Il ministro degli esteri Frattini ha sostenuto che della pace e dei diritti umani si discute nelle sessioni politiche, non sui campi da gioco o nelle piscine. Non si capisce allora perché il boicottaggio nei confronti di Israele, che ne comporterà l’esclusione ai Giochi del Mediterraneo, debba essere risolto promuovendo un incontro pubblico ufficiale durante la cerimonia inaugurale in cui i presidenti dei Comitati olimpici israeliano e palestinesi si dichiarino pronti a partecipare ai prossimi giochi. Israele è uno stato riconosciuto dall’ONU e questo riconoscimento non è in alcun modo subordinato alla creazione di uno stato palestinese. Pertanto, Israele dovrebbe partecipare e basta, e il resto venire dopo.
D’altra parte, il ministro Frattini ha ragione a dire che impuntarsi non servirebbe a cambiare le idee degli stati che hanno votato contro la partecipazione di Israele. Ma anche il ritiro dalla conferenza di Ginevra sul razzismo (Durban II) non è detto che serva a convincere la Libia e gli stati che hanno redatto l’efferato proclama antisemita a cancellarlo. Eppure l’Italia si è ritirata da Durban II senza tanti complimenti.
Non trovo tuttavia che sia facile criticare il ministro Frattini e il governo italiano. Nessun paese si è comportato complessivamente meglio dell’Italia per quanto concerne la difesa dei diritti di Israele e contro i rischi del nuovo antisemitismo. E, d’altra parte, che mai si può pretendere di fronte agli indirizzi sconcertanti che sta prendendo l’amministrazione Obama? Cosa può fare l’Italia da sola di fronte a un così vistoso disarmo morale?
Si diceva del nuovo presidente americano che avrebbe portato un afflato morale, uno slancio umanistico verso la comprensione tra i popoli e verso la pace, che avrebbe indotto anche i più recalcitranti ad abbassare le armi e a imboccare la via della trattativa. E invece proprio su questo terreno Obama è stato una clamorosa e deludente sorpresa. Tanto era loquace nei discorsi di propaganda elettorale quanto si è rivelato modesto nei discorsi di politica estera da presidente, tutti improntati a prudenza, reticenza, a un linguaggio mediocre e privo di qualsiasi afflato. Ci si attendeva un’esplosione di pacifismo messianico – magari impotente, ma quanto meno suggestivo – e ci troviamo di fronte a piatti documenti di Realpolitik la cui unica preoccupazione sembra essere quella di adulare il nemico. Non importa che il Marocco abbia rotto le relazioni diplomatiche con l’Iran per una «intollerabile ingerenza negli affari interni del regno». Obama si volta dall’altra parte e legittima la Repubblica Islamica dell’Iran dando chiaramente a intendere che a lui della democrazia non importa nulla: opprimano le minoranze, torturino, neghino la libertà di stampa, quel che conta è intendersi. Obama ha aperto la mano nei confronti dell’Iran senza chiedere nulla, neppure di smettere di parlare di distruzione di Israele, e ha ricevuto in cambio una sventola in faccia. Gli hanno risposto: vedremo, parleremo con voi se vi pentirete dei vostri errori, in primis il sostegno a Israele. E Obama lungi dal rispondere su questo punto ha teso di nuovo la mano per prendersi una sventola sull’altra guancia. La diplomazia americana rimette in circuito cariatidi della Realpolitik come Kissinger, Schulz, Baker, Brzezinski. Dice il columnist del New York Times Roger Cohen che la politica precedente ha portato a due guerre in tre anni e ha visto USA e Israele criticati in tutto il mondo. Ma l’epoca delle cariatidi ha visto l’ONU condannare il sionismo come una forma di razzismo ed è culminata con Durban I e con l’attentato alle Torri Gemelle. Il neocinismo “realistico” parla di dolorosa ridefinizione dei rapporti degli USA con Israele e di una società iraniana «vibrante, curiosa, giovane e ansiosa di aprirsi al mondo». Se mai la lasceranno aprirsi… Ma di questo chi se ne importa: Obama, conferma Cohen, ha «riconosciuto trent’anni dopo la rivoluzione khomeinista» e la retorica di Ahmadinejad è «odiosa e inaccettabile» ma non bisogna certo fermarsi su questi dettagli: «gli ayatollah non sono pazzi, sono pragmatici». Ne sa qualcosa chi ha avuto a che fare con Hamas e Hezbollah.
Di fronte a questo autentico disarmo morale che cosa può fare l’Italia da sola? E cosa farà un’Europa che già arde dal desiderio di liberarsi del problema di Israele? Farà quello che ha fatto ieri il Consiglio di Stato belga di fronte alla decisione di un comune di vietare uno spettacolo dell’umorista francese Dieudonné M’bala M’bala. Va ricordato che Dieudonné è quel signore che si esibisce soltanto in spettacoli antisemiti e che ha dichiarato che «le celebrazioni della Shoah sono pornografia della memoria». Ora Dieudonné si candida a parlamentare europeo “antisionista”. Certo, lui dice che l’antisionismo non è antisemitismo: peccato che abbia anche dichiarato che per cacciare la gangrena sionista dalla Francia occorre espellerne la CRIF, ovvero il Consiglio rappresentativo delle Istituzioni ebraiche di Francia… Ebbene, il Consiglio di Stato belga ha cassato la decisione di quel comune sentenziando sarcasticamente che esso «non ha per missione di vegliare preventivamente alla correttezza politica morale o penale degli spettacoli e ancor meno a quella, supposta, degli artisti che vi intervengono».
Qui non siamo più soltanto di fronte a fatti pur gravissimi come l’azione di gruppi militanti che, nei supermercati Carrefour delle banlieues parigine, invitano i clienti a non comperare prodotti provenienti da Israele. Siamo di fronte a fatti istituzionali. Domani potremo avere il primo parlamentare europeo eletto su un programma antisionista/antisemita. Bisognerebbe cominciare a preoccuparsi, e molto.
In fin dei conti, occorre ringraziare il governo italiano per resistere come può in uno sfacelo in cui sta venendo meno l’unico ostacolo alla definitiva deriva dell’Europa: una politica estera statunitense attenta al valore della difesa della democrazia, dei diritti dell’uomo, delle conquiste che speravamo divenissero un modello e che invece rischiamo di perdere.
(Il Foglio, 26 marzo 2009)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
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venerdì 27 marzo 2009
giovedì 26 marzo 2009
Scuse doverose ma che non arriveranno mai
È un documento davvero straordinario e destinato a passare alla storia la lettera di Benedetto XVI ai vescovi della Chiesa cattolica circa la remissione della scomunica ai quattro presuli consacrati dall’arcivescovo Lefebvre. Lo è in primo luogo per la chiarezza assoluta con cui viene esaminato il caso in tutti i suoi risvolti, anche a costo di affrontare la polemica e pronunziare giudizi crudi. Non un dettaglio è trascurato (persino il ruolo di internet), non un aspetto è lasciato in ombra, in particolare per quel riguarda le implicazioni scandalose del caso Williamson derivanti dalle sciagurate dichiarazioni negazioniste sulle camere a gas. Ma lo è soprattutto per il tono appassionato con cui il Papa ha messo a nudo il suo animo e le intenzioni che lo hanno guidato nell’affrontare questa vicenda. Ne discende che aveva ragione chi, nelle tempeste di questi ultimi mesi, ha sostenuto che i rapporti ebraico-cristiani non erano compromessi in alcun modo dalle scelte di Benedetto XVI.
