definisse la sua scienza “matematica purissima”. Egli seguiva il principio che la raccolta indistinta di fatti non porta da nessuna parte e che le scoperte si fanno seguendo principi concettuali. Il cannocchiale di Galileo non è un marchingegno come le macchine medioevali con cui si strappavano segreti alla natura, ma un oggetto concettuale, un’applicazione delle leggi dell’ottica e, in quanto tale, replicabile in modo uniforme.
Il successo della scienza occidentale e la possibilità stessa della tecnologia sta qui: in una relazione tra teoria e pratica in cui la scienza teorica ha un ruolo primario. La grande scienza – dalla meccanica di Newton alla relatività di Einstein alla progettazione del computer digitale – è soprattutto deduttiva. È un modello che gli Stati Uniti hanno ereditato dall’Europa e sviluppato. La chiave del successo di questo modello sta nei finanziamenti a fondo apparentemente perduto di ricerche di cui non si vedono le applicazioni immediate.
Sembra che ciò sia stato dimenticato da chi propone ostinatamente un modello di insegnamento basato sulle “pratiche”, sul “laboratorio”, sulla preminenza del “saper fare” sul “conoscere” e va contro il principio che ha decretato il successo storico della scienza e della cultura occidentali, nonché la loro globalizzazione, per cui oggi sono altri a impossessarsi di quel modello mentre noi lo abbandoniamo. È un principio che non implica alcuna contrapposizione tra “sapere” e “saper fare” e anzi porta alle forme più efficaci e trasmissibili del “saper fare”. Se lo abbandonassimo torneremmo alla scienza pratica dei babilonesi o degli antichi egizi, a un mondo del pressappoco più arretrato di quello della civiltà greca la quale, se non teneva in gran conto le pratiche, esaltava le conoscenze. Mentre qui rischiamo di perdere con le seconde anche le prime.
Ma v’è un altro aspetto cruciale: la centralità della conoscenza attribuisce un ruolo decisivo alla “cultura generale” come terreno di formazione di individui autonomi e capaci. Perché mai la scuola di Giovanni Gentile, malgrado l’impostazione idealistica e la scarsa attenzione per la scienza, non ha impedito che l’Italia sia rimasta a lungo un paese che sfornava scienziati di primo piano e giovani studiosi che primeggiavano all’estero? Anzi, era risaputo che i diplomati dei licei classici riuscivano meglio in materie scientifiche di quelli provenienti dai licei scientifici. Ciò è accaduto perché la riforma Gentile ha creato una scuola capace di formare uomini dotati di “cultura generale”, ovvero di quelle solide basi che permettono di orientarsi in ogni situazione e anche di essere buoni cittadini, assai meglio di quanto facciano gli attuali miserandi corsi di Convivenza Civile. Certo, oggi occorre adeguare la scuola alla società contemporanea e attribuire ben altro ruolo alla cultura scientifica. Ma se ci accingeremo a questo compito buttando alle ortiche la conoscenza a profitto di “pratiche” prive di basi concettuali – e per giunta con la diabolica presunzione di voler “rifare le teste” non importa se vuote (anzi meglio se lo sono perché così sono più controllabili) – prepareremo con certezza la nostra decadenza culturale, scientifica e tecnologica. La controprova è data dal caso francese, che pure soffre di difficoltà analoghe alle nostre: una delle poche cose che ancora funzionano in Francia è la Classe préparatoire alle “grandi scuole” tecniche che fornisce alle future élites una preparazione ad alto livello basata sulla cultura generale. Accadrà anche di peggio se insisteremo nel voler trasferire alla scuola una logica aziendalistica che non le è propria (per giunta gestita dai sindacati): difatti, ciò che rende efficiente l’istruzione è la qualità delle conoscenze trasmesse e il rapporto interpersonale tra insegnanti e allievi e non quelle tecniche organizzative che funzionano benissimo nelle aziende, e che invece nella scuola rischiano di produrre vuoto metodologismo, decadenza culturale e crollo dei principi etici.
(Messaggero, 6 aprile 2008)
Non è fuggire nell’astrazione ricordare l’idea su cui si è costruito il successo della scienza moderna. Essa è stata così descritta dal grande storico della scienza Alexandre Koyré: «È curioso: Pitagora aveva proclamato che il numero è l’essenza stessa delle cose, e la Bibbia aveva insegnato che Dio aveva fondato il mondo sopra “il numero, il peso, la misura”. Tutti l’hanno ripetuto, nessuno l’ha creduto. Per lo meno, nessuno fino a Galileo l’ha preso sul serio. Nessuno ha mai tentato di determinare questi numeri, questi pesi, queste misure. Nessuno si è provato a contare, pesare, misurare. O più esattamente, nessuno ha mai cercato di superare l’uso pratico del numero, del peso, della misura nell’imprecisione della vita quotidiana – contare i mesi e le bestie, misurare le distanze e i campi, pesare l’oro e il grano – per farne un elemento del sapere preciso». Koyré spiegava che il padre della scienza moderna non è Bacone – che proponeva la semplice registrazione e classificazione dei fatti – bensì Galileo e la sua visione matematica del mondo. Può sembrare paradossale che un grande sperimentatore come Galileo definisse la sua scienza “matematica purissima”. Egli seguiva il principio che la raccolta indistinta di fatti non porta da nessuna parte e che le scoperte si fanno seguendo principi concettuali. Il cannocchiale di Galileo non è un marchingegno come le macchine medioevali con cui si strappavano segreti alla natura, ma un oggetto concettuale, un’applicazione delle leggi dell’ottica e, in quanto tale, replicabile in modo uniforme.
