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mercoledì 27 maggio 2009

Il merito in cattedra per salvare la scuola

Il grido d’allarme dei presidi italiani sul “merito negato” a scuola («Vietato premiare, vietato punire: noi presidi frustrati») ha offerto un’altra vivida pennellata di una realtà che ci perseguita quotidianamente e che si riassume in una frase inquietante: «chi tocca i fili del merito nella scuola muore». È una situazione tanto grave che i principali attori – insegnanti, presidi, famiglie, sindacati, associazioni professionali – dovrebbero sentirsi chiamati a rispettare il precetto più violato: badare in modo primario all’interesse generale mettendo in secondo piano quello personale o del gruppo che si vuol rappresentare.
Delineare come possa essere riportato al centro della scuola il principio del merito richiederebbe di entrare in questioni anche normative delicate e complesse. Tuttavia, ci si può limitare a enunciare alcuni punti generali che gravitano attorno a due questioni: autonomia e valutazione.
Nessuno può mettere in discussione il valore del principio dell’autonomia e sognare assurdi ritorni centralisti. Ma sarebbe poco responsabile non vedere certe direzioni sbagliate che ha preso l’applicazione dell’autonomia. Dei guasti prodotti in ambito universitario si è molto parlato. Nel caso della scuola il giusto principio che un istituto possieda libertà di organizzazione e di proposta didattica è deragliata nell’idea che l’istituto sia un’azienda in lotta con altre per affermarsi in una contesa commerciale. Ne è derivata una corsa al ribasso, ovvero a chi offre condizioni migliori all’“utenza” (la famiglia) accelerandone la propensione a farsi sindacato dei figli. È vano parlare di merito se si dimentica che l’istruzione è una funzione educativa sociale che ha parametri suoi propri. In parole povere, cosa significhi sapere la matematica non si definisce in funzione della “soddisfazione dell’utente” che, in tal caso, non potrebbe che essere la pretesa di ottenere il miglior voto col minimo sforzo possibile. Connesso a questo errore è quello di pensare al preside come a un “manager” che gestisce la scuola in base a meri criteri di efficienza e di successo nella concorrenza. Il preside deve essere e restare un insegnante partecipe fino in fondo della funzione educativa e deve valutare il successo dell’istituto rispetto a un unico obbiettivo: far acquisire agli allievi una buona istruzione e un buon metodo di studio.
La preside Carla Sbrana del Liceo Classico “Giulio Cesare” di Roma lamenta giustamente l’impossibilità di premiare il merito dei docenti e di dover subire «estenuanti trattative con la rappresentanza sindacale interna» per distribuire i soldi del fondo incentivante a chi, in fin dei conti, non ha tanto insegnato meglio, quanto ha fatto un “progetto” in più. L’emergenza dovrebbe suggerire di sospendere per un congruo periodo – e di non riattivare se non dopo un accurato ripensamento – il sistema perverso dei “progetti” speciali che non soltanto ostacolano il premio del merito effettivo, ma relegano sempre più ai margini i contenuti centrali dell’insegnamento riducendo la scuola a un caravanserraglio delle iniziative più disparate e spesso di dubbio valore culturale. Oltre a essere il carburante di un sistema clientelare, i “progetti” alimentano l’ideologia secondo cui occorre smantellare l’assetto disciplinare nella scuola. Pochi sanno che c’è chi predica un’ideologia “olistica” secondo cui non debbono esistere più né le discipline, tutte integrate in un polpettone di conoscenze-competenze, né ore dedicate a specifiche materie. Niente più campanella oraria. Ogni mattina, la “comunità educante” si dovrebbe aggregare attorno a tematiche liberamente scelte: in un angolo un gruppo studia la rivoluzione francese, in un altro si studia l’algebra, in un altro si fa musica. Fortunatamente questo paese dei balocchi non si è ancora imposto legislativamente ma i suoi fautori vedono nei “progetti” il cavallo di Troia della disgregazione della struttura scolastica per conoscenze e discipline. Le cattive interpretazioni del giusto concetto di autonomia si riflettono anche nell’abuso dei piani di offerta formativa fino a contrabbandare attraverso lo sperimentalismo didattico nozioni prive di qualsiasi serio fondamento. Il tutto viene giustificato dall’idea che la scuola è un laboratorio, un perpetuo cantiere in ristrutturazione. Quando ti si dice che la decisione di insegnare una bestialità come la “legge dissociativa dell’addizione” dipende dalla decisione dell’interclasse siamo a un passo dalla follia di attribuire all’interclasse la delibera se il teorema di Pitagora sia giusto oppure no. Dovrebbe essere chiaro che l’autonomia didattica può essere tanto maggiore quanto più i contenuti dell’insegnamento sono definiti sulla base di standard rigorosi e culturalmente seri.
Questo discorso porta naturalmente a quello della valutazione. Anche qui i fraintendimenti del senso dell’autonomia hanno prodotto guasti, facendo addirittura credere che la scuola possa gestire il processo di formazione degli insegnanti da sola, come se un medico non fosse in primo luogo un laureato in medicina e un professore di filosofia un laureato in lettere e filosofia. La sacrosanta esigenza di formare insegnanti non soltanto forniti di conoscenze adeguate ma dotati, attraverso l’esperienza sul campo, di capacità didattiche, pedagogiche e relazionali, non significa pensarli come una corporazione di artigiani. Né si può pensare che gli insegnanti sia esenti da ogni valutazione. Anche qui non è possibile entrare nei dettagli, ma è difficile contestare il principio generale che la carriera degli insegnanti debba articolarsi in livelli da raggiungere sulla base di verifiche di merito. Al riguardo, occorre guardarsi da due idee parimenti sbagliate: quella di affidare interamente il processo di reclutamento e di valutazione alla figura isolata del preside, che può essere soggetto a pressioni clientelari o peggio; quella di costruire un processo di valutazione interamente basato su parametri quantitativi e su algoritmi, magari applicati meccanicamente da un preside manager, addirittura non insegnante o da “esperti scolastici” che non hanno mai insegnato per un’ora. Sono troppo evidenti i disastri provocati da questi pessimi sistemi di valutazione pretesamente oggettivi e, avendo spazio, potrei darne esempi clamorosi. Ritengo che il processo di valutazione debba farsi mediante sistemi di ispezioni condotte da commissioni miste di docenti di altri istituti, docenti in pensione, dal preside e da ispettori ministeriali.
Concludo con un’altra osservazione generale. Il nostro sistema dell’istruzione – sia universitario che scolastico – è un sistema profondamente ingessato in quanto è basato sul principio della staticità e inamovibilità nelle varie posizioni. Chi entra in una scuola tende a restarvi per tutta la vita per insegnare sempre le stesse cose e allo stesso modo, chi fa il preside lo farà per tutta la vita, chi assume una volta una funzione qualsivoglia è spinto a farsela riconoscere come funzione professionale a vita. È in qualche modo la controfaccia del problema del precariato. Ma un conto è la giusta aspirazione a un posto di lavoro stabile, altro conto è l’idea che questo posto diventi la poltrona su cui si resta seduti per tutta la vita. Occorre che il sistema promuova una dinamica di carriera, stimoli l’assunzione di funzioni diverse, e imponga la riqualificazione continua. Insegnare significa anche studiare per tutta la vita, migliorarsi continuamente per migliorare gli altri. Il merito e la conquista di livelli sempre più elevati, debbono essere la stella polare per ogni attore della scuola: insegnanti, studenti e famiglie.
(Il Messaggero, 27 maggio 2009)

sabato 23 maggio 2009

Riportiamo l'appello di Bernard Henri Levy, Claude Lanzmann e Elie Wiesel pubblicato sul Corriere della Sera del 22 maggio 2009, pag. 1 e 10.

Chi ha dichiarato, nel l’aprile 2001, che «Israele non ha mai contribuito alla civilizzazione, in nessun’epoca, perché non ha mai fatto altro che appropriarsi del bene altrui»? E chi ha ricominciato, quasi due mesi dopo, asserendo che «la cultura israeliana è una cultura inumana; è una cultura aggressiva, razzista, pretenziosa, che si basa su un principio semplicissimo: rubare quello che non le appartiene per poi pretendere di impadronirsene»?
Chi ha dichiarato, nel 1977, ripetendolo in seguito su tutti i toni, di essere «nemico accanito» di qualsiasi tentativo di normalizzazione dei rapporti del proprio Paese con Israele? O ancora recentemente, nel 2008, chi ha risposto a un deputato del Parlamento egiziano, preoccupato del fatto che potessero essere introdotti libri israeliani nella Biblioteca d’Alessandria: «Bruciamo questi libri; magari li brucerò io stesso davanti a voi»? Chi, nel 2001, sul quotidiano egiziano Ruz-al-Yusuf, ha detto che Israele era «aiutato», nei suoi oscuri maneggi, dall’«infiltrazione degli ebrei nei mass media internazionali» e dalla loro diabolica abilità a «diffondere menzogne»? A chi dobbiamo queste dichiarazioni insensate, questo florilegio dell’odio, della stupidità, del cospirazionismo più sfrenato? A Farouk Hosny, ministro della Cultura egiziano da più di 15 anni e, di sicuro, prossimo direttore generale dell’Unesco se, entro il 30 maggio, data di chiusura delle candidature, non si farà nulla per fermare la sua marcia apparentemente irresistibile verso una delle cariche di responsabilità culturale più importanti del Pianeta. Peggio ancora: quelle appena citate sono soltanto alcune — e non le più nauseabonde — fra le innumerevoli dichiarazioni dello stesso tenore che costellano la carriera del signor Farouk Hosny da una quindicina d’anni e che, di conseguenza, lo precedono quando aspira, come oggi, a un ruolo culturale federatore.
L’evidenza è dunque questa: il signor Farouk Hosny non è degno di tale ruolo; il signor Farouk Hosny è il contrario di quello che è un uomo di pace, di dialogo e di cultura; il signor Farouk Hosny è un uomo pericoloso, un incendiario dei cuori e degli spiriti; resta solo poco, pochissimo tempo per evitare di commettere il grave errore di elevarlo a uno dei più eminenti incarichi. Invitiamo quindi la comunità internazionale a risparmiarsi la vergogna che rappresenterebbe la nomina di Farouk Hosny, già data come quasi acquisita dall’interessato, a direttore generale dell’Unesco.
Invitiamo tutti i Paesi che amano la libertà e la cultura a prendere le iniziative che s’impongono per scongiurare tale minaccia ed evitare all’Unesco il naufragio che questa nomina costituirebbe. Invitiamo il presidente egiziano, in omaggio al suo compatriota Naguib Mahfuz, premio Nobel per la letteratura, che in questi giorni si starà rivoltando nella tomba, in omaggio al suo Paese e all’alta civiltà di cui è l’erede, a prendere coscienza della situazione, a sconfessare con la massima urgenza il suo ministro e comunque a ritirarne la candidatura.
Certo, l’Unesco ha commesso altri sbagli in passato, ma questo sarebbe un insulto così enorme, così odioso, così incomprensibile; sarebbe una provocazione così manifestamente contraria ai propri ideali che non riuscirebbe a risollevarsi. Non c’è un minuto da perdere per impedire che l’irreparabile si compia. Bisogna, senza indugio, fare appello alla coscienza di ognuno per evitare che l’Unesco cada nelle mani di un uomo che, quando sente la parola cultura, risponde con l’autodafé.


Per manifestare la propria opposizione a questa prospettiva (anche incollando l'appello precedente):

http://www.unesco.org/webworld/portal/processing/forms/contact/en/form.php

E diffondete il più che sia possibile

sabato 16 maggio 2009

Una riflessione sul vuoto dell'esistenza e qualche appunto connesso

Le cronache informano che in una sola notte di un fine settimana a Roma sono state elevate contravvenzioni per 4000 euro quasi tutte per guida in stato di ubriachezza mista a droga e sono state ritirate una quarantina di patenti. Dall’inizio dell’anno le forze dell’ordine hanno sequestrato nella capitale oltre 200 patenti per lo stesso motivo. Lo stato dei soggetti era a livelli incredibili: caso limite quello di un giovane sotto effetto di alcool ed eroina che ha investito un’auto dei carabinieri mandandone due all’ospedale.
Si parla di molte emergenze ma questa sta diventando una delle più drammatiche e sconvolgenti. Dunque, le notti del sabato sera per una fetta importante dei giovani si riducono a questo: ballare fino all’alba assordati da musica ad altissimo volume, imbottirsi di alcool e spesso anche di droga e concludere la festa col buttare la propria vita nella strada come posta di una tragica roulette russa. Non si tratta soltanto di un problema di salute e neppure soltanto di vita o di morte, ma è persino peggio: quel che esprime un simile comportamento è la necessità di anestetizzare una noia infinita, un’assenza sconfinata di interesse per qualsiasi cosa, di anestetizzarle col fracasso, con l’agitazione psicomotoria, con l’alcool e la droga. Chi si comporta così è dominato dal terrore di guardare quel che ha dentro, e cioè assolutamente niente, e di dover far fronte alla disperazione che genera la coscienza di questo vuoto. Come è possibile non considerare una terribile emergenza che tanti giovani si sentano così?
Poiché il problema è questo la soluzione non è certamente solo tecnica. Imporre alle discoteche e ai locali notturni regole severe sullo spaccio degli alcoolici, un controllo sulla diffusione delle droghe, al limite imporre limitazioni di orari: tutto questo è necessario e nessuna autorità pubblica potrebbe esimersi dal farlo senza venir meno ai suoi doveri. Ma nessuno può illudersi che basti. Si troveranno altre scappatoie e nasceranno altri problemi, come quelli delle bande che riempiono il loro vuoto passeggiando e provocando anche con i coltelli. Il problema è evidentemente l’emergenza educativa di cui si parla tanto e per la quale non si fa niente. Né basterà propinare corsi di educazione civica, o peggio quella emerita buffonata detta “educazione all’affettività”. È ironico che siano proprio coloro che si scagliano contro i metodi e i principi “d’altri tempi” a proporre soluzioni in quel classico stile predicatorio che fa presa sui giovani come l’acqua sul vetro.
Famiglia e scuola sono le chiavi della soluzione. E cosa può fare la scuola per trasmettere dei valori che non lascino la possibilità che si crei quel vuoto di cui si diceva, visto che è sbagliato e dannoso che la scuola propini un’etica di stato non si sa come e da chi confezionata? Trasmettere interesse. E quel che più di ogni altra cosa stimola l’interesse è la conoscenza, la passione di conoscere. Non è una ricetta magica, anzi è una via tortuosa e faticosa ma che, se percorsa, da un risultato sicuro. Per apprezzare quanto riempia di valori interiori il conoscere – apprendere a conoscere il mondo che ci circonda, la nostra storia, lo spazio in cui viviamo, e poi esplorare se stessi, gli altri, e apprendere a dominare delle attività scoprendo quali risorse offra questo dominio, che sia quello di far musica o dipingere o scrivere – per riuscirvi occorre vincere la fatica che questo comporta. È l’ostacolo oltre il quale c’è un grande premio. Una scuola basata sul principio che non bisogna stancarsi mai e tutto deve essere facile come il gioco più banale, crea un esercito di disperati.

(Tempi, 14 maggio 2009)

Siamo finiti, come spesso capita, a parlare di scuola.
E, a proposito di scuola, c'è la novità che il regolamento per la formazione iniziale degli insegnanti ha preso forma definitiva e ha iniziato il suo percorso di approvazione.
Sono stati un calvario questi mesi, con un tiro al piccione in cui si sono distinti certe organizzazioni e certi organi. Frequenti l'insulto - del genere
«patto perverso, siglato nella turris eburnea di una commissione accademico-ministeriale - e le falsificazioni spudorate.
Che pazienza ci è voluta a non entrare in polemica...
Consola il fatto che i detrattori del progetto sono i campioni di quella visione olistico-didattico-integrata-competenziale-autoformante-tecnocratico-esperta-docimologica-giocherellante-antidisciplinare.
Per esempio, prendiamo quest'ultimo articolo: http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=20409.
Si osserva che
«è indiscutibile la necessità e l’urgenza di dare un nuovo assetto propulsivo di cambiamento per quanto concerne la formazione dei futuri docenti di ogni ordine e grado di scuola. Ma c’è una questione temporale che preoccupa: anche qualora la proposta di formazione dei docenti venisse approvata in tempi brevissimi, tra quanti anni la scuola avrebbe a disposizione docenti ben formati, pronti a dar nuova linfa alla scuola? E nel frattempo la scuola viene messa in stand by, incistandosi sui suoi mali e malesseri?».
Un argomento davvero cogente... Con un ragionamento così si può in genere dimostrare la necessità di non fare mai niente. Per esempio: a che pro costruire una linea di metropolitana? Ci vogliono più di cinque anni, anche dieci a Roma, e, nel frattempo che si fa? Il traffico viene incistato sui suoi malesseri... Oppure: è importante fare ricerche sulla cura del cancro. Ma si otterranno risultati tra anni e anni. E nel frattempo che si fa? La gente viene incistata nei suoi cancri?
Ma osserva l'articolista, c'è una ragione di ottimismo:
«Si tenga presente che anche nella scuola attuale sono presenti numerosi docenti che, sia pur loro malgrado formati in modo nozionistico e disciplinare-specialistico, in realtà stanno già operando in modo intelligente ed innovativo nel metodo e nella didattica». Certo, resta «inalterata la struttura portante e le stanze interne del palazzo scolastico». Per esempio, è inaudito, «si perpetua la consuetudine dell’ora di “lezione” di ogni singola disciplina, disattendendo i suggerimenti, presenti nelle “Indicazioni per il curricolo” del 2007, titolati “L’ambiente di apprendimento” i quali spronano la scuola a strutturarsi anche come laboratorio cognitivo ed operativo (del pensare e del fare integrati). I docenti che percorrono tale pista (e sono più di quanti si immagini) lo fanno costringendosi ad esercizi di funambolismo, cercando di far rimanere nella norma e nelle pieghe dell’organizzazione del sistema scolastico un impeto culturale e metodologico che richiede più spazi e decisa maggior flessibilità».
«Speriamo - si conclude - che non si verifichi uno strabismo secondo cui la formazione dei docenti guarda al futuro e al nuovo e la scuola guarda (con compiacimento?) al passato. Spes ultima dea».
Talvolta viene in mente che sarebbe interessante sottoporre a un esame di cultura generale (nozionisto-disciplinare-specialistico) i campioni del laboratorio cognitivo-operativo, in base al principio elementare che, per criticare qualcosa bisogna avere gli strumenti per farlo. Ma, si sa, gli esperti scolastici sono ormai al di sopra di ogni sospetto e di ogni valutazione.
L'articolista è stata "consolata" da un lettore in modo ironicamente efficace:

«Gentile articolista si tranquillizzi pure. Da osservatore diretto le posso assicurare che ormai la nostra universitá (quella sì ben riformata) da qualche lustro, non solo per la scuola elementare (caso abnorme), ma anche per le scuole superiori, non sforna piú docenti formati "in modo nozionistico e disciplinare-specialistico". Questa impostazione tanto deprecabile, in cui il futuro maestro o professore imparava almeno le materie che poi sarebbe andato ad insegnare, sta ormai scomparendo definitivamente. Ci siamo inoltre molto ben avviati verso una didattica scolastica fatta di "competenze", co-presenze in classe, moduli, cooperative learning e quanto altro che, come si vede dai recenti scrutini, da ottimi frutti. Ormai lo strabismo sta trasformandosi in cecità».
Non si poteva dir meglio...
Bene, concludendo, è divertente. Per noi quel che per l'articolista è una tendenza virtuosa, è una disgrazia, e viceversa. Mentre l'articolista punta sui docenti che vogliono distruggere l'ora di lezione e l'assetto disciplinare, noi consideriamo tale proposito un'autentica barbarie, che vuole mettere in discussione semplicemente la nozione di cultura quale è sempre esistita. E confidiamo nei docenti che resistono nella direzione opposta.
E, in fin dei conti, su questo punto concordiamo. Al di là di regole e regolamenti conta la volontà, l'entusiasmo, la fiducia nelle cose in cui si crede, la solidità e consistenza delle proprie idee. E nutriamo la speranza ottimistica che, malgrado tutto, l'avranno vinta - se crederanno fino in fondo in sé stessi e non perderanno il coraggio di farsi sentire - quei docenti che credono nella cultura e nelle discipline contro la miseria culturale dei didattichesi-antidisciplinaristi. E ce ne sono tanti, come ad esempio il professor Lubrano Di Diego di cui consiglio il recente volume "Almanacco di un professore".

domenica 10 maggio 2009

lunedì 4 maggio 2009

Insegnare senza effetti speciali

Per secoli la retorica, come arte dell’esposizione del pensiero, è stata una branca fondamentale della conoscenza. Sebbene, a livello specialistico, vi sia un nuovo interesse per la retorica, nell’accezione comune il termine ha un connotato negativo, quasi spregevole, sinonimo della capacità di vendere fumo per arrosto. La retorica altererebbe la trasmissione onesta e oggettiva dei concetti e andrebbe proscritta nell’istruzione per evitare che l’allievo sia ridotto a subire passivamente le prodezze verbali dell’insegnante. Di qui il discredito della lezione “ex-cathedra” simbolo di un’istruzione retorica e trasmissiva, che uccide la partecipazione attiva del discente. Chi è nostalgico della lezione “ex-cathedra” sarebbe un “laudator temporis acti”, un lodatore del passato.
Si tratta di affermazioni “retoriche” nel senso cattivo del termine. L’insegnamento partecipato e che vede l’intervento attivo dell’allievo è vecchio di più di duemila anni – quantomeno fin dall’accademia peripatetica – e non esclude affatto l’utilità delle lezioni “ex-cathedra”. Piuttosto, nell’ansia di compiacere i giovani e accattivarseli – secondo quello stile dei vecchi privi di dignità bene descritto nella Repubblica di Platone – abbiamo trascurato l’importanza di ascoltare. Bisognerebbe leggere nelle scuole e nelle università l’Arte di ascoltare di Plutarco per rammentare che «se è vero che chi gioca a palla impara contemporaneamente a lanciarla e riceverla, nell’uso della parola, invece, il saperla accogliere bene precede il pronunciarla, allo stesso modo in cui concepimento e gravidanza vengono prima del parto» e che occorre apprendere, ascoltando un altro, a evitare di «agitarsi o abbaiare a ogni sua affermazione, e anche se il discorso non è troppo gradito, pazientare e attendere che chi sta dissertando sia arrivato alla conclusione» e poi «guardarsi dall’investirlo subito di obiezioni» ma prima riflettere a fondo.
Perciò, il necessario coinvolgimento dell’allievo (più in generale, dell’ascoltatore) nel discorso deve essere preceduto da una presentazione organica e pienamente dispiegata. E ciò significa anche presentare bene, con un’arte del discorso. Non si tratta di un aspetto formale, bensì profondamente sostanziale. Chi presenta bene ha pensato a fondo a come rendere chiari e trasparenti i concetti che vuol comunicare e il dispendio di tempo ed energie che ha posto in quest’opera esprime il rispetto che porta per chi ascolta. Egli non si limita a sciorinare piattamente una serie di concetti per abbandonarli subito alla discussione, ma impegna tutto se stesso in una presentazione convincente, chiara e anche appassionata. Con questa passione trasmette l’importanza che egli attribuisce a quel che dice e sottolinea gli aspetti che lo studio e la riflessione gli hanno fatto ritenere fondamentali. Pertanto l’arte retorica è una componente fondamentale del discorso e dell’insegnamento. Lo sa bene chi abbia avuto un vero maestro, uno di quelli che sanno appassionarti a una materia e sanno stabilire un dialogo autentico, non l’abbaiare fintamente democratico di cui parla Plutarco.
Tra le manifestazioni di falsa democrazia va annoverato un certo stile disinvolto di insegnanti che si presentano in aula con l’aria del genio pazzo, trascinando sulle ciabatte jeans sdruciti per propinare sciattamente una filastrocca di nozioni in cui l’arte retorica si riduce a ravvivare l’esposizione con battute umoristiche. Si trascura il fatto che lo stile impresso a un incontro intellettuale ne determina il livello dei contenuti e un certo rigore (non formale) induce a pensare in modo riflessivo e non superficiale.
L’introduzione di nuovi e potenti mezzi tecnologici – dall’ormai arcaica lavagna luminosa alle presentazioni multimediali “powerpoint” mediante il calcolatore, fino alle lezioni registrate scaricabili in rete – richiedono un ripensamento delle modalità dell’insegnamento e della comunicazione intellettuale. Da un lato, sarebbe puerile e vano pensare di farne a meno: si rischierebbe di fare come quel mio lontano parente che, proprietario di una ditta di trasporti a cavallo, all’apparire dei camion disse «non dura», e naturalmente fallì. D’altro lato, non bisogna dimenticare che ogni strumento tecnologico non deve diventare il fine bensì essere piegato a un fine, che è quello di comunicare pensieri e concetti. Pertanto l’arte retorica non scompare con i nuovi strumenti ma deve assoggettarli.
Purtroppo spesso accade il contrario: insegnanti e conferenzieri (ma anche laureandi) ridotti a bacchette che indicano liste di concetti numerati in una “slide”. L’autore della presentazione scompare: egli legge con gli astanti quanto è scritto nella presentazione. Nessuno gli bada, tutti guardano lo schermo, nella noia mortale di una voce inevitabilmente piatta e anonima. Non c’è pathos partecipativo e la lista della spesa dei concetti perde ogni forza di convincimento. In fondo, non si sa più neppure se chi la presenta l’abbia pensata davvero o l’abbia scopiazzata da qualche parte. Tanto è evidente il rischio della noia e del disinteresse che i programmi informatici offrono una pletora di “animazioni” volte a ravvivare l’attenzione: potrebbe darsi una prova migliore di quanto l’arte retorica sia necessaria? Ma chi usa queste animazioni in modo passivo anziché funzionale ai suoi scopi, ne cade vittima. Ricordo il caso di un conferenziere che ricorse a tutte le animazioni visive e sonore possibili, dal rumore di vetri infranti allo scroscio d’acqua, fino a che dal fondo della sala un sarcastico «troppi effetti speciali!» demolì la conferenza in una risata generale.
L’arte retorica è ineliminabile. Tanto vale porre al centro quella autenticamente umana. In quest’ottica un uso molto parco e accuratamente pensato dei mezzi tecnologici può essere efficacissimo: qualche immagine di un personaggio di cui si parla, una citazione importante di un paio di righe al massimo e, quando si vuol concentrare pienamente l’attenzione su quanto si dice, uno sfondo vuoto. Al contrario, chi sostituisce la tecnica retorica con quella formalizzata nel programma informatico riduce se stesso a un imbarazzante burattino di cui non si sa neppure se sia capace di pensare autonomamente. Per questo motivo l’uso delle presentazioni “powerpoint” nelle sedute di laurea andrebbe vietato (con l’eccezione dei materiali contenenti grafica complicata). Quanto a chi crede che le lezioni possano essere sostituite completamente da registrazioni scaricabili in rete, non si rende conto che una lezione (come qualsiasi comunicazione orale) è innanzitutto una relazione tra persone che trae il suo fascino e trova la sua pienezza in un rapporto che deve avere una fisicità, una collocazione spazio-temporale definita. Non rendersi conto di questo e pensare di poter eliminare la relazione interpersonale diretta non può che aprire la strada a forme gravi di degrado intellettuale e culturale.
(Il Messaggero, 4 maggio 2009)