Il rabbino Jacob Neusner, con le cui tesi il Papa aveva intessuto un dialogo teologico nel suo Gesù di Nazaret, ha sostenuto, al contrario, che è proprio grazie a uomini come lui che il dialogo ebraico-cristiano vive e prospera. Egli ha riconosciuto la bontà delle intenzioni del Papa, osservando che il nuovo corso iniziato con il Concilio «è stato riaffermato nella risposta che con cuore puro il Papa ha dato alla mia conversazione immaginaria inserita nel mio libro». È un corso che potrà avere intoppi, ha dichiarato Neusner, ma è irreversibile. E la stragrande maggioranza dell’ebraismo mondiale ha aderito a tesi simili riprendendo in pieno il cammino del dialogo.
È anche la tesi sostenuta ripetutamente da chi scrive, insieme ad altri ebrei italiani come Guido Guastalla, e che ci è costata una serie di nutriti lanci di pietre. Sarebbe preferibile non parlare di casi personali in una rubrica, ma ci sono circostanze in cui si ha diritto a togliersi dalle scarpe qualcuna di quelle pietre. Quando sostenemmo che la nuova preghiera del Venerdì santo non doveva essere intesa come un arretramento verso una logica di conversione forzata qualcuno ci trattò come “ebrei di corte”. Quando venne avanzata la proposta di interrompere il dialogo ebraico-cristiano manifestammo in modo pacato il nostro dissenso. Apriti cielo. Alcuni esponenti dell’ebraismo italiano, presumendo di avere un’autorità dogmatica, ci attaccarono in modo violento, nello stile “taci tu, ché soltanto io ho il diritto di parlare”. Poi venne il caso Williamson e fummo tra i primi a chiedere il massimo di chiarezza, certi che sarebbe venuta proprio dal Papa, proprio perché eravamo convinti della trasparenza delle sue intenzioni. Allora è venuta una scarica di legnate da parte di alcuni cattolici convinti che per dimostrare di essere tali bisogna eccedere in zelo e mostrarsi fanatici: presuntuosi e arroganti ebrei che “attaccano” il Papa, è stato detto, proprio a chi lo aveva difeso da attacchi infondati.
Ora, dopo che proprio dal Papa è venuta la conferma più autorevole che era giusto quanto venivamo dicendo e che i fatti hanno dimostrato quanto fossero ingiuste e detestabili quelle scariche di pietre provenienti da entrambi i lati, sarebbe naturale ricevere delle sentite scuse. Ne è venuta una soltanto, e da una persona che ha avuto un ruolo secondario nei lanci. Troppo poco. Quantomeno ci si attenderebbe un decoroso silenzio. Ma, si sa, un bel tacer non fu mai scritto. Difatti, alcuni dei protagonisti di quelle incivili aggressioni si stanno attivando per proporsi come protagonisti del rinnovato dialogo ebraico-cristiano… No comment.
(Tempi, 26 marzo 2009)
Certi commenti che ho letto a questo articolo non mi sono piaciuti per niente. Primo. Non è vero che io abbia attaccato il Papa e che ora mi corregga, con sollievo di qualcuno. Quell'attacco non l'ho mai fatto. Ho deprecato quel che era successo col caso Williamson. Esattamente nello stesso modo in cui successivamente l'ha deprecato il Papa.
Secondo. C'è qualcuno che cerca di fare il furbo. Questo articolo non è soltanto contro certi esponenti dell'ebraismo italiano. Lo è, certamente. Ma è anche contro certi cattolici che si sono comportati male. E chi gioca a minimizzare i comportamenti di questi ultimi ciurla nel manico, mostra di non aver capito niente, o di far finta di non capire, o peggio di pensarla ancora come quei signori. Ho ricevuto attacchi e insulti pesanti e volgari, altro che sciocchezze. E non li meritavo affatto. Questi e quelli dovrebbero scusarsi. E far finta che i comportamenti di certi cattivi cattolici non ci siano stati è molto grave, è come riaprire la ferita.
Il rabbino Jacob Neusner, con le cui tesi il Papa aveva intessuto un dialogo teologico nel suo Gesù di Nazaret, ha sostenuto, al contrario, che è proprio grazie a uomini come lui che il dialogo ebraico-cristiano vive e prospera. Egli ha riconosciuto la bontà delle intenzioni del Papa, osservando che il nuovo corso iniziato con il Concilio «è stato riaffermato nella risposta che con cuore puro il Papa ha dato alla mia conversazione immaginaria inserita nel mio libro». È un corso che potrà avere intoppi, ha dichiarato Neusner, ma è irreversibile. E la stragrande maggioranza dell’ebraismo mondiale ha aderito a tesi simili riprendendo in pieno il cammino del dialogo.
È anche la tesi sostenuta ripetutamente da chi scrive, insieme ad altri ebrei italiani come Guido Guastalla, e che ci è costata una serie di nutriti lanci di pietre. Sarebbe preferibile non parlare di casi personali in una rubrica, ma ci sono circostanze in cui si ha diritto a togliersi dalle scarpe qualcuna di quelle pietre. Quando sostenemmo che la nuova preghiera del Venerdì santo non doveva essere intesa come un arretramento verso una logica di conversione forzata qualcuno ci trattò come “ebrei di corte”. Quando venne avanzata la proposta di interrompere il dialogo ebraico-cristiano manifestammo in modo pacato il nostro dissenso. Apriti cielo. Alcuni esponenti dell’ebraismo italiano, presumendo di avere un’autorità dogmatica, ci attaccarono in modo violento, nello stile “taci tu, ché soltanto io ho il diritto di parlare”. Poi venne il caso Williamson e fummo tra i primi a chiedere il massimo di chiarezza, certi che sarebbe venuta proprio dal Papa, proprio perché eravamo convinti della trasparenza delle sue intenzioni. Allora è venuta una scarica di legnate da parte di alcuni cattolici convinti che per dimostrare di essere tali bisogna eccedere in zelo e mostrarsi fanatici: presuntuosi e arroganti ebrei che “attaccano” il Papa, è stato detto, proprio a chi lo aveva difeso da attacchi infondati.
Ora, dopo che proprio dal Papa è venuta la conferma più autorevole che era giusto quanto venivamo dicendo e che i fatti hanno dimostrato quanto fossero ingiuste e detestabili quelle scariche di pietre provenienti da entrambi i lati, sarebbe naturale ricevere delle sentite scuse. Ne è venuta una soltanto, e da una persona che ha avuto un ruolo secondario nei lanci. Troppo poco. Quantomeno ci si attenderebbe un decoroso silenzio. Ma, si sa, un bel tacer non fu mai scritto. Difatti, alcuni dei protagonisti di quelle incivili aggressioni si stanno attivando per proporsi come protagonisti del rinnovato dialogo ebraico-cristiano… No comment.
(Tempi, 26 marzo 2009)
Certi commenti che ho letto a questo articolo non mi sono piaciuti per niente. Primo. Non è vero che io abbia attaccato il Papa e che ora mi corregga, con sollievo di qualcuno. Quell'attacco non l'ho mai fatto. Ho deprecato quel che era successo col caso Williamson. Esattamente nello stesso modo in cui successivamente l'ha deprecato il Papa.