Il successo della scienza occidentale e la possibilità stessa della tecnologia sta qui: in una relazione tra teoria e pratica in cui la scienza teorica ha un ruolo primario. La grande scienza – dalla meccanica di Newton alla relatività di Einstein alla progettazione del computer digitale – è soprattutto deduttiva. È un modello che gli Stati Uniti hanno ereditato dall’Europa e sviluppato. La chiave del successo di questo modello sta nei finanziamenti a fondo apparentemente perduto di ricerche di cui non si vedono le applicazioni immediate.
Sembra che ciò sia stato dimenticato da chi propone ostinatamente un modello di insegnamento basato sulle “pratiche”, sul “laboratorio”, sulla preminenza del “saper fare” sul “conoscere” e va contro il principio che ha decretato il successo storico della scienza e della cultura occidentali, nonché la loro globalizzazione, per cui oggi sono altri a impossessarsi di quel modello mentre noi lo abbandoniamo. È un principio che non implica alcuna contrapposizione tra “sapere” e “saper fare” e anzi porta alle forme più efficaci e trasmissibili del “saper fare”. Se lo abbandonassimo torneremmo alla scienza pratica dei babilonesi o degli antichi egizi, a un mondo del pressappoco più arretrato di quello della civiltà greca la quale, se non teneva in gran conto le pratiche, esaltava le conoscenze. Mentre qui rischiamo di perdere con le seconde anche le prime.
Ma v’è un altro aspetto cruciale: la centralità della conoscenza attribuisce un ruolo decisivo alla “cultura generale” come terreno di formazione di individui autonomi e capaci. Perché mai la scuola di Giovanni Gentile, malgrado l’impostazione idealistica e la scarsa attenzione per la scienza, non ha impedito che l’Italia sia rimasta a lungo un paese che sfornava scienziati di primo piano e giovani studiosi che primeggiavano all’estero? Anzi, era risaputo che i diplomati dei licei classici riuscivano meglio in materie scientifiche di quelli provenienti dai licei scientifici. Ciò è accaduto perché la riforma Gentile ha creato una scuola capace di formare uomini dotati di “cultura generale”, ovvero di quelle solide basi che permettono di orientarsi in ogni situazione e anche di essere buoni cittadini, assai meglio di quanto facciano gli attuali miserandi corsi di Convivenza Civile. Certo, oggi occorre adeguare la scuola alla società contemporanea e attribuire ben altro ruolo alla cultura scientifica. Ma se ci accingeremo a questo compito buttando alle ortiche la conoscenza a profitto di “pratiche” prive di basi concettuali – e per giunta con la diabolica presunzione di voler “rifare le teste” non importa se vuote (anzi meglio se lo sono perché così sono più controllabili) – prepareremo con certezza la nostra decadenza culturale, scientifica e tecnologica. La controprova è data dal caso francese, che pure soffre di difficoltà analoghe alle nostre: una delle poche cose che ancora funzionano in Francia è la Classe préparatoire alle “grandi scuole” tecniche che fornisce alle future élites una preparazione ad alto livello basata sulla cultura generale. Accadrà anche di peggio se insisteremo nel voler trasferire alla scuola una logica aziendalistica che non le è propria (per giunta gestita dai sindacati): difatti, ciò che rende efficiente l’istruzione è la qualità delle conoscenze trasmesse e il rapporto interpersonale tra insegnanti e allievi e non quelle tecniche organizzative che funzionano benissimo nelle aziende, e che invece nella scuola rischiano di produrre vuoto metodologismo, decadenza culturale e crollo dei principi etici.
(Messaggero, 6 aprile 2008)
martedì 1 aprile 2008
"COMPETENZE", CHE PASSIONE...
Mi si chiede di spiegare perché neppure i signori pedagogisti, didatti e docimologi che ci tormentano con le "competenze" e che mediante il loro prepotere in tutte le commissioni ed enti "preposti" le hanno fatte diventare un "must" dell'istruzione, non sanno neppure loro di che cosa si tratti, e tantomeno come si debbano valutare.
