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lunedì 4 maggio 2009

Insegnare senza effetti speciali

Per secoli la retorica, come arte dell’esposizione del pensiero, è stata una branca fondamentale della conoscenza. Sebbene, a livello specialistico, vi sia un nuovo interesse per la retorica, nell’accezione comune il termine ha un connotato negativo, quasi spregevole, sinonimo della capacità di vendere fumo per arrosto. La retorica altererebbe la trasmissione onesta e oggettiva dei concetti e andrebbe proscritta nell’istruzione per evitare che l’allievo sia ridotto a subire passivamente le prodezze verbali dell’insegnante. Di qui il discredito della lezione “ex-cathedra” simbolo di un’istruzione retorica e trasmissiva, che uccide la partecipazione attiva del discente. Chi è nostalgico della lezione “ex-cathedra” sarebbe un “laudator temporis acti”, un lodatore del passato.
Si tratta di affermazioni “retoriche” nel senso cattivo del termine. L’insegnamento partecipato e che vede l’intervento attivo dell’allievo è vecchio di più di duemila anni – quantomeno fin dall’accademia peripatetica – e non esclude affatto l’utilità delle lezioni “ex-cathedra”. Piuttosto, nell’ansia di compiacere i giovani e accattivarseli – secondo quello stile dei vecchi privi di dignità bene descritto nella Repubblica di Platone – abbiamo trascurato l’importanza di ascoltare. Bisognerebbe leggere nelle scuole e nelle università l’Arte di ascoltare di Plutarco per rammentare che «se è vero che chi gioca a palla impara contemporaneamente a lanciarla e riceverla, nell’uso della parola, invece, il saperla accogliere bene precede il pronunciarla, allo stesso modo in cui concepimento e gravidanza vengono prima del parto» e che occorre apprendere, ascoltando un altro, a evitare di «agitarsi o abbaiare a ogni sua affermazione, e anche se il discorso non è troppo gradito, pazientare e attendere che chi sta dissertando sia arrivato alla conclusione» e poi «guardarsi dall’investirlo subito di obiezioni» ma prima riflettere a fondo.
Perciò, il necessario coinvolgimento dell’allievo (più in generale, dell’ascoltatore) nel discorso deve essere preceduto da una presentazione organica e pienamente dispiegata. E ciò significa anche presentare bene, con un’arte del discorso. Non si tratta di un aspetto formale, bensì profondamente sostanziale. Chi presenta bene ha pensato a fondo a come rendere chiari e trasparenti i concetti che vuol comunicare e il dispendio di tempo ed energie che ha posto in quest’opera esprime il rispetto che porta per chi ascolta. Egli non si limita a sciorinare piattamente una serie di concetti per abbandonarli subito alla discussione, ma impegna tutto se stesso in una presentazione convincente, chiara e anche appassionata. Con questa passione trasmette l’importanza che egli attribuisce a quel che dice e sottolinea gli aspetti che lo studio e la riflessione gli hanno fatto ritenere fondamentali. Pertanto l’arte retorica è una componente fondamentale del discorso e dell’insegnamento. Lo sa bene chi abbia avuto un vero maestro, uno di quelli che sanno appassionarti a una materia e sanno stabilire un dialogo autentico, non l’abbaiare fintamente democratico di cui parla Plutarco.
Tra le manifestazioni di falsa democrazia va annoverato un certo stile disinvolto di insegnanti che si presentano in aula con l’aria del genio pazzo, trascinando sulle ciabatte jeans sdruciti per propinare sciattamente una filastrocca di nozioni in cui l’arte retorica si riduce a ravvivare l’esposizione con battute umoristiche. Si trascura il fatto che lo stile impresso a un incontro intellettuale ne determina il livello dei contenuti e un certo rigore (non formale) induce a pensare in modo riflessivo e non superficiale.