Secondo. C'è qualcuno che cerca di fare il furbo. Questo articolo non è soltanto contro certi esponenti dell'ebraismo italiano. Lo è, certamente. Ma è anche contro certi cattolici che si sono comportati male. E chi gioca a minimizzare i comportamenti di questi ultimi ciurla nel manico, mostra di non aver capito niente, o di far finta di non capire, o peggio di pensarla ancora come quei signori. Ho ricevuto attacchi e insulti pesanti e volgari, altro che sciocchezze. E non li meritavo affatto. Questi e quelli dovrebbero scusarsi. E far finta che i comportamenti di certi cattivi cattolici non ci siano stati è molto grave, è come riaprire la ferita.
lunedì 23 marzo 2009
Un piccolo divertissement
La follia dilaga. Mi segnalano in rete su un sito di associazioni professionali della scuola un commento sul regolamento sulla valutazione. Ecco l'estratto che mi interessa:
Analisi dello schema
di Regolamento sulla valutazione
di Stefania Fabris, ReteScuole 22.3.2009
In data 13 marzo il Consiglio dei Ministri ha deliberato, su proposta del Ministro Gelmini, uno schema di Regolamento sulla valutazione finalizzato a coordinare tutte le norme vigenti per la valutazione degli alunni delle scuole di ogni ordine e grado. Un provvedimento molto atteso da tutti gli insegnanti e dai dirigenti responsabili delle singole istituzioni scolastiche che in questi mesi, dopo le novità introdotte dalla legge 169 del 30 ottobre 2008, hanno dovuto comunque procedere nel loro compito di funzionari statali in un contesto normativo molto confuso.
Attraverso la questione della condotta il Governo sta facendo la rivoluzione nelle scuole e quindi dal Regolamento mi aspetto qualche importante rivelazione. E allora leggiamo il Regolamento in schema-bozza e facciamoci una nuova cultura. Lo spot ministeriale è allettante: fine del buonismo anche con i piccoli, fine del permissivismo 68ttino, adesso facciamo sul serio. E tutti bravi e tutti zitti!
Siamo tutti orecchie: analizziamo lo Schema di Regolamento partorito dopo tanti mesi.
...
3. Gli obbiettivi da verificare devono essere coerenti con il POF di ogni scuola: e gli obiettivi del POF di ogni scuola devono essere coerenti con di Programmi nazionali? No, come ho già detto, questo termine è sparito, ma anche Indicazioni nazionali, anche Livelli essenziali del servizio, anche tutto. Israel non dice niente? E la Prof.Mastrocola, l’unica che riesce ad essere consultata dal Ministro? Restano gli obiettivi del POF, di ogni singolo autonomo POF!!
4. Ci vuole omogeneità all’interno di ogni scuola, equità e trasparenza: bene non è più possibile in III A valutare in modo affatto diverso dalla III B. Si vede che invece era successo anche questo…
5. Alla fine (art.1, comma 5) non c’è la certificazione delle competenze attese in funzione del titolo di studio, ma la certificazione dei singolari, personali livelli raggiunti: e il titolo di studio??? Evidentemente in silenzio è passata la Moratti. Io lo sapevo che finiva, così, Giorgio Israel e i pedagogisti del Patto di Genova preelettorale fanno finta di niente, ma è andata così. O forse a Giorgio Israel non gli hanno ancora spiegato bene tutta la faccenda…
Interessante... Io il regolamento sulla valutazione non l'ho letto neppure... Però faccio finta di niente... e continuo a farlo.
Ma quello che mi intriga sommamente è: ma chi cribbio sono i "pedagogisti del Patto di Genova"?.... E cos'è il Patto di Genova? Mi suona tanto come una società segreta... Accidenti, far parte di una società segreta senza saperlo e senza neppure sapere cosa sia, è il massimo della segretezza. La vita riserva sempre grandi sorprese.... Ragazzi, vado a comprarmi un paio di occhiali scuri e una barba finta (i baffi ce li ho già). Attenti, il Patto di Genova vi ascolta...
Analisi dello schema
di Regolamento sulla valutazione
di Stefania Fabris, ReteScuole 22.3.2009
In data 13 marzo il Consiglio dei Ministri ha deliberato, su proposta del Ministro Gelmini, uno schema di Regolamento sulla valutazione finalizzato a coordinare tutte le norme vigenti per la valutazione degli alunni delle scuole di ogni ordine e grado. Un provvedimento molto atteso da tutti gli insegnanti e dai dirigenti responsabili delle singole istituzioni scolastiche che in questi mesi, dopo le novità introdotte dalla legge 169 del 30 ottobre 2008, hanno dovuto comunque procedere nel loro compito di funzionari statali in un contesto normativo molto confuso.
Attraverso la questione della condotta il Governo sta facendo la rivoluzione nelle scuole e quindi dal Regolamento mi aspetto qualche importante rivelazione. E allora leggiamo il Regolamento in schema-bozza e facciamoci una nuova cultura. Lo spot ministeriale è allettante: fine del buonismo anche con i piccoli, fine del permissivismo 68ttino, adesso facciamo sul serio. E tutti bravi e tutti zitti!
Siamo tutti orecchie: analizziamo lo Schema di Regolamento partorito dopo tanti mesi.
...
3. Gli obbiettivi da verificare devono essere coerenti con il POF di ogni scuola: e gli obiettivi del POF di ogni scuola devono essere coerenti con di Programmi nazionali? No, come ho già detto, questo termine è sparito, ma anche Indicazioni nazionali, anche Livelli essenziali del servizio, anche tutto. Israel non dice niente? E la Prof.Mastrocola, l’unica che riesce ad essere consultata dal Ministro? Restano gli obiettivi del POF, di ogni singolo autonomo POF!!
4. Ci vuole omogeneità all’interno di ogni scuola, equità e trasparenza: bene non è più possibile in III A valutare in modo affatto diverso dalla III B. Si vede che invece era successo anche questo…
5. Alla fine (art.1, comma 5) non c’è la certificazione delle competenze attese in funzione del titolo di studio, ma la certificazione dei singolari, personali livelli raggiunti: e il titolo di studio??? Evidentemente in silenzio è passata la Moratti. Io lo sapevo che finiva, così, Giorgio Israel e i pedagogisti del Patto di Genova preelettorale fanno finta di niente, ma è andata così. O forse a Giorgio Israel non gli hanno ancora spiegato bene tutta la faccenda…
Interessante... Io il regolamento sulla valutazione non l'ho letto neppure... Però faccio finta di niente... e continuo a farlo.
Ma quello che mi intriga sommamente è: ma chi cribbio sono i "pedagogisti del Patto di Genova"?.... E cos'è il Patto di Genova? Mi suona tanto come una società segreta... Accidenti, far parte di una società segreta senza saperlo e senza neppure sapere cosa sia, è il massimo della segretezza. La vita riserva sempre grandi sorprese.... Ragazzi, vado a comprarmi un paio di occhiali scuri e una barba finta (i baffi ce li ho già). Attenti, il Patto di Genova vi ascolta...
martedì 17 marzo 2009
Tornare ai contenuti, la sfida della scuola
Si parla di “valanga” dei 5 in condotta e delle insufficienze. Ma è proprio così? Per i 5 in condotta non abbiamo termini di paragone ma sono incline a pensarla come Domenico De Masi: trentacinquemila discoli su due milioni e mezzo di studenti è un numero incredibilmente basso che non dimostra che la scuola è un paradiso, bensì che gli insegnanti non sanno imporre la disciplina. Per quanto riguarda le insufficienze, si dice che sono aumentate rispetto all’anno scorso. Ma si tratta di aumenti modesti, dell’ordine di un’unità percentuale o poco più e quindi dicono poco, sia in quanto indice di un aumento di rigore disciplinare degli insegnanti (che sarebbe cresciuto in misura irrilevante) che in termini di peggioramento del rendimento degli studenti: il fatto che le insufficienze nelle lingue straniere abbiano superato quelle in matematica soltanto perché entrambe hanno subito un’oscillazione di un’unità attorno a una percentuale del 60% è privo di significato. In conclusione, questi dati non indicano alcuna apprezzabile crescita di rigore da parte degli insegnanti sia sul piano della condotta che su quello disciplinare e non dicono nulla di decifrabile per quanto riguarda il rendimento degli studenti.
