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sabato 31 maggio 2008

Bullismo scolastico

Nel luogo dove vado di solito in vacanza c’è una discarica a pochissima distanza da alcuni tra i più celebrati luoghi delle Dolomiti altoatesine. Di certo non è meta di escursioni ma non ho mai sentito nessuno, né residenti né turisti, che se ne lamentasse. È proprio delle persone ragionevoli capire che, se pretendono di vivere, devono trovare il modo di convivere con le proprie scorie. L’importante è farlo in modo civile e dignitoso e, di certo, la Provincia di Bolzano avrà difetti, ma non quello di non saper gestire in modo esemplare l’ambiente. È comprensibile che gli abitanti della Campania desiderino che le loro discariche siano simili a quella sopra menzionata, ma non che rifiutino di averne, tantomeno erigendo barricate e lanciando molotov. Né sarebbe ragionevole che le forze dell’ordine rispondessero alle barricate e alle molotov distribuendo copie della costituzione o istituendo corsi di convivenza civile e di diritto.
E allora che direste del progetto di rispondere al bullismo scolastico con dei corsi di educazione civica o convivenza civile? Alla fin fine, chi si oppone a una discarica nel proprio territorio ha pur sempre qualche motivazione – se non lo fa con violenza e con fini e modalità eversivi – come la richiesta che la discarica non inquini le falde acquifere. Ditemi quale può essere la motivazione di un branco di bulli che marchia il primo della classe con una moneta incandescente, brucia a un altro i capelli e gli incide in faccia una svastica o mette in mutande il professore. Può esistere la più lontana giustificazione di atti simili? E qualcuno crede davvero che chi li compie non sia consapevole di fare del male? Si tratta invece di persone capaci di intendere e di volere cui bisognerebbe rispondere in un solo modo: con l’applicazione più severa e intransigente dei regolamenti scolastici e della legge. Assistiamo invece in questi giorni a un fiorire di proposte di corsi di educazione civica e addirittura alla riproposizione di corsi zapateristi di “educazione alla convivenza civile”, magari da parte di cattolici che, con coerenza degna di miglior causa, hanno condannato un istante prima il laicismo dei corsi di “educación para la ciudadanía”.
Insomma, rispunta fuori la solita demagogia del “disagio sociale”, della risposta “educativa” e “dialogante”, il rifiuto della “repressione”; dimenticando che è proprio questa demagogia e la melassa donmilanista che ha condotto la scuola allo sfacelo, al “disagio sociale”, al crollo delle regole elementari della “convivenza civile”, alla cancellazione dei principi etici elementari.
Ma c’è qualcosa di più grave al fondo del riproporsi ostinato dei medesimi errori. Da qualche tempo dilaga la consapevolezza che occorre cambiare registro in modo radicale per salvare – se ancora è possibile – la scuola. Pochi giorni fa Pietro Citati su “La Repubblica” ha paragonato a un «vero, immane disastro, paragonabile a un terremoto del decimo grado della scala Mercalli» l’opera dell’ex-ministro Luigi Berlinguer «circondato da una schiera di pedagogisti», che ha trasformato l’istruzione nel «regno dell’immensa faciloneria governata da un sovrano idiota». A sua volta, Francesco Alberoni, ha denunciato «i catastrofici errori dei pedagogisti consulenti dei ministri che hanno influenzato tutte le riforme scolastiche degli ultimi anni… veri responsabili della ignoranza dei nostri figli, della loro incapacità di pensare logicamente, di argomentare», ammonendo che solo «se ci liberiamo di questa pedagogia potremo avere di nuovo una scuola adatta ai nuovi difficili tempi». Chi conosce un minimo il mondo della scuola e l’umore delle famiglie sa quanto questa consapevolezza e questi sentimenti siano sempre più diffusi e il malcontento nei confronti dei pedagogisti sia dilagante.
Di fronte a questo malcontento e a queste polemiche gli interessati tacciono, pronti però a rispuntare dai corridoi ministeriali o sindacali in cui si sono rintanati in attesa di tempi migliori. Ed ecco che viene fuori il pedagogista di turno a proporre l’istituzione di corsi di educazione civica, con relativi docenti, lamentando che il ministero non abbia concesso “autonomia” a questa disciplina. Insomma, una nuova greppia, con nuove cattedre, nuove ore di lezioni, nuovi docenti e nuove assunzioni. Anche Giorgio De Rienzo ha parlato di «impiego di esperti esterni» addirittura con obbiettivi locali, per esempio – torniamo daccapo – il problema dei rifiuti campani. E il presidente dell’Associazione dei Presidi Rembado si è sostanzialmente lavato le mani del problema dichiarando che va bene anche l’educazione civica, purché non si tocchi l’autonomia scolastica e non si torni ai programmi ministeriali.
Cominciamo, anzi ricominciamo male, malissimo. Forse bisognerebbe prendere atto che sono in tantissimi a non poterne più proprio degli “esperti esterni”, degli specialisti di etica e di morale e depositari della corretta interpretazione dei dieci comandamenti, di coloro che sanno tutto di “affettività” e insegnano come ci si vuol bene, come si deve convivere e avere rapporti amorosi, che sanno tutto della psiche umana e sono specialisti di fabbricazione di “teste fatte bene”. Delle catastrofiche prestazioni delle loro scienze sembra che non siano tenuti a render conto a nessuno, malgrado siano sotto gli occhi di tutti. Possiedono però una capacità indiscussa: quella di rispuntar fuori da ogni angolo a dispetto di ogni insuccesso.
Cosa fare? Invece di progettare l’ennesimo sperpero di denaro pubblico in task force di “esperti esterni” di metodologie del nulla, capaci soltanto di affossare ulteriormente la scuola, occorre restituire agli insegnanti la funzione di autentici maestri ed educatori (con annessi diritti e doveri), richiamare energicamente le famiglie a esercitare la funzione educativa primaria che ad esse compete e a comportarsi responsabilmente nei confronti dell’istituzione scolastica, il tutto in una cornice di ripristino rigoroso delle regole, dei regolamenti e del rispetto delle leggi vigenti. Fino a quando sarà possibile che lo schiaffeggiatore di un docente, sospeso per tre mesi, possa trasferirsi in un altro istituto per non perdere l’anno, sarà ridicolo parlare di task force di educatori civici, e semplicemente vergognoso trincerarsi dietro l’autonomia scolastica.
(Libero, 28 maggio 2008)

domenica 25 maggio 2008

Ottimismo?