L’introduzione di nuovi e potenti mezzi tecnologici – dall’ormai arcaica lavagna luminosa alle presentazioni multimediali “powerpoint” mediante il calcolatore, fino alle lezioni registrate scaricabili in rete – richiedono un ripensamento delle modalità dell’insegnamento e della comunicazione intellettuale. Da un lato, sarebbe puerile e vano pensare di farne a meno: si rischierebbe di fare come quel mio lontano parente che, proprietario di una ditta di trasporti a cavallo, all’apparire dei camion disse «non dura», e naturalmente fallì. D’altro lato, non bisogna dimenticare che ogni strumento tecnologico non deve diventare il fine bensì essere piegato a un fine, che è quello di comunicare pensieri e concetti. Pertanto l’arte retorica non scompare con i nuovi strumenti ma deve assoggettarli.
Purtroppo spesso accade il contrario: insegnanti e conferenzieri (ma anche laureandi) ridotti a bacchette che indicano liste di concetti numerati in una “slide”. L’autore della presentazione scompare: egli legge con gli astanti quanto è scritto nella presentazione. Nessuno gli bada, tutti guardano lo schermo, nella noia mortale di una voce inevitabilmente piatta e anonima. Non c’è pathos partecipativo e la lista della spesa dei concetti perde ogni forza di convincimento. In fondo, non si sa più neppure se chi la presenta l’abbia pensata davvero o l’abbia scopiazzata da qualche parte. Tanto è evidente il rischio della noia e del disinteresse che i programmi informatici offrono una pletora di “animazioni” volte a ravvivare l’attenzione: potrebbe darsi una prova migliore di quanto l’arte retorica sia necessaria? Ma chi usa queste animazioni in modo passivo anziché funzionale ai suoi scopi, ne cade vittima. Ricordo il caso di un conferenziere che ricorse a tutte le animazioni visive e sonore possibili, dal rumore di vetri infranti allo scroscio d’acqua, fino a che dal fondo della sala un sarcastico «troppi effetti speciali!» demolì la conferenza in una risata generale.
L’arte retorica è ineliminabile. Tanto vale porre al centro quella autenticamente umana. In quest’ottica un uso molto parco e accuratamente pensato dei mezzi tecnologici può essere efficacissimo: qualche immagine di un personaggio di cui si parla, una citazione importante di un paio di righe al massimo e, quando si vuol concentrare pienamente l’attenzione su quanto si dice, uno sfondo vuoto. Al contrario, chi sostituisce la tecnica retorica con quella formalizzata nel programma informatico riduce se stesso a un imbarazzante burattino di cui non si sa neppure se sia capace di pensare autonomamente. Per questo motivo l’uso delle presentazioni “powerpoint” nelle sedute di laurea andrebbe vietato (con l’eccezione dei materiali contenenti grafica complicata). Quanto a chi crede che le lezioni possano essere sostituite completamente da registrazioni scaricabili in rete, non si rende conto che una lezione (come qualsiasi comunicazione orale) è innanzitutto una relazione tra persone che trae il suo fascino e trova la sua pienezza in un rapporto che deve avere una fisicità, una collocazione spazio-temporale definita. Non rendersi conto di questo e pensare di poter eliminare la relazione interpersonale diretta non può che aprire la strada a forme gravi di degrado intellettuale e culturale.
(Il Messaggero, 4 maggio 2009)

