Circa un mese fa si è appreso dalla stampa che la scuola elementare romana Sibilla Aleramo è stata devastata da quattro ragazzini con un danno stimato in 250.000 euro. La dirigente della scuola ha spiegato che si trattava soltanto dell’ultimo di una serie di raid e ha ribadito quella che dovrebbe essere un’ovvietà: «Chi fa danni deve assumerne la responsabilità secondo quanto prevede la legge». Era un richiamo coerente con l’invito del Ministro della Pubblica Istruzione a «fare in modo che siano i ragazzi stessi a risarcire la scuola vandalizzata, lavorando fino a quando i danni non saranno completamente ripagati». Del resto, è quel che si fa in Inghilterra, non in un paese a rischio di fascismo, o addirittura in mano a un regime peggiore del fascismo (Asor Rosa dixit). A distanza di quasi un mese, viene ancora da stropicciarsi gli occhi leggendo le dichiarazioni dell’assessore alla scuola del Comune di Roma Laura Marsilio che ha rimbeccato il ministro Gelmini affermando che «far riparare i danni ai 4 ragazzi non farebbe altro che frustrarli». Poveretti, che pena… Come se non bastasse, ha aggiunto che «le umiliazioni e le punizioni non servono», concludendo in piena fumisteria benaltrista: «tutti gli alunni dovrebbero essere coinvolti in iniziative che aumentino il senso di appartenenza alla scuola e alle istituzioni».
Forse abbiamo capito male. Dicono che a Roma abbia vinto il centrodestra. Ma allora perché c’è un assessore alla scuola che parla come un militante di Rifondazione Comunista mentre il ministro della Pubblica Istruzione del governo di centro-destra riafferma dei principi cui si è dovuta arrendere la migliore sinistra europea, come quella del laburista Tony Blair?
Lungi da noi stabilire collegamenti semplicistici con la vicenda della commissione Attali per Roma, ma qui c’è qualcosa che ha a che fare con una soggezione di taluni ambienti politici del centrodestra nei confronti della cultura di sinistra. È la soggezione che porta a inseguire ad ogni costo il consenso e i consigli di coloro che ripetono senza tema del ridicolo che in Italia ormai dilaga il fascismo, come Umberto Eco, secondo cui si sente di nuovo il “profumo” del ventennio. Apprendiamo in merito che anche Sergio Luzzatto sente addirittura, e proprio leggendo Libero, profumo di Farinacci. Provi a compilare un’antologia degli epiteti rivolti a Berlusconi e a tutto al centrodestra dall’“intellettualità progressista”: Farinacci farebbe la figura di un pivello.
La soggezione di cui si diceva è tanto più incondizionata in quanto il confine tra i “demonizzatori” e i “moderati” è tutt’altro che netto. Si prenda il caso di un moderato come Giorgio Tonini che non soltanto non ha preso le distanze dal proclama di Famiglia Cristiana (secondo cui il fascismo sta rinascendo tra di noi) ma anzi l’ha definito un giudizio serio, plausibile, «da prendere seriamente in considerazione». Possiamo anche spiegare questo atteggiamento come manifestazione della debolezza della dirigenza politica della sinistra di fronte alla lista nutrita di intellettuali di sinistra che ripetono lo slogan del ritorno del fascismo. Ma questa debolezza è soltanto l’ennesima prova di uno sfacelo politico-culturale. Cosa di buono si può cavare da chi non trova altri argomenti di contrasto se non quel ridicolo slogan, e da chi non trova la forza di liquidarlo come merita e di dedicarsi invece a imbastire un’opposizione degna di questo nome?
Sarebbe meglio entrare nella sostanza delle cose e chiedersi quali meriti abbia avuto la commissione Attali, tali da conquistarsi una fama tanto positiva. A ben vedere, nessuno. La commissione Attali si è fondata su un’idea completamente sbagliata, e ostinatamente ribadita da Attali medesimo in questi giorni, e cioè che sia possibile progettare una serie di soluzioni tecniche a problemi di sostanza in modo indipendente da qualsiasi visione politica e culturale. Il risultato è stato men che mediocre e, non a caso, il presidente Sarkozy si è tenuto alla larga da indicazioni quali l’abolizione dei dipartimenti e da una certa visione dell’autonomia che già in Italia ha dato pessime prove, per esempio con la riforma del titolo V della Costituzione. Se poi si guarda alle proposte per la scuola – ispirate al più vuoto tecnocratismo alieno da qualsiasi considerazione di merito – viene da dire: dimenticare Attali.
Nessuno, se non un estremista, può respingere il principio di un dialogo e di un confronto costruttivo tra posizioni diverse. Occorre saper accettare con spirito libero ogni apporto di idee e di progetti. Ma ciò non può essere fatto annacquando fino a renderle indistinguibili le proprie visioni di governo, magari fino al punto di adottare le idee e il linguaggio di chi è stato sconfessato dall’elettorato, dimenticando (come nel caso ricordato all’inizio di questo articolo) che la sinistra più lucida e consapevole li ha abbandonati. Quell’elettorato ha chiesto una svolta radicale rispetto al modello di gestione di una capitale in cui su un sottofondo di caos, degrado, illegalità e sporcizia impazzano feste e festival pseudoculturali. Se questo non è anche il punto di vista della “commissione Attali” allora l’impresa inizia con un equivoco di fondo a dir poco colossale.
