È di pochi giorni fa la denuncia della Chiesa cattolica del rischio di “statolatria” che fa correre alla Spagna la materia di “educazione alla cittadinanza”: Educación para la ciudadania y los derechos umanos (ecP). È un’accusa non nuova ma ora riproposta con forza. L’episcopato spagnolo si batte da tempo contro questa materia obbligatoria introdotta da un anno. La EcP non è “educazione civica” o “diritto costituzionale” nel senso delle recenti riforme italiane. Essa comprende, oltre a questi aspetti, una marea di temi: la lotta contro le discriminazioni delle diversità, l’educazione della sfera emotiva e sessuale, la costruzione di una coscienza morale e civica “concorde con le società democratiche, plurali e complesse e mutevoli in cui viviamo”, ecc. Pur prescindendo dal fatto che l’orientamento del governo Zapatero va nella direzione di educare mettere sullo stesso piano tutte le forme “familiari”, e contro ogni idea di legge naturale, l’introduzione di questa materia svuota la famiglia del suo ruolo educativo nella dimensione morale, etica e civile e lo trasferisce allo Stato. Chi determinerà quali sono i valori etici e morali “accettabili” da insegnare a scuola? Lo Stato, appunto, e in definitiva la maggioranza di governo. Roba sovietica in salsa relativista.
Tuttavia, sorge una domanda. Si guarda alla Spagna con sdegno e preoccupazione, ma ci si è dati la pena di guardare in casa nostra? So bene che quando si parla di scuola nessuno si sogna di leggere i programmi. Sarebbe invece il caso di farlo per constatare che anche noi (con la legge Moratti) possediamo due materie di educazione alla cittadinanza ed educazione all’affettività che dovrebbero seguire lo studente in tutto il percorso scolastico. La lettura delle conoscenze e competenze da acquisire lascia di stucco. Cito a caso alcune perle. La scuola dovrebbe educare lo studente a costruire «forme di espressione personale, ma anche socialmente accettata e moralmente giustificata, di stati d’animo, di sentimenti, di emozioni diversi, per situazioni differenti»; a «esercitare modalità socialmente efficaci e moralmente legittime di espressione delle proprie emozioni e della propria affettività»; a «essere consapevole delle modalità relazionali da attivare con coetanei e adulti di sesso diverso, sforzandosi di correggere le eventuali inadeguatezze». Inoltre il giovane deve saper «riconoscere il rapporto affettività-sessualità-moralità» e «riconoscere attività e atteggiamenti che sottolineano nelle relazioni interpersonali gli aspetti affettivi e ne facilitano la corretta comunicazione». Non basta. Gli si insegna a saper «cogliere la dimensione morale di ogni scelta e interrogarsi sulle conseguenze delle proprie azioni» e a «cogliere la complessità dei problemi esistenziali, morali, politici, sociali, economici e scientifici e formulare risposte personali argomentate».
Potremmo continuare con altre amenità, come il «prendere coscienza delle situazioni e delle forme del disagio giovanile ed adulto nella società contemporanea e comportarsi in modo da promuovere il benessere fisico, psicologico, morale e sociale» e l’addestramento alla democrazia attraverso l’organizzazione di «un Consiglio Comunale dei Ragazzi». Ovviamente bisogna praticare «il dialogo tra culture e sensibilità diverse» ma anche «partecipare al dibattito culturale», come se non ci fossero abbastanza commentatori “culturali” in giro.
Fermiamoci e poniamo una domanda. A chi spetta definire cosa sia “socialmente accettato” e “moralmente giustificato”, cosa sia “inadeguato” nelle “modalità relazionali”, quale sia la “dimensione morale” delle scelte, che cosa sia il “rapporto affettività-sessualità-moralità” e (colmo dei colmi) cosa sia il “benessere psicologico e morale”? Allo Stato, evidentemente, per il tramite dei suoi agenti, i docenti di educazione alla cittadinanza e all’affettività, cui sarà demandato addirittura di mettere il naso in una funzione tipica della famiglia: l’educazione emotiva e affettiva. Infatti, saranno loro i delegati a spiegare quali ne sono le modalità socialmente efficaci e moralmente legittime. Allucinante.
La fortuna di questo paese è che spesso le leggi si promulgano e non si applicano. Finora questo ciarpame è rimasto sulla carta. Attenzione però che non rispunti fuori nella definizione dei regolamenti attuativi della legge. Si rischia che, mentre lo sguardo si allunga verso la penisola iberica, dietro le spalle ci venga servito uno scherzetto da far invidia al buon Zapatero.
(Libero, 23 dicembre 2008)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
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mercoledì 24 dicembre 2008
domenica 21 dicembre 2008
La truffa dell'insegnare a insegnare
La truffa dell’insegnare a insegnare
ANDRÉS DE LA OLIVA 08/12/2008 (El País)
Alla pubblicazione su EL PAÍS di un Manifesto contro il nuovo master di formazione dei docenti hanno risposto in queste pagine alcuni pedagoghi che lo difendono. Tuttavia le argomentazioni, con le quali costoro argomentano la loro risposta, sono erronee. La tesi principale è che un docente non solo deve conoscere la sua materia, ma anche apprendere a insegnarla. Tale affermazione, che sembra rispondere al comune buon senso, è invece un sofisma che da anni gli “esperti in istruzione” propongono alle autorità ministeriali. I futuri docenti, si dice, devono “apprendere a insegnare” e gli alunni “apprendere ad apprendere”. Affinché ci riescano, esiste un gruppo di specialisti (coi propri interessi corporativi), il cui compito è di “insegnare a insegnare”.
Ebbene, precisamente a tale scopo è stato affidato ai pedagoghi il corso del CAP (Certificato di Attitudine Pedagogica). Questo corso non è mai stato sottoposto ai docenti delle scuole medie e superiori per una valutazione oggettiva: si sapeva benissimo che i docenti non solo non ne avrebbero riconosciuto la validità, ma anzi lo avrebbero considerato una burla o un’impostura.
Quale soluzione propone il ministero? Niente meno che sostituire il quinto anno di preparazione disciplinare specifica con un Master di formazione dei docenti, nient’altro che un CAP più lungo e più caro. Qualsiasi cosa tranne che domandare ai docenti il loro parere sull’utilità in aula della formazione pedagogica. A quanto pare, gli unici a sapere che cosa sia necessario in classe sono coloro che mai vi sono entrati; gli unici a sapere come si insegna matematica, grammatica o storia sono coloro che non sanno niente di matematica, grammatica, storia e tuttavia sono esperti ad insegnare come si insegna e come si impara ad imparare.
Perché il CAP è stato una truffa e una vergogna in tutti questi anni? Non perché fosse molto breve, ma perché è falso che chi non conosce la matematica sappia insegnare a insegnare la matematica. Ancor più falso è che esista un sapere che non riguardi la fisica o il latino o la geografia e il cui contenuto sia quello di insegnare a insegnare una di queste discipline. Un docente deve saper catturare l’attenzione degli alunni insegnando loro ad amare il sapere e per ottenere ciò non esiste altra garanzia che il proprio amore per il sapere. La matematica, la storia o il diritto processuale sono appassionanti e il dovere di un docente è di trasmettere ciò ai suoi alunni. E qual è la sua miglior arma, in realtà la sua unica arma, se non conoscere matematica, storia o diritto processuale?
“Conoscere la storia non significa saper insegnare la storia”. Qualsiasi docente esperto direbbe che la cosa sta esattamente al contrario: la miglior prova che uno non conosce la disciplina che credeva di conoscere è che fallisce nell’insegnarla. Se non sa come insegnar qualcosa, la causa è che non la conosce abbastanza e la conseguenza è che deve studiarla di più e meglio. Studiare più fisica, matematica o latino, non pedagogia.
Ovviamente ci saranno sempre grandi scienziati che non amano l’insegnamento e che si rifiutano ad esercitarlo. Non si smette di citare come prova incontestabile la figura del grande scienziato mediocre docente, ma è questo un argomento fallace: gli scienziati che non amano l’insegnamento, insegnano male non perché non sappiano, ma perché non desiderano insegnare e nessun corso di formazione dei docenti gli farà cambiare atteggiamento. D’altra parte, i laureati che mai hanno insegnato non sanno insegnare non perché gli difetti una preparazione pedagogica o psicopedagogica, ma perché gli manca la pratica dell’insegnamento. L’accesso alla professione di docente, come a quella di giudice o di medico, non dovrebbe avvenire senza aver superato un periodo di tirocinio seriamente pensato, organizzato e remunerato e ovviamente solo che si sia data dimostrazione di possedere una formazione non generale, ma avanzata e specifica in una determinata branca del sapere. Ciò è l’unico fine sollecitato dal disprezzato Manifesto contro il nuovo master di formazione dei docenti. Solo questo e inoltre che la si smetta una buona volta di prendere in giro la società mentre si smantella pezzo a pezzo il sistema di istruzione pubblica.