38 commenti:

enricomaria57a ha detto...

Gentile Prof. Israel,
sono perfettamente d'accordo con quanto espresso da lei nell'articolo.
E'vero, è necessario ripristinare la reale natura dell'insegnamento, ossia la relazione tra persone, tra il docente e lo studente, tenendo conto della distanza e del rispetto che intercorre tra i due ruoli. Il docente, con il suo lavoro, fatto di passione e di partecipazione, deve promuovere lo sviluppo del senso critico, delle capacità dello studente, formandolo alla vita.
Questo valore si è però perso nella scuola odierna: l'imperante maleducazione, attenuata in diversi casi dal ritorno al voto in condotta, ha sfiancato i docenti, soprattutto quelli più anziani, stanchi di subire critiche e soprusi da parte dell'intero contesto scolastico (studenti, genitori, colleghi e dirigenti scolastici).
Come intervenire per ricostruire, in ogni senso, la scuola italiana? In questo momento mi sento di dire che l'unico mezzo è riabilitare il ruolo dell'insegnante, non solo rinnovando la sua professionalità, ma operando un vero e proprio ricambio generazionale, sostituendo i docenti anziani con personale più giovane e motivato.
Spero che la mia non si riveli una semplice utopia; ma quali
prospettive posso nutrire, se non quelle di un drastico intervento statale, volto a favorire il prepensionamento di migliaia di docenti, per poter iniziare a lavorare nel campo scolastico, dopo anni e anni di sacrifici, di duro lavoro, finora premiato con i migliori risultati?
Spero che il mio non sembri il consueto lamento del precario: chi ha dedicato tutta la sua vita allo studio, credendo nel vero merito, chi si impegna ogni giorno per tentare di introdurre il tema della professionalità nella scuola (ed il rispetto delle gerarchie), chi ha raggiunto risultati eccelsi senza mai chiedere una spintarella a qualcuno, cosa può pensare davanti all'eventualità di non poter intraprendere la carriera docente, seppur a 26 anni, ad un'età giovane rispetto alla norma?
Non voglio pensare di aver fatto la scelta sbagliata, sette anni fa, quando decisi di iscrivermi a Lettere Classiche: ho studiato con profitto, ho risultato i migliori risultati possibili per una persona della mia età, laureandomi con il massimo dei voti nei tempi giusti e superando brillantemente il concorso per l'abilitazione SSIS.
Cosa devo sperare nel futuro? Dopo anni e anni di SACRIFICI, dopo aver mostrato una passione assoluta ed una dedizione totale al tema della scuola (pensi soltanto alla mia presenza sul suo blog, almeno a proposito della nuova formazione docenti), devo ammettere di aver sbagliato?
Mi auguro veramente di sbagliare le mie previsioni, di averle soltanto esagerate.
La ringrazio per la cortesia e la disponibilità.
Cordiali Saluti.

Nautilus ha detto...

In questo articolo vi sono alcuni punti interessanti.
1)"..il necessario coinvolgimento dell’allievo... nel discorso deve essere preceduto da una presentazione organica e pienamente dispiegata. E ciò significa anche presentare bene, con un’arte del discorso."
Esatto: "arte" del discorso. E' qui che si divide il buon insegnante dal cattivo: non dalla preparazione o dalla dedizione o dalla capacità di relazionarsi con gli studenti, ma dalla capacità di rendere chiaro e interessante ciò che si spiega. Quanto più ci si allontana da questo obiettivo, tanto più il nostro lavoro sarà inutile.
La parola è sempre "accolta bene", quando è comprensibile e capace di tenere avvinta l'attenzione.
Solo che è difficile. Già la definizione di "arte del discorso" indica il problema: e se qualcuno in quest'"arte" non è versato? Certo, si può provare a imparare, ma ho notato che la imparano e la migliorano coloro che già un poco la padroneggiano, a fronte di tanti che neanche in decenni di professione si rendono conto quanto siano noiosi e oscuri (le due cose vanno insieme) e ne danno la colpa ai ragazzi che non studiano o son disattenti.
In questo vorrei contraddire enricomaria: vi sono vecchi insegnanti che sanno interessare le classi (che poi l'insegnamento è tutto lì) e giovani che le fanno addormentare in due minuti.
E naturalmente viceversa, a riprova che questa qualità indispensabile la si ha o non la si ha.
Ho sollevato il problema a un seminario di scienza della comunicazione e la chiarissima preside della facoltà mi ha tranquillizzato: loro sanno come fare e se ne vedranno i frutti.
E allora, avrei voluto chiederle, come mai in QUESTO seminario il 70%dei partecipanti sta dormendo?

Barbara ha detto...

Chi realmente aspira ad insegnare per vocazione e competenze acquisite, oggi si trova a vivere un dramma che non può essere negato né sminuito.
Tuttavia, da quanto posso constatare in prima persona, sembra chiaro che l'inclinazione ad oggettivizzare, ridurre e formalizzare il rapporto educativo, la tendenza a sostituire il fascino della lezione appassionata e appassionante con "effetti speciali" e proposte didattiche alternative e fumose, è molto più diffuso tra le giovani leve che tra gli insegnanti anziani.
Gli anziani, piuttosto, si sentono stanchi, depressi, sfiancati dai continui cambiamenti peggiorativi introdotti di anno in anno dal sistema. Molti hanno gettato la spugna e desiderano tagliare la corda al più presto.
La soluzione non risiede di certo nel semplice ricambio generazionale, ma nella possibilità di far lavorare gente molto preparata e innamorata dell'umanità dell'uomo.

enricomaria57a ha detto...

