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lunedì 12 gennaio 2009

La Chiesa, Israele e gli ebrei

I rapporti ebraico-cristiani sembrano essersi incagliati dentro un arcipelago di scogli: quando sembra che ne sia stato evitato uno ne emerge un altro e le cose sembrano andare di male in peggio. Cosa accade? Cosa sta bloccando un processo che fino a poco tempo fa sembrava orientato nella direzione più promettente?
Cominciò con il Concilio, con la “Nostra Aetate”, proseguì con la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma e poi al Muro del Pianto di Gerusalemme. Il processo sembrava inarrestabile. Lo contrassegnava l’ammissione dei torti inflitti al popolo ebraico, la cancellazione dell’accusa di deicidio, il riconoscimento del legame profondo tra la Casa di Israele e la Civitas cristiana: fratelli “maggiori” e “minori”. Questa via dei rapporti era giusta e inevitabile ma, alla lunga, non poteva (non può) bastare. Il riconoscimento di un legame non può arrestarsi alla declamazione ma deve proiettarsi nel futuro e sostanziarsi di fatti nuovi. La doverosa ammissione dei torti inflitti non può tramutarsi in un processo infinito, in un elenco senza fine e continuamente riaperto: nessuno può restare in perpetua penitenza per le colpe compiute dai padri. D’altra parte, nessuno può pretendere di mettere una pietra sopra la storia dell’antisemitismo. Bisogna saper tracciare un confine tra memoria e analisi storica da un lato e azione presente dall’altro: se l’una pesta continuamente i piedi dell’altra diventa impossibile pensare in modo oggettivo il passato e costruire in modo libero il futuro. La memoria è fondamentale ma deve saper essere usata. Viene in mente, al riguardo, quel che scriveva Henri Bergson del cervello: non una macchina per immagazzinare ricordi, ma piuttosto per selezionarli in funzione del nostro slancio vitale, e che ci permette di vivere e costruire il nuovo in quanto esclude dalla nostra visione gran parte del passato che nella sua totalità preme su di noi e ci soffocherebbe.
La continua intersezione tra memoria e azione – di cui sono prova le polemiche su Pio XII, sempre in bilico tra storiografia libera dai condizionamenti del presente e polemiche contingenti – è una delle ragioni per cui è impotente il tentativo di esorcizzare con la memoria il ritorno delle intolleranze passate. Il 17 gennaio non si terrà l’annuale incontro ebraico-cristiano, mentre il 27 gennaio dilagherà la Giornata della memoria. Non è un buon risultato. Esso testimonia il prevalere del passato sul presente. Non è la via giusta per superare incomprensioni, combattere i pregiudizi e, in particolare, l’antisemitismo. In fondo, il modo migliore per combattere quest’ultimo è affermare la vitalità positiva della presenza ebraica nel mondo. Il modo migliore di sviluppare i rapporti tra ebraismo e cristianesimo è di rivolgere lo sguardo al futuro.
Va riconosciuto al Cardinale Ratzinger di aver compreso questa necessità e di aver tentato di superare i limiti del dialogo dei primi decenni. Egli ha preso di petto la questione alla maniera sua, andando oltre i sentimenti e la storia, e affrontando la questione teologica. Il documento del 2001 della Pontificia Commissio Biblica su “Il popolo ebraico e le sue Sacra Scritture nella Bibbia cristiana” rappresenta il contributo più decisivo in questa direzione. Esso si basa su tre principi: 1) l’Antico Testamento è fondamentale per il cristianesimo, perché ove esso se ne congedasse decreterebbe il suo dissolvimento; 2) cristianesimo e giudaismo si sono divisi sul tema della divinità di Cristo ma questo dissenso deve essere rigorosamente epurato da ostilità che conducano all’antigiudaismo; 3) il dialogo è possibile sulla base di questo patrimonio comune. Dovremmo aggiungere che questo è molto più di un dialogo, perché l’esistenza della matrice comune rende il rapporto inevitabile, imprescindibile. Il libro “Gesù di Nazaret” è uno sviluppo della direzione indicata nel documento del 2001. Non a caso esso ha come nucleo di partenza il confronto con le tesi del’autorevole rabbino Jacob Neusner. Naturalmente, un simile confronto è possibile se esclude ogni forma di pasticciato sincretismo: esso ha senso se ciascuna parte sta solidamente assisa sulla propria fede. È un approccio che dovrebbe essere apprezzato da chi teme la tentazione del proselitismo e del dialogo fatto con l’intenzione di convertire anziché con quella di ascoltare e capire. E in tal senso è stato apprezzato da molti sia in ambito cattolico che ebraico. Per esempio, secondo il rabbino David Berger, una volta rimosso l’“insegnamento del disprezzo” e il suo cardine, la “teologia della sostituzione” – ovvero la tesi secondo cui l’elezione di Israele è stata revocata e sostituita con quella conferita alla Ecclesia cristiana – i cristiani hanno il diritto di affermare che l’ebraismo sbaglia attorno a questioni centrali come quella della divinità di Gesù ed hanno anche il diritto di aspirare a che gli ebrei la riconoscano alla fine dei giorni o di affermare che la salvezza è più difficile per chi non è cristiano. Secondo Berger, la posizione ratzingeriana, in quanto evita un “doppio standard”, è più rispettosa per l’ebraismo di molte altre. Ma non tutti l’hanno vista in questo modo, ed hanno anzi reagito a questo indirizzo con fastidio, parlando di nuovi tentativi di conversione e di appropriazione. E così è riemerso tutto il vecchio bagaglio delle diffidenze, in una confusa miscela che ha messo insieme le conversioni forzate con la questione di Pio XII e con la preghiera del Venerdì santo, e financo le diffidenze politiche nei confronti del Papa “di destra”. Come spiegare altrimenti l’indulgenza con cui furono accolte certe pesanti dichiarazioni circa «la necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche» (con esplicito e polemico riferimento all’ebraismo) quando venivano dal Cardinale Martini, ovvero dalla Chiesa “democratica” e “di sinistra”?