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La estafa del enseñar a enseñar
ANDRÉS DE LA OLIVA 08/12/2008 (El País)
La publicación en EL PAÍS de un Manifiesto Contra el Nuevo Máster de Formación del Profesorado (ECI/3858/2007) ha sido respondida en estas páginas por algunos pedagogos que lo defienden. Las pretendidas evidencias con que argumentan son, sin embargo, falsas. La tesis principal es que un profesor no sólo debe conocer su materia, sino que debe también aprender a enseñarla. Esto parece muy de "sentido común", pero es un sofisma con el que los "expertos en educación" llevan muchos años abduciendo a las autoridades ministeriales. Los futuros profesores, se dice, deben "aprender a enseñar" y los alumnos "aprender a aprender". Para conseguirlo, existe un cuerpo de especialistas (con sus propios intereses corporativos), cuya función es "enseñar a enseñar". Ahora bien, para ello precisamente se confió a los pedagogos el curso del CAP (Certificado de Aptitud Pedagógica). Este curso jamás se ha sometido a una evaluación objetiva entre los profesores de secundaria y bachillerato. Se sabía de sobra que los profesores no sólo no avalarían su utilidad, sino que lo valorarían como una estafa o una impostura. ¿Qué solución propone el ministerio? Nada menos que sustituir el quinto año de preparación disciplinar específica por un Máster de Formación del Profesorado que no es más que un CAP más largo y más caro. Cualquier cosa menos preguntar a los profesores sobre la utilidad en las aulas de la formación pedagógica. Por lo visto, los únicos que saben lo que se necesita en las aulas son los que jamás han pisado un aula. Por lo mismo, los únicos que saben cómo se enseña matemáticas, gramática o historia, son los que no saben ni matemáticas, ni gramática, ni historia (pero son, en cambio, expertos en enseñar a enseñar cómo se aprende a aprender).
¿Por qué el CAP ha sido una estafa y una vergüenza todos estos años? No porque fuera muy corto, sino porque es falso que quien no sabe matemáticas pueda enseñar a enseñar matemáticas. Y todavía es más falso que haya un saber que no sea ni física, ni latín, ni geografía, y cuyo contenido sea el enseñar en general para cualquiera de esas disciplinas. Un profesor debe saber captar la atención de los alumnos enseñándoles a amar el conocimiento, y para lograrlo no hay otra garantía que su propio amor por el conocimiento. Las matemáticas, la historia o el derecho procesal son apasionantes y la obligación de un profesor es saber transmitirlo a sus alumnos. Ahora bien, su mejor arma, en realidad su única arma, es saber matemáticas, historia o derecho procesal. ¿Saber historia no significa saber enseñar historia? Cualquier docente experimentado diría que la cosa es exactamente al revés: la mejor prueba de que algo que uno creía saber no lo sabe en realidad es que fracasa al enseñarlo. Si no se sabe cómo enseñar algo es porque no se sabe suficientemente, y la consecuencia es que hay que estudiarlo más y mejor. Estudiar más física, matemáticas o latín, no pedagogía. Por supuesto que siempre habrá grandes investigadores muy sabios que no amen la enseñanza y se nieguen a ejercerla. La figura del buen investigador y mal docente no cesa de blandirse como un argumento incontestable, pero es una falacia: los investigadores que no aman la enseñanza enseñan mal, no porque no sepan, sino porque no quieren hacerlo, y ningún curso de formación del profesorado les hará cambiar de opinión. Por otro lado, licenciados que nunca han enseñado no saben enseñar, pero no porque les falte teoría pedagógica (o psicopedagógica), sino porque les falta práctica docente. El acceso a la profesión de profesor, como a la de juez o a la de médico, no debería hacerse sin haber superado un periodo de prácticas seriamente concebido, tutelado, y remunerado. Y por cierto que sólo una vez acreditada una formación no básica y generalista, sino avanzada y específica en un campo determinado de conocimiento. Es lo único que solicita el denostado Manifiesto. Eso, y que se deje de tomar el pelo a la sociedad mientras se desmonta pieza a pieza el sistema de instrucción pública.
ANDRÉS DE LA OLIVA 08/12/2008 (El País)
Alla pubblicazione su EL PAÍS di un Manifesto contro il nuovo master di formazione dei docenti hanno risposto in queste pagine alcuni pedagoghi che lo difendono. Tuttavia le argomentazioni, con le quali costoro argomentano la loro risposta, sono erronee. La tesi principale è che un docente non solo deve conoscere la sua materia, ma anche apprendere a insegnarla. Tale affermazione, che sembra rispondere al comune buon senso, è invece un sofisma che da anni gli “esperti in istruzione” propongono alle autorità ministeriali. I futuri docenti, si dice, devono “apprendere a insegnare” e gli alunni “apprendere ad apprendere”. Affinché ci riescano, esiste un gruppo di specialisti (coi propri interessi corporativi), il cui compito è di “insegnare a insegnare”.
Ebbene, precisamente a tale scopo è stato affidato ai pedagoghi il corso del CAP (Certificato di Attitudine Pedagogica). Questo corso non è mai stato sottoposto ai docenti delle scuole medie e superiori per una valutazione oggettiva: si sapeva benissimo che i docenti non solo non ne avrebbero riconosciuto la validità, ma anzi lo avrebbero considerato una burla o un’impostura.
Quale soluzione propone il ministero? Niente meno che sostituire il quinto anno di preparazione disciplinare specifica con un Master di formazione dei docenti, nient’altro che un CAP più lungo e più caro. Qualsiasi cosa tranne che domandare ai docenti il loro parere sull’utilità in aula della formazione pedagogica. A quanto pare, gli unici a sapere che cosa sia necessario in classe sono coloro che mai vi sono entrati; gli unici a sapere come si insegna matematica, grammatica o storia sono coloro che non sanno niente di matematica, grammatica, storia e tuttavia sono esperti ad insegnare come si insegna e come si impara ad imparare.
Perché il CAP è stato una truffa e una vergogna in tutti questi anni? Non perché fosse molto breve, ma perché è falso che chi non conosce la matematica sappia insegnare a insegnare la matematica. Ancor più falso è che esista un sapere che non riguardi la fisica o il latino o la geografia e il cui contenuto sia quello di insegnare a insegnare una di queste discipline. Un docente deve saper catturare l’attenzione degli alunni insegnando loro ad amare il sapere e per ottenere ciò non esiste altra garanzia che il proprio amore per il sapere. La matematica, la storia o il diritto processuale sono appassionanti e il dovere di un docente è di trasmettere ciò ai suoi alunni. E qual è la sua miglior arma, in realtà la sua unica arma, se non conoscere matematica, storia o diritto processuale?
“Conoscere la storia non significa saper insegnare la storia”. Qualsiasi docente esperto direbbe che la cosa sta esattamente al contrario: la miglior prova che uno non conosce la disciplina che credeva di conoscere è che fallisce nell’insegnarla. Se non sa come insegnar qualcosa, la causa è che non la conosce abbastanza e la conseguenza è che deve studiarla di più e meglio. Studiare più fisica, matematica o latino, non pedagogia.
Ovviamente ci saranno sempre grandi scienziati che non amano l’insegnamento e che si rifiutano ad esercitarlo. Non si smette di citare come prova incontestabile la figura del grande scienziato mediocre docente, ma è questo un argomento fallace: gli scienziati che non amano l’insegnamento, insegnano male non perché non sappiano, ma perché non desiderano insegnare e nessun corso di formazione dei docenti gli farà cambiare atteggiamento. D’altra parte, i laureati che mai hanno insegnato non sanno insegnare non perché gli difetti una preparazione pedagogica o psicopedagogica, ma perché gli manca la pratica dell’insegnamento. L’accesso alla professione di docente, come a quella di giudice o di medico, non dovrebbe avvenire senza aver superato un periodo di tirocinio seriamente pensato, organizzato e remunerato e ovviamente solo che si sia data dimostrazione di possedere una formazione non generale, ma avanzata e specifica in una determinata branca del sapere. Ciò è l’unico fine sollecitato dal disprezzato Manifesto contro il nuovo master di formazione dei docenti. Solo questo e inoltre che la si smetta una buona volta di prendere in giro la società mentre si smantella pezzo a pezzo il sistema di istruzione pubblica.
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La estafa del enseñar a enseñar
ANDRÉS DE LA OLIVA 08/12/2008 (El País)
La publicación en EL PAÍS de un Manifiesto Contra el Nuevo Máster de Formación del Profesorado (ECI/3858/2007) ha sido respondida en estas páginas por algunos pedagogos que lo defienden. Las pretendidas evidencias con que argumentan son, sin embargo, falsas. La tesis principal es que un profesor no sólo debe conocer su materia, sino que debe también aprender a enseñarla. Esto parece muy de "sentido común", pero es un sofisma con el que los "expertos en educación" llevan muchos años abduciendo a las autoridades ministeriales. Los futuros profesores, se dice, deben "aprender a enseñar" y los alumnos "aprender a aprender". Para conseguirlo, existe un cuerpo de especialistas (con sus propios intereses corporativos), cuya función es "enseñar a enseñar". Ahora bien, para ello precisamente se confió a los pedagogos el curso del CAP (Certificado de Aptitud Pedagógica). Este curso jamás se ha sometido a una evaluación objetiva entre los profesores de secundaria y bachillerato. Se sabía de sobra que los profesores no sólo no avalarían su utilidad, sino que lo valorarían como una estafa o una impostura. ¿Qué solución propone el ministerio? Nada menos que sustituir el quinto año de preparación disciplinar específica por un Máster de Formación del Profesorado que no es más que un CAP más largo y más caro. Cualquier cosa menos preguntar a los profesores sobre la utilidad en las aulas de la formación pedagógica. Por lo visto, los únicos que saben lo que se necesita en las aulas son los que jamás han pisado un aula. Por lo mismo, los únicos que saben cómo se enseña matemáticas, gramática o historia, son los que no saben ni matemáticas, ni gramática, ni historia (pero son, en cambio, expertos en enseñar a enseñar cómo se aprende a aprender).