Come ha scritto a commento di un post precedente Attento, l'articolo pubblicato da Pietro Citati su La Repubblica, "L'Università in guerra con Omero e Dante" (vedi anche http://www.retescuole.net/contenuto?id=20080521084147) dovrebbe indurre a ottimismo. Infatti, anch'io penso che l'insofferenza nei confronti dei pedagogisti e di tutta la banda di metodologi che impazza sulla scuola e l'università italiana come una banda di termiti sia sempre più diffusa. Diciamo pure dilagante. Vi sarebbero quindi fondate ragioni per essere ottimisti.
Ma... il problema è un altro. Costoro sono insediati in tutti i gangli vitali dei ministeri, dei sindacati, delle agenzie che in un modo o nell'altro hanno a che fare con il sistema dell'istruzione. Avete notato che non rispondono a nessun attacco e a nessuna critica? Aspettano pazienti che passi la tempesta, o comunque che si realizzino le condizioni per rispuntar fuori e ricominciare la loro opera nefasta. Ci vorrebbe un ministro capace di pulire i corridoi con la ramazza. Vedremo.
Intanto hanno già rialzato la testa con la deplorevole ipotesi della task force sul bullismo e i corsi di educazione civica.
E l'ex-ministro Berlinguer impazza con le sue commissioni sulla scienza e la musica. Già, perché solo in Italia poteva darsi il fenomeno di un giurista che è il referente massimo delle riforme in campo scientifico e musicale.
Basterebbe questo - e cioè l'aver dato spazio a queste commissioni - per togliere ogni credito all'opera del già ministro Fioroni. Egli porta la responsabilità di aver perpetuato il potere di questo personaggio - autentico Attila dell'istruzione italiana - che ancora viene chiamato in giro con il titolo di ministro, come se il "vero" ministro fosse lui e non le mezze figure che si sono succedute. Certo, perché il decisionismo non gli è mancato. In futuro sarà ricordato soltanto per gli esiti catastrofici - non si illudano e i suoi adulatori - ma per l'intanto continua a impazzare.
Bisogna essere ottimisti? Difficile dirlo.
Di certo non bisogna mollare.

P.S. Si apprende dalla rete che la presentazione del progetto di educazione musicale berlingueriano è avvenuta al termine di un’occasione speciale: la rappresentazione della favola musicale di Prokofiev «Pierino e il Lupo» eseguita nell’Aula magna del Rettorato dell’Università di Firenze (Piazza San Marco) dall’Orchestra regionale delle Scuole toscane a indirizzo musicale diretta dal maestro Edoardo Rosadini con voce recitante di Luigi Berlinguer. Sarà stata una performance assolutamente esaltante. Soprano o contralto? A quando un duetto con Rosa Iervolino sull'aria mozartiana: "Là ci darem la mano, là ci direm di sì..."?

Ma l’uomo non è un dado

Articolo citato dal Cardinale Camillo Ruini nella sua prolusione al Sesto Simposio europeo dei docenti universitari.
Vedi qui o qui o nell'archivio di Avvenire.