(pubblicato su Libero)
E UNA CONTROREPLICA
L’assessore alla scuola del Comune di Roma Laura Marsilio risponde piccata alle mie critiche delle sue dichiarazioni circa gli episodi di bullismo nella scuola “Sibilla Aleramo”. Sono anni che, dopo ogni episodio del genere, e persino dopo ogni episodio criminoso, viene propinata la tiritera che la punizione non serve, anzi, che bisogna soltanto aggredire il disagio sociale che è alla radice di quegli episodi. I risultati si sono visti. Pertanto, pur non volendo affatto screditare a priori il “tavolo di lavoro per discutere dei fenomeni di disagio giovanile” è più probabile che esso, anziché farmi stropicciare gli occhi, mi faccia venire il latte alle ginocchia.
Più seriamente, potremmo trovarci d’accordo sul principio che prima viene la legge, che la legge si rispetta e che chi la viola paga un prezzo. Questo non è soltanto il fondamento della convivenza civile ma un principio educativo basilare. Poi si facciano pure commissioni di studio purché non finiscano con relazioni improntate al solito psicologismo parolaio.
La stampa ha riportato in virgolettato le dichiarazioni di Laura Marsilio: «far riparare i danni ai 4 ragazzi non farebbe altro che frustrarli […] le umiliazioni e le punizioni non servono». Mi limiterò a ricordare che il grande intellettuale cattolico Arturo Carlo Jemolo ammonì che la violazione delle leggi deve comportare una pena “afflittiva”, pena la distruzione del contratto sociale. Ci manca solo che chi ha distrutto una scuola non paghi neppure con lo stress.
I casi sono due: o quel virgolettato è falso e allora la questione è chiusa. Oppure è autentico – non importa quale sia stato il contesto – e allora l’assessore farebbe bene ad ammettere di aver sbagliato. In fin dei conti, errare è umano. Ma si deve capire che chi lotta da mattina a sera, contro tutto e tutti, per educare dei figli responsabili ha bisogno di frasi del genere quanto di una bastonata in testa.
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
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lunedì 25 agosto 2008
venerdì 22 agosto 2008
La "nuova" politica scolastica al Comune di Roma e la Commissione Attali "de noantri"
Circa un mese fa si è appreso dalla stampa che la scuola elementare romana Sibilla Aleramo è stata devastata da quattro ragazzini con un danno stimato in 250.000 euro. La dirigente della scuola ha spiegato che si trattava soltanto dell’ultimo di una serie di raid e ha ribadito quella che dovrebbe essere un’ovvietà: «Chi fa danni deve assumerne la responsabilità secondo quanto prevede la legge». Era un richiamo coerente con l’invito del Ministro della Pubblica Istruzione a «fare in modo che siano i ragazzi stessi a risarcire la scuola vandalizzata, lavorando fino a quando i danni non saranno completamente ripagati». Del resto, è quel che si fa in Inghilterra, non in un paese a rischio di fascismo, o addirittura in mano a un regime peggiore del fascismo (Asor Rosa dixit). A distanza di quasi un mese, viene ancora da stropicciarsi gli occhi leggendo le dichiarazioni dell’assessore alla scuola del Comune di Roma Laura Marsilio che ha rimbeccato il ministro Gelmini affermando che «far riparare i danni ai 4 ragazzi non farebbe altro che frustrarli». Poveretti, che pena… Come se non bastasse, ha aggiunto che «le umiliazioni e le punizioni non servono», concludendo in piena fumisteria benaltrista: «tutti gli alunni dovrebbero essere coinvolti in iniziative che aumentino il senso di appartenenza alla scuola e alle istituzioni».
Forse abbiamo capito male. Dicono che a Roma abbia vinto il centrodestra. Ma allora perché c’è un assessore alla scuola che parla come un militante di Rifondazione Comunista mentre il ministro della Pubblica Istruzione del governo di centro-destra riafferma dei principi cui si è dovuta arrendere la migliore sinistra europea, come quella del laburista Tony Blair?
Lungi da noi stabilire collegamenti semplicistici con la vicenda della commissione Attali per Roma, ma qui c’è qualcosa che ha a che fare con una soggezione di taluni ambienti politici del centrodestra nei confronti della cultura di sinistra. È la soggezione che porta a inseguire ad ogni costo il consenso e i consigli di coloro che ripetono senza tema del ridicolo che in Italia ormai dilaga il fascismo, come Umberto Eco, secondo cui si sente di nuovo il “profumo” del ventennio. Apprendiamo in merito che anche Sergio Luzzatto sente addirittura, e proprio leggendo Libero, profumo di Farinacci. Provi a compilare un’antologia degli epiteti rivolti a Berlusconi e a tutto al centrodestra dall’“intellettualità progressista”: Farinacci farebbe la figura di un pivello.
La soggezione di cui si diceva è tanto più incondizionata in quanto il confine tra i “demonizzatori” e i “moderati” è tutt’altro che netto. Si prenda il caso di un moderato come Giorgio Tonini che non soltanto non ha preso le distanze dal proclama di Famiglia Cristiana (secondo cui il fascismo sta rinascendo tra di noi) ma anzi l’ha definito un giudizio serio, plausibile, «da prendere seriamente in considerazione». Possiamo anche spiegare questo atteggiamento come manifestazione della debolezza della dirigenza politica della sinistra di fronte alla lista nutrita di intellettuali di sinistra che ripetono lo slogan del ritorno del fascismo. Ma questa debolezza è soltanto l’ennesima prova di uno sfacelo politico-culturale. Cosa di buono si può cavare da chi non trova altri argomenti di contrasto se non quel ridicolo slogan, e da chi non trova la forza di liquidarlo come merita e di dedicarsi invece a imbastire un’opposizione degna di questo nome?