Forse sarebbe il caso di affrontare la valutazione dello stato della scuola italiana al di fuori dell’ossessione per le cifre e per le percentuali. Si potrebbe credere che si tratti di una mania nazionale, magari ereditata dal Duce che ne era talmente affetto da consultare continuamente statistiche e tabelle e mantenere un appuntamento fisso settimanale col Presidente dell’Istat, Corrado Gini. Purtroppo è una mania dilagante. «Viviamo nell’era della metrica. Tutto attorno a noi viene standardizzato, quantificato e misurato», osservano in un appello volto a criticare questa tendenza eccessiva i direttori delle maggiori riviste internazionali di storia della scienza. Per quanto riguarda un classico tema di misurazione, la valutazione della ricerca, le massime istituzioni internazionali competenti in numeri – la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics – hanno redatto un rapporto in cui criticano severamente «l’uso e l’abuso dei dati», l’ingenua pretesa di ottenere con i numeri valutazioni «semplici e oggettive»: «i numeri sembrano oggettivi ma la loro oggettività può essere illusoria». «I numeri – affermano con forza questi istituti – non sono intrinsecamente superiori a giudizi ponderati».
Sono consapevole di aver menzionato in altre occasioni questa autorevole affermazione che si applica a tante situazioni. Prometto di continuare a farlo fino a che troppi studiosi nel campo delle scienze umane continueranno a preferire a serie analisi qualitative l’ossessione per la statistica, come se nascondersi dietro le cifre conferisse serietà anche alle conclusioni manifestamente infondate. “Bisogna seguire un approccio scientifico” è la tiritera che viene ripetuta, salvo vedersi propinare un uso di dati statistici che non ha nulla di scientifico, nulla di razionale e talora nulla di sensato.
Che senso ha mettere assieme indagini condotte con metodi diversi come PIRLS e TIMSS per le scuole primarie con quelle PISA per le secondarie per concludere avventatamente che la scuola primaria italiana va benissimo e quella secondaria di primo grado va male? Con fondamento molti insegnanti che conoscono la situazione sul campo obiettano che proprio le carenze accumulate nella scuola primaria in matematica sono alla radice dello sfacelo nelle medie inferiori, già di per sé malmesse e pertanto incapaci di colmare quelle carenze.
La scuola italiana va molto male e non servono numeri per constatarlo. Stupisce piuttosto che studiosi che dovrebbero essere attenti ai contenuti si appassionino a dubbie manipolazioni di dati invece di considerare l’unico fatto oggettivo che testimonia in modo inoppugnabile questa crisi: quel che si insegna a scuola e come lo si insegna. E per verificare cosa e come si insegna esistono indicatori di contenuto molto più attendibili di incerte manipolazioni numeriche: i programmi, che si desumono dalle “indicazioni nazionali”, i libri di testo circolanti e l’esperienza sul campo.
Non è possibile compiere una disamina in un articolo di giornale: bisognerà farlo in una pubblicazione apposita in modo da fornire materiali più oggettivi delle chiacchiere pseudoscientifiche. Si potrà allora constatare quale degrado abbiano subito i contenuti dell’insegnamento nell’ultimo trentennio. Dalla matematica alla storia, dalla geografia alla fisica, è l’immagine di un autentico disastro culturale. E quanto ai libri di testo non si vuol dire che non ne circolino di decenti, ma per un paese che ha formato intere generazioni sui libri di matematica di Enriques e Amaldi – tra i migliori del mondo – la lettura di certi manuali fornisce soltanto la prova che i loro autori, lungi dal pretendere di insegnare agli altri, avrebbero bisogno di un periodo di studio intensivo e di esami volti ad accertare la loro comprensione dei concetti di base. Ci si può gingillare quanto si vuole con le cifre, ma il ritardo esasperante con cui i bambini arrivano a manipolare i calcoli più elementari, il modo confuso e fuorviante con cui vengono introdotti gli algoritmi di calcolo, l’uso di definizioni assurde, frutto della fantasia di qualche didatta, costituiscono una condanna senza appello delle nostre scuole elementari.
Coloro che predicano che tutto va bene, se la cavano dicendo che la colpa è dell’insegnamento “ex-cathedra” e “trasmissivo”. Ma la scuola italiana ha conosciuto fino a una trentina di anni fa soltanto insegnanti formati in modo puramente “trasmissivo” e senza la formazione al “saper insegnare”. Eppure era una delle scuole migliori del mondo. Quindi il ragionamento fa cilecca. Così come non funziona l’alibi secondo cui la formazione degli insegnanti corredata di competenze didattico-pedagogiche è recente e non se ne sono visti ancora gli effetti virtuosi. In verità, l’ideologia alla Edgar Morin delle “teste ben fatte” piuttosto che piene è penetrata nella scuola italiana da un trentennio ed è divenuta un luogo comune ossessivo che ormai informa il linguaggio degli insegnanti come una preghiera ripetuta meccanicamente ogni mattina. Non si vuol certamente negare l’utilità che possono avere quelle competenze, ma sarebbe saggio considerare gli effetti negativi che ha avuto la loro somministrazione in dosi da cavallo da parte di persone che con la disciplina rispettabile della pedagogia hanno poco a che fare e che sono dediti a fabbricare teste vuote mal fatte: per esempio predicando che piuttosto che studiare la geografia occorre “costruire le proprie geografie”. Questi effetti sono sotto gli occhi di chiunque voglia esaminare i contenuti attuali dell’insegnamento anziché manipolare le cifre per esorcizzare il disastro o imputarlo ad altre cause.
(Il Messaggero, 14 marzo 2009)
Forse sarebbe il caso di affrontare la valutazione dello stato della scuola italiana al di fuori dell’ossessione per le cifre e per le percentuali. Si potrebbe credere che si tratti di una mania nazionale, magari ereditata dal Duce che ne era talmente affetto da consultare continuamente statistiche e tabelle e mantenere un appuntamento fisso settimanale col Presidente dell’Istat, Corrado Gini. Purtroppo è una mania dilagante. «Viviamo nell’era della metrica. Tutto attorno a noi viene standardizzato, quantificato e misurato», osservano in un appello volto a criticare questa tendenza eccessiva i direttori delle maggiori riviste internazionali di storia della scienza. Per quanto riguarda un classico tema di misurazione, la valutazione della ricerca, le massime istituzioni internazionali competenti in numeri – la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics – hanno redatto un rapporto in cui criticano severamente «l’uso e l’abuso dei dati», l’ingenua pretesa di ottenere con i numeri valutazioni «semplici e oggettive»: «i numeri sembrano oggettivi ma la loro oggettività può essere illusoria». «I numeri – affermano con forza questi istituti – non sono intrinsecamente superiori a giudizi ponderati».
Sono consapevole di aver menzionato in altre occasioni questa autorevole affermazione che si applica a tante situazioni. Prometto di continuare a farlo fino a che troppi studiosi nel campo delle scienze umane continueranno a preferire a serie analisi qualitative l’ossessione per la statistica, come se nascondersi dietro le cifre conferisse serietà anche alle conclusioni manifestamente infondate. “Bisogna seguire un approccio scientifico” è la tiritera che viene ripetuta, salvo vedersi propinare un uso di dati statistici che non ha nulla di scientifico, nulla di razionale e talora nulla di sensato.
Che senso ha mettere assieme indagini condotte con metodi diversi come PIRLS e TIMSS per le scuole primarie con quelle PISA per le secondarie per concludere avventatamente che la scuola primaria italiana va benissimo e quella secondaria di primo grado va male? Con fondamento molti insegnanti che conoscono la situazione sul campo obiettano che proprio le carenze accumulate nella scuola primaria in matematica sono alla radice dello sfacelo nelle medie inferiori, già di per sé malmesse e pertanto incapaci di colmare quelle carenze.