Per Barbara,
per alcuni aspetti gli effetti speciali possono essere utili; ma nulla può sostituirsi alla lezione frontale, nella quale si struttura un rapporto tra gli studenti ed il docente.
La mia esperienza di tirocinio mi ha fatto capire che occorre rilanciare il modello educativo, dando degli esempi concreti, in modo da agevolare la crescita morale degli studenti.
Se veramente gli effetti speciali e le innovative proposte didattiche sono adottate in particolar modo dalle giovani leve, dovrei dedurre che quest'ultime sono meno preparate ad affrontare la metodologia tradizionale. Occorre però ricordare che numerosi docenti anziani non hanno la preparazione
posseduta da molti brillanti giovani:il nostro sistema scolastico, così ingessato, non è in grado di valorizzare le conoscenze e le competenze dei giovani docenti, privilegiando esclusivamente il servizio (elemento importante ma non esclusivo). Abbiamo docenti vecchi, stanchi e depressi per i continui affronti di ragazzi sempre più indisciplinati: penso che gli anziani non siano in grado di dare risposte adeguate anche perchè non sono abituati a porsi dei problemi del genere, a riflettere sul proprio ruolo, ad adottare metodologie e strategie alternative.
Con questo non voglio dire che sia meglio utilizzare gli effetti speciali: è però importante cercare un punto di incontro, una mediazione tra didattica tradizionale e valide alternative didattiche.
A scuola noto che i ragazzi apprendono molto, o comunque sono più interessati, se, ad esempio, i concetti storici vengono collegati con la realtà, ossia se vengono attualizzati.
Da una parte questo mi rassicura; dall'altra sono però intimorito, perchè noto una quasi totale
assenza di profondità storica nei ragazzi che riescono a cogliere solo eventi recenti risalenti al massimo a 20 anni fa.
Questo appiattimento sulla realtà nasce dalla presunzione che storia sia tutto ciò che è comunicabile, trasferibile via internet o sms; ecco perchè occorre restituire il senso della materia storica e, in generale, dello sviluppo diacronico della civiltà linguistica e letteraria.
Grazie.
Cordiali Saluti.

Barbara ha detto...

Caro Enricomaria,
da quello che posso constatare tutti i giorni come insegnante, non è che i docenti anziani siano depressi e tristi perché non sanno dare risposte adeguate ai ragazzi.
E' vero, invece, che hanno subito moltissimo, che sono stati mortificati e repressi, che hanno combattuto e sono stati sconfitti a causa di gente irresponsabile che ha lasciato approvare leggi e provvedimenti scellerati.
Alcune mie colleghe anziane, maestre validissime, se ne stanno andando in pensione con la morte nel cuore. Tutta questa storia che si racconta sul gap generazionale e sull'incapacità di rispondere ai bisogni dei ragazzi non sta in piedi.
E' vero, d'altra parte, che gli anziani come i giovani appartengono a questi tempi, tempi in cui le antiche certezze sembrano essere crollate, niente pare avere senso e valore, una mentalità relativista e nichilista domina e annienta. E senza una certezza su cui poggiare, senza una speranza da comunicare, qualunque lezione diventa vuota e noiosa. Ma di questo declino culturale e umano i giovani non sono certo meno vittime.
E' innegabile, infine, che i bambini e i ragazzi di oggi non siano affatto educati dalla società a porsi in attento e rispettoso ascolto dell'altro, a fermarsi per riflettere, a ragionare prima di lanciarsi in un istintivo braim storming.
La balla delle strategie alternative l'ho sentita e ripetuta fino alla nausea per tutta la durata dei miei studi universitari, per tutto il tempo della mia preparazione ai concorsi.
La realtà è molto più forte di qualunque costruzione teorica: non mancano strategie alternative e la migliore era quella che si usava prima: infatti funzionava a meraviglia.
La cultura è talmente bella che non ha bisogno di speciali acconciature per presentarsi. La cultura ha bisogno solo di una cosa: un uomo che abbia il desiderio e la libertà di riceverla e di comuncarla.

Lucio ha detto...

Questo post mi capita proprio a fagiolo, anche se mi riferisco alla mia esperienza universitaria, e non alle scuole elementari o medie, di cui forse parlano gli altri commenti.