Ebbene, la posta elettronica gioca scherzi malefici.
Mi è arrivato, evidentemente per errore, questo messaggio interno a un dibattito tra questi "specialisti".
Lo riporto - ovviamente omettendo la firma e alcune parole che potrebbero permettere di identificare l'autore.
Naturalmente, si è liberi di ritenere che me lo sia inventato io.
Ma forse sarebbe più saggio riflettere al contenuto e controllare che è semplicemente vero.
==========================================
Il dibattito è sul seguente tema:
si può valutare la competenza tramite un test o una prova scritta?
Ovviamente il motivo del dibattito è notevole, all’interno di un gruppo come il nostro. E tutto dipende dalla definizione che viene data di “competenza”.
Ebbene, per motivi ministeriali, dal 19xx al 19xx mi sono trovato a far parte di una ristretta commissione che doveva attuare una legge del 19xx del mio paese relativa proprio alla valutazione delle competenze; tanto è vero che il nostro esame finale (quello che in Italia si chiama “Maturità”) è stato stravolto notevolmente, fino a farlo diventare una prova complessa. Da noi questa prova è molto importante per ‘ingresso all’università.
Tutto questo per dirvi che abbiamo studiato ed esaminato mille possibilità per arrivare a stabilire come valutare le competenze.
Bene, torno alla definizione:
vi sono definizioni “forti” e “deboli”;
· nelle prime si prendono in considerazione fattori affettivi e motivazionali la cui “misurazione” non è banale, tanto che mi sono convinto, negli anni, che ciò non sia possibile; la valutazione è già per conto suo un processo più che un prodotto o un evento; se poi ci sono da valutare fatti affettivi e motivazionali, allora la cosa è complicatissima da realizzare con test e prove scritte;
· nelle definizioni “deboli”, invece, non escludo che si possa fare (credo che uno dei capostipiti delle definizioni deboli sia il belga Xavier Roegiers).
Negli anni fine ‘90 si formò in Svizzera una super commissione mondiale per studiare la definizione di competenza; ne vennero fuori mille, a volte anche assai diverse tra loro; non credo onestamente che si possa giungere, per ora, ad una definizione che accontenti tutti.
Dunque, per concludere:
· vi sono definizioni di competenza che non permettono una valutazione con test;
· ve ne sono altre per le quali ammetto che si possa misurare qualcosa con test.
Ci sono miriadi di articoli ed anche libri su questo scottante tema...
Ebbene, la posta elettronica gioca scherzi malefici.
Mi è arrivato, evidentemente per errore, questo messaggio interno a un dibattito tra questi "specialisti".
Lo riporto - ovviamente omettendo la firma e alcune parole che potrebbero permettere di identificare l'autore.
Naturalmente, si è liberi di ritenere che me lo sia inventato io.
Ma forse sarebbe più saggio riflettere al contenuto e controllare che è semplicemente vero.
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Il dibattito è sul seguente tema:
si può valutare la competenza tramite un test o una prova scritta?
Ovviamente il motivo del dibattito è notevole, all’interno di un gruppo come il nostro. E tutto dipende dalla definizione che viene data di “competenza”.
Ebbene, per motivi ministeriali, dal 19xx al 19xx mi sono trovato a far parte di una ristretta commissione che doveva attuare una legge del 19xx del mio paese relativa proprio alla valutazione delle competenze; tanto è vero che il nostro esame finale (quello che in Italia si chiama “Maturità”) è stato stravolto notevolmente, fino a farlo diventare una prova complessa. Da noi questa prova è molto importante per ‘ingresso all’università.
Tutto questo per dirvi che abbiamo studiato ed esaminato mille possibilità per arrivare a stabilire come valutare le competenze.
Bene, torno alla definizione:
vi sono definizioni “forti” e “deboli”;
· nelle prime si prendono in considerazione fattori affettivi e motivazionali la cui “misurazione” non è banale, tanto che mi sono convinto, negli anni, che ciò non sia possibile; la valutazione è già per conto suo un processo più che un prodotto o un evento; se poi ci sono da valutare fatti affettivi e motivazionali, allora la cosa è complicatissima da realizzare con test e prove scritte;
· nelle definizioni “deboli”, invece, non escludo che si possa fare (credo che uno dei capostipiti delle definizioni deboli sia il belga Xavier Roegiers).
Negli anni fine ‘90 si formò in Svizzera una super commissione mondiale per studiare la definizione di competenza; ne vennero fuori mille, a volte anche assai diverse tra loro; non credo onestamente che si possa giungere, per ora, ad una definizione che accontenti tutti.
Dunque, per concludere:
· vi sono definizioni di competenza che non permettono una valutazione con test;
· ve ne sono altre per le quali ammetto che si possa misurare qualcosa con test.
Ci sono miriadi di articoli ed anche libri su questo scottante tema...