La scuola italiana va molto male e non servono numeri per constatarlo. Stupisce piuttosto che studiosi che dovrebbero essere attenti ai contenuti si appassionino a dubbie manipolazioni di dati invece di considerare l’unico fatto oggettivo che testimonia in modo inoppugnabile questa crisi: quel che si insegna a scuola e come lo si insegna. E per verificare cosa e come si insegna esistono indicatori di contenuto molto più attendibili di incerte manipolazioni numeriche: i programmi, che si desumono dalle “indicazioni nazionali”, i libri di testo circolanti e l’esperienza sul campo.
Non è possibile compiere una disamina in un articolo di giornale: bisognerà farlo in una pubblicazione apposita in modo da fornire materiali più oggettivi delle chiacchiere pseudoscientifiche. Si potrà allora constatare quale degrado abbiano subito i contenuti dell’insegnamento nell’ultimo trentennio. Dalla matematica alla storia, dalla geografia alla fisica, è l’immagine di un autentico disastro culturale. E quanto ai libri di testo non si vuol dire che non ne circolino di decenti, ma per un paese che ha formato intere generazioni sui libri di matematica di Enriques e Amaldi – tra i migliori del mondo – la lettura di certi manuali fornisce soltanto la prova che i loro autori, lungi dal pretendere di insegnare agli altri, avrebbero bisogno di un periodo di studio intensivo e di esami volti ad accertare la loro comprensione dei concetti di base. Ci si può gingillare quanto si vuole con le cifre, ma il ritardo esasperante con cui i bambini arrivano a manipolare i calcoli più elementari, il modo confuso e fuorviante con cui vengono introdotti gli algoritmi di calcolo, l’uso di definizioni assurde, frutto della fantasia di qualche didatta, costituiscono una condanna senza appello delle nostre scuole elementari.
Coloro che predicano che tutto va bene, se la cavano dicendo che la colpa è dell’insegnamento “ex-cathedra” e “trasmissivo”. Ma la scuola italiana ha conosciuto fino a una trentina di anni fa soltanto insegnanti formati in modo puramente “trasmissivo” e senza la formazione al “saper insegnare”. Eppure era una delle scuole migliori del mondo. Quindi il ragionamento fa cilecca. Così come non funziona l’alibi secondo cui la formazione degli insegnanti corredata di competenze didattico-pedagogiche è recente e non se ne sono visti ancora gli effetti virtuosi. In verità, l’ideologia alla Edgar Morin delle “teste ben fatte” piuttosto che piene è penetrata nella scuola italiana da un trentennio ed è divenuta un luogo comune ossessivo che ormai informa il linguaggio degli insegnanti come una preghiera ripetuta meccanicamente ogni mattina. Non si vuol certamente negare l’utilità che possono avere quelle competenze, ma sarebbe saggio considerare gli effetti negativi che ha avuto la loro somministrazione in dosi da cavallo da parte di persone che con la disciplina rispettabile della pedagogia hanno poco a che fare e che sono dediti a fabbricare teste vuote mal fatte: per esempio predicando che piuttosto che studiare la geografia occorre “costruire le proprie geografie”. Questi effetti sono sotto gli occhi di chiunque voglia esaminare i contenuti attuali dell’insegnamento anziché manipolare le cifre per esorcizzare il disastro o imputarlo ad altre cause.
(Il Messaggero, 14 marzo 2009)
venerdì 13 marzo 2009
Trionfi matematici delle scuole primarie
Da un paio di mesi sono state diffuse le valutazioni degli apprendimenti in matematica e scienze degli studenti italiani delle scuole elementari e medie inferiori nell’ambito dell’indagine internazionale TIMSS 2007 (Trends in International Mathematics and Science Study) e ora si moltiplicano i commenti sulla stampa e in rete. Prevale lo sconforto per i risultati delle valutazioni per le medie inferiori che, comunque li si rigiri e interpreti, sono pessimi. Circa la scuola primaria si leva invece il solito peana: le nostre elementari sono le migliori del mondo. Ma è davvero così?
Prima o poi bisognerebbe approfondire l’attendibilità di queste valutazioni internazionali quantitative, soffermandosi sulle modalità con cui vengono compiute le rilevazioni (di dubbia omogeneità), che coinvolgono un numero limitato di paesi, spesso con l’assenza di paesi molto importanti, e ricorrendo a punteggi di significato non molto chiaro. Nel nostro caso, il sondaggio ha riguardato il quarto anno delle primarie coinvolgendo 36 paesi e 7 regioni e misurando i risultati su una scala la cui media è stabilita in 500 e viene tenuta fissa nel tempo per consentire confronti, e che quindi si discosta dalla media effettiva dei risultati dei vari paesi. Quindi il numero 500 è puramente indicativo e non dice nulla di chiaro di cosa sia il livello medio, che potrebbe essere anche, nei fatti – e in dipendenza dei paesi considerati – un livello mediocre. La primaria italiana si colloca per la matematica al livello 507, ovvero di poco sopra la media, tra il massimo di 607 per Hong Kong e il minimo di 204 dello Yemen. Alcuni commentatori plaudono: siamo sopra la media, meraviglia! Ma è facile constatare che basterebbe eliminare alcuni dei risultati peggiori per far precipitare l’Italia al di sotto della media dei paesi restanti; oppure immaginare cosa succederebbe in presenza di paesi che hanno quasi certamente prestazioni migliori dell’Italia in matematica, come la Francia, l’India e la Cina (mancano anche la Spagna e la Polonia).
Ma è soprattutto sconcertante che si gioisca tanto quando si constata che l’Italia si colloca al sedicesimo posto che diventa diciottesimo includendo le regioni del Quebec e dell’Ontario considerate a parte. È davvero da rallegrarsi che la settima potenza industriale, il paese che fino a mezzo secolo fa era la terza potenza mondiale in matematica, si collochi a un livello così modesto dietro la Lettonia, la Lituania e il Kazakistan? Non solo: dietro il 507 italiano si collocano a distanza di pochi punti parecchi paesi che, per il minimo scarto che li separa dall’Italia, potrebbero essere considerati alla pari. I paesi che l’Italia supera nettamente per i livelli di apprendimento matematici sono la Georgia, l’Iran, Algeria, il Marocco e giù a scendere fino al livello 224 dello Yemen.
La situazione è nettamente migliore nelle scienze – 535 rispetto alla solita media di 500 – comunque non trionfale come pretende qualcuno. Difatti, si tratta comunque di un decimo posto, tredicesimo contando tre regioni canadesi e superiore ad altri sette paesi di poche unità soltanto. Quanto ai risultati per le secondarie di primo grado, sia in matematica che in scienze, è meglio stendere un velo pietoso.
Complessivamente è un disastro per un paese che pretende di essere “avanzato”. Ci vuole davvero un bel coraggio per affermare, come ha scritto qualcuno, che “la scuola primaria italiana conferma i suoi livelli di eccellenza”! Un commento più serio e meno demagogico dovrebbe ricercare nei mediocrissimi risultati delle elementari la premessa per il successivo sfacelo delle medie inferiori, anche se sappiamo che su quest’ultimo influiscono altri fattori, tra cui la modesta preparazione matematica della maggioranza degli insegnanti in questa fascia di scuola.
In realtà, quel che ci offre il rapporto TIMSS 2007 è la scoperta dell’acqua calda, Chi conosca un poco programmi e metodi d’insegnamento in queste scuole non ha certamente ragione di sorprendersi.
(Libero, 12 marzo 2009)
Prima o poi bisognerebbe approfondire l’attendibilità di queste valutazioni internazionali quantitative, soffermandosi sulle modalità con cui vengono compiute le rilevazioni (di dubbia omogeneità), che coinvolgono un numero limitato di paesi, spesso con l’assenza di paesi molto importanti, e ricorrendo a punteggi di significato non molto chiaro. Nel nostro caso, il sondaggio ha riguardato il quarto anno delle primarie coinvolgendo 36 paesi e 7 regioni e misurando i risultati su una scala la cui media è stabilita in 500 e viene tenuta fissa nel tempo per consentire confronti, e che quindi si discosta dalla media effettiva dei risultati dei vari paesi. Quindi il numero 500 è puramente indicativo e non dice nulla di chiaro di cosa sia il livello medio, che potrebbe essere anche, nei fatti – e in dipendenza dei paesi considerati – un livello mediocre. La primaria italiana si colloca per la matematica al livello 507, ovvero di poco sopra la media, tra il massimo di 607 per Hong Kong e il minimo di 204 dello Yemen. Alcuni commentatori plaudono: siamo sopra la media, meraviglia! Ma è facile constatare che basterebbe eliminare alcuni dei risultati peggiori per far precipitare l’Italia al di sotto della media dei paesi restanti; oppure immaginare cosa succederebbe in presenza di paesi che hanno quasi certamente prestazioni migliori dell’Italia in matematica, come la Francia, l’India e la Cina (mancano anche la Spagna e la Polonia).
Ma è soprattutto sconcertante che si gioisca tanto quando si constata che l’Italia si colloca al sedicesimo posto che diventa diciottesimo includendo le regioni del Quebec e dell’Ontario considerate a parte. È davvero da rallegrarsi che la settima potenza industriale, il paese che fino a mezzo secolo fa era la terza potenza mondiale in matematica, si collochi a un livello così modesto dietro la Lettonia, la Lituania e il Kazakistan? Non solo: dietro il 507 italiano si collocano a distanza di pochi punti parecchi paesi che, per il minimo scarto che li separa dall’Italia, potrebbero essere considerati alla pari. I paesi che l’Italia supera nettamente per i livelli di apprendimento matematici sono la Georgia, l’Iran, Algeria, il Marocco e giù a scendere fino al livello 224 dello Yemen.
La situazione è nettamente migliore nelle scienze – 535 rispetto alla solita media di 500 – comunque non trionfale come pretende qualcuno. Difatti, si tratta comunque di un decimo posto, tredicesimo contando tre regioni canadesi e superiore ad altri sette paesi di poche unità soltanto. Quanto ai risultati per le secondarie di primo grado, sia in matematica che in scienze, è meglio stendere un velo pietoso.
Complessivamente è un disastro per un paese che pretende di essere “avanzato”. Ci vuole davvero un bel coraggio per affermare, come ha scritto qualcuno, che “la scuola primaria italiana conferma i suoi livelli di eccellenza”! Un commento più serio e meno demagogico dovrebbe ricercare nei mediocrissimi risultati delle elementari la premessa per il successivo sfacelo delle medie inferiori, anche se sappiamo che su quest’ultimo influiscono altri fattori, tra cui la modesta preparazione matematica della maggioranza degli insegnanti in questa fascia di scuola.
In realtà, quel che ci offre il rapporto TIMSS 2007 è la scoperta dell’acqua calda, Chi conosca un poco programmi e metodi d’insegnamento in queste scuole non ha certamente ragione di sorprendersi.
(Libero, 12 marzo 2009)
mercoledì 11 marzo 2009
Perché le aperture all’Iran sono un altro passo verso l’islamizzazione
Occuparsi attivamente e intensamente delle questioni dell’istruzione nel nostro paese rischia di riportarti insistentemente alla mente la nota battuta di Mussolini secondo cui governare l’Italia non è difficile, è inutile. Ma non è ora né qui che voglio parlare dello sfinimento che provoca entrare nell’unica esperienza davvero realizzata di “democrazia dal basso” e confrontarsi con soggetti (gli “esperti” dell’istruzione) che non vivono e pensano nel mondo dei comuni mortali bensì nel mondo delle locuzioni a barre (conoscenze/abilità, abilità/competenze, conoscenze/competenze, documento/proposta, consolidare e/o riprogettare) e degli anglismi (literacy, framework, teaching for test). Eppure ti rendi conto che questo è uno dei fronti cruciali su cui si gioca il nostro futuro. Tutte le battaglie civili rischiano di non avere a priori futuro se continueremo a sfornare generazioni di teste “ben fatte” secondo i criteri dei tecnocrati dell’affettività e della morale confezionate scientificamente e della metodologia che fa premio sulle conoscenze. L’educazione e l’istruzione sono un pilastro portante. Eppure, mentre ti affanni a vedere se e come si possa intervenire sulle inquietanti crepe del pilastro, ti rendi conto che mettere puntelli qua e là è derisorio mentre intorno un esercito di bulldozer fa a pezzi la casa. Con la metafora dei bulldozer non mi riferisco agli “esperti”, alle congreghe corporative o agli eserciti di termiti che pascolano sul terreno devastato dell’istruzione. Poveri untorelli, a ben vedere. Penso allo sfascio morale e culturale generalizzato delle nostre società occidentali e al crescente sentimento di insicurezza che si addensa attorno al futuro. Dirlo in Italia può sembrare esagerato perché il male non ha raggiunto i livelli di altri paesi. Il quadro che Giulio Meotti ha tracciato sul Foglio della sparizione dell’Inghilterra che abbiamo conosciuto – sempre più paradigma di Eurabia – in fondo lo raccontano le cronache da qualche anno, in un crescendo rossiniano. Ma colpisce come un pugno nello stomaco leggerne la sintesi; e induce a svegliarsi e a riflettere su un domani assai vicino. Difatti, in Francia non siamo molto lontani da questa situazione, in Olanda ci siamo ormai e persino nell’Austria (felix?) si prospetta un non lontano orizzonte di islamizzazione.
Parliamo di antisemitismo. Ah, ci risiamo con la solita tiritera – dirà quel giornalista cattolico che ha recentemente accusato gli ebrei di essere malati di una “concezione lagnosa della storia”. Ma non si diceva che l’antisemitismo è il più sensibile termometro dell’intolleranza diffusa nella società, un segnale che indica l’avvicinarsi di grandi cataclismi? Oppure si tratta soltanto di una filastrocca buona da ripetere la Giornata della Memoria per poi poter parlare d’altro? Ma certo, per parlar d’altro – si replica – perché i problemi gravi a questo mondo sono ben altri, per esempio quello palestinese; e comunque ogni confronto è indebito e mostra casomai quanto siano lontane le circostanze del passato: vi è forse qualche paese al mondo che prospetti di promulgare una legislazione razziale, di fare espulsioni o addirittura sterminii su basi razziali?
Di certo quelle forme storiche appartengono a un passato sepolto e la pratica dell’antisemitismo di stato è completamente fuori dell’orizzonte dei paesi occidentali. Ma non siamo nell’era della globalizzazione? Forse dovremmo aggiornare i metodi di analisi e chiederci se la via per la codificazione dell’antisemitismo in termini legislativi non stia seguendo linee diverse e più complesse, ma non meno inquietanti perché, se avessero successo, non lascerebbero via d’uscita. A ben vedere il primo tentativo è stata la famosa dichiarazione dell’ONU che equiparava sionismo e razzismo. Non ha funzionato, i tempi non erano maturi, era una scelta troppo marcatamente imposta dalla maggioranza araba e terzomondista dell’ONU; ma lasciato tracce. Poi è venuta la Conferenza contro il razzismo di Durban 2001 che ha colto di sorpresa tutto il mondo e ha mostrato il volto di un antisemitismo che vuol farsi riconoscere come dottrina ufficiale delle istituzioni internazionali. Si poteva sperare che la lezione fosse stata appresa. Niente. È da più di un anno che è arcinoto cosa stia cucinando per Ginevra 2009 (Durban II) una cricca di paesi altamente qualificati per giudicare di diritti umani come Iran, Libia, Cuba: una condanna senza appello per Israele e il sionismo, come unico agente mondiale di razzismo e crimini contro l’umanità – non una parola su sterminii di dimensioni epocali tuttora in corso – assortita da una insidiosissima richiesta di proscrivere l’islamofobia, di fatto un bavaglio alla libertà di opinione ed espressione che colpirebbe mortalmente l’Occidente.