¿Por qué el CAP ha sido una estafa y una vergüenza todos estos años? No porque fuera muy corto, sino porque es falso que quien no sabe matemáticas pueda enseñar a enseñar matemáticas. Y todavía es más falso que haya un saber que no sea ni física, ni latín, ni geografía, y cuyo contenido sea el enseñar en general para cualquiera de esas disciplinas. Un profesor debe saber captar la atención de los alumnos enseñándoles a amar el conocimiento, y para lograrlo no hay otra garantía que su propio amor por el conocimiento. Las matemáticas, la historia o el derecho procesal son apasionantes y la obligación de un profesor es saber transmitirlo a sus alumnos. Ahora bien, su mejor arma, en realidad su única arma, es saber matemáticas, historia o derecho procesal. ¿Saber historia no significa saber enseñar historia? Cualquier docente experimentado diría que la cosa es exactamente al revés: la mejor prueba de que algo que uno creía saber no lo sabe en realidad es que fracasa al enseñarlo. Si no se sabe cómo enseñar algo es porque no se sabe suficientemente, y la consecuencia es que hay que estudiarlo más y mejor. Estudiar más física, matemáticas o latín, no pedagogía. Por supuesto que siempre habrá grandes investigadores muy sabios que no amen la enseñanza y se nieguen a ejercerla. La figura del buen investigador y mal docente no cesa de blandirse como un argumento incontestable, pero es una falacia: los investigadores que no aman la enseñanza enseñan mal, no porque no sepan, sino porque no quieren hacerlo, y ningún curso de formación del profesorado les hará cambiar de opinión. Por otro lado, licenciados que nunca han enseñado no saben enseñar, pero no porque les falte teoría pedagógica (o psicopedagógica), sino porque les falta práctica docente. El acceso a la profesión de profesor, como a la de juez o a la de médico, no debería hacerse sin haber superado un periodo de prácticas seriamente concebido, tutelado, y remunerado. Y por cierto que sólo una vez acreditada una formación no básica y generalista, sino avanzada y específica en un campo determinado de conocimiento. Es lo único que solicita el denostado Manifiesto. Eso, y que se deje de tomar el pelo a la sociedad mientras se desmonta pieza a pieza el sistema de instrucción pública.
giovedì 18 dicembre 2008
Più superstizioso di credere nella iella è solo pensare di farci un teorema
Tutti conoscono la celebre legge di Murphy secondo cui «se una cosa può andar male, lo farà». Probabilmente non molti la prendono davvero sul serio, come se fosse una vera “legge” scientifica che governa il corso degli eventi. È vero però che molti credono nella iella o seguono il precetto di Benedetto Croce che diceva di non crederci ma che era più prudente fare come se esistesse davvero. Uno scienziato inglese, Peter Bentley, del Dipartimento di Computer Science dell’University College di Londra, ha deciso di sfatare definitivamente il mito e di dimostrare un “teorema della sfiga” da cui risulterebbe che «c’è sempre una razionale (e spesso affascinante, divertente ed eccitante) spiegazione per tutte le cose che ci capitano ogni giorno» e che «ciò che davvero conta sono la fisica, la chimica, la biologia e in genere tutti i principi naturali che sono alla base di noi e della nostra tecnologia».
La rivista divulgativa Jekyll della prestigiosa istituzione scientifica SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste), ha divulgato il risultato su cui si basa il “teorema della sfiga” al seguente modo: «Nel 2004 un gruppo di esperti (David Lewis, Philip Obadya e Keelan Leyser) ha elaborato un’equazione statistica per prevedere se e quando la iella colpirà: ((U+C+I)·(10-S))/20·A·1/(1-sin(F/10))».
Se si chiedesse di dare un esempio di cattiva divulgazione scientifica sarebbe difficile trovarne uno migliore. Cosa rappresentano U, C, I, S, A e F? Qual è il senso di 20 e di 10? In generale, qual è il senso della formula? Se era troppo difficile spiegarla tanto valeva non scriverla, anziché fare concessioni alla visione più irrazionale delle “formule” matematiche, come ricette magiche che racchiudono i segreti del mondo e che permettono di manipolarlo alla maniera della fata di Cenerentola: «magicabu la bidibibodibu bu, fa matematica quel che vuoi tu». Bel modo di combattere la superstizione quello di sostituire alla credenza nella iella e nel destino la magia di formule incomprensibili di fronte alle quali il volgo deve inginocchiarsi perché “questa è la scienza, bellezza”!...
In questa divulgazione diseducativa ancor più grave dello sbattere sulla pagina una formula senza spiegarla è la diffusione della credenza, non meno irrazionale di quella nella sfiga, che la scienza sia la chiave di ogni aspetto dell’universo. In questa opera cattiva lo “scienziato” Bentley fa la sua parte. Difatti, se egli ha ragione di dire che è corretto cercare spiegazioni razionali e non rifugiarsi nelle superstizioni, è difficile sostenere che la fisica, la chimica e la biologia bastino: anche la mente umana ha la sua parte ed è avventato dare per scontato che tutto si riduca a una faccenda di atomi o di reazioni chimiche. Ma il divulgatore, anziché introdurre qualche valutazione critica del riduzionismo estremista dello “scienziato” ci mette un carico da novanta sostenendo che «la realtà di tutti i giorni è spesso piena di catastrofi, ma anche le più incomprensibili sono regolate da una logica matematica» e «lo scienziato ha tutte le risposte». Non ci crede neanche lui. Non soltanto nessuno possiede la chiave per spiegare matematicamente qualsiasi evento, ma l’asserzione che tutto il mondo sia matematico è un postulato metafisico indimostrabile e che tutto spinge a ritenere privo di fondamento. Forse si pensa che diffondere queste superstizioni serva ad alimentare il rispetto e l’interesse per la scienza. Invece serve a diffonderne un’immagine opprimente, come tutte le favole che non restano nel regno della fantasia e pretendono di farsi realtà.
(Tempi, 18 dicembre 2008)
La rivista divulgativa Jekyll della prestigiosa istituzione scientifica SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste), ha divulgato il risultato su cui si basa il “teorema della sfiga” al seguente modo: «Nel 2004 un gruppo di esperti (David Lewis, Philip Obadya e Keelan Leyser) ha elaborato un’equazione statistica per prevedere se e quando la iella colpirà: ((U+C+I)·(10-S))/20·A·1/(1-sin(F/10))».
Se si chiedesse di dare un esempio di cattiva divulgazione scientifica sarebbe difficile trovarne uno migliore. Cosa rappresentano U, C, I, S, A e F? Qual è il senso di 20 e di 10? In generale, qual è il senso della formula? Se era troppo difficile spiegarla tanto valeva non scriverla, anziché fare concessioni alla visione più irrazionale delle “formule” matematiche, come ricette magiche che racchiudono i segreti del mondo e che permettono di manipolarlo alla maniera della fata di Cenerentola: «magicabu la bidibibodibu bu, fa matematica quel che vuoi tu». Bel modo di combattere la superstizione quello di sostituire alla credenza nella iella e nel destino la magia di formule incomprensibili di fronte alle quali il volgo deve inginocchiarsi perché “questa è la scienza, bellezza”!...
In questa divulgazione diseducativa ancor più grave dello sbattere sulla pagina una formula senza spiegarla è la diffusione della credenza, non meno irrazionale di quella nella sfiga, che la scienza sia la chiave di ogni aspetto dell’universo. In questa opera cattiva lo “scienziato” Bentley fa la sua parte. Difatti, se egli ha ragione di dire che è corretto cercare spiegazioni razionali e non rifugiarsi nelle superstizioni, è difficile sostenere che la fisica, la chimica e la biologia bastino: anche la mente umana ha la sua parte ed è avventato dare per scontato che tutto si riduca a una faccenda di atomi o di reazioni chimiche. Ma il divulgatore, anziché introdurre qualche valutazione critica del riduzionismo estremista dello “scienziato” ci mette un carico da novanta sostenendo che «la realtà di tutti i giorni è spesso piena di catastrofi, ma anche le più incomprensibili sono regolate da una logica matematica» e «lo scienziato ha tutte le risposte». Non ci crede neanche lui. Non soltanto nessuno possiede la chiave per spiegare matematicamente qualsiasi evento, ma l’asserzione che tutto il mondo sia matematico è un postulato metafisico indimostrabile e che tutto spinge a ritenere privo di fondamento. Forse si pensa che diffondere queste superstizioni serva ad alimentare il rispetto e l’interesse per la scienza. Invece serve a diffonderne un’immagine opprimente, come tutte le favole che non restano nel regno della fantasia e pretendono di farsi realtà.
(Tempi, 18 dicembre 2008)
domenica 14 dicembre 2008
Nessun ripensamento. Atto di responsabilità rinviare la riforma delle Superiori
Quando non si sa più a quale santo votarsi s’inventa di tutto, anche che il ministro Gelmini ha ritirato i provvedimenti sulla scuola. È una balla a scopo autoconsolatorio. La riforma è legge: il modulo è abolito, la scuola primaria è basata sulla figura del maestro prevalente (che ovviamente da solo non può coprire tutte le ore del tempo pieno) e chi vuole può scegliersi anche il maestro unico a orario ridotto. Un’altra balla propagandistica è lo sbandieramento del rinvio della riforma delle superiori come una «gigantesca marcia indietro». Al contrario, si è trattato di una scelta responsabile dettata dall’analisi dei problemi che avrebbe provocato un’introduzione immediata di regolamenti attuativi della legge Moratti.
Al riguardo vorrei fare alcune considerazioni per spiegare perché, a mio avviso, la scelta di affrontare in modo approfondito e meditato la riorganizzazione delle superiori è l’unico modo corretto per proseguire l’opera di riforma della scuola.