Sarebbe meglio entrare nella sostanza delle cose e chiedersi quali meriti abbia avuto la commissione Attali, tali da conquistarsi una fama tanto positiva. A ben vedere, nessuno. La commissione Attali si è fondata su un’idea completamente sbagliata, e ostinatamente ribadita da Attali medesimo in questi giorni, e cioè che sia possibile progettare una serie di soluzioni tecniche a problemi di sostanza in modo indipendente da qualsiasi visione politica e culturale. Il risultato è stato men che mediocre e, non a caso, il presidente Sarkozy si è tenuto alla larga da indicazioni quali l’abolizione dei dipartimenti e da una certa visione dell’autonomia che già in Italia ha dato pessime prove, per esempio con la riforma del titolo V della Costituzione. Se poi si guarda alle proposte per la scuola – ispirate al più vuoto tecnocratismo alieno da qualsiasi considerazione di merito – viene da dire: dimenticare Attali.
Nessuno, se non un estremista, può respingere il principio di un dialogo e di un confronto costruttivo tra posizioni diverse. Occorre saper accettare con spirito libero ogni apporto di idee e di progetti. Ma ciò non può essere fatto annacquando fino a renderle indistinguibili le proprie visioni di governo, magari fino al punto di adottare le idee e il linguaggio di chi è stato sconfessato dall’elettorato, dimenticando (come nel caso ricordato all’inizio di questo articolo) che la sinistra più lucida e consapevole li ha abbandonati. Quell’elettorato ha chiesto una svolta radicale rispetto al modello di gestione di una capitale in cui su un sottofondo di caos, degrado, illegalità e sporcizia impazzano feste e festival pseudoculturali. Se questo non è anche il punto di vista della “commissione Attali” allora l’impresa inizia con un equivoco di fondo a dir poco colossale.
(pubblicato su Libero)
Forse abbiamo capito male. Dicono che a Roma abbia vinto il centrodestra. Ma allora perché c’è un assessore alla scuola che parla come un militante di Rifondazione Comunista mentre il ministro della Pubblica Istruzione del governo di centro-destra riafferma dei principi cui si è dovuta arrendere la migliore sinistra europea, come quella del laburista Tony Blair?
Lungi da noi stabilire collegamenti semplicistici con la vicenda della commissione Attali per Roma, ma qui c’è qualcosa che ha a che fare con una soggezione di taluni ambienti politici del centrodestra nei confronti della cultura di sinistra. È la soggezione che porta a inseguire ad ogni costo il consenso e i consigli di coloro che ripetono senza tema del ridicolo che in Italia ormai dilaga il fascismo, come Umberto Eco, secondo cui si sente di nuovo il “profumo” del ventennio. Apprendiamo in merito che anche Sergio Luzzatto sente addirittura, e proprio leggendo Libero, profumo di Farinacci. Provi a compilare un’antologia degli epiteti rivolti a Berlusconi e a tutto al centrodestra dall’“intellettualità progressista”: Farinacci farebbe la figura di un pivello.
La soggezione di cui si diceva è tanto più incondizionata in quanto il confine tra i “demonizzatori” e i “moderati” è tutt’altro che netto. Si prenda il caso di un moderato come Giorgio Tonini che non soltanto non ha preso le distanze dal proclama di Famiglia Cristiana (secondo cui il fascismo sta rinascendo tra di noi) ma anzi l’ha definito un giudizio serio, plausibile, «da prendere seriamente in considerazione». Possiamo anche spiegare questo atteggiamento come manifestazione della debolezza della dirigenza politica della sinistra di fronte alla lista nutrita di intellettuali di sinistra che ripetono lo slogan del ritorno del fascismo. Ma questa debolezza è soltanto l’ennesima prova di uno sfacelo politico-culturale. Cosa di buono si può cavare da chi non trova altri argomenti di contrasto se non quel ridicolo slogan, e da chi non trova la forza di liquidarlo come merita e di dedicarsi invece a imbastire un’opposizione degna di questo nome?
Sarebbe meglio entrare nella sostanza delle cose e chiedersi quali meriti abbia avuto la commissione Attali, tali da conquistarsi una fama tanto positiva. A ben vedere, nessuno. La commissione Attali si è fondata su un’idea completamente sbagliata, e ostinatamente ribadita da Attali medesimo in questi giorni, e cioè che sia possibile progettare una serie di soluzioni tecniche a problemi di sostanza in modo indipendente da qualsiasi visione politica e culturale. Il risultato è stato men che mediocre e, non a caso, il presidente Sarkozy si è tenuto alla larga da indicazioni quali l’abolizione dei dipartimenti e da una certa visione dell’autonomia che già in Italia ha dato pessime prove, per esempio con la riforma del titolo V della Costituzione. Se poi si guarda alle proposte per la scuola – ispirate al più vuoto tecnocratismo alieno da qualsiasi considerazione di merito – viene da dire: dimenticare Attali.