Non si può abbastanza apprezzare il fatto che il Canada e l’Italia si siano ritirati a priori dalla Conferenza. Altrettanto apprezzabile è che si siano ritirati gli Stati Uniti, anche se era sorprendente il proposito, fortunatamente rientrato, di partecipare per tentare di cambiare l’esito della conferenza. Cambiare cosa? La base di partenza è talmente efferata che l’unica trattativa possibile dovrebbe partire dal ritiro della bozza iniziale. Tanto più è sconcertante che, a parte l’Italia, gli altri paesi europei stiano esercitandosi in un penoso minuetto: andiamo, pur non volendo andare, andiamo per cambiare, se non si cambia vedremo, per il momento andremo. Come se non ci fosse stata Durban, come se non sapessero cosa si prepara, cosa li aspetta, cosa si rischia di legittimare. Antisemitismo ancora una volta come termometro? Proprio così, perché chi andrà a Ginevra non soltanto non potrà evitare un proclama efferato ma rischia di trovarsi attorno al collo il capestro della limitazione della libera espressione. Avrà il coraggio di fare come l’ambasciatore israeliano Herzog una trentina di anni fa, e cioè di dire “il vostro proclama non vale la carta su cui è scritto e ve lo stracciamo in faccia”? Ne dubitiamo. Difatti, il multilateralismo è tornato ad essere un totem: “vorremo forse delegittimare l’ONU già indebolito?” è il mantra che si ode in questi giorni. E sono inquietanti le “aperture” del Presidente Obama senza chiedere nulla, neppure all’Iran di piantarla con i propositi di distruzione di Israele e con il negazionismo.
Negli anni trenta soltanto gli ebrei dell’Europa orientale – quelli che essendo abituati alle persecuzioni vivevano “con la valigia in mano” – se ne andarono per tempo. Gli altri restarono fino all’ultimo ripetendo che “non era possibile”. Anche oggi, soprattutto in paesi come l’Italia (e per suo merito) appare impossibile. Ma ove le cose andassero peggio la globalizzazione dell’antisemitismo legalizzato dalle istituzioni internazionali renderebbe difficile trovare dove portare la valigia, salvo che in quel piccolo paese su cui pende la futura atomica iraniana. Il Presidente Obama vuole contrattare con l’Iran la rinuncia alla bomba con il riconoscimento di “potenza regionale equilibratrice”. Ma anche questa faccenda ricorda qualcosa e qualcuno, un signore inglese che andava in giro con l’ombrello.
(Il Foglio, 11 marzo 2009)
Parliamo di antisemitismo. Ah, ci risiamo con la solita tiritera – dirà quel giornalista cattolico che ha recentemente accusato gli ebrei di essere malati di una “concezione lagnosa della storia”. Ma non si diceva che l’antisemitismo è il più sensibile termometro dell’intolleranza diffusa nella società, un segnale che indica l’avvicinarsi di grandi cataclismi? Oppure si tratta soltanto di una filastrocca buona da ripetere la Giornata della Memoria per poi poter parlare d’altro? Ma certo, per parlar d’altro – si replica – perché i problemi gravi a questo mondo sono ben altri, per esempio quello palestinese; e comunque ogni confronto è indebito e mostra casomai quanto siano lontane le circostanze del passato: vi è forse qualche paese al mondo che prospetti di promulgare una legislazione razziale, di fare espulsioni o addirittura sterminii su basi razziali?
Di certo quelle forme storiche appartengono a un passato sepolto e la pratica dell’antisemitismo di stato è completamente fuori dell’orizzonte dei paesi occidentali. Ma non siamo nell’era della globalizzazione? Forse dovremmo aggiornare i metodi di analisi e chiederci se la via per la codificazione dell’antisemitismo in termini legislativi non stia seguendo linee diverse e più complesse, ma non meno inquietanti perché, se avessero successo, non lascerebbero via d’uscita. A ben vedere il primo tentativo è stata la famosa dichiarazione dell’ONU che equiparava sionismo e razzismo. Non ha funzionato, i tempi non erano maturi, era una scelta troppo marcatamente imposta dalla maggioranza araba e terzomondista dell’ONU; ma lasciato tracce. Poi è venuta la Conferenza contro il razzismo di Durban 2001 che ha colto di sorpresa tutto il mondo e ha mostrato il volto di un antisemitismo che vuol farsi riconoscere come dottrina ufficiale delle istituzioni internazionali. Si poteva sperare che la lezione fosse stata appresa. Niente. È da più di un anno che è arcinoto cosa stia cucinando per Ginevra 2009 (Durban II) una cricca di paesi altamente qualificati per giudicare di diritti umani come Iran, Libia, Cuba: una condanna senza appello per Israele e il sionismo, come unico agente mondiale di razzismo e crimini contro l’umanità – non una parola su sterminii di dimensioni epocali tuttora in corso – assortita da una insidiosissima richiesta di proscrivere l’islamofobia, di fatto un bavaglio alla libertà di opinione ed espressione che colpirebbe mortalmente l’Occidente.
Non si può abbastanza apprezzare il fatto che il Canada e l’Italia si siano ritirati a priori dalla Conferenza. Altrettanto apprezzabile è che si siano ritirati gli Stati Uniti, anche se era sorprendente il proposito, fortunatamente rientrato, di partecipare per tentare di cambiare l’esito della conferenza. Cambiare cosa? La base di partenza è talmente efferata che l’unica trattativa possibile dovrebbe partire dal ritiro della bozza iniziale. Tanto più è sconcertante che, a parte l’Italia, gli altri paesi europei stiano esercitandosi in un penoso minuetto: andiamo, pur non volendo andare, andiamo per cambiare, se non si cambia vedremo, per il momento andremo. Come se non ci fosse stata Durban, come se non sapessero cosa si prepara, cosa li aspetta, cosa si rischia di legittimare. Antisemitismo ancora una volta come termometro? Proprio così, perché chi andrà a Ginevra non soltanto non potrà evitare un proclama efferato ma rischia di trovarsi attorno al collo il capestro della limitazione della libera espressione. Avrà il coraggio di fare come l’ambasciatore israeliano Herzog una trentina di anni fa, e cioè di dire “il vostro proclama non vale la carta su cui è scritto e ve lo stracciamo in faccia”? Ne dubitiamo. Difatti, il multilateralismo è tornato ad essere un totem: “vorremo forse delegittimare l’ONU già indebolito?” è il mantra che si ode in questi giorni. E sono inquietanti le “aperture” del Presidente Obama senza chiedere nulla, neppure all’Iran di piantarla con i propositi di distruzione di Israele e con il negazionismo.
Negli anni trenta soltanto gli ebrei dell’Europa orientale – quelli che essendo abituati alle persecuzioni vivevano “con la valigia in mano” – se ne andarono per tempo. Gli altri restarono fino all’ultimo ripetendo che “non era possibile”. Anche oggi, soprattutto in paesi come l’Italia (e per suo merito) appare impossibile. Ma ove le cose andassero peggio la globalizzazione dell’antisemitismo legalizzato dalle istituzioni internazionali renderebbe difficile trovare dove portare la valigia, salvo che in quel piccolo paese su cui pende la futura atomica iraniana. Il Presidente Obama vuole contrattare con l’Iran la rinuncia alla bomba con il riconoscimento di “potenza regionale equilibratrice”. Ma anche questa faccenda ricorda qualcosa e qualcuno, un signore inglese che andava in giro con l’ombrello.
(Il Foglio, 11 marzo 2009)
domenica 8 marzo 2009
Controreplica
Irene Kajon ha replicato al mio articolo apparso su Shalom nel novembre 2008, qui riportato come post "Un articolo per il mensile ebraico Shalom (22 novembre 2008). La mia controreplica si trova come commento a quel post ed è stata pubblicata nelle lettere di Shalom (febbraio 2009)
giovedì 5 marzo 2009
L’aritmetica nell’epoca delle “interclassi”, ovvero l’invasione dei Pitagora fai da te
Volete avere un’idea dei risultati cui può portare l’abuso dell’autonomia scolastica? Seguitemi con un attimo di pazienza.
In aritmetica si introduce la cosiddetta proprietà associativa dell’addizione, che così si scrive: (a + b) + c = a + (b + c). Essa significa che sommare prima a con b e quindi sommare il risultato con c è la stessa cosa che sommare a con il risultato della somma tra b e c.
È una proprietà importante: difatti, dato che la somma è un’operazione definita tra due numeri, essa spiega quali regole presiedono alla somma tra più di due numeri. In parecchi libri scolastici di matematica questa proprietà viene malamente enunciata dicendo, per esempio, che «associando gli addendi il risultato non cambia», Così si travisa o comunque si esprime male il significato autentico della legge. Da questo travisamento è nato, non si sa in quale testa d’asino, una legge inversa mai conosciuta nell’aritmetica prima che il diritto all’autonomia scolastica permettesse di ricreare liberamente le discipline: la legge dissociativa dell’addizione. Questa viene enunciata dicendo che «dissociando gli addendi il risultato non cambia», ovvero che «se a uno o più addendi se ne sostituiscono altri la cui somma è uguale all’addendo sostituito il risultato non cambia». Per esempio, significa che 11 + 12 = (10 + 1) + 12 = 10 + (1 + 12) = (9 + 2) + 12 = 9 + (2 + 12), ecc. ecc. A essere indulgenti, è un modo di ridire a rovescio la proprietà associativa. In verità, è una colossale castroneria, perché in fin dei conti è quanto dire che ogni numero è somma di unità…
È da tempo che si tenta in tutti i modi di dissuadere questi novelli Pitagora dal diffondere questa assurdità. Niente da fare. La legge dissociativa dilaga. E non a caso dilaga nei libri e tra i gruppi d’insegnamento più “innovativi”, quelli del “cooperative learning”, della didattica “sperimentale”: basta farsi un giretto su Internet. Non bastasse, propalano altre baggianate come l’idea che la legge commutativa (a + b = b + a) serve a verificare che ho fatto la somma correttamente (prima sommo a con b, poi b con a, se il risultato è lo stesso è esatto…).
Ora racconto un episodio esilarante. Un professore di matematica che vede il suo bambino costretto a studiare questa “legge” va dalla maestra e la prega di cessare lo scempio. Risposta: la decisione di insegnare in tal modo è stata presa dall’interclasse e quindi il genitore dovrebbe chiedere una riunione dell’interclasse, avanzare la sua richiesta e vedere se sarà accettata.
Insomma, in nome dell’autonomia scolastica, la verità del teorema di Pitagora o delle conoscenze trasmesse da secoli nella matematica (e a maggior ragione in ogni disciplina) diventano oggetto di decisioni prese dagli organi della “democrazia scolastica”. C’è di che detestare la democrazia.
Ne discendono due riflessioni. La prima: guardiamoci da chi proclama con prosopopea che è finito il tempo in cui i concetti debbono venire assieme alle metodologie d’insegnamento, anzi devono essere subordinati ad esse. In tal modo si legittima come scelta “didattica” qualsiasi baggianata venga alla mente, facendo strame di qualsiasi oggettività della conoscenza. La seconda: alla larga da chi predica l’assoluta autonomia di istituti scolastici che autogestiscano anche i contenuti dell’insegnamento, “ricreando” pure la matematica, e che nutrano la pretesa di gestire la propria formazione e reclutamento, ovvero la propria autoriproduzione. Perché così salta ogni controllo e la libertà diventa arbitrio. Quantomeno non si abbia la faccia tosta di parlare di valutazione.
(Tempi, 5 marzo 2009)
In aritmetica si introduce la cosiddetta proprietà associativa dell’addizione, che così si scrive: (a + b) + c = a + (b + c). Essa significa che sommare prima a con b e quindi sommare il risultato con c è la stessa cosa che sommare a con il risultato della somma tra b e c.
È una proprietà importante: difatti, dato che la somma è un’operazione definita tra due numeri, essa spiega quali regole presiedono alla somma tra più di due numeri. In parecchi libri scolastici di matematica questa proprietà viene malamente enunciata dicendo, per esempio, che «associando gli addendi il risultato non cambia», Così si travisa o comunque si esprime male il significato autentico della legge. Da questo travisamento è nato, non si sa in quale testa d’asino, una legge inversa mai conosciuta nell’aritmetica prima che il diritto all’autonomia scolastica permettesse di ricreare liberamente le discipline: la legge dissociativa dell’addizione. Questa viene enunciata dicendo che «dissociando gli addendi il risultato non cambia», ovvero che «se a uno o più addendi se ne sostituiscono altri la cui somma è uguale all’addendo sostituito il risultato non cambia». Per esempio, significa che 11 + 12 = (10 + 1) + 12 = 10 + (1 + 12) = (9 + 2) + 12 = 9 + (2 + 12), ecc. ecc. A essere indulgenti, è un modo di ridire a rovescio la proprietà associativa. In verità, è una colossale castroneria, perché in fin dei conti è quanto dire che ogni numero è somma di unità…
È da tempo che si tenta in tutti i modi di dissuadere questi novelli Pitagora dal diffondere questa assurdità. Niente da fare. La legge dissociativa dilaga. E non a caso dilaga nei libri e tra i gruppi d’insegnamento più “innovativi”, quelli del “cooperative learning”, della didattica “sperimentale”: basta farsi un giretto su Internet. Non bastasse, propalano altre baggianate come l’idea che la legge commutativa (a + b = b + a) serve a verificare che ho fatto la somma correttamente (prima sommo a con b, poi b con a, se il risultato è lo stesso è esatto…).
Ora racconto un episodio esilarante. Un professore di matematica che vede il suo bambino costretto a studiare questa “legge” va dalla maestra e la prega di cessare lo scempio. Risposta: la decisione di insegnare in tal modo è stata presa dall’interclasse e quindi il genitore dovrebbe chiedere una riunione dell’interclasse, avanzare la sua richiesta e vedere se sarà accettata.
Insomma, in nome dell’autonomia scolastica, la verità del teorema di Pitagora o delle conoscenze trasmesse da secoli nella matematica (e a maggior ragione in ogni disciplina) diventano oggetto di decisioni prese dagli organi della “democrazia scolastica”. C’è di che detestare la democrazia.
Ne discendono due riflessioni. La prima: guardiamoci da chi proclama con prosopopea che è finito il tempo in cui i concetti debbono venire assieme alle metodologie d’insegnamento, anzi devono essere subordinati ad esse. In tal modo si legittima come scelta “didattica” qualsiasi baggianata venga alla mente, facendo strame di qualsiasi oggettività della conoscenza. La seconda: alla larga da chi predica l’assoluta autonomia di istituti scolastici che autogestiscano anche i contenuti dell’insegnamento, “ricreando” pure la matematica, e che nutrano la pretesa di gestire la propria formazione e reclutamento, ovvero la propria autoriproduzione. Perché così salta ogni controllo e la libertà diventa arbitrio. Quantomeno non si abbia la faccia tosta di parlare di valutazione.
(Tempi, 5 marzo 2009)