La legge Moratti è un apparato vasto, complesso e composito, la cui applicazione pone problemi delicati. Essa comporta una molteplicità di materie e un’articolazione alquanto pesante. È anche da chiedersi se colei che ha dato il suo nome alla legge sia rimasta davvero soddisfatta dell’opera di chi l’ha compilata. Ed è da chiedersi come sia possibile che chi giustamente depreca l’etica laicista di stato cui si ispira la “educación para la ciudadanía” del governo Zapatero e difende la centralità della famiglia nella trasmissione dei valori morali, digerisca l’“educazione all’affettività” proposta dalla legge Moratti. È una materia che comporta tematiche strampalate come «l’aspetto culturale e valoriale della connessione tra affettività-sessualità-moralità» e lo sviluppo di competenze come il «riconoscere attività e atteggiamenti che sottolineano nelle relazioni interpersonali gli aspetti affettivi e ne facilitano la corretta comunicazione». Inoltre, applicare la legge Moratti significa introdurre l’educazione alla salute, l’educazione alimentare, ambientale, stradale, alla cittadinanza: tutte cose che non hanno niente a che fare con l’insegnamento del diritto costituzionale ma che assomigliano piuttosto a un’educazione di stato di stampo sovietico. Del resto è noto quale cultura abbia ispirato queste tematiche. Riteniamo davvero opportuno introdurle nella scuola senza pensarci bene?
Un altro tema di riflessione riguarda i programmi. L’ossessione di introdurre lo studente alla pratica attiva dei concetti abolendo l’acquisizione preliminare di conoscenze di base ha suggerito obbiettivi grotteschi: un ragazzo di terza liceo dovrebbe essere capace di «utilizzare e proporre modelli e analogie», di «formulare ipotesi, sperimentare e interpretare» e addirittura di «descrivere effetti relativistici nello studio della fisica delle particelle». Invece di acquisire le conoscenze in modo progressivo e metodico si affastella tutto: nozioni scientifiche classiche accanto a temi che sono oggetto della ricerca attuale e quindi ancora mal sistematizzati. Non voglio annoiare il lettore (si potrebbero riempire pagine di osservazioni): la legge Moratti propone un approccio didattico e di contenuto a dir poco audace ed è bene andarci con i piedi di piombo prima di rovesciare questo tsunami sulla già stressata scuola italiana.
Un altro aspetto critico riguarda i licei tecnici ed è rappresentato dal progetto di unificare quasi tutte le materie scientifiche in un’unica materia detta “scienze integrate”. Questa ipotesi ha suscitato un’ondata di preoccupazioni tra gli insegnanti: chi è laureato in chimica non se la sente giustamente di insegnare biologia e viceversa. Una delle cause principali della crisi delle scuole medie inferiori è che un buon numero di insegnanti di matematica non possiede una solida formazione in questa materia. Mentre si tenta di turare questa falla è proprio il caso di aprire un problema analogo nei licei tecnici? Oltretutto, è discutibile l’idea che un diplomato di questi licei non abbia bisogno di formazione teorica di base bensì di una generica infarinatura a scopo essenzialmente applicativo. Taluni ambienti dell’imprenditoria italiana che patrocinano questa materia dovrebbero assumere un atteggiamento più evoluto e rendersi conto che l’addestramento specifico si può fare in azienda in pochi mesi: quel che conta è preparare soggetti dotati della capacità di pensare e operare in modo autonomo e originale e questa capacità si matura attraverso l’acquisizione di una seria preparazione culturale generale.
Molti altri aspetti critici andrebbero menzionati tra cui l’istituzione di un Liceo delle Scienze Umane i cui programmi sono sconcertanti. Questo liceo non è funzionale – come qualcuno potrebbe ingenuamente pensare – all’apprendimento delle scienze umane comunemente intese: storia, antropologia, sociologia, psicologia, ecc. Si tratta invece di un liceo di scienze pedagogiche in cui ogni accenno ad altri saperi umanistici è inquadrato nella tematica educativa. Insomma, è un regalo fatto alla corporazione già ipertrofica dei pedagogisti affinché alimenti ulteriormente la sua autoriproduzione.
L’introduzione nella scuola di questa farraginosa e discutibile (e forse inapplicabile) macchina in congiunzione con l’esigenza di un contenimento delle spese e di una riduzione del numero esorbitante di curricula creati nei processi di sperimentazione, comporta un’operazione di una complessità enorme che rischia di produrre sconvolgimenti difficili persino a prevedersi. Pertanto la scelta del ministro Gelmini di aprire una fase di riflessione che permetta di ripensare in modo approfondito le iniziative da prendere nei confronti delle scuole superiori lungi dall’essere un passo indietro è un atto responsabile che costituisce la premessa indispensabile per progettare una ristrutturazione seria e meditata dell’offerta formativa.
(Libero, 14 dicembre 2008)
Al riguardo vorrei fare alcune considerazioni per spiegare perché, a mio avviso, la scelta di affrontare in modo approfondito e meditato la riorganizzazione delle superiori è l’unico modo corretto per proseguire l’opera di riforma della scuola.
La legge Moratti è un apparato vasto, complesso e composito, la cui applicazione pone problemi delicati. Essa comporta una molteplicità di materie e un’articolazione alquanto pesante. È anche da chiedersi se colei che ha dato il suo nome alla legge sia rimasta davvero soddisfatta dell’opera di chi l’ha compilata. Ed è da chiedersi come sia possibile che chi giustamente depreca l’etica laicista di stato cui si ispira la “educación para la ciudadanía” del governo Zapatero e difende la centralità della famiglia nella trasmissione dei valori morali, digerisca l’“educazione all’affettività” proposta dalla legge Moratti. È una materia che comporta tematiche strampalate come «l’aspetto culturale e valoriale della connessione tra affettività-sessualità-moralità» e lo sviluppo di competenze come il «riconoscere attività e atteggiamenti che sottolineano nelle relazioni interpersonali gli aspetti affettivi e ne facilitano la corretta comunicazione». Inoltre, applicare la legge Moratti significa introdurre l’educazione alla salute, l’educazione alimentare, ambientale, stradale, alla cittadinanza: tutte cose che non hanno niente a che fare con l’insegnamento del diritto costituzionale ma che assomigliano piuttosto a un’educazione di stato di stampo sovietico. Del resto è noto quale cultura abbia ispirato queste tematiche. Riteniamo davvero opportuno introdurle nella scuola senza pensarci bene?
Un altro tema di riflessione riguarda i programmi. L’ossessione di introdurre lo studente alla pratica attiva dei concetti abolendo l’acquisizione preliminare di conoscenze di base ha suggerito obbiettivi grotteschi: un ragazzo di terza liceo dovrebbe essere capace di «utilizzare e proporre modelli e analogie», di «formulare ipotesi, sperimentare e interpretare» e addirittura di «descrivere effetti relativistici nello studio della fisica delle particelle». Invece di acquisire le conoscenze in modo progressivo e metodico si affastella tutto: nozioni scientifiche classiche accanto a temi che sono oggetto della ricerca attuale e quindi ancora mal sistematizzati. Non voglio annoiare il lettore (si potrebbero riempire pagine di osservazioni): la legge Moratti propone un approccio didattico e di contenuto a dir poco audace ed è bene andarci con i piedi di piombo prima di rovesciare questo tsunami sulla già stressata scuola italiana.
Un altro aspetto critico riguarda i licei tecnici ed è rappresentato dal progetto di unificare quasi tutte le materie scientifiche in un’unica materia detta “scienze integrate”. Questa ipotesi ha suscitato un’ondata di preoccupazioni tra gli insegnanti: chi è laureato in chimica non se la sente giustamente di insegnare biologia e viceversa. Una delle cause principali della crisi delle scuole medie inferiori è che un buon numero di insegnanti di matematica non possiede una solida formazione in questa materia. Mentre si tenta di turare questa falla è proprio il caso di aprire un problema analogo nei licei tecnici? Oltretutto, è discutibile l’idea che un diplomato di questi licei non abbia bisogno di formazione teorica di base bensì di una generica infarinatura a scopo essenzialmente applicativo. Taluni ambienti dell’imprenditoria italiana che patrocinano questa materia dovrebbero assumere un atteggiamento più evoluto e rendersi conto che l’addestramento specifico si può fare in azienda in pochi mesi: quel che conta è preparare soggetti dotati della capacità di pensare e operare in modo autonomo e originale e questa capacità si matura attraverso l’acquisizione di una seria preparazione culturale generale.
Molti altri aspetti critici andrebbero menzionati tra cui l’istituzione di un Liceo delle Scienze Umane i cui programmi sono sconcertanti. Questo liceo non è funzionale – come qualcuno potrebbe ingenuamente pensare – all’apprendimento delle scienze umane comunemente intese: storia, antropologia, sociologia, psicologia, ecc. Si tratta invece di un liceo di scienze pedagogiche in cui ogni accenno ad altri saperi umanistici è inquadrato nella tematica educativa. Insomma, è un regalo fatto alla corporazione già ipertrofica dei pedagogisti affinché alimenti ulteriormente la sua autoriproduzione.
L’introduzione nella scuola di questa farraginosa e discutibile (e forse inapplicabile) macchina in congiunzione con l’esigenza di un contenimento delle spese e di una riduzione del numero esorbitante di curricula creati nei processi di sperimentazione, comporta un’operazione di una complessità enorme che rischia di produrre sconvolgimenti difficili persino a prevedersi. Pertanto la scelta del ministro Gelmini di aprire una fase di riflessione che permetta di ripensare in modo approfondito le iniziative da prendere nei confronti delle scuole superiori lungi dall’essere un passo indietro è un atto responsabile che costituisce la premessa indispensabile per progettare una ristrutturazione seria e meditata dell’offerta formativa.
(Libero, 14 dicembre 2008)
sabato 6 dicembre 2008
BOTTA e RISPOSTA sul DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO
Alla lettera di Guido Guastalla e mia pubblicata sul Corriere della Sera del 26 novembre e riportata in questo blog, hanno risposto Rav Giuseppe Laras, il prof. Amos Luzzatto e Daniele Nahum con la lettera seguente (Corriere della Sera, 4 dicembre).
Segue la nostra controreplica:
=========================================
Ebrei, Cattolici e Cristiani
Abbiamo letto l’articolo di Guido Guastalla e di Giorgio Israel, pubblicato in data 26 novembre sul Corriere della Sera.