Sta di fatto che con il discorso di Ratisbona Benedetto XVI ha mostrato in modo inequivocabile quale matrice culturale desiderava valorizzare: il messaggio etico giudaico-cristiano nella sintesi storica che ha trovato con il razionalismo della cultura greca. Oggi qualcuno ha letto come una rinunzia, come un abbandono, la sua recente dichiarazione che, in senso stretto, il dialogo interreligioso non è possibile. In realtà, quella dichiarazione, da un lato ripropone il consueto richiamo a non cadere nel sincretismo; d’altro lato non riguarda in senso stretto il tema che ci riguarda. Difatti, come abbiamo sottolineato, qui parlare di “dialogo” è persino improprio. Difatti, il dialogo avviene tra posizioni che hanno matrici diverse, mentre il rapporto tra ebraismo e cristianesimo si colloca oltre il dialogo: essi hanno una radice comune che può essere oscurata dalle incomprensioni ma è là, solida come una pietra. Chi legga senza pregiudizi e con mente aperta le Sacre Scritture riscopre continuamente come entrambe le fedi si nutrano del medesimo comune patrimonio, in cui primeggia la preoccupazione di porre la verità come base fondamentale dell’esistenza: «Il Signore è vicino a tutti quelli che lo avvicinano / A tutti quelli che lo invocano in verità» (Salmo 145).
È stato quindi un errore ritenere che quell’affermazione riguardasse strettamente i rapporti ebraico-cristiani e, in particolare, che escludesse il confronto sul terreno teologico. Che cosa sono stati il documento del 2001 e il libro “Gesù di Nazaret” se non un confronto sul terreno propriamente teologico con l’unica religione con cui il cristianesimo può farlo?
Certo, accanto a molti che hanno salutato con favore un approccio di questo genere – come il già citato rabbino Neusner – le resistenze vi sono state e sono state tante. Sarebbe lungo elencarle. Vi è senza dubbio ancora in campo un accanito antigiudaismo cattolico. Ne abbiamo avuto la prova in questi giorni. Tutto va bene fino a che non ti permetti di criticare: alla minima osservazione c’è chi salta su come morso dalla tarantola. Poi c’è il diffuso terzomondismo del mondo cattolico di sinistra che sfocia in un filoislamismo privo di qualsiasi seria base culturale, ostinato fino all’autodistruzione e che finisce col tingersi di antigiudaismo.
Delle resistenze in ambito ebraico abbiamo accennato ma per approfondirle converrà fare un’osservazione generale. In un libro, recentemente tradotto in italiano (“L’idea messianica nell’ebraismo”) Gershom Scholem ha ricordato che l’ebraismo si è sempre mosso storicamente attorno a tre forze: conservatrici, restauratrici ed utopiche. Le prime mirano a preservare l’esistente e a difendere l’identità ebraica racchiudendola dietro la difesa della “siepe della Torah”, ovvero il rispetto rigoroso dei precetti (Halakhah). Le seconde mirano a ricreare l’ideale di un passato perduto. Le terze sono alimentate da una visione utopica del futuro. La tensione messianica, osserva Scholem, si è sempre sviluppata nel campo delle ultime due, mentre la prima non vi ha giocato alcun ruolo, pur avendo avuto una fondamentale funzione nel preservare l’identità dell’ebraismo in esilio.
Dal 1945 l’ebraismo europeo si è praticamente dissolto e il baricentro dell’ebraismo mondiale si è trasferito negli Stati Uniti e in Israele. Due erano le componenti principali dell’ebraismo europeo: quella laica e illuministica che aveva abbandonato la tradizione per la cultura scientifica e politica europea, e l’ebraismo della “siepe della Torah”. La tensione messianica aveva poco spazio, anche perché il sionismo era minoritario: in fondo, alla fin fine i dreyfusardi avevano vinto. Nel 1945 l’ebraismo della “siepe della Torah” appare distrutto dal nazismo, l’ebraismo illuminato in parte è distrutto, in parte è dissolto nell’emigrazione o aderisce al sionismo. La Seconda guerra mondiale poteva segnare la fine dell’ebraismo mondiale – e di fatto ne ha segnato la quasi completa dissoluzione in Europa – se il sionismo non avesse rappresentato una nuova vitalità nella direzione dell’utopia messianica. Perciò il fattore vitale dell’identità ebraica contemporanea con cui occorre fare i conti per stabilire un dialogo autentico è, in primo luogo, il sionismo. Accanto ad esso, occorre tener conto di tutte quelle correnti dell’ebraismo mondiale che sono attivamente impegnate a sviluppare il senso del messaggio ebraico sulle questione etiche e morali, secondo il principio bene espresso da Scholem che «un ebraismo vivo non può non opporsi risolutamente al naturalismo». L’ebraismo della “siepe della Torah”, persa la sua funzione di difesa identitaria a oltranza (che nella società contemporanea è un’illusione senza speranza), non ha interesse né per la questione teologica né per le questioni etiche, in quanto concepisce la religione come un’ortoprassi e perciò risolve in questa le norme etiche e chiude ogni spazio alla dimensione teologica.
Nel 1945 l’ebraismo poteva morire se si fosse proposto soltanto come un’isola identitaria che chiedeva al mondo il diritto di sopravvivere senza dare nulla in cambio. Così non è stato, non soltanto perché la cultura ebraica ha continuato a svilupparsi per il mondo (e non per sé stessa) ma, soprattutto, perché è nato Israele. E oggi Israele non è soltanto un rifugio degli ebrei ma un modello di come la democrazia basata sui valori della morale testamentaria e della fiducia nella ragione di matrice greca possa avere ancora senso per il mondo. Ricominciamo di qui: da un confronto su quello che le due religioni possono dare in termini di etica, morale, democrazia e in difesa di quello che è stato conquistato con enormi sacrifici in questi secoli, proprio sulla base dei fondamenti comuni. Ma da parte cattolica occorre accettare il fatto che oggi l’identità ebraica è in primo luogo Israele, e che la premessa per un dialogo senza diffidenza è dire alto e chiaro che la vita di Israele non è materia di trattative.
(Il Foglio, 11 gennaio 2009)