In questo periodo sto tenendo due corsi di Fisica-Matematica; uno devo farlo con le "slides" perche' viene trasmesso in streaming su un sito web, mentre per l'altro uso - come sempre - la lavagna normale. Inutile dirlo, non c'e' paragone. Anche per una materia di questo tipo, la lezione alla lavagna e' infinitamente migliore, uno si sente molto piu' libero nell'esposizione del materiale. Con le slides, anche se le ho costruite io stesso seguendo il mio modo naturale di far lezione, viene a mancare quell'elemento di improvvisazione che e' essenziale, a mio avviso, per una buona lezione. Il dialogo e l'interazione con gli studenti si puo' ancora salvare, ma la tentazione di dire "questo ormai l'ho fatto vedere, premo il bottone e vado alla prossima schermata" e' sempre in agguato, talvolta irresistibile. Una formula lunga, ad esempio, se la devi scrivere alla lavagna hai tutto il tempo per spiegare il significato di ciascun termine, magari ti viene in mente un'aggiunta da fare, un disegnino o un gesto chiarificatore, che scompaiono con la presentazione pre-confezionata.

Viva la lavagna!!

Cordialmente,
Lucio Demeio.

enricomaria57a ha detto...

Cara Barbara,
concordo con te su alcune cose. Un solo aspetto: io, all'età di 26 anni, sono un giovane aspirante docente che desidera trasmettere cultura...Il sistema scolastico lo impedirà, costringendomi a fare altro...
Che cosa devo pensare? Di dover cambiare mestiere dopo anni di studio matto e disperatissimo, nei quali ho ottenuto i migliori risultati possibili?

Nautilus ha detto...

2) La questione degli ausili tecnologici: secondo me fino ad oggi non si è inventato niente di più efficace del connubio gesso-lavagna, almeno per le materie scientifiche.
Volta a volta sono passati episcopi, lavagne luminose, proiettori, pc e programmi informatici educativi e, dopo gli entusiasmi iniziali, sono finiti in qualche armadio.
Ora si parla della nuova lavagna elettronica a sfioramento...vedremo.
Quello che rende così potente la lavagna tradizionale credo sia il fatto che quel che si vuol comunicare nasce al momento sotto le nostre mani, in successione logica e nei tempi e modi e correzioni che scegliamo noi, rafforzando le nostre argomentazioni anziché distrarre da esse, come avviene quando le informazioni vengono mostrate su schermi lontani dove è difficile intervenire o, peggio ancora, sono già preparate in precedenza.
L’unico ausilio tecnologico veramente efficace è costituito dai laboratori (fisica, scienze) che se correttamente utilizzati (e qui ci sarebbe da aprire un'altra discussione) fanno “toccare con mano” e rendono chiari e assimilati concetti che la sola trattazione teorica può lasciare in qualche oscurità.
3) Sulla questione “vecchi” vs “giovani”: ripeto che non sono d’accordo con Enricomaria, la specificità del mestiere (o arte) d’insegnare fa sì che l’età non influisca in modo decisivo rispetto ad altre variabili: può insorgere stanchezza e logoramento, che abbasseranno inevitabilmente la qualità come in tutti i lavori, ma sappiamo per esperienza che è molto meglio un bravo insegnante anziano che un giovane inadatto a questo compito. Perché il punto è lì: molti insegnano senza esservi adatti, e a questo non c’è rimedio, e l’età non c’entra nulla...
E’vero che esistono insegnanti di cui si aspetta con impazienza l’andata in pensione, ma per mia consolidata esperienza son quelli che sarebbe stato meglio collocare in pensione da giovani, sarebbero stati un costo minore per la società.
Quanto al fatto, Enricomaria, che molti docenti anziani non avrebbero la brillante preparazione dei giovani…e perché mai? Forse le università son tanto migliorate da laureare studenti più istruiti di qualche decennio fa? O il progresso è stato tale da invalidare quegli studi? O forse l’insegnante anziano a forza di farla si dimentica della sua materia? Insomma, non capisco.

Giorgio Israel ha detto...

Sono contento di vedere che siamo ancora in molti a credere all'insegnamento come rapporto tra persone. Mi dicono che qualcuno è saltato su attaccando che io avrei difeso da autentico reazionario la lezione ex cathedra. Fa piacere assistere a tanto fraintendimento imbecille: vuol dire che non si sa più a quale santo (inteso come argomento) votarsi.