In Italia il dialogo ebraico-cristiano ha coinvolto, a più livelli e da diversi anni, numerosi intellettuali sia ebrei che cristiani, credenti e non, nonché tante persone di buona volontà.
Si può forse anche affermare che la capitale del Dialogo in Italia, per quasi tre decenni, è stata la città di Milano, vista la compresenza, la reciproca stima e la collaborazione avutasi tra i Cardinali Arcivescovi C.M. Martini e D. Tettamanzi e il Rabbino Capo emerito G. Laras, oggi Presidente dei Rabbini italiani.
Ma non solo. La presenza a Milano del Consiglio Ecumenico delle Chiese Cristiane ha visto collaborare ebrei con autorità religiose e intellettuali sia valdesi sia cristiano-ortodossi.
Ed ecco i nomi del Dialogo in Italia, iniziato con Renzo Fabris e il rabbino Elia Kopciovski, tra i quali ricordiamo: Paolo de Benedetti, Maria Vingiani, Elena Lea Bartolini, don Gianfranco Bottoni, Daniele Garrone, Maria Cristina Bartolomei, Paolo Ricca, Enzo Bianchi, Brunetto Salvarani, Piero Stefani, Amos Luzzatto, Lea Sestrieri, Bruno Segre, Stefano Levi Della Torre, la Comunità di S. Egidio, la Libreria Claudiana, i monaci di Camaldoli e tanti altri ancora…mancano all’appello, almeno a memoria delle persone finora citate, i due ebrei italiani “impegnati nel Dialogo” che hanno scritto ieri su questa stessa testata!
Tutte queste persone, e il Rabbinato Italiano in particolare, da sempre hanno avuto a cuore il Dialogo tra ebrei e cristiani e, proprio per questo motivo, avvertono con particolare sensibilità e preoccupazione l’evidente stonatura derivante dal Motu Proprio promosso da Benedetto XVI circa l’Oremus pro Iudeis del Venerdì Santo, legato ad altri tempi (non proprio sereni!) e ad altri impianti teologici, da cui, peraltro, il Concilio Vaticano II aveva preso le distanze, lasciando aperti spazi inediti per il Dialogo tra Cattolici ed Ebrei. Ma è opportuno fare un’ulteriore importante sottolineatura. La pausa di riflessione, voluta in coscienza dai Rabbini Italiani, non riguarda il Cristianesimo nel suo insieme, ma solo la confessione cristiano-cattolica. Da questo si desume che non è vero che il Rabbinato Italiano voglia interrompere il Dialogo, ma semplicemente non prendere parte il prossimo anno alla tradizionale Giornata dell’Ebraismo del 17 Gennaio, non giudicando sinora esaurienti e effettivamente chiarificatrici le spiegazioni e le assicurazioni ricevute da alcuni esponenti della Chiesa Cattolica in relazione al pronunciamento papale, considerato che si tratta di una Preghiera da storia e da valenza simbolica particolari, legata alla genesi e al diffondersi dell’antisemitismo e dell’insegnamento del disprezzo, malattie purtroppo ancora ben vive. È evidente, quindi, la regressione rispetto alle conquiste scaturite dagli ultimi decenni di dialogo e collaborazione. Si spera solo che questa sia una crisi passeggera!
Sarebbe importante ricordare ai due firmatari dell’articolo che non è stato il Rabbinato Italiano a dare inizio a questa poco edificante querelle -che alla lunga rischia davvero di compromettere gli sforzi intellettuali e morali di eminenti personalità sia del mondo ebraico sia del mondo cattolico-, ma il Papa con la sua decisione.
Inoltre, a scanso di equivoci, è opportuno anche ricordare che il Rabbinato Italiano e i membri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sono i soli ufficiali responsabili della rappresentanza rispettivamente religiosa e civile degli ebrei italiani.
Per quanto riguarda il riferimento al Rabbino D. Rosen, si consideri che nel mondo ebraico non esiste un Papa e, pertanto, in Italia sono i Rabbini Italiani gli interlocutori tra le Chiese e l’Ebraismo.
Da ultimo, il Dialogo ebraico-cristiano, ivi compreso quello particolare con la Chiesa Cattolica, è una cosa certamente importantissima, che richiede sforzi e, soprattutto, costante esercizio di rispetto, comprensione, preparazione storica e, nondimeno, onestà intellettuale.
Il Dialogo tra Ebrei e Cristiani è unico e speciale, vista la tangenza e la storia comune tra le due fedi; esso, tuttavia, non è mai stato e non deve affatto essere uno strumento dell’Occidente contro l’Islām, ormai presente in maniera consistente in tutta Europa. Sicuramente bisogna opporsi ai fanatismi, ma non solo a quelli di matrice islamica! Una siffatta ipotesi strumentale del Dialogo è, quindi, intellettualmente, moralmente e religiosamente inaccettabile! Si ricordi, poi, che i rapporti tra Ebraismo e Islām generalmente sono stati più proficui e sereni rispetto a quelli intercorsi tra Ebraismo e Cristianesimo…ma questa è un’altra storia!
Rav Prof. Giuseppe LARAS, Rabbino Capo emerito di Milano e Presidente dei Rabbini Italiani
Amos LUZZATTO, Presidente dell’Associazione Centro Studi Primo Levi di Torino
Daniele NAHUM, Presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia
==================================
E questa è la nostra controreplica:
REPLICA a LARAS, LUZZATTO e NAHUM
Nella lettera da noi inviata al Corriere della Sera e pubblicata il 26 novembre, abbiamo espresso “profondo dissenso” dalla decisione presa il 17 novembre dall’Assemblea dei Rabbini d’Italia di sospendere il dialogo ebraico-cattolico. Lo abbiamo fatto nei termini più civili e sereni, senza un’ombra di polemica. Inoltre la nostra lettera conteneva argomentazioni esclusivamente dettate da esigenze spirituali e religiose.
Al contrario, Rav Giuseppe Laras, il professor Amos Luzzatto e Daniele Nahum hanno ritenuto di rispondere con una lettera (pubblicata dal Corriere) aspramente polemica, fino all’insulto e priva di argomentazioni. Essi hanno deformato una nostra affermazione secondo cui, in un momento di grave sbandamento etico e morale e di fronte all’assalto dell’integralismo islamico, è importante stringere i rapporti con chi condivide la difesa del primato della morale e della ragione pacifica. Hanno presentato tale affermazione come se avessimo detto che è conveniente allearsi con la Chiesa per difendere l’Occidente contro l’Islam, definendola un’«ipotesi strumentale del dialogo» che sarebbe «intellettualmente, moralmente e religiosamente inaccettabile». Una simile deformazione è tanto più grave in quanto usata per lanciare la pesante accusa di strumentalismo intellettuale, morale e religioso. Oltretutto la polemica scivola in modo patetico sull’osservazione che l’Islam è «ormai presente in maniera consistente in tutta Europa». Che argomento è mai questo? Forse la considerazione che si deve avere dell’Islam dipende dal suo peso numerico? Se volessimo ricorrere agli stessi metodi di Laras, Luzzatto e Nahum potremmo accusarli di ragionare sotto la spinta della paura e quindi per mere ragioni di opportunità.
Passiamo sopra altri epiteti e considerazioni spiacevoli, come il richiamo al fatto che l’esercizio del dialogo richiede “onestà intellettuale”. Che bisogno c’era di dirlo? Vi è forse qualcuno qui che si sia macchiato di disonestà intellettuale?
Ma veniamo ad altri aspetti ancor più inaccettabili della lettera.
I nostri stendono un elenco dei “nomi del Dialogo” in Italia osservando che «mancano all’appello i due ebrei “impegnati nel Dialogo”», che poi saremmo noi, per chi non avesse afferrato la pungente ironia. Non staremo al gioco penoso di esibire le credenziali di “dialoganti”. Ci limitiamo a osservare che è una procedura comica stendere una lista pretendendo di avere l’autorità insindacabile di decidere chi ha diritto a farne parte per poi dileggiare chi non ne fa parte. Insomma, siccome Laras e amici hanno decretato che non siamo “dialoganti”, allora non siamo “dialoganti”, e pertanto non siamo titolati a parlare di dialogo. Un brillante esercizio di logica, non c’è che dire. È da immaginare quali risultati sul piano dell’analisi talmudica si ottengano con simili procedimenti.
Ma il vertice della lettera è raggiunto quando si respinge il riferimento alle affermazioni del Rabbino David Rosen, in quanto «nel mondo ebraico non esiste un Papa». Naturalmente noi non avevamo citato il Rabbino Rosen come un Papa ebraico ma sottolineare l’esistenza di autorevoli punti di vista diversi da quelli del rabbinato italiano e analoghi al nostro, e per incitare a un atteggiamento riflessivo. Ma i nostri sono invece alla ricerca di Papi ebrei, sia pure locali. Difatti affermano che non esistendo un Papa, «in Italia sono i Rabbini Italiani gli interlocutori tra le Chiese e l’Ebraismo». In altri termini, chi voglia dialogare o è un rabbino italiano o deve chiedere l’autorizzazione ai rabbini italiani perché solo loro sono “gli interlocutori”. E rafforzano questa tesi con l’affermazione secondo cui «a scanso di equivoci, è opportuno anche ricordare che il Rabbinato Italiano e i membri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sono i soli ufficiali responsabili della rappresentanza rispettivamente religiosa e civile degli ebrei italiani».