3 commenti:

Mario Bellotti ha detto...

"Oggi Israele non è soltanto un rifugio degli ebrei ma un modello di come la democrazia basata sui valori della morale testamentaria e della fiducia nella ragione di matrice greca possa avere ancora senso per il mondo."

Impagabile.

Se non si trattasse di un'alitata infuocata del drago apocalittico, sarebbe di un acutissimo sarcasmo.

Lorenzo ha detto...

Professore, con le ultime dichiarazioni del Rabbino di Venezia mi sta crollano il mondo addosso... perchè è così difficile mantenere un dialogo?

Lorenzo

Caroli ha detto...

Su Israele. Totalmente d'accordo con Lei, professore, ed in totale dissenso con Filangeri.Israele è una democrazia. Punto. Il regime di Assad, quello di Mubarak, quello di Ahmedinejad e degli ajatollah non sono democrazie. Punto. Il drago apocalittico lasciamolo dove si merita che stia, vale a dire in casa BinLaden e nelle teste di hamas. E lasciamo soprattutto che Israele lo tratti come merita.

Le dichiarazioni del Rabbi di Venezia? Propaganda a favore di Cacciari o di rifondazione comunista. Come quell'accenno alla vergognosa affermazione del Cardinal Carlo Maria Martini, unico vescovo cattolico, occorre ricordarlo, che ha utilizzato il sant'uffizio contro uno scrittore e giornalista cristiano, Antonio Socci, resosi colpevole di aver detto cosa pensava dell'"autentico politico cristiano" (sic), Romano Prodi...

Non mi preoccupo: la Torah ed il Vangelo ci garantiscono una prossimità che nessun Rabbino e nessun Cardinale può scalzare.

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