Nel 1821 il grande matematico Augustin-Louis Cauchy così scriveva: «… se ho tentato di perfezionare l’analisi matematica sono ben lungi dall’affermare che quest’analisi sia sufficiente a tutte le scienze della ragione. Indubbiamente, nelle scienze cosiddette naturali, il solo metodo che possa essere impiegato con successo consiste nell’osservare i fatti e nel sottoporre le osservazioni al calcolo. Ma sarebbe un grave errore pensare che la certezza non possa essere trovata altro che nelle dimostrazioni geometriche o nella testimonianza dei sensi; e nonostante nessuno fino ad oggi abbia tentato di dimostrare con l’analisi l’esistenza di Augusto o di Luigi XIV, ogni uomo sensato converrà che questa esistenza è per lui altrettanto certa del quadrato dell’ipotenusa o del teorema di MacLaurin. Dirò di più: la dimostrazione di quest’ultimo teorema è alla portata di poche menti […]; al contrario tutti sanno molto bene da chi sia stata governata la Francia nel diciassettesimo secolo, e che non è possibile sollevare al riguardo alcuna contestazione ragionevole. Ciò che ho detto a proposito di un fatto storico si applica parimenti a una quantità di problemi, nel campo religioso, morale e politico. Occorre convincersi che esistono verità diverse dall’algebra, realtà diverse dagli oggetti sensibili. Coltiviamo con ardore le scienze matematiche, ma senza volerle ostentare al di là del loro dominio; e non illudiamoci che si possa affrontare la storia con delle formule, né sanzionare la morale con dei teoremi o con il calcolo integrale».
Si potrebbe pensare che siffatti propositi – che toccano brillantemente il tema oggi tanto discusso di una visione della ragione non ristretta all’approccio delle scienze naturali e matematiche – fossero un’eccezione nel panorama scientifico, che esprimessero le vedute di un matematico cattolico e conservatore. Al contrario, questa era l’opinione prevalente nel mondo scientifico dell’Ottocento. Ad esempio, nel 1836, un altro celebre matematico, Louis Poinsot, definiva «ripugnante» l’applicazione del calcolo delle probabilità alle «cose dell’ordine morale»: «rappresentare con un numero la credibilità di un testimone, assimilare gli uomini a dadi», trattare matematicamente le qualità morali e ricavare su questa base conclusioni che possano «determinare un uomo sensato a prendere una decisione o a dare un consiglio su una cosa di qualche importanza, è un’aberrazione della mente, una falsa applicazione della scienza e che non potrebbe altro che screditarla».
Potrei continuare, ma basti dire che l’opposizione diffusa ai tentativi di matematizzare le scienze sociali provenne dai matematici ancor più che dagli economisti e condusse alla disperazione il pioniere dell’economia matematica Léon Walras, isolato dallo scetticismo di scienziati di primissimo piano come Henri Poincaré. L’Ottocento fu un secolo fondamentalmente dualista che chiuse la parentesi del materialismo settecentesco estremo secondo cui l’anima è una secrezione del cervello come la bile lo è del fegato (Cabanis), e attribuì statuti distinti alle scienze naturali e alle scienze umane. Del resto, anche i grandi protagonisti della rivoluzione scientifica del Seicento quando dicevano che “il mondo è matematico” intendevano per “mondo” soltanto la sfera dei fenomeni materiali. Anche Cartesio, che pure si era spinto avanti nell’“esilio” di Dio dal mondo, asserendo che «il concorso ordinario di Dio nella conservazione del moto non impedisce che la natura sia autonoma nella sua propria sfera», ribadiva nettamente che questa sfera «è quella della materia». E nonostante egli considerasse la matematica come la suprema scienza dell’ordine e della misura che fornisce il modello del metodo (mathesis universalis), si guardava bene dall’estenderne il dominio al di là della sfera naturale. Al punto di proscrivere ogni tentativo di dominare il concetto di infinito; con il che non voleva dire che l’uomo non possieda tale concetto: al contrario, il possesso da parte dell’uomo dell’idea di infinito e di perfezione manifesta la presenza divina. Ma la mente umana è finita e «sarebbe ridicolo che tentassimo di determinarne qualcosa [dell’infinito] e in tal modo supporlo finito cercando di capirlo». Per questo, secondo Cartesio, non bisogna chiedersi se la metà di una retta sia infinita o se l’infinito è pari o dispari. Soltanto Leibniz si spinge ad asserire che l’infinito e l’infinitamente piccolo possono essere manipolati come le quantità finite, perché vi è coerenza completa tra realtà e ragione, e addirittura propugna la creazione di un calcolo simbolico universale con cui sviluppare ogni ragionamento, quale che ne sia l’oggetto. Ciononostante anche Leibniz era un dualista convinto.
È nel Novecento che si è affermata la concezione detta “naturalismo” che ha come programma la riduzione di ogni aspetto della realtà a processi naturali, ovvero materiali, e che quindi altro non è che una forma di materialismo, seppure declinata talora nella versione blanda del “materialismo metodologico”, secondo cui non importa chiedersi se tutto sia riducibile a fatti materiali ma conviene ragionare “come se” così fosse. Oggigiorno predomina una versione forte del naturalismo: un materialismo metafisico che attribuisce alla scienza il compito di mostrare che ogni aspetto della realtà consiste di processi materiali. Ed è così che l’esilio di Dio dalla natura predicato da Cartesio e da Leibniz – e tanto criticato dai filosofi newtoniani, come Clarke – diventa un esilio totale, ateismo radicale e la scienza viene investita del compito di distruggere la “superstizione” religiosa. Anzi – a leggere certi testi e a seguire certi dibattiti – sembra quasi che la sua attività si riduca esclusivamente a questo fine. Questi sviluppi non potevano non avere come conseguenza la caduta della barriera che si era frapposta contro la matematizzazione di ogni aspetto della realtà. Il Novecento segna il dilagare della matematica in ogni campo ed oggi questo processo assume contorni parossistici. Tutti i premi Nobel per l’economia vengono conferiti a matematici; la biologia si ripartisce tra un approccio sperimentale volto ossessivamente a ricercare le basi materiali della vita e del pensiero e un approccio matematico modellistico; praticare le scienze sociali, psicologiche e pedagogiche senza mettere in opera un approccio se non strettamente matematico, quantomeno ispirato alla logica formale e alla modellistica, sembra sconveniente. Pare che non sia più lecito pensare se non in termini di procedimenti logico-formali.
La vera domanda è se tutto ciò abbia qualcosa a che fare con la scienza come è stata intesa per qualche secolo, sia in termini di finalità che in termini di risultati oggettivi. Al riguardo, considero fondamentali le osservazioni proposte da Gershom Scholem una trentina di anni fa. Egli osservava che «un ebraismo vivo, quale che sia la sua concezione di Dio, dovrà opporsi risolutamente al naturalismo» – e mi pare che ciò valga in modo del tutto identico per il cristianesimo. Secondo Scholem, questa opposizione dovrà mettere in luce che l’idea secondo cui il progresso è di per sé sorgente di produzione di senso è assurda, e che l’ipotesi secondo cui il mondo è «luogo di assenza di senso è ricevibile a condizione di trovare un solo uomo che sia pronto ad accettarne le conseguenze». A costo di ripetere quel che ho già scritto altrove, dirò che lo spettacolo odierno di persone che impiegano tempo ed energie a dimostrare che tutto è prodotto senza senso di interazioni casuali – e così si mettono nella tragicomica situazione di chi da senso alla propria vita proponendosi di convincere gli altri che nulla ha senso – costituisce la migliore prova della tesi di Scholem. Cui egli ne aggiunge un altra, e cioè che «la frivolezza filosofica con cui molti biologi cercano di ricondurre le categorie morali a categorie biologiche è una delle caratteristiche più oscure del clima culturale della nostra epoca ma non può ingannarci circa il carattere disperato di una simile impresa. Basta studiare attentamente una sola di queste opere per percepire gli equivoci, le petizioni di principio, le latenze teologiche, le incrinature e le fessure di questo genere di edifizi intellettuali».
Questo è stato scritto una trentina di anni fa ma è ancor più vero oggi. E quaranta anni non hanno modificato – se mai aggravato – il giudizio del celebre storico della scienza Alexandre Koyré circa i risultati dell’«imitazione servile» del metodo di analisi e ricostruzione per atomi applicato al di fuori delle scienze naturali propriamente dette: egli li definiva «mostruosità». Bisogna avere il rigore e il coraggio di esaminare in profondità e mettere in luce l’estrema povertà dei risultati dell’estensione del metodo delle scienze fisico-matematiche al campo delle scienze umane. Non farlo significa subire passivamente un conformismo trionfalistico privo di fondamento e lasciare campo libero al dilagare del peggiore naturalismo. Questo non significa assumere un atteggiamento antiscientifico. Al contrario. Per dirla con Poinsot e Cauchy, questo è l’unico modo sensato per difendere l’onore della scienza in quanto attività conoscitiva contro i tentativi di ridurla a un’impresa di propaganda del materialismo e dell’ateismo.
Occorre pertanto sviluppare un elevato livello di vigilanza critica. Quando leggiamo le indicazioni governative per l’istruzione e constatiamo che la matematica non viene intesa come una scienza, bensì come “la” modalità per eccellenza del pensiero che deve plasmare ogni forma di esercizio della ragione, ci troviamo di fronte al riflesso di una visione “ridotta” della razionalità che considera inferiore qualsiasi forma di ragionamento diversa da quella logico-formale e precipita le materie umanistiche nel purgatorio del pensiero, in quanto incapaci di produrre verità.
Ma non basta essere vigili. Occorre essere coerenti. A che vale proporre come centrale il “senso” nella vita e nei rapporti con gli altri se poi si finisce con l’accettare passivamente una concezione dell’educazione e dei rapporti affettivi in contraddizione con tale proposito? Oggi dilagano teorie pedagogiche ispirate al più smaccato scientismo. Esse proclamano che l’insegnante non deve più essere un “maestro” bensì un “facilitatore”, che il rapporto con gli allievi non deve essere “dichiarativo” (ossia basato sui contenuti) bensì “procedurale”, ovvero centrato su metodi e tecniche dell’insegnamento; e, in quanto esperto di tali metodi e tecniche, l’insegnante deve divenire un “professionista”. Pretendono inoltre di oggettivizzare in modo quantitativo i processi di valutazione, sottraendoli alla soggettività “arbitraria” del rapporto tra insegnante e studente per consegnarli alle procedure di una “scienza”, la “docimologia” che ha la pretesa sconfinata di misurare le competenze, la cultura, il pensiero. Infine, pretendono addirittura di trasformare in “scienza” i rapporti affettivi e la morale delegando la formazione della persona in tali ambiti a corsi di “affettività” e “convivenza civile”.
Da un lato, occorre mettere in luce l’estrema fragilità delle premesse teoriche di tali teorie e la desolante miseria dei loro risultati. Ma occorre anche che si risolva l’incoerenza di coloro – e non sono pochi – che, da un lato, sono convinti che il processo educativo sia un rapporto tra persone in cui l’insegnante si presenta come “rappresentante del mondo” (per dirla con Hannah Arendt) che fornisce all’allievo gli strumenti conoscitivi per costruire il progetto e il senso del proprio futuro, e non è il mero agente di procedure meccaniche e standardizzate; e, d’altro lato, accettano passivamente di praticare queste procedure. In tal modo si permette al più vieto scientismo di ridurre al rango di vuoti proclami ciò di cui più si è convinti.
(L’Osservatore Romano, sabato 24 maggio 2008)

sabato 24 maggio 2008

Modelli matematici e Cabala

Ammetto di aver appreso da poco – per un’intervista fattami dal Sole 24 Ore – che negli ambienti finanziari ed economici dilaga il ricorso alla cabala e all’astrologia per prevedere l’andamento dei mercati. Pare che anche persone autorevoli come l’ex-presidente della Federal Reserve Alan Greenspan subiscano l’attrazione fatale delle relazioni mistiche tra i numeri e il corso dei cicli economici e finanziari. Ho appreso che la rivalutazione moderna della numerologia è dovuta soprattutto a William Gann, nato nel 1878 in Texas e appassionato fin da piccolo alle interpretazioni numerologiche della Bibbia da lui applicate alla finanza. Gann si convinse che il cosmo è un unico complesso armonico le cui vibrazioni influenzano il corso degli eventi e le decisioni umane, tra cui quelle degli investitori. Studiando le serie storiche delle transazioni azionarie, Gann ricavò la “legge della vibrazione”, che descrive le influenze dei cicli astrali sulle vicende umane: nei punti di massima “vibrazione” del ciclo si determinerebbe un’inversione nella tendenza dei mercati azionari. Gann enunciò anche 24 regole da seguire nel trading.
Oggi dilaga la riscoperta delle teorie di Gann e nascono “scuole” – anche in Italia da un decennio – che insegnano come applicare i suoi metodi, dal “master time factor”, al “tunnel spazio-temporale” al “grande segreto del cerchio”. C’è chi tenta di dare dignità scientifica a tutto ciò sostenendo che, in fondo, si tratta soltanto di applicare l’idea di “correlazione”, ovvero dell’esistenza di un legame più o meno evidente e intenso tra due fenomeni apparentemente privi di connessioni tra di loro. Ad esempio, si constata che tra il 1922 e il 1929 le gonne femminili erano via via più corte: parallelamente si sono avuti sette anni di rialzi vertiginosi dei mercati fino al crollo del 1929. Visto che le tendenze attuali sono a scorciare le gonne si consiglia di stare molto attenti. Tuttavia, secondo la Cabala, pare che non vi sia nulla da temere fino alla fine del 2008, dopodichè apriti cielo… Allungate le gonne, per favore.
Colpisce il fatto che si preferisca ricorrere alle concatenazioni astrali piuttosto che alla matematica. A mo’ di giustificazione si osserva che le correlazioni cabalistiche offrono una precisione del 90%, superiore a quella dei modelli matematici. Non si capisce allora perché non vengano chiusi insegnamenti, dipartimenti e riviste di economia matematica e non si smetta di dare i premi Nobel per l’economia soltanto ai matematici.
Nell’intervista sopradetta, richiesto di dire la mia, ho affermato trattarsi di pura e semplice impostura irrazionalista. Ma non ero tanto interessato alla Kabbalah? Già, ma la Kabbalah è cosa ben diversa: è l’analisi mistica degli strati di senso del testo biblico e proscrive come una degenerazione nel senso della magia (bianca o addirittura nera) i tentativi di prevedere il futuro o persino di influenzare il corso degli eventi. Insomma, la Cabala (come il ricorso ai numeri della “smorfia” per vincere al lotto) è una degenerazione cialtronesca della Kabbalah.
Tempo fa mi sono occupato in questa rubrica di una conferenza di Umberto Eco al Festival della Matematica di Roma sugli usi perversi della matematica, in cui se la prendeva indistintamente con Pitagora e i numerologi cialtroni. Per un’autentica difesa del razionalismo, avrebbe fatto meglio a lasciare in pace Pitagora e Pico della Mirandola e a prendersela con chi predica male e razzola male: ovvero con chi proclama l’utilità della matematica anche quando dà pessimi risultati, e poi fa previsioni con la palla di vetro. Questo scientismo è il vero irrazionalismo.
(Tempi, 22 maggio 2008)

Il computer non è un idolo

Arrestiamo il disastro. Basta competenze e metodologia, dalla scuola vogliamo conoscenze

In un recente articolo (Corriere della Sera, 12 maggio) Francesco Giavazzi ha richiamato la centralità della questione educativa ammonendo che società e individui che perdono istruzione vengono messi fuori gioco. A suo avviso, il “premio all’istruzione” è conseguenza della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica (internet, computer e uso crescente di modelli fisici e matematici nella finanza) per cui è compito del sistema educativo «tenere il passo» con i progressi della tecnologia. In realtà, il successo del modello occidentale (che è all’origine della sua globalizzazione) deriva dall’idea di una tecnologia fondata sulla conoscenza teorica. Pertanto, un’educazione che insegue la tecnologia segnala una condizione regressiva (una tecnologia che procede indipendentemente dall’istruzione di base) e/o una ricetta sbagliata (un’istruzione che insegue la tecnologia non va da nessuna parte). Difatti, i fattori di innovazione tecnologica indicati da Giavazzi sono di per sé vuoti di contenuto e non offrono prospettive educative. Internet e il computer sono meri strumenti con cui si possono fare eccellenti ricerche bibliografiche (se si è appreso come farle!) o scaricare informazioni improbabili da Wikipedia (per esempio che il Cardinale Ratzinger nel 1990 condannò Galileo), elaborare efficaci modelli matematici (se si conosce la matematica!), fare videogiochi o visitare siti pedopornografici. Non a caso, negli Stati Uniti si tende ormai a limitare l’uso dei computer nelle scuole: ma da noi le “innovazioni didattiche” vengono adottate quando altrove vengono abbandonate. Quanto alla crescente utilità dei modelli matematici in economia e finanza, vi crede soltanto un mandarinato accademico autoreferenziale che (come ha documentato un recente articolo sul Sole-24 Ore) di nascosto preferisce affidarsi alle previsioni basate sulla cabala o sulle teorie sgangherate del finanziere mistico degli anni 1920 William Gann. Il premio Nobel per l’economia Robert Aumann, recentemente richiesto di fare previsioni circa l’andamento della finanza mondiale sulla base della teoria dei giochi, ha ammesso onestamente che essa non gli permetteva di dire niente più di quanto potrebbe dire un qualsiasi uomo della strada.
Pertanto, non si contribuirà validamente al dibattito sulla riforma del sistema dell’istruzione se non discutendo, e a fondo, dei contenuti da trasmettere: contenuti autentici, non vuote metodologie. Questo è ormai il nodo gordiano della questione educativa in ogni campo. Anche Tzvetan Todorov ha posto tale questione al centro del suo recente libro “La letteratura in pericolo”, denunciando, in termini coraggiosamente autocritici, il disastro educativo provocato dalle visioni formaliste in letteratura che si concentrano soltanto sulle modalità della scrittura e trascurano i contenuti che essa trasmette, finendo col mettere da parte le opere stesse. Ogni architettura istituzionale e normativa crollerà su sé stessa se si considererà come una faccenda accessoria cosa insegnare; se (esempio emblematico) si pretenderà di insegnare a un bambino a dividere 300 per 15 al seguente modo: disegna 15 alberi e appendi ad essi in parti uguali i disegni di 300 palline, e poi colora tutto… La matematica si è sviluppata proprio per non dover disegnare e colorare centinaia o migliaia di alberi e palline. Qui non è in gioco soltanto un metodo didattico sbagliato ma una concezione regressiva della matematica.
Più in generale, i dibattiti sull’istruzione appaiono dominati da una vacua ripetizione di formule di cui quasi nessuno conosce il senso. Tale è il caso dello slogan del “passaggio dalla scuola delle conoscenze alla scuola delle competenze”, che viene evocato come una necessità assoluta anche “perché ce lo chiede l’Europa”. Ma noi non siamo in Europa per ripetere a pappagallo qualsiasi formula e accettare qualsiasi sciocchezza – anche il divieto di cuocere la pizza nel forno a legna o le pericolose banalità del “politicamente corretto” – bensì per portare liberamente contributi razionali. Pochi sanno che la pedagogia per obbiettivi è un metodo di formazione professionale sviluppato negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale per addestrare tecnici addetti alla manutenzione capaci di operare sotto il fuoco nemico o piloti da combattimento. È evidente che in questo contesto, come in molti contesti tecnico-professionali, è possibile dare una valutazione quantitativa delle prestazioni e quindi fondare in modo accettabile il concetto di “competenza”. I guai cominciano quando si vuole generalizzare tale concetto a ogni forma di apprendimento. Come definire una competenza in storia? La tentazione è di definirla con obbiettivi strampalati come la capacità dello studente di comporre testi storici (come predicano le Indicazioni nazionali del ministero dell’istruzione). Così la giusta esigenza che la scuola stimoli lo studente a una partecipazione attiva deborda nello scenario ridicolo di un popolo di poeti, scienziati, tecnologi, romanzieri, pittori, navigatori e trasmigratori. Sul piano della misurazione, poi, i docimologi – pur evitando di dirlo ad alta voce per non perdere le loro posizioni nelle agenzie di valutazione – ammettono che dopo un ventennio di diatribe e di centinaia di definizioni di “competenze”, misurarle risulta impossibile soprattutto quando intervengono (parole loro) “fattori affettivi e motivazionali”.
Se ci accontenteremo di slogan preconfezionati costruiremo sulla sabbia. Ad esempio, Giavazzi ribadisce giustamente che un sistema di autonomia scolastica richiede un buon sistema di valutazione. Ma, come abbiamo appena visto, la vera questione è cosa sia un buon sistema di valutazione. Non basta dire che è meglio controllare le scuole a tappeto e non a campione. Il problema è che le uniche valutazioni serie sono quelle qualitative, ma un sistema del genere è molto costoso. Viceversa le valutazioni basate su griglie di parametri quantitativi sono spesso inattendibili. Se ci affidassimo ciecamente a sistemi di valutazione improbabili (senza neanche valutarli) potremmo credere di aver fatto il nostro dovere e poi subire un brutale risveglio, com’è il caso di altri paesi, dove si valuta sistematicamente ma i risultati sono non meno disastrosi dei nostri, malgrado quel che fa credere il vizio nazionale di autoflagellazione. Inutile elevare a modello Finlandia e Svezia: le cose vanno molto meglio in India o in Corea del Sud dove si usano sistemi di insegnamento disciplinare e sistemi di valutazione del tutto tradizionali.
Altra questione: inutile parlare di “autonomia” se non precisiamo a cosa ci si riferisce. Appare ragionevole l’idea di concedere agli istituti la facoltà dell’assunzione diretta entro una lista nazionale di idonei. Assai meno ragionevole è l’autonomia intesa come licenza di definire come meglio garba contenuti e metodi dell’insegnamento, per cui in una scuola si aboliranno le ore di lezione, in una s’insegnerà Euclide e in un’altra la matematica cinese con le bacchette, in una si studierà musica col solfeggio e in un’altra battendo le pentole. La “libanizzazione” della scuola sarebbe un esito inevitabile. Né la concorrenza fermerebbe lo sfacelo. Perché una valutazione (e una conseguente graduatoria degli istituti) basata sulla “soddisfazione dell’utente” premierebbe senza ombra di dubbio il paese dei balocchi, come provano i pessimi esiti del parametro della “laurea in tempo” nell’università. Di nuovo servirebbe una valutazione qualitativa aliena da parametri aziendalisti, ma come farla senza la definizione di un insieme di contenuti base imprescindibili? Del resto, un paese che possiede una cultura nazionale degna di questo nome non può rinunciare a tale definizione.
La questione dei contenuti rispunta così da ogni lato. Anche le ragionevoli riserve sollevate da Giavazzi sul sistema (peraltro utile) dei “buoni scuola” richiamano il recente dibattito che si è sviluppato negli Stati Uniti. Giova menzionare un lungo articolo comparso sul Wall Street Journal il 27 febbraio (“School Choice Isn’t Enough”) in cui si spiega come, in base all’esperienza, i buoni scuola si sono rivelati utili ma non a tal punto da condurre alla sperata riqualificazione del sistema pubblico. È l’idea di affidarsi completamente alla concorrenza che si è rivelata inefficiente soprattutto quando si coniuga con le teorie pedagogiche dell’autoapprendimento. Il Dipartimento dell’Educazione ha fatto contratti per 10 milioni di dollari con il Teachers College Reading and Writing Project diretto dalla pedagogista Lucy Calkins, sostenitrice della teoria secondo cui i bambini possono apprendere a scrivere e leggere da soli, con qualche marginale aiuto dei maestri, e l’istruzione fonetica è una forma di abuso sui minori. I risultati si sono rivelati pessimi. Al contrario, nel Massachusetts, senza buoni scuola, senza incentivi di mercato e soprattutto senza pedagogismi, bensì sulla base di un severo curriculum disciplinare basato su un approccio sistematico tradizionale si sono ottenuti risultati considerati come uno “spettacolare miracolo educativo”. Il Massachusetts è oggi in testa in tutte le valutazioni federali per quanto riguarda la matematica e la lingua.
Ci troviamo quindi di fronte a questioni complesse che richiedono approfondite riflessioni ma che – soprattutto – non si risolvono né con gli slogan né con escogitazioni tecniche o con la metodologia, giustamente definita da Lucio Colletti la “scienza dei nullatenenti”.
Giorgio Israel

(Il Foglio, 20 maggio 2008)

domenica 18 maggio 2008

CATTIVI PENSIERI N. 2

Il nuovo ministro della cultura Bondi vorrebbe ardentemente conquistare la collaborazione di Umberto Eco e Nanni Moretti. Moretti gli ha risposto con un pesce in faccia: "Non mi faccio intenerire, la destra è sempre la stessa". Eco tace e valuta i pro e i contro. Intanto Bondi nomina consigliere Alain Elkann. La stampa riferisce che il sindaco di Roma Alemanno, richiesto di confermare se accetterà la collaborazione di un noto esponente del Pd risponde: "Stiamo valutando, lunedì ne parlerò con Bettini". Il nuovo assessore al bilancio del comune di Roma corteggia la Lanzillotta: "lavora con noi, ti prego". E l'assessore all'urbanistica ammonisce: "la buona amministrazione non è né di destra né di sinistra". Il ministro Prestigiacomo loda Pecoraro Scanio (lo assumerà come consulente?) e loda anche la Turco, mentre il sottosegretario Giovanardi la attacca ma loda la Bindi. Alla raffica di uova marce - "prove di pulizia etnica", "parlamento attuale che fa schifo", "razzisti", "fascisti al governo", "sono tornate le leggi razziali", "clima da pogrom", "rom come gli ebrei", "umanità divisa in due parti inconciliabili nel modo di essere", "abolire ogni contiguità con questo versante inconciliabile" - si risponde con profferte di collaborazioni. Il governatore Bassolino magnanimo si concede e tende la mano a Berlusconi: "Collaboriamo". Per favore qualcuno spieghi qual è il governo ombra.

mercoledì 14 maggio 2008

MA LA NOTTE NO... ovvero due paginate di commedia all'italiana

Tutti all'assalto del nuovo ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini.
Il Corriere della Sera ha dato la peggior prova di se, con una doppia paginata improntata a uno scandalismo isterico che non rappresenta un contributo serio alla soluzione dei problemi della scuola.
"Debiti scuola, esami a rischio". "Dovrà riparare a settembre il 40% degli studenti". E dov'è la sorpresa? Ma non ce l'hanno menata per mesi con il rapporto PISA e l'Italia che era agli ultimi posti? Soltanto 40%? Mi pare un ottimo risultato.
Già ma ora stanno toccando i cocchi di mamma e mettendo in discussione le vacanze e allora ecco la crisi isterica.
Un vergognoso articolo racconta delle ricerche di un pediatra che avrebbe stimato in 1.200.000 i giovani affetti dal "mal di scuola" - proprio così, il "mal di scuola" - il 15% in più rispetto all'anno scorso, 700.000 affetti da dolori addominali - volgarmente detti cacarella da interrogazione (90.000 in più), 350.000 con il mal di testa (40.000 in più), 150.000 con l'insonnia (20.000 in più).
Insomma, si stava tanto bene quando tutti erano promossi. Chi se ne frega del rapporto PISA. basta fare un articolo dicendo che siamo alla catastrofe e poi tutti a leggerlo sotto l'ombrellone...

La ricetta dell'ineffabile pediatra che ha indagato 7 milioni di ragazzi (ma chi è, l'idra dalle mille teste?) è non studiare l'estate: fa caldo, crolla l'autostima, tanto più se si studia mentre gli altri fanno il bagno. Meglio il riposo.
Negli altri articoli c'è l'impazzare isterico di associazioni di insegnanti e presidi che invocano "l'unica strada possibile: sospendere tutto". Già che ci siamo sospendiamo anche la scuola, così tagliamo alle radici il mal di scuola. Poi i sindacati che pontificano: "riprendere in mano la questione dei livelli di apprendimento". Parole in libertà.

Tutti a fare proposte.

E va bene, anch'io faccio la mia. Visto che il problema è il caldo, lo stress e il crollo dell'autostima, ecco la soluzione: STUDIARE DI NOTTE.
Ricordate la canzone di Renzo Arbore in "Quelli della notte?

"Lo stress, lo stress, lo stress di giorno, ma la notte no.... Lo diceva Neruda che di giorno si suda, ma la notte no. Rispondeva Picasso, io di giorno mi scasso, la notte no. E per questa rottura non si trova la cura, ma la notte no. Il morale s'affloscia, la pressione s'ammoscia, ma la notte no. S'ammoscia, s'ammoscia [crollo dell'autostima], s'ammoscia di giorno, ma la notte no..."

E allora: tutti a fare i corsi di recupero di notte.

Uno spettacolo da Italietta che farebbe la felicità di un rotocalco tedesco con in copertina un mandolino e una mamma in lacrime che consola il proprio cocco affetto da "mal di scuola", il quale si consola tirando giù i pantaloni al professore mentre un compagno riprende tutto col cellulare.

domenica 11 maggio 2008

Meno peggio del previsto, ma...

La Fiera del Libro di Torino è andata meglio del previsto. Non vi sono stati incidenti alla manifestazione "Pro Palestina" ieri, ed è una cosa importante. Che poi venissero esibiti quegli striscioni e quei cartelli e gridati quegli slogan era scontato.
Se si deve fare un bilancio provvisorio chi ne esce peggio è la cultura. È qui che si sono compiute le peggiori efferatezze, dalla rivalutazione di Vattimo dei Protocolli dei Savi di Sion ai deliri di Dario Fo. E l'Università è stato il contenitore privilegiato di tutte queste schifezze.
Quindi, si conferma - e lo dico con grande tristezza dato che vivo in questa istituzione - che l'università non è più un luogo di elaborazione e di confronto culturale ma è diventata una discarica ideologica.

venerdì 9 maggio 2008

CATTIVI PENSIERI

Leggo sul Foglio una recensione del libro di Eugenio Scalfari "L'uomo che non credeva in Dio, a firma del ministro della cultura Bondi. Dice Bondi che «la cultura umanistica scalfariana ... eredita il meglio della filosofia e squadra ogni frammento di senso col piglio del moralista insoddisfatto». Sul Corriere della Sera lo stesso ministro si propone di convincere il grande Umberto Eco, senza cui la cultura pare non possa esistere e loda le straordinarie qualità di regista di Nanni Moretti. Frattanto l'arrembaggio della cultura di sinistra ad Alemanno continua senza posa: architetti, filosofi, registi, non c'è chi non sgomita per offrire le opere del proprio ingegno al nuovo sindaco. Come sette anni fa, una cultura di sinistra agonizzante scopre di avere come migliore salvagente il complesso di inferiorità culturale della destra. Stiamo freschi... Resta soltanto da aspettare la nomina del pedagogista di stato. Progressista, naturalmente.

Con qualche dettaglio in più...

Post scriptum: A proposito. Si apprende che il ministro Tremonti ha detto che i Quaderni di Gramsci sono un'opera di modernità assoluta. Che razza di modernità sia credo di averlo spiegato (almeno per la scienza) nel libro indicato a fianco. È mai possibile che si debba continuare a fare riverenze alle anticaglie del marxismo?

giovedì 8 maggio 2008

FABBRICA DI PACE

Si leggono servizi (per esempio su Repubblica web) su Verona "fabbrica di violenza". Sono cose serie, su cui riflettere seriamente. Ed è indubbio che la politica (e quindi l'estrema destra) come fattore di mala educazione c'entra e come. La sinistra radicale si appresta a calare su Verona per manifestare contro la fabbrica di violenza. Frattanto, a Torino, i suoi "maîtres à penser" spiegano perché è giusto boicottare i libri, la cultura e anche i popoli, perché è giusto odiare e bruciare le bandiere, perché i Protocolli dei Savi di Sion raccontano chi sono davvero gli ebrei e benedicono la manifestazione che si terrà a sostegno di coloro che vogliono distruggere Israele. Una "fabbrica di pace".

mercoledì 7 maggio 2008

Un passaggio drammatico

Consiglio di leggere l'articolo di Michael Ledeen su L'Occidentale, A Torino non brucia solo Israele, ma anche l’Italia e l’Europa. Può servire a quegli sprovveduti che stanno ancora cincischiando melense polemiche attorno all'affermazione di Fini che quel che accade a Torino è più grave di quel che è accaduto a Verona. Da un lato è ovvio: una vita umana non è commensurabile con nessun evento politico. D'altro lato, basterebbe un minimo di riflessione per capire che quel che è in gioco a Torino ha strettamente a che fare con quel che è accaduto a Verona. Ho cercato di spiegarlo oggi in un articolo sul Messaggero: Torino non chiudere gli occhi davanti alle bandiere bruciate. Chi non vuol capire che ci stiamo giocando tutto mostrando di avere istituzioni (ordine pubblico, università, ecc.) ormai prone all'estremismo e all'illegalità, chiude gli occhi. Ha ragione Ledeen: ci stiamo giocando le ultime possibilità