Si tratta di aun’affermazione estremamente radicale e avventata che rappresenta una vera e propria uscita dall’ebraismo per entrare nella sfera dell’integralismo. Giova ricordare ai firmatari della lettera che un rabbino è un maestro che deve conquistarsi autorità e rispetto con l’esempio e l’insegnamento e non è un’autorità che ha il potere (da chi e come conferito?) di essere l’unica rappresentante religiosa di tutta la comunità. Neppure il Papa è dotato di un simile potere. La pretesa che il Rabbinato sia più di un Papato, unico ufficiale rappresentante religioso degli ebrei e titolare esclusivo del diritto di esercitare il Dialogo con le altri fedi e del potere di autorizzare i “fedeli” a praticarlo o di vietare di praticarlo, è estranea alla tradizione di libertà di pensiero dell’ebraismo, esorbita dalle funzioni del rabbino – salvo noti casi storici che rappresentano per l’appunto esempi di degenerazione – e rappresenta un mortificante cedimento al peggiore fondamentalismo. È stupefacente che non ci si renda conto del carattere inaudito della pretesa di avere il potere di decidere chi, se e come possa parlare o non parlare con altri. Tanto più ciò è grave se, per imporre tale autorità, si ricorre al metodo di screditare chi dissente (civilmente e pacatamente) sul piano morale: anche questa è una procedura tipica del fondamentalismo.
È con severa determinazione che preghiamo i firmatari della lettera di desistere da un siffatto atteggiamento che può essere compreso soltanto come effetto di uno stato di agitazione emotiva.
Deve essere comunque estremamente chiaro che non esistono le condizioni per esercitarsi nel gioco della scomunica o della messa al bando. Il tono aggressivo e offensivo della lettera purtroppo lascia credere che qualcuno nutra una simile illusione. È bene sapere che, così come non ci siamo permessi di mettere sotto accusa nessuno, non ci lasceremo mettere sotto accusa da nessuno e tantomeno screditare sul piano morale, quale che sia l’autorità che l’accusatore presume di avere.
Guido Guastalla
Giorgio Israel
Segue la nostra controreplica:
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Ebrei, Cattolici e Cristiani
Abbiamo letto l’articolo di Guido Guastalla e di Giorgio Israel, pubblicato in data 26 novembre sul Corriere della Sera.
In Italia il dialogo ebraico-cristiano ha coinvolto, a più livelli e da diversi anni, numerosi intellettuali sia ebrei che cristiani, credenti e non, nonché tante persone di buona volontà.
Si può forse anche affermare che la capitale del Dialogo in Italia, per quasi tre decenni, è stata la città di Milano, vista la compresenza, la reciproca stima e la collaborazione avutasi tra i Cardinali Arcivescovi C.M. Martini e D. Tettamanzi e il Rabbino Capo emerito G. Laras, oggi Presidente dei Rabbini italiani.
Ma non solo. La presenza a Milano del Consiglio Ecumenico delle Chiese Cristiane ha visto collaborare ebrei con autorità religiose e intellettuali sia valdesi sia cristiano-ortodossi.
Ed ecco i nomi del Dialogo in Italia, iniziato con Renzo Fabris e il rabbino Elia Kopciovski, tra i quali ricordiamo: Paolo de Benedetti, Maria Vingiani, Elena Lea Bartolini, don Gianfranco Bottoni, Daniele Garrone, Maria Cristina Bartolomei, Paolo Ricca, Enzo Bianchi, Brunetto Salvarani, Piero Stefani, Amos Luzzatto, Lea Sestrieri, Bruno Segre, Stefano Levi Della Torre, la Comunità di S. Egidio, la Libreria Claudiana, i monaci di Camaldoli e tanti altri ancora…mancano all’appello, almeno a memoria delle persone finora citate, i due ebrei italiani “impegnati nel Dialogo” che hanno scritto ieri su questa stessa testata!
Tutte queste persone, e il Rabbinato Italiano in particolare, da sempre hanno avuto a cuore il Dialogo tra ebrei e cristiani e, proprio per questo motivo, avvertono con particolare sensibilità e preoccupazione l’evidente stonatura derivante dal Motu Proprio promosso da Benedetto XVI circa l’Oremus pro Iudeis del Venerdì Santo, legato ad altri tempi (non proprio sereni!) e ad altri impianti teologici, da cui, peraltro, il Concilio Vaticano II aveva preso le distanze, lasciando aperti spazi inediti per il Dialogo tra Cattolici ed Ebrei. Ma è opportuno fare un’ulteriore importante sottolineatura. La pausa di riflessione, voluta in coscienza dai Rabbini Italiani, non riguarda il Cristianesimo nel suo insieme, ma solo la confessione cristiano-cattolica. Da questo si desume che non è vero che il Rabbinato Italiano voglia interrompere il Dialogo, ma semplicemente non prendere parte il prossimo anno alla tradizionale Giornata dell’Ebraismo del 17 Gennaio, non giudicando sinora esaurienti e effettivamente chiarificatrici le spiegazioni e le assicurazioni ricevute da alcuni esponenti della Chiesa Cattolica in relazione al pronunciamento papale, considerato che si tratta di una Preghiera da storia e da valenza simbolica particolari, legata alla genesi e al diffondersi dell’antisemitismo e dell’insegnamento del disprezzo, malattie purtroppo ancora ben vive. È evidente, quindi, la regressione rispetto alle conquiste scaturite dagli ultimi decenni di dialogo e collaborazione. Si spera solo che questa sia una crisi passeggera!
Sarebbe importante ricordare ai due firmatari dell’articolo che non è stato il Rabbinato Italiano a dare inizio a questa poco edificante querelle -che alla lunga rischia davvero di compromettere gli sforzi intellettuali e morali di eminenti personalità sia del mondo ebraico sia del mondo cattolico-, ma il Papa con la sua decisione.
Inoltre, a scanso di equivoci, è opportuno anche ricordare che il Rabbinato Italiano e i membri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sono i soli ufficiali responsabili della rappresentanza rispettivamente religiosa e civile degli ebrei italiani.
Per quanto riguarda il riferimento al Rabbino D. Rosen, si consideri che nel mondo ebraico non esiste un Papa e, pertanto, in Italia sono i Rabbini Italiani gli interlocutori tra le Chiese e l’Ebraismo.
Da ultimo, il Dialogo ebraico-cristiano, ivi compreso quello particolare con la Chiesa Cattolica, è una cosa certamente importantissima, che richiede sforzi e, soprattutto, costante esercizio di rispetto, comprensione, preparazione storica e, nondimeno, onestà intellettuale.
Il Dialogo tra Ebrei e Cristiani è unico e speciale, vista la tangenza e la storia comune tra le due fedi; esso, tuttavia, non è mai stato e non deve affatto essere uno strumento dell’Occidente contro l’Islām, ormai presente in maniera consistente in tutta Europa. Sicuramente bisogna opporsi ai fanatismi, ma non solo a quelli di matrice islamica! Una siffatta ipotesi strumentale del Dialogo è, quindi, intellettualmente, moralmente e religiosamente inaccettabile! Si ricordi, poi, che i rapporti tra Ebraismo e Islām generalmente sono stati più proficui e sereni rispetto a quelli intercorsi tra Ebraismo e Cristianesimo…ma questa è un’altra storia!
Rav Prof. Giuseppe LARAS, Rabbino Capo emerito di Milano e Presidente dei Rabbini Italiani
Amos LUZZATTO, Presidente dell’Associazione Centro Studi Primo Levi di Torino
Daniele NAHUM, Presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia
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E questa è la nostra controreplica:
REPLICA a LARAS, LUZZATTO e NAHUM
Nella lettera da noi inviata al Corriere della Sera e pubblicata il 26 novembre, abbiamo espresso “profondo dissenso” dalla decisione presa il 17 novembre dall’Assemblea dei Rabbini d’Italia di sospendere il dialogo ebraico-cattolico. Lo abbiamo fatto nei termini più civili e sereni, senza un’ombra di polemica. Inoltre la nostra lettera conteneva argomentazioni esclusivamente dettate da esigenze spirituali e religiose.
Al contrario, Rav Giuseppe Laras, il professor Amos Luzzatto e Daniele Nahum hanno ritenuto di rispondere con una lettera (pubblicata dal Corriere) aspramente polemica, fino all’insulto e priva di argomentazioni. Essi hanno deformato una nostra affermazione secondo cui, in un momento di grave sbandamento etico e morale e di fronte all’assalto dell’integralismo islamico, è importante stringere i rapporti con chi condivide la difesa del primato della morale e della ragione pacifica. Hanno presentato tale affermazione come se avessimo detto che è conveniente allearsi con la Chiesa per difendere l’Occidente contro l’Islam, definendola un’«ipotesi strumentale del dialogo» che sarebbe «intellettualmente, moralmente e religiosamente inaccettabile». Una simile deformazione è tanto più grave in quanto usata per lanciare la pesante accusa di strumentalismo intellettuale, morale e religioso. Oltretutto la polemica scivola in modo patetico sull’osservazione che l’Islam è «ormai presente in maniera consistente in tutta Europa». Che argomento è mai questo? Forse la considerazione che si deve avere dell’Islam dipende dal suo peso numerico? Se volessimo ricorrere agli stessi metodi di Laras, Luzzatto e Nahum potremmo accusarli di ragionare sotto la spinta della paura e quindi per mere ragioni di opportunità.
Passiamo sopra altri epiteti e considerazioni spiacevoli, come il richiamo al fatto che l’esercizio del dialogo richiede “onestà intellettuale”. Che bisogno c’era di dirlo? Vi è forse qualcuno qui che si sia macchiato di disonestà intellettuale?
Ma veniamo ad altri aspetti ancor più inaccettabili della lettera.
I nostri stendono un elenco dei “nomi del Dialogo” in Italia osservando che «mancano all’appello i due ebrei “impegnati nel Dialogo”», che poi saremmo noi, per chi non avesse afferrato la pungente ironia. Non staremo al gioco penoso di esibire le credenziali di “dialoganti”. Ci limitiamo a osservare che è una procedura comica stendere una lista pretendendo di avere l’autorità insindacabile di decidere chi ha diritto a farne parte per poi dileggiare chi non ne fa parte. Insomma, siccome Laras e amici hanno decretato che non siamo “dialoganti”, allora non siamo “dialoganti”, e pertanto non siamo titolati a parlare di dialogo. Un brillante esercizio di logica, non c’è che dire. È da immaginare quali risultati sul piano dell’analisi talmudica si ottengano con simili procedimenti.