Barbara ha detto...

Enricomaria, non ho la ricetta per risolvere i casi difficili come il suo.
Tuttavia sono certa che ci sia una ragione per ogni cosa. La sua inclinazione naturale, quella che l'ha portata a sacrificarsi, a studiare, a prepararsi seriamente, non può andare perduta, perché lei l'ha ricevuta fin dalla nascita.
Le auguro di non perdere la speranza di trovare al più presto la strada.

vanni ha detto...

Egregio enricomaria57a, c'è chi pensa che il fatto che la vita ci costringa a misurarci con situazioni impreviste o perfino indesiderate, conduca spesso a risultati creativi ed alla fine positivi. Una ottimistica banalità?
Non si offenda per il tono leggero delle mie parole e per questo mio sorridente ma schietto voto augurale: che lei trovi almeno una occupazione che le porti soldi e magari tempo a disposizione.
A questo punto consideri e tenga ben in mente che lo status di insegnante, in soldoni di maestro, è in realtà una disposizione, una condizione dello spirito. Non si faccia illusioni: se lei ce l'ha le resterà appiccicata, e per il resto della vita la perseguiterà in mille occasioni cercate o fortuite.

Nautilus ha detto...

Sulla lezione ex-cathedra occorre intendersi: probabilmente chi la critica si riferisce al classico monologo unidirezionale docente-discente, in cui quest'ultimo deve solo star zitto e abbeverarsi passivamente di quanto gli viene somministrato. Esiste però la lezione interattiva, intendendo con questo un continuo scambio domande-risposte fra insegnante e allievi, è il metodo migliore per mantenere viva l'attenzione e coltivare il senso critico. Non per questo cessa di essere ex-cathedra, nel senso che l'autorevolezza e il sapere provengono dall'insegnante che mantiene la sua insostituibile posizione di "guida".
Ricordo che Federigo Enriques aveva affrontato questo stesso argomento quasi cent'anni fa, in un saggio che si chiamava “Insegnamento dinamico”, da contrapporre alla “lezione passiva”, aspettate, forse su internet c’è...
Ecco, l’ho trovato! Incredibile internet... ne copio un brano:
“7. Ora, come faremo a mettere in pratica la didattica dinamica, che fin qui si è cercato di spiegare
come criterio direttivo della discussione teorica?
Ho avuto la fortuna di assistere a qualche lezione di aritmetica o di geometria pratica, in cui il
docente si metteva a conversare coi ragazzi facendosi - anche lui- un poco ignorante, ricercando
insieme con loro, suggerendo, a tentoni, la via che essi stessi dovevano percorrere per guadagnare la
verità. E, mentre ammiravo l'intelligente attività della guida, trascinato anch' io nell'esercizio della
scolaresca animata, mi chiedevo perché lo stesso metodo non si dovesse adoperare anche con alunni
di età più matura.... perché no?, anche coi giovanotti che vengono a studiare alle nostre università.
Forse che non era questo il metodo di Socrate, ritratto al vivo nei Dialoghi di Platone?
Il più grande vantaggio di questo metodo è, a mio avviso, la sincerità, perché il postulato
dell'ignoranza è infinitamente più vicino al vero che la presupposizione di conoscenze già sicure
nella mente dell'allievo, da cui muove la lezione cattedratica.”
Pensare che già cent’anni fa si discuteva di queste cose e siamo ancora qui e questa distinzione di Enriques non è ancora chiara, nè il suo metodo mi sembra universalmente adottato, come a mio modesto avviso dovrebbe.
Enricomaria, resisti, se insegnare è la tua vocazione (e pare di sì) metti in atto qualunque strategia per arrivarci, ho un amico 28enne che è andato a insegnare lettere all’Elba, tanto per dire. Ti faccio di cuore i miei migliori auguri, anche se vuoi mandarmi in pensione anticipata.
“Insegnamento dinamico” è qui: http://www.tiziana1.it/ebooks/Risorse/ins_dinamico.PDF

Nautilus ha detto...