lunedì 5 maggio 2008

Il vero pericolo neofascista

Non mi convince per niente l'analisi di Cacciari per cui senza la DC-depuratore le "scorie" (neonazifasciste) vengono a galla. Ci siamo dimenticati dei picchiatori neofascisti degli anni sessanta, dell'Università di Roma in balìa di una cinquantina di teppisti? Eppure allora la DC era strapotente. Sono d'accordo invece con lui quando dice che quelle scorie sono figlei di una cultura latente in cui non c'entrano destra e sinistra. O meglio c'entrano tutte e due, ovvero c'entra l'estremismo, il radicalismo politico che sconfina nell'intolleranza e nella violenza fisicam da entrambe le parti.
E proprio qui, in una connivenza tra estremismi politici di destra e di sinistra sta il rischio peggiore del momento.
Colpisce l'articolo di Francesco Berardi - Bifo su "Liberazione" che loda Berlusconi e Tremonti dicendo che faranno meglio di Prodi perché saranno meno subalterni agli industriali e alla Banca Europea. Costoro sperano in una destra anticapitalista e antiimperialista (che è poi quella più fascista).
Ancor di più preoccupa un ministro in predicato che parla di portarsi al ministero la sinistra arcobaleno; e preoccupano le dichiarate simpatie dell'estrema sinistra romana per la destra di Storace.
Si legga poi l'intervista di Giano Accame sul Corriere della Sera di oggi.
Accame è un personaggio legato corpo e anima al passato fascista. Non ho mai provato problemi a discutere con i postfascisti, purché dichiaratamente e convintamente post. Mi è capitato di fare un dibattito a L'Infedele con Giano Accame alcuni anni fa e di fare un tragitto in taxi con lui verso l'aeroporto. Parlava degli ebrei come di gente a parte, usando sistematicamente il "loro" - "loro" sono, "loro" pensano, "loro" fanno - e quando gli ripetevo di non dire "loro" ma "voi" perché io ero uno dei "loro", mi guardava incredulo di assistere alla visione di uno di "loro" che non sembrava dei "loro". Nell'intervista sul Corriere di oggi, dice che Rutelli commise un errore a progettare via Bottai. Perché? Perché Bottai è odiato dagli ebrei per lo zelo con cui applicò le leggi razziali. Ma Borgna "intelligentemente propose un convegno su Bottai”, Perciò "va salvato" come responsabile dell'Auditorium, anche per aver organizzato il primo convegno su Gentile nella stessa sala in cui questi pronunciò il discorso sulla resistenza agli angloamericani... Bel titolo di merito! Errore fatale quindi, secondo Accame, tagliare teste di sinistra al Comune o alla RAI. Assieme a loro occorre valorizzare il Foro Italico, capolavoro voluto dall'Opera Balilla. Occuparsi della sicurezza e dell'immigrazione, ma cautamente. Quindi, occorre non prendersela con i comunisti. E soprattutto avere un occhio attento ai centri sociali, "forme di aggregazione comunitaria, camere di sfogo e di possibile controllo". Anche se bruciano le bandiere israeliane e americane? Accame non ne parla, ma credo che non gliene possa importare di meno dell'America e di Israele. E qui c'è un grande elemento di comunanza tra estreme.
Sono convinto che nel PDL esistano vaccini sufficientemente forti contro queste tentazioni. Ma questi annusamenti sono preoccupanti e anche nauseanti.
Si occupi di questo Veltroni, invece di blaterare a vanvera sulla violenza neonazista.

domenica 4 maggio 2008

Basta con la propaganda. Le elezioni sono finite

"La vicenda terribile di Nicola Tommasoli, ridotto in fin di vita in una brutale aggressione nella notte del primo maggio, assume dopo la confessione di uno dei suoi carnefici contorni ancora piu' inquietanti". E' quanto afferma in una nota il segretario Pd, Walter Veltroni, affermando che "siamo, infatti, davanti ad una aggressione di tipo neofascista che non puo' e non deve essere sottovalutata". "Esistono tante bande di questo tipo e cio' e' tanto piu' pericoloso - sottolinea - in un clima culturale e politico nel quale si vanno affermando principi di intolleranza e di odio verso i piu' deboli o addirittura una sottocultura di violenza e prepotenza talvolta - rileva - persino mascherata sotto il falso concetto del farsi giustizia da soli". "E' importante che tutti i responsabili dell'aggressione di Verona siano assicurati alla giustizia ed e' fondamentale l'impegno di tutti - conclude - perche' non torni un clima di violenza politica e di insicurezza per i cittadini".

Come non essere d'accordo? Nessuna tolleranza nei confronti delle bande neofasciste.
Ciò detto, il contesto della orribile vicenda - per la quale i responsabili meriterebbero l'ergastolo - non è politico, anche se certamente chi è educato a un certo tipo di ideologia ha un'inclinazione spontanea verso la violenza. Tantomeno si può dire che questa vicenda dimostra che il pericolo di violenza oggi in Italia derivi dalle minoranze neofasciste e neonaziste. Cosa c'entra l'"odio verso i più deboli", il concetto di "farsi giustizia da soli" e perché mai soltanto da questo episodio si dovrebbe paventare il "ritorno" di un clima di violenza "politica" e di "insicurezza per i cittadini"?
Qui la speculazione politica appare francamente sfrontata. Un modo sfacciato per sviare l'attenzione per le forme di violenza e di prepotenza che affligono i cittadini e che hanno contribuito alla disfatta del centrosinistra.

E poi. A proposito di violenza politica. Che dire di quello che è successo a Torino?
Mentre le autorità vietavano per motivi di ordine pubblico l'esposizione di bandiere israeliane all'inaugurazione della Fiera del libro di Torino, le stesse venivano bruciate in piazza, da persone che certo non si distinguono per "tolleranza".
Confrontiamo Parigi con Torino.
A Parigi le bandiere israeliane sventolavano davanti alla Fiera del libro accanto a quelle francesi.
A Torino venivano bruciate, mentre le autorità preposte all'"ordine" pubblico vietavano la loro esposizione.
Che ne pensa di questo Veltroni?
Non è questa già una disfatta per la democrazia e la libertà, nella prevaricazione di "bande" intolleranti educate a una "sottocultura" di violenza e prepotenza? È una disfatta già nelle cose e non nelle previsioni.
Non sarebbe il caso di darci uno sguardo invece di fare propaganda?
Le elezioni sono finite.