Ma il vertice della lettera è raggiunto quando si respinge il riferimento alle affermazioni del Rabbino David Rosen, in quanto «nel mondo ebraico non esiste un Papa». Naturalmente noi non avevamo citato il Rabbino Rosen come un Papa ebraico ma sottolineare l’esistenza di autorevoli punti di vista diversi da quelli del rabbinato italiano e analoghi al nostro, e per incitare a un atteggiamento riflessivo. Ma i nostri sono invece alla ricerca di Papi ebrei, sia pure locali. Difatti affermano che non esistendo un Papa, «in Italia sono i Rabbini Italiani gli interlocutori tra le Chiese e l’Ebraismo». In altri termini, chi voglia dialogare o è un rabbino italiano o deve chiedere l’autorizzazione ai rabbini italiani perché solo loro sono “gli interlocutori”. E rafforzano questa tesi con l’affermazione secondo cui «a scanso di equivoci, è opportuno anche ricordare che il Rabbinato Italiano e i membri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sono i soli ufficiali responsabili della rappresentanza rispettivamente religiosa e civile degli ebrei italiani».
Si tratta di aun’affermazione estremamente radicale e avventata che rappresenta una vera e propria uscita dall’ebraismo per entrare nella sfera dell’integralismo. Giova ricordare ai firmatari della lettera che un rabbino è un maestro che deve conquistarsi autorità e rispetto con l’esempio e l’insegnamento e non è un’autorità che ha il potere (da chi e come conferito?) di essere l’unica rappresentante religiosa di tutta la comunità. Neppure il Papa è dotato di un simile potere. La pretesa che il Rabbinato sia più di un Papato, unico ufficiale rappresentante religioso degli ebrei e titolare esclusivo del diritto di esercitare il Dialogo con le altri fedi e del potere di autorizzare i “fedeli” a praticarlo o di vietare di praticarlo, è estranea alla tradizione di libertà di pensiero dell’ebraismo, esorbita dalle funzioni del rabbino – salvo noti casi storici che rappresentano per l’appunto esempi di degenerazione – e rappresenta un mortificante cedimento al peggiore fondamentalismo. È stupefacente che non ci si renda conto del carattere inaudito della pretesa di avere il potere di decidere chi, se e come possa parlare o non parlare con altri. Tanto più ciò è grave se, per imporre tale autorità, si ricorre al metodo di screditare chi dissente (civilmente e pacatamente) sul piano morale: anche questa è una procedura tipica del fondamentalismo.
È con severa determinazione che preghiamo i firmatari della lettera di desistere da un siffatto atteggiamento che può essere compreso soltanto come effetto di uno stato di agitazione emotiva.
Deve essere comunque estremamente chiaro che non esistono le condizioni per esercitarsi nel gioco della scomunica o della messa al bando. Il tono aggressivo e offensivo della lettera purtroppo lascia credere che qualcuno nutra una simile illusione. È bene sapere che, così come non ci siamo permessi di mettere sotto accusa nessuno, non ci lasceremo mettere sotto accusa da nessuno e tantomeno screditare sul piano morale, quale che sia l’autorità che l’accusatore presume di avere.
Guido Guastalla
Giorgio Israel
martedì 2 dicembre 2008
Il modo più sicuro per rinviare la riforma della scuola è fare un tavolo sulla riforma della scuola
È naturale che qualcuno pensi che un sistema dell’istruzione esausto come quello italiano possa riprendersi soltanto con riforme complessive. Non è così semplice. Da trent’anni la scuola italiana non conosce riforme organiche ma è investita da un processo ininterrotto di sperimentazioni che l’hanno sbrindellata in un arcipelago incontrollabile. Anche l’università ha subito una lunga serie di pesanti interventi che ne hanno mutato radicalmente il volto senza rispondere a un disegno organico. E allora – si dirà – è il momento di raccogliere i pezzi attorno a una riforma coerente e ispirata a un disegno preciso. Forse. In un altro paese. In un paese in cui la classe politica sia capace di imporre il suo primato e di decidere.
Certo, l’Italia di oggi non è il paese in cui Giovanni Gentile poteva mettersi da solo a tavolino e scrivere la riforma dell’istruzione: anche allora le cose non andarono così semplicemente. Tuttavia, per disegnare una riforma basta una direzione politica con idee e intenti chiari, circondata da un gruppo ristretto di persone competenti e ispirate ai medesimi intenti e idee. Non serve altro. Invece in Italia, per progettare la riforma anche di un settore minimo dell’istruzione occorrono commissioni su commissioni che debbono rispondere a una sterminata platea di “parti” interessate che si ritengono investite di un ruolo determinante e il cui parere è imprescindibile: sindacati, associazioni di categoria e professionali di esperti, insegnanti, genitori, studenti, amministrativi, e persino riviste specializzate. Ogni intervento deve “nascere dal basso”, in un processo di consultazione assembleare che deve coinvolgere attivamente tutti i “soggetti interessati”, pena la sua illegittimità. Questa visione assembleare della democrazia paralizza la politica e impedisce ogni decisione organica. Difatti, ogni processo riformatore che passa attraverso questo trattamento produce una veste d’Arlecchino di provvedimenti sconnessi, talora contraddittori sul piano culturale e, in certi casi, persino su quello giuridico.
Nelle scorse settimane abbiamo assistito agli effetti di questa visione: persino associazioni rispettabili di insegnanti si sono ribellate non per la sostanza dei provvedimenti governativi (che magari condividevano) ma per il metodo.
Da una simile condizione si può venir fuori soltanto in due modi: con un processo rapido ma altamente traumatico oppure con un’opera culturale di medio e lungo periodo. Poiché la prima via è preclusa in un paese così poco thatcheriano come l’Italia, resta la seconda. Ma per ottenere qualche risultato occorre che, accanto all’azione culturale metodica e incessante, pochi e mirati provvedimenti legislativi indichino in modo inequivocabile la direzione che si vuol prendere. I provvedimenti recenti hanno avuto il merito di indicare, sia per la scuola che per l’università, la direzione del merito, del rigore, della responsabilità; e forse questo segnale può iniziare a riorientare la macchina nella direzione giusta. È l’unica speranza realistica (anche se flebile, molto flebile) di salvare il sistema italiano dell’istruzione.
Il realismo impone altre considerazioni. Noi abbiamo un sistema essenzialmente statale. Si può sperare in una situazione futura più equilibrata, ma chi pensa di risolvere le cose sul breve periodo puntando sul settore privato è un illuso. Occorre agire subito sul sistema che abbiamo, per quel che è. In tal senso, pensare di operare su un sistema statale come se fosse privato, “non facendo niente” – come ha suggerito Pietro Ichino – ovvero abbandonandolo alla selezione naturale operata dalla concorrenza, con l’ausilio di qualche processo di valutazione, è una colossale illusione. È la stessa illusione con cui la gestione degli ultimi decenni da parte della sinistra – inclusa quella del ministero Moratti che ha proseguito sugli stessi binari – ha condotto il sistema al collasso. Inutile ragionare in termini privatistici nei confronti di un sistema che non lo è, ricorrendo – come è stato detto – a un “mercato simulato”. Non a caso, da almeno venti anni assistiamo alla stessa macroscopica contraddizione: si prendono provvedimenti tesi a introdurre autonomia e concorrenza e poi si è costretti a tamponare con dirigismi abborracciati. Meglio guardare coraggiosamente in faccia il nodo: se vogliamo creare le condizioni per una concorrenza virtuosa in un sistema disastrato come questo, occorre crearle d’autorità. Inutile illudersi. A meno che non si ritenga possibile chiudere in un giorno i battenti dell’istruzione statale o venderla al settore privato.
Consideriamo la questione dell’autonomia, da tempo proposta come un toccasana. Sono state introdotte dosi massicce di autonomia nella scuola e nell’università. Un’autonomia falsa e sbagliata che è stata introdotta soltanto dove non poteva che produrre disastri. L’autonomia scolastica è stata usata per distruggere l’idea di “programma” e ha prodotto la corte dei miracoli dei Pof (piani di offerta formativa) in cui la matematica o l’italiano sono sullo stesso piano delle visite alle centrali del latte. Di contenuti dell’istruzione non si può più parlare perché questi vanno costruiti in “autonomia” in classe, e qui ha avuto una responsabilità storica l’ideologia pedagogica dell’autoapprendimento. Inoltre, per rafforzare l’autonomia i presidi sono stati pensati come “manager”, col risultato che il loro principale intento è di “promuovere” la scuola come se fosse un negozio, coprendo ogni magagna disciplinare e didattica pur di non macchiarne l’immagine e divenendo persino incapaci di sanzionare uno studente che picchia un insegnante o un insegnante razzista. E allora ci si pensi dieci volte prima di andare verso l’idea sconsiderata di un preside manager non insegnante; o verso l’assunzione dei docenti con concorsi interni d’istituto, con il prevedibile risultato di offrire un nuovo terreno di affari alla malavita organizzata. Ricominciamo piuttosto da disciplina, elevati livelli di apprendimento delle materie strategiche e programmi qualificati.
Si è parlato in abbondanza dei risultati dell’autonomia nell’università: 5500 corsi di laurea, 180.000 insegnamenti, un numero di docenti spropositato formato per lo più di generali; e come corrispettivo, l’indebitamento delle università e la caduta di livello culturale.
Come si può seriamente pensare di uscire, nell’immediato, da una situazione del genere se non intervenendo in modo draconiano a tagliare i Pof e i corsi universitari, per poi stabilire sulla base di un sistema risanato un nuovo corso riformatore che introduca una vera autonomia? Ma non l’autonomia dei contenuti! È nel quadro di una difesa del ruolo della scuola privata che il Papa si è di recente chiesto «se non gioverebbe alla qualità dell’insegnamento lo stimolante confronto tra centri formativi, nel rispetto dei programmi ministeriali validi per tutti». È mai possibile che proprio nel contesto statale e “laico” l’autonomia venga concepita secondo i canoni di un pedagogismo culturalmente allo sbando che predica che è in classe che va deciso se insegnare oppure no il teorema di Pitagora?
Un altro discorso delicatissimo è quello della valutazione. A sentire certi soloni esisterebbero metodi quantitativi di valutazione di valore scientifico indiscutibile e pronti per l’uso. Si può capire che parli così chi ha una ragione sociale da difendere ma qui è in gioco il futuro del paese. Mi limiterò a ricordare un recente documento prodotto da enti che s’intendono di numeri: la International Mathematical Union (IMU), l’International Council of Industrial and Applied Mathematics (ICIAM) e l’Institute of Mathematical Statistics (IMS). La tesi centrale è che sono «infondate» l’idea che «la valutazione della ricerca debba essere fatta usando metodi “semplici e oggettivi”» e la credenza che «le statistiche delle citazioni siano di per sé più accurate in quanto sostituiscono giudizi complessi con numeri semplici e quindi superano la possibile soggettività delle valutazioni»: «I numeri non sono di per sé superiori ai giudizi ponderati».
Sono noti gli effetti disastrosi di certi parametri di valutazione proposti dai docimologi. È inquietante vedere che ora ne vengano proposti altri non meno discutibili, per esempio con il conteggio dei crediti. Fermiamoci a ragionare e chediamoci se non sia più adeguato un sistema di valutazione per ispezioni (tipo l’Ofsted inglese). Comunque, è necessaria una riflessione seria e meditata prima che una miriade di spinte contraddittorie e avventate porti a fabbricare l’ennesima veste di Arlecchino.
(Il Foglio, 29 novembre 2008)
Certo, l’Italia di oggi non è il paese in cui Giovanni Gentile poteva mettersi da solo a tavolino e scrivere la riforma dell’istruzione: anche allora le cose non andarono così semplicemente. Tuttavia, per disegnare una riforma basta una direzione politica con idee e intenti chiari, circondata da un gruppo ristretto di persone competenti e ispirate ai medesimi intenti e idee. Non serve altro. Invece in Italia, per progettare la riforma anche di un settore minimo dell’istruzione occorrono commissioni su commissioni che debbono rispondere a una sterminata platea di “parti” interessate che si ritengono investite di un ruolo determinante e il cui parere è imprescindibile: sindacati, associazioni di categoria e professionali di esperti, insegnanti, genitori, studenti, amministrativi, e persino riviste specializzate. Ogni intervento deve “nascere dal basso”, in un processo di consultazione assembleare che deve coinvolgere attivamente tutti i “soggetti interessati”, pena la sua illegittimità. Questa visione assembleare della democrazia paralizza la politica e impedisce ogni decisione organica. Difatti, ogni processo riformatore che passa attraverso questo trattamento produce una veste d’Arlecchino di provvedimenti sconnessi, talora contraddittori sul piano culturale e, in certi casi, persino su quello giuridico.
Nelle scorse settimane abbiamo assistito agli effetti di questa visione: persino associazioni rispettabili di insegnanti si sono ribellate non per la sostanza dei provvedimenti governativi (che magari condividevano) ma per il metodo.
Da una simile condizione si può venir fuori soltanto in due modi: con un processo rapido ma altamente traumatico oppure con un’opera culturale di medio e lungo periodo. Poiché la prima via è preclusa in un paese così poco thatcheriano come l’Italia, resta la seconda. Ma per ottenere qualche risultato occorre che, accanto all’azione culturale metodica e incessante, pochi e mirati provvedimenti legislativi indichino in modo inequivocabile la direzione che si vuol prendere. I provvedimenti recenti hanno avuto il merito di indicare, sia per la scuola che per l’università, la direzione del merito, del rigore, della responsabilità; e forse questo segnale può iniziare a riorientare la macchina nella direzione giusta. È l’unica speranza realistica (anche se flebile, molto flebile) di salvare il sistema italiano dell’istruzione.
Il realismo impone altre considerazioni. Noi abbiamo un sistema essenzialmente statale. Si può sperare in una situazione futura più equilibrata, ma chi pensa di risolvere le cose sul breve periodo puntando sul settore privato è un illuso. Occorre agire subito sul sistema che abbiamo, per quel che è. In tal senso, pensare di operare su un sistema statale come se fosse privato, “non facendo niente” – come ha suggerito Pietro Ichino – ovvero abbandonandolo alla selezione naturale operata dalla concorrenza, con l’ausilio di qualche processo di valutazione, è una colossale illusione. È la stessa illusione con cui la gestione degli ultimi decenni da parte della sinistra – inclusa quella del ministero Moratti che ha proseguito sugli stessi binari – ha condotto il sistema al collasso. Inutile ragionare in termini privatistici nei confronti di un sistema che non lo è, ricorrendo – come è stato detto – a un “mercato simulato”. Non a caso, da almeno venti anni assistiamo alla stessa macroscopica contraddizione: si prendono provvedimenti tesi a introdurre autonomia e concorrenza e poi si è costretti a tamponare con dirigismi abborracciati. Meglio guardare coraggiosamente in faccia il nodo: se vogliamo creare le condizioni per una concorrenza virtuosa in un sistema disastrato come questo, occorre crearle d’autorità. Inutile illudersi. A meno che non si ritenga possibile chiudere in un giorno i battenti dell’istruzione statale o venderla al settore privato.
Consideriamo la questione dell’autonomia, da tempo proposta come un toccasana. Sono state introdotte dosi massicce di autonomia nella scuola e nell’università. Un’autonomia falsa e sbagliata che è stata introdotta soltanto dove non poteva che produrre disastri. L’autonomia scolastica è stata usata per distruggere l’idea di “programma” e ha prodotto la corte dei miracoli dei Pof (piani di offerta formativa) in cui la matematica o l’italiano sono sullo stesso piano delle visite alle centrali del latte. Di contenuti dell’istruzione non si può più parlare perché questi vanno costruiti in “autonomia” in classe, e qui ha avuto una responsabilità storica l’ideologia pedagogica dell’autoapprendimento. Inoltre, per rafforzare l’autonomia i presidi sono stati pensati come “manager”, col risultato che il loro principale intento è di “promuovere” la scuola come se fosse un negozio, coprendo ogni magagna disciplinare e didattica pur di non macchiarne l’immagine e divenendo persino incapaci di sanzionare uno studente che picchia un insegnante o un insegnante razzista. E allora ci si pensi dieci volte prima di andare verso l’idea sconsiderata di un preside manager non insegnante; o verso l’assunzione dei docenti con concorsi interni d’istituto, con il prevedibile risultato di offrire un nuovo terreno di affari alla malavita organizzata. Ricominciamo piuttosto da disciplina, elevati livelli di apprendimento delle materie strategiche e programmi qualificati.
Si è parlato in abbondanza dei risultati dell’autonomia nell’università: 5500 corsi di laurea, 180.000 insegnamenti, un numero di docenti spropositato formato per lo più di generali; e come corrispettivo, l’indebitamento delle università e la caduta di livello culturale.
Come si può seriamente pensare di uscire, nell’immediato, da una situazione del genere se non intervenendo in modo draconiano a tagliare i Pof e i corsi universitari, per poi stabilire sulla base di un sistema risanato un nuovo corso riformatore che introduca una vera autonomia? Ma non l’autonomia dei contenuti! È nel quadro di una difesa del ruolo della scuola privata che il Papa si è di recente chiesto «se non gioverebbe alla qualità dell’insegnamento lo stimolante confronto tra centri formativi, nel rispetto dei programmi ministeriali validi per tutti». È mai possibile che proprio nel contesto statale e “laico” l’autonomia venga concepita secondo i canoni di un pedagogismo culturalmente allo sbando che predica che è in classe che va deciso se insegnare oppure no il teorema di Pitagora?
Un altro discorso delicatissimo è quello della valutazione. A sentire certi soloni esisterebbero metodi quantitativi di valutazione di valore scientifico indiscutibile e pronti per l’uso. Si può capire che parli così chi ha una ragione sociale da difendere ma qui è in gioco il futuro del paese. Mi limiterò a ricordare un recente documento prodotto da enti che s’intendono di numeri: la International Mathematical Union (IMU), l’International Council of Industrial and Applied Mathematics (ICIAM) e l’Institute of Mathematical Statistics (IMS). La tesi centrale è che sono «infondate» l’idea che «la valutazione della ricerca debba essere fatta usando metodi “semplici e oggettivi”» e la credenza che «le statistiche delle citazioni siano di per sé più accurate in quanto sostituiscono giudizi complessi con numeri semplici e quindi superano la possibile soggettività delle valutazioni»: «I numeri non sono di per sé superiori ai giudizi ponderati».
Sono noti gli effetti disastrosi di certi parametri di valutazione proposti dai docimologi. È inquietante vedere che ora ne vengano proposti altri non meno discutibili, per esempio con il conteggio dei crediti. Fermiamoci a ragionare e chediamoci se non sia più adeguato un sistema di valutazione per ispezioni (tipo l’Ofsted inglese). Comunque, è necessaria una riflessione seria e meditata prima che una miriade di spinte contraddittorie e avventate porti a fabbricare l’ennesima veste di Arlecchino.
(Il Foglio, 29 novembre 2008)