Nessuno, se non un estremista, può respingere il principio di un dialogo e di un confronto costruttivo tra posizioni diverse. Occorre saper accettare con spirito libero ogni apporto di idee e di progetti. Ma ciò non può essere fatto annacquando fino a renderle indistinguibili le proprie visioni di governo, magari fino al punto di adottare le idee e il linguaggio di chi è stato sconfessato dall’elettorato, dimenticando (come nel caso ricordato all’inizio di questo articolo) che la sinistra più lucida e consapevole li ha abbandonati. Quell’elettorato ha chiesto una svolta radicale rispetto al modello di gestione di una capitale in cui su un sottofondo di caos, degrado, illegalità e sporcizia impazzano feste e festival pseudoculturali. Se questo non è anche il punto di vista della “commissione Attali” allora l’impresa inizia con un equivoco di fondo a dir poco colossale.
(pubblicato su Libero)
Berlinguer insiste
In una lettera al Corriere della Sera l’ex-ministro Luigi Berlinguer ha illustrato cosa è per lui la “nuova scuola”: rigore e coinvolgimento. È un bel passo in avanti se si pensa che, in periodo elettorale, egli definì chi parlava di rigore (come i firmatari dell’appello del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità) “relitti del passato, tagliati fuori dalla storia”, “laudatores temporis acti”, una “casta” legata a un “cultura morta e deduttivistica”. Si tratta di vedere se questa adesione al rigore è convinta o è una concessione, vista l’aria che tira e in attesa di tempi “migliori”. La lettura della lettera avvalora la seconda interpretazione. Dice Berlinguer che «fra i tanti problemi della vita scolastica c’è anche una questione di rispetto delle regole». Non ci siamo proprio: la vita scolastica non inizia neppure a esistere senza il rispetto delle regole. Ma a Berlinguer preme soltanto scagliarsi contro i “laudatores temporis acti” che vorrebbero risolvere la questione con il solo rigore che occorre accompagnare al coinvolgimento. D’accordo, purché si dica chiaramente che il rispetto delle regole si impone somministrando sanzioni quando esse vengono violate e che la scuola è il luogo dove si inizia ad apprendere questo principio fin da piccoli. Invece essa è un luogo diseducativo se ammette la prassi immorale per cui chi non studia va avanti al pari di chi studia. Quindi l’adesione al rigore si misura con l’accettazione piena della decisione del ministro Gelmini di ripristinare il controllo autunnale del rendimento dello studente.
Se il richiamo di Berlinguer al rigore non è formale egli dovrebbe pronunziarsi a favore del sacrosanto ripristino del voto in condotta voluto dal ministro Gelmini e dissociarsi dal coro indecente che parla di “scuola di polizia” e di “reazione”. È difficile che lo faccia visto che si ostina a giustificare l’abolizione che egli fece del 7 in condotta con la motivazione che la “prassi” lo aveva cancellato nei fatti. Come se la “prassi” sia di per sé una cosa santa e non possa essere una degenerazione scellerata. Ed è difficile che lo faccia visto che si ostina a difendere il suo “Statuto delle studentesse e degli studenti” (anche se lo rinomina diplomaticamente “Statuto dei diritti e dei doveri studenteschi”) che ridusse a vaghe possibilità le sanzioni insistendo in modo demagogico sui diritti.
Se queste vengono riproposte come le regole su cui dovrebbe fondarsi «la scuola, l’education fatta da una comunità educante», non ci siamo proprio. “Education” sembra molto moderno e “internazionale”, ma fa venire in mente la celebre canzone di Carosone, «Tu vuò fà l’americano» che avvertiva: «tu vuoi bere whisky and soda, poi te siente disturbà». Il fatto è che l’education o comunità educante – basata sulla pedagogia dell’autoapprendimento creativo – comincia a “disturbare” anche gli americani… Sarebbe quindi prudente evitare di assumere questa indigesta bevanda che sempre più è identificata come causa di crisi laddove è stata propinata, per fortuna ancora in dosi limitate. Dice Berlinguer che in Italia «la lezione ex-cathedra resta il metodo dominante, sparito quasi ovunque nei Paesi evoluti». Ricevo messaggi esterrefatti di persone che scrivono: “Ma di che parla? Ho studiato in mezzo mondo e ho visto sempre e solo lezioni ex-cathedra…». L’aspetto comico della faccenda è che i critici della «inossidabile lezione frontale», i pedagogisti dell’autoapprendimento e della trasformazione dell’insegnante in facilitatore, di cui Berlinguer è il profeta, non fanno che tenere lezioni frontali che più frontali non si può. Beninteso, sono lezioni frontali per spiegare che le lezioni frontali sono un abominio ed è certamente tale nobile missione che concede a loro soltanto il diritto di tenerle. Così come consente a Berlinguer di imputare a tale oscena istituzione la «criminale cancellazione dell’arte praticata, la creatività».
Ebbene, abbiamo capito benissimo cosa intende Berlinguer col bizzarro termine di “arte praticata”. È la prassi della “comunità educante” in cui un gruppo decide autonomamente di studiare un pezzo di storia, un altro si riunisce a studiare la geografia del terzo mondo, un altro ancora le equazioni di primo grado (ma non quelle di secondo perché sono reazionarie), un altro studia musica battendo le pentole e senza imparare le note perché è repressivo. Insomma, il paese dei balocchi o comunità diseducante. Coinvolgere lo studente è assolutamente necessario. Ma chi crede che la scienza si apprenda pasticciando “creativamente” nei laboratori senza supporto di teoria, non ha capito nulla della scienza e prepara soltanto un’altra catastrofe per la scuola. Il coinvolgimento attivo dello studente ha senso soltanto su una solida base disciplinare.
Lo stato della scuola non ammette pasticci e confusioni. Non è accettabile che venga riproposta, indorando la pillola col richiamo di facciata al rigore, la ricetta culturalmente e pedagogicamente fallimentare che domina la scuola italiana da un trentennio e l’ha condotta nel presente stato catastrofico, e che oltretutto è in crisi e sotto accusa dovunque è stata messa in opera.
(pubblicato su Libero)
Se il richiamo di Berlinguer al rigore non è formale egli dovrebbe pronunziarsi a favore del sacrosanto ripristino del voto in condotta voluto dal ministro Gelmini e dissociarsi dal coro indecente che parla di “scuola di polizia” e di “reazione”. È difficile che lo faccia visto che si ostina a giustificare l’abolizione che egli fece del 7 in condotta con la motivazione che la “prassi” lo aveva cancellato nei fatti. Come se la “prassi” sia di per sé una cosa santa e non possa essere una degenerazione scellerata. Ed è difficile che lo faccia visto che si ostina a difendere il suo “Statuto delle studentesse e degli studenti” (anche se lo rinomina diplomaticamente “Statuto dei diritti e dei doveri studenteschi”) che ridusse a vaghe possibilità le sanzioni insistendo in modo demagogico sui diritti.
Se queste vengono riproposte come le regole su cui dovrebbe fondarsi «la scuola, l’education fatta da una comunità educante», non ci siamo proprio. “Education” sembra molto moderno e “internazionale”, ma fa venire in mente la celebre canzone di Carosone, «Tu vuò fà l’americano» che avvertiva: «tu vuoi bere whisky and soda, poi te siente disturbà». Il fatto è che l’education o comunità educante – basata sulla pedagogia dell’autoapprendimento creativo – comincia a “disturbare” anche gli americani… Sarebbe quindi prudente evitare di assumere questa indigesta bevanda che sempre più è identificata come causa di crisi laddove è stata propinata, per fortuna ancora in dosi limitate. Dice Berlinguer che in Italia «la lezione ex-cathedra resta il metodo dominante, sparito quasi ovunque nei Paesi evoluti». Ricevo messaggi esterrefatti di persone che scrivono: “Ma di che parla? Ho studiato in mezzo mondo e ho visto sempre e solo lezioni ex-cathedra…». L’aspetto comico della faccenda è che i critici della «inossidabile lezione frontale», i pedagogisti dell’autoapprendimento e della trasformazione dell’insegnante in facilitatore, di cui Berlinguer è il profeta, non fanno che tenere lezioni frontali che più frontali non si può. Beninteso, sono lezioni frontali per spiegare che le lezioni frontali sono un abominio ed è certamente tale nobile missione che concede a loro soltanto il diritto di tenerle. Così come consente a Berlinguer di imputare a tale oscena istituzione la «criminale cancellazione dell’arte praticata, la creatività».
Ebbene, abbiamo capito benissimo cosa intende Berlinguer col bizzarro termine di “arte praticata”. È la prassi della “comunità educante” in cui un gruppo decide autonomamente di studiare un pezzo di storia, un altro si riunisce a studiare la geografia del terzo mondo, un altro ancora le equazioni di primo grado (ma non quelle di secondo perché sono reazionarie), un altro studia musica battendo le pentole e senza imparare le note perché è repressivo. Insomma, il paese dei balocchi o comunità diseducante. Coinvolgere lo studente è assolutamente necessario. Ma chi crede che la scienza si apprenda pasticciando “creativamente” nei laboratori senza supporto di teoria, non ha capito nulla della scienza e prepara soltanto un’altra catastrofe per la scuola. Il coinvolgimento attivo dello studente ha senso soltanto su una solida base disciplinare.
Lo stato della scuola non ammette pasticci e confusioni. Non è accettabile che venga riproposta, indorando la pillola col richiamo di facciata al rigore, la ricetta culturalmente e pedagogicamente fallimentare che domina la scuola italiana da un trentennio e l’ha condotta nel presente stato catastrofico, e che oltretutto è in crisi e sotto accusa dovunque è stata messa in opera.
(pubblicato su Libero)
domenica 10 agosto 2008
Sulla valutazione
A giudicare da certe ingenue rappresentazioni sembra che la “valutazione” della ricerca scientifica sia un’invenzione dei nostri tempi. In realtà, fin dal Seicento le grandi Accademie scientifiche europee seguivano procedure di grande rigore nel valutare gli articoli, le memorie o i progetti scientifici che venivano loro sottoposti. Si formavano commissioni che emettevano giudizi mediante rapporti dettagliati e motivati. Naturalmente tutti questi rapporti erano firmati con nome e cognome. Chiunque li legga ancor oggi può giudicare della loro serietà: eventuali errori o intenti malevoli o troppo benevoli sono riconducibili a persone ben individuate che con le loro affermazioni misero in gioco il loro prestigio.
Al contrario, oggi viene considerato come una grande conquista l’anonimato dei relatori giudicanti o “referees” – anonimato che non viene neppure bilanciato da quello dei giudicati – perché, in tal modo, essi sarebbero liberi di esprimere i loro giudizi. Certamente sono liberi. Troppo liberi, fino all’arbitrio.
Ha non una ma cento ragioni Luciano Canfora a denunciare (Corriere della Sera, 30 luglio) lo «scandalo del killeraggio sui progetti, protetto dall’anonimato» che inquina le procedure di valutazione dei programmi di ricerca scientifica. Va aggiunto però che si tratta di uno scandalo non soltanto italiano e i cui principali fattori sono l’anonimato e la pretesa di voler conseguire l’oggettività del giudizio attraverso procedure meramente quantitative.
Sul primo aspetto potrei intrattenere il lettore per pagine. Sono stato direttore di una rivista di storia della scienza per diversi anni e ne ho viste di tutti i colori. Malgrado sottoponessi gli articoli al giudizio cancellando il nome dell’autore e ogni riferimento che permettesse di individuarlo, uno sport prediletto da parecchi referees era di scoprirne l’identità onde decidere che trattamento riservargli. Molti rapporti erano basati su pregiudizi sfrontati: “non condivido la filosofia scientifica dell’autore, quindi va bocciato”. Per non dire di castronerie che nessuno avrebbe osato scrivere se costretto a firmarle con nome e cognome. Fui anche vittima di una di queste situazioni quando presentai un articolo a una prestigiosissima rivista statunitense e il referee lo criticò enunciando una castroneria che comporterebbe un’immediata bocciatura in un qualsiasi esame di un biennio di matematica o fisica. Il direttore della rivista mi diede ragione, scrivendo testualmente che «il referee non era in grado di slacciarmi le scarpe sul tema» ma che lui aveva le mani legate perché non poteva ignorare il giudizio negativo. Era un killeraggio organizzato o quel direttore era soltanto un vile? Di certo questo episodio evoca il caso nostrano di un progetto Prin (progetti di ricerca di interesse nazionale) silurato sulla base del giudizio di un valutatore straniero che, forse in preda a fumi alcoolici, scambiò il responsabile del progetto (uno studioso di fama mondiale) con uno dei partecipanti deducendone l’incongruità del programma e dell’impiego dei fondi. I “garanti” interpellati risposero di non poter fare nulla perché non titolati a intervenire sul merito bensì soltanto sulle procedure che apparivano rispettate.
La ricerca è devastata oggi da una scandalosa miscela di irresponsabilità e di formalismo. L’irresponsabilità è conseguenza dell’anonimato che consente di emettere giudizi assurdi, faziosi, privi di fondamento e talora formulati con incredibile sciatteria, tanto non si firma, non ci si mette la faccia e non ci si gioca la reputazione. Canfora cita il caso di una spudorata inversione con cui si ascrivevano a difetti quelli che nello stesso giudizio venivano presentati come pregi pur di togliere un punto decisivo per il conferimento del finanziamento. E qui veniamo al secondo aspetto: il feticismo della forma, rappresentato dall’adesione a procedure quantitative che dovrebbero garantire l’oggettività del giudizio. Qui il discorso si amplia moltissimo perché l’introduzione di procedure quantitative che sopprimerebbero gli aspetti soggettivi del giudizio informa una concezione più generale della valutazione che riguarda non soltanto il giudizio dei singoli prodotti della ricerca o dei programmi di ricerca, ma anche i risultati della ricerca nel suo insieme nonché del sistema dell’istruzione scolastica e universitaria, a livello globale e a livello dei singoli istituti. “Valutare” viene presentato come toccasana del sistema della ricerca e dell’istruzione, purché si tratti di valutazione “oggettiva” e questa oggettività sarebbe garantita dall’adozione di procedure “scientifiche” che sopprimerebbero gli inconvenienti derivanti dall’intromissione del “soggettivo”, ricorrendo a griglie di parametri quantitativi “esatti”.
In realtà, mediante i numeri possono essere contrabbandati i giudizi più arbitrari e soggettivi e si può degradare la ricerca a livelli infimi. Questo fatto viene denunciato in due recentissimi documenti.
Il primo è una lettera firmata dai direttori di dieci tra le maggiori riviste di cultura scientifica e storia della scienza a livello mondiale (Annals of Science, Isis, Social Studies of Science, ecc.). Così inizia: «Viviamo nell’età della metrica. Intorno a noi le cose vengono standardizzate, quantificate e misurate. I ricercatori di storia della scienza e tecnologia debbono considerare ciò come un fenomeno pratico, culturale e intellettuale che è affascinante e cruciale al contempo […] e che è stato al centro del loro lavoro per almeno un quarto di secolo. […] Ora ci troviamo in una situazione in cui il nostro lavoro di ricerca è soggetto a una valutazione che si pretende precisa da parte di agenzie arbitrarie e non soggette a valutazione». La lettera mette sotto accusa l’ERIH (European Reference Index for the Humanities) che classifica il valore delle ricerche secondo che appaiano in riviste classificate per valore da parte di un comitato di persone che non ha alcuna rappresentatività del campo delle scienze umane. «L’ERIH – si osserva – dipende da un fondamentale fraintendimento delle regole e della pubblicazione della ricerca in questo campo. La qualità delle riviste non può essere separata dai loro contenuti […] Ricerche di alto livello possono essere pubblicate ovunque e in ogni lingua. Lavori di portata rivoluzionaria possono provenire da fonti marginali, dissidenti o inattese, piuttosto che dalle correnti principali e solidamente stabilite. Le riviste nel nostro campo sono varie, eterogenee e distinte. […] La British Academy ha concluso che l’ERIH com’è attualmente concepito non rappresenta un modo affidabile per stabilire una metrica per la valutazione delle pubblicazioni». In conclusione i dieci direttori invitano perentoriamente i compilatori dell’ERIH a rimuovere le loro riviste dalle loro liste a costo di essere marginalizzati nei finanziamenti.
Forse ancor più significativo è il documento dal titolo “Citation Statistics” prodotto circa un mese fa da tre autorevolissimi organismi scientifici, la International Mathematical Union (IMU), l’International Council of Industrial and Applied Mathematics (ICIAM) e l’Institute of Mathematical Statistics (IMS). Non posso addentrarmi in questo corposo testo di una trentina di pagine corredato di grafici e bibliografia. Mi limito a riassumerne la tesi centrale: «L’idea che la valutazione della ricerca debba essere fatta usando metodi “semplici e oggettivi” è sempre più prevalente oggi. Si crede che le statistiche delle citazioni siano di per sé più accurate in quanto sostituiscono giudizi complessi con numeri semplici e quindi superano la possibile soggettività delle valutazioni. Ma questa credenza è infondata». Difatti, continua il documento, è perfettamente illusorio che la statistica offra maggiore attendibilità di per sé. L’oggettività dei numeri può essere perfettamente illusoria. La filosofia del documento è espressa con una sentenza lapidaria in corsivo: «I numeri non sono di per sé superiori ai giudizi ponderati».
Chi parla così sono le associazioni che rappresentano chi più si occupa di numeri a livello mondiale…
Di fronte alla crisi del nostro sistema della ricerca e dell’istruzione sentiamo parlare da mane a sera di “valutazione”. Ogni invito a riflettere su quale sistema di valutazione sia opportuno introdurre e se non sia meglio affidarsi a procedure trasparenti e basate su “giudizi ponderati” e qualitativi cade nel nulla di fronte a una sorta di cupidigia di asservimento a metodologie improbabili e alla dittatura di esperti dalle improbabili competenze. Non mi sono mai schierato tra coloro che descrivono l’Italia come la sentina di tutti i mali – come si è appena visto non è proprio così – ma di certo un brutto vizio l’abbiamo: quello di adottare “innovazioni” vetuste quando ormai altrove si tende a metterle in discussione o a abbandonarle. Tale fu il caso della passione per le “nouvelles mathématiques” e la “new mathematics” che ci hanno lasciato in retaggio l’ossessione per la teoria degli insiemi e per l’aritmetica appresa colorando. Sarebbe opportuno che non si ripeta lo stesso errore con la valutazione. Per favore, niente anonimato e pochi numeri.
(Il Foglio, 10 agosto 2008)
Al contrario, oggi viene considerato come una grande conquista l’anonimato dei relatori giudicanti o “referees” – anonimato che non viene neppure bilanciato da quello dei giudicati – perché, in tal modo, essi sarebbero liberi di esprimere i loro giudizi. Certamente sono liberi. Troppo liberi, fino all’arbitrio.
Ha non una ma cento ragioni Luciano Canfora a denunciare (Corriere della Sera, 30 luglio) lo «scandalo del killeraggio sui progetti, protetto dall’anonimato» che inquina le procedure di valutazione dei programmi di ricerca scientifica. Va aggiunto però che si tratta di uno scandalo non soltanto italiano e i cui principali fattori sono l’anonimato e la pretesa di voler conseguire l’oggettività del giudizio attraverso procedure meramente quantitative.
Sul primo aspetto potrei intrattenere il lettore per pagine. Sono stato direttore di una rivista di storia della scienza per diversi anni e ne ho viste di tutti i colori. Malgrado sottoponessi gli articoli al giudizio cancellando il nome dell’autore e ogni riferimento che permettesse di individuarlo, uno sport prediletto da parecchi referees era di scoprirne l’identità onde decidere che trattamento riservargli. Molti rapporti erano basati su pregiudizi sfrontati: “non condivido la filosofia scientifica dell’autore, quindi va bocciato”. Per non dire di castronerie che nessuno avrebbe osato scrivere se costretto a firmarle con nome e cognome. Fui anche vittima di una di queste situazioni quando presentai un articolo a una prestigiosissima rivista statunitense e il referee lo criticò enunciando una castroneria che comporterebbe un’immediata bocciatura in un qualsiasi esame di un biennio di matematica o fisica. Il direttore della rivista mi diede ragione, scrivendo testualmente che «il referee non era in grado di slacciarmi le scarpe sul tema» ma che lui aveva le mani legate perché non poteva ignorare il giudizio negativo. Era un killeraggio organizzato o quel direttore era soltanto un vile? Di certo questo episodio evoca il caso nostrano di un progetto Prin (progetti di ricerca di interesse nazionale) silurato sulla base del giudizio di un valutatore straniero che, forse in preda a fumi alcoolici, scambiò il responsabile del progetto (uno studioso di fama mondiale) con uno dei partecipanti deducendone l’incongruità del programma e dell’impiego dei fondi. I “garanti” interpellati risposero di non poter fare nulla perché non titolati a intervenire sul merito bensì soltanto sulle procedure che apparivano rispettate.