Non so resistere a postare un ulteriore brano di F. Enriques, tanto mi sembra pertinente all'argomento e fonte di ispirazione per un proficuo metodo d'insegnamento:
"8. Ho discorso dell'arte d'insegnare e d'interrogare; molti convengono circa la giustezza di questi
criterii didattici; alcuni, certo, non li hanno sentiti enunciare per la prima volta; perché dunque è
tanto raro di vederli messi in pratica? Non c'indugiamo a cercar pretesti, dando tutta la colpa
all'infingardaggine degli studenti (che appunto si tratta di vincere) o all'obbligo di svolgere un dato
programma con un orario troppo ristretto ecc. ecc.
Confessiamo francamente che il compito che ci è proposto è tremendamente, stavo per dire
divinamente difficile. Infatti se il nostro pensiero e la nostra parola debbono muovere l'attività del
discepolo, bisogna che qualcosa di vivo che è in noi passi nello spirito di lui, come scintilla di fuoco
ad accendere altro fuoco. Ma per ciò occorre dunque che anche noi maestri - nell'atto d'insegnare -
ripetiamo, non già il resultato freddo degli studi fatti, bensì il travaglio inferiore per cui riuscimmo a
conquistare la verità, ricreandone dunque la fatica nello spirito nostro, che si allarga e trascina
insieme la scuola. Vorrei bene spiegarmi su questo punto: la fatica di cui parlo è reale, non finzione
ad uso didattico; infatti non è possibile che ripensiamo una difficoltà che una volta abbiamo vinto,
senza scoprire nello stesso problema qualche altra difficoltà, che si risolve in una comprensione
nuova e più alta; perché è falso che le cose elementari su cui torniamo per insegnarle, sieno facili al
confronto della scienza superiore il cui possesso ci rende oggi orgogliosi davanti ai nostri scolari;
perché infine codesto possesso medesimo è dubbio e vano, ridicolo l'orgoglio, se di fronte al
discepolo ci presentiamo soltanto come discepoli, a ripetere un po' più meccanicamente la vecchia
lezione appresa sugli stessi banchi, anziché come maestri, a recare una veduta nostra, più chiara e
più larga."

Giorgio Israel ha detto...

Sono d'accordo al 300 %... Figurarsi, Enriques è per me una stella polare!
È assai opportuna la citazione di Socrate. Come dicevo nell'articolo l'insegnamento dialogante risale all'antica Grecia, Socrate ma anche l'accademia platonica e Aristotele. Il che non esclude, anzi, che - come dice Plutarco - si debba saper ascoltare.
C'è soltanto un punto importante da sottolineare. Avete un'idea di quale il LIVELLO in termini di CONTENUTI dell'insegnamento cui pensava e che effettivamente prestava un Enriques. Basta intendersi, perché A QUEL LIVELLO "farsi un poco ignorante" è qualcosa che sta comunque qualche miglio al disopra della più difficile lezione ordinariamente propinata nelle nostre università o nelle nostre scuole. Non è certamente la situazione in cui se menzioni la guerra di secessione americana si crede che sia la guerra del Vietnam e alla soglia della laurea in matematica c'è chi non sa ancora che cosa sia una funzione continua.
Basta intendersi...

Caroli ha detto...

Professore, Lei ha magistralmente descritto il metodo che Lei stesso ha usato quando, nella mia città, è venuto a presentare il libro "Si può vivere così?". Qualcosa avevo imparato in tal senso quando, in un intorno dei miei trenta anni, avevo cominciato a lavorare nella "didattica breve", ad uso delle aziende. Ma non sono capace di teorizzare così bene come funziona la cosa. E di questo La ringrazio.

Lucio ha detto...

Sono d'accordo con il pensiero espresso nella citazione di Enriques; lo collego con la necessita' di mantenere in piedi il valore delle lezioni ex-cathedra, quando ... son fatte bene! Quando davvero avviene cio' che Enriques descrive al punto 8. sopra citato (non l'enunciazione fredda di un risultato, ma la presentazione del percorso e del travaglio che hanno portato a quel risultato, etc.). Vorrei pero' aggiungere che questa e' una posizione idealistica alquanto, presuppone una serie di condizioni al contorno che spesso non ci sono. Io mi sforzo di insegnare in quel modo li' (Israel direbbe socratico ...), ma non riesce sempre al meglio. Su alcuni argomento mi trovo soddisfatto della mia opera, