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mercoledì 22 ottobre 2008

Quando la scienza si allontana da se stessa

«Vediam bene che “la Scienza per la Scienza” è formula vuota di contenuto sociale. E d’altra parte che il sapere può porgere alla volontà soltanto i mezzi dell’operare non i fini; che è assurdo cercare nella Scienza le norme della vita. Ma riteniamo che la volontà scientifica, all’infuori dello scopo utilitario, ponga essa stessa una norma significativa, quando riconosce, ed afferma il vero come indipendente dal timore o dal desiderio e promuove così lo sviluppo pieno della persona umana, la coscienza, oltreché la potenza, di un volere capace di riguardare al di là dei fini transitorii del presente, verso un più alto progresso futuro».
Così scriveva un secolo fa il matematico italiano Federigo Enriques nel suo più celebre libro “I problemi della scienza”, declinando nel suo linguaggio di scienziato alcuni dei temi al centro del discorso di Benedetto XVI che ha suscitato polemiche in questi giorni. Dire che «è assurdo cercare nella scienza le norme della vita» è solo un modo più forte di dire che «la scienza non è in grado di elaborare principi etici». Non è nella scienza che possiamo trovare il senso del mondo e dell’esistenza. Ma c’è un punto in cui la scienza tocca la sfera normativa ed è quando, ponendosi «all’infuori dello scopo utilitario» si da come obbiettivo primario la conquista della verità, e in tal modo promuove lo sviluppo della coscienza e un progresso che trascende i «fini transitorii del presente». È una dichiarazione forte contro il relativismo. Non contro quel che taluno chiama “relativismo”, ovvero l’inevitabile provvisorietà delle acquisizioni nel processo della conoscenza, che non possono ovviamente mai attingere una verità definitiva; bensì il relativismo assoluto che predica radicalmente l’inesistenza della verità – e quindi anche di un termine verso cui la scienza si proponga di tendere – e la perfetta equivalenza di tutti gli asserti, nella loro assenza di senso e nella loro totale caducità.
Certo, le cose sono cambiate da quando la scienza come attività conoscitiva ha progressivamente perduto il suo primato nei confronti degli «scopi utilitari», quando le sue “applicazioni” hanno iniziato a rendersi quasi autonome, e la tecnologia (la tecnica moderna che si basa sulla scienza e ne condivide il metodo) ha lasciato il posto a quell’ibrido detto “tecnoscienza”, in cui la conoscenza è talora persino di ostacolo allo sviluppo delle attività pratiche e delle realizzazioni industriali. Da quando si è profilato questo stato di cose sono iniziate le riflessioni e le polemiche sul difficile rapporto tra conoscenza e potenza pratica, sui rischi dell’asservimento della ricerca speculativa ai «fini transitorii del presente». È ben noto il travaglio del mondo scientifico attorno al problema del rapporto con la sfera militare, che non riguardava soltanto la dimensione etica (il dibattito sulla bomba atomica) ma anche le implicazioni dell’uso militare della scienza sulle decisioni politiche e sulla vita democratica di un paese. Del resto, l’osservazione più distratta mostra come gran parte degli oggetti tecnologici che ci circondano siano derivati della tecnoscienza militare. D’altra parte, la straordinaria quantità di beni di cui sono invase le nostre società è frutto di uno sviluppo incredibilmente veloce della produzione industriale di cui la scienza e la tecnologia sono il fattore fondamentale. Un simile sviluppo porta con sé ricchezza e l’inevitabile tentazione del guadagno e dell’interesse materiale. È ridicolo che si sia polemizzato contro il richiamo del Papa interpretandolo come un’offesa ai ricercatori universitari che guadagnano poco. Non di questo ovviamente si tratta. Sono tante le voci nel mondo scientifico (e non) che si sono levate per denunziare gli enormi interessi che gravitano attorno all’ingegneria genetica e al traffico dei brevetti: si tratta di somme vertiginose che hanno fatto della biologia la nuova “big science” al posto della fisica e che possono corrompere la «volontà scientifica» che pone al di sopra di tutto il fine della conoscenza disinteressata e accantonare la questione del valore morale della scelta dei fini verso cui indirizzare la ricerca. È di pochi mesi fa un’aspra polemica scoppiata negli ambienti scientifici statunitensi a proposito di venti anni di sperperi (al ritmo di 500 milioni di dollari annui) nella ricerca di un vaccino contro l’Aids priva di seri fondamenti teorici. Vanno ricordate le polemiche – sempre sviluppatesi in ambito scientifico – circa gli autentici moventi delle ricerche sugli Ogm (Organismi geneticamente modificati) che costituirebbero, secondo alcuni, un enorme affare economico che non porta vantaggi alle popolazioni affamate del Terzo mondo.
Si potrebbe continuare con gli esempi. Si tratta di questioni note e di cui è lecito dibattere senza preconcetti, partendo dall’assunto che il problema esiste e che il rischio di una corruzione del carattere disinteressatamente speculativo della ricerca è concreto. Pare tuttavia che sia lecito parlarne soltanto da parte di chi ha una militanza scientifica ateistica e antireligiosa. Chi appartiene a questi ambienti può permettersi di accusare ridicolmente uno dei più grandi protagonisti della scienza applicata del nostro tempo, John von Neumann, del reato di “prostituzione della scienza”. Se un religioso si limita a sottolineare il rischio di un prevalere degli interessi materiali su quelli della conoscenza disinteressata si tratta di un nemico della scienza.
Siamo così di fronte alla più evidente conferma che è in atto da parte di taluni uno sforzo accanito per erigere un muro tra scienza e religione, nell’intento di negare a quest’ultima qualsiasi funzione nelle scelte umane e sociali. Alla scienza soltanto viene riservato il diritto di giudicare e giudicarsi e di dettare norme peraltro di carattere assolutamente relativo. Rileggendo il brano di Enriques con cui abbiamo iniziato questo articolo è facile misurare quanto “questa” scienza si sia allontanata da sé stessa.
(L'Osservatore Romano, 19 ottobre 2008)

3 commenti:

GiuseppeR ha detto...

Ormai ho preso atto, con rassegnazione, che una numerosa categoria di persone ritiene "penoso" discutere di scienza e conoscenza con coloro che non si limitano ad un approccio puramente materialistico/deterministico.

Se poi mostri interesse o addirittura stima verso il pensiero di esponenti religiosi hai chiuso.

In questi casi sei automaticamente associato alla categoria delle "menti deboli" o dei "vecchi rincoglioniti" che hanno bisogno di illudersi per farsi una ragione della "complessità" del mondo e per lenire la paura della morte.

E' un atteggiamneto pieno di superbia, intolleranza che si veste dei panni della "laicità" e della "libertà di pensiero" mentre invece, nei casi più estremi, mi verrebbe da definirlo come una nuova forma di razzismo basata sulla differenza di cultura piuttosto che su quella etnica/religiosa.

Stefano S ha detto...

Solidarietà a tutti coloro che hanno vissuto esperienze simili sulla propria pelle o su quella della persone care. Non c'è altro da dire.

Gianfranco Massi ha detto...

Al mio liceo scientifico il libro adottato per la Geometria era l' Enriques-Amaldi diviso in Parte Prima e Parte Seconda, edito dalla Zanichelli. Ho fatto rilegare i due volumi e me li conservo come vere relique. Oltre che per il testo, spiegato in modo magistrale, l' opera è famosa per la ricchezza non soltanto numerica di esercizi

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