La ricerca è devastata oggi da una scandalosa miscela di irresponsabilità e di formalismo. L’irresponsabilità è conseguenza dell’anonimato che consente di emettere giudizi assurdi, faziosi, privi di fondamento e talora formulati con incredibile sciatteria, tanto non si firma, non ci si mette la faccia e non ci si gioca la reputazione. Canfora cita il caso di una spudorata inversione con cui si ascrivevano a difetti quelli che nello stesso giudizio venivano presentati come pregi pur di togliere un punto decisivo per il conferimento del finanziamento. E qui veniamo al secondo aspetto: il feticismo della forma, rappresentato dall’adesione a procedure quantitative che dovrebbero garantire l’oggettività del giudizio. Qui il discorso si amplia moltissimo perché l’introduzione di procedure quantitative che sopprimerebbero gli aspetti soggettivi del giudizio informa una concezione più generale della valutazione che riguarda non soltanto il giudizio dei singoli prodotti della ricerca o dei programmi di ricerca, ma anche i risultati della ricerca nel suo insieme nonché del sistema dell’istruzione scolastica e universitaria, a livello globale e a livello dei singoli istituti. “Valutare” viene presentato come toccasana del sistema della ricerca e dell’istruzione, purché si tratti di valutazione “oggettiva” e questa oggettività sarebbe garantita dall’adozione di procedure “scientifiche” che sopprimerebbero gli inconvenienti derivanti dall’intromissione del “soggettivo”, ricorrendo a griglie di parametri quantitativi “esatti”.
In realtà, mediante i numeri possono essere contrabbandati i giudizi più arbitrari e soggettivi e si può degradare la ricerca a livelli infimi. Questo fatto viene denunciato in due recentissimi documenti.
Il primo è una lettera firmata dai direttori di dieci tra le maggiori riviste di cultura scientifica e storia della scienza a livello mondiale (Annals of Science, Isis, Social Studies of Science, ecc.). Così inizia: «Viviamo nell’età della metrica. Intorno a noi le cose vengono standardizzate, quantificate e misurate. I ricercatori di storia della scienza e tecnologia debbono considerare ciò come un fenomeno pratico, culturale e intellettuale che è affascinante e cruciale al contempo […] e che è stato al centro del loro lavoro per almeno un quarto di secolo. […] Ora ci troviamo in una situazione in cui il nostro lavoro di ricerca è soggetto a una valutazione che si pretende precisa da parte di agenzie arbitrarie e non soggette a valutazione». La lettera mette sotto accusa l’ERIH (European Reference Index for the Humanities) che classifica il valore delle ricerche secondo che appaiano in riviste classificate per valore da parte di un comitato di persone che non ha alcuna rappresentatività del campo delle scienze umane. «L’ERIH – si osserva – dipende da un fondamentale fraintendimento delle regole e della pubblicazione della ricerca in questo campo. La qualità delle riviste non può essere separata dai loro contenuti […] Ricerche di alto livello possono essere pubblicate ovunque e in ogni lingua. Lavori di portata rivoluzionaria possono provenire da fonti marginali, dissidenti o inattese, piuttosto che dalle correnti principali e solidamente stabilite. Le riviste nel nostro campo sono varie, eterogenee e distinte. […] La British Academy ha concluso che l’ERIH com’è attualmente concepito non rappresenta un modo affidabile per stabilire una metrica per la valutazione delle pubblicazioni». In conclusione i dieci direttori invitano perentoriamente i compilatori dell’ERIH a rimuovere le loro riviste dalle loro liste a costo di essere marginalizzati nei finanziamenti.
Forse ancor più significativo è il documento dal titolo “Citation Statistics” prodotto circa un mese fa da tre autorevolissimi organismi scientifici, la International Mathematical Union (IMU), l’International Council of Industrial and Applied Mathematics (ICIAM) e l’Institute of Mathematical Statistics (IMS). Non posso addentrarmi in questo corposo testo di una trentina di pagine corredato di grafici e bibliografia. Mi limito a riassumerne la tesi centrale: «L’idea che la valutazione della ricerca debba essere fatta usando metodi “semplici e oggettivi” è sempre più prevalente oggi. Si crede che le statistiche delle citazioni siano di per sé più accurate in quanto sostituiscono giudizi complessi con numeri semplici e quindi superano la possibile soggettività delle valutazioni. Ma questa credenza è infondata». Difatti, continua il documento, è perfettamente illusorio che la statistica offra maggiore attendibilità di per sé. L’oggettività dei numeri può essere perfettamente illusoria. La filosofia del documento è espressa con una sentenza lapidaria in corsivo: «I numeri non sono di per sé superiori ai giudizi ponderati».
Chi parla così sono le associazioni che rappresentano chi più si occupa di numeri a livello mondiale…
Di fronte alla crisi del nostro sistema della ricerca e dell’istruzione sentiamo parlare da mane a sera di “valutazione”. Ogni invito a riflettere su quale sistema di valutazione sia opportuno introdurre e se non sia meglio affidarsi a procedure trasparenti e basate su “giudizi ponderati” e qualitativi cade nel nulla di fronte a una sorta di cupidigia di asservimento a metodologie improbabili e alla dittatura di esperti dalle improbabili competenze. Non mi sono mai schierato tra coloro che descrivono l’Italia come la sentina di tutti i mali – come si è appena visto non è proprio così – ma di certo un brutto vizio l’abbiamo: quello di adottare “innovazioni” vetuste quando ormai altrove si tende a metterle in discussione o a abbandonarle. Tale fu il caso della passione per le “nouvelles mathématiques” e la “new mathematics” che ci hanno lasciato in retaggio l’ossessione per la teoria degli insiemi e per l’aritmetica appresa colorando. Sarebbe opportuno che non si ripeta lo stesso errore con la valutazione. Per favore, niente anonimato e pochi numeri.
(Il Foglio, 10 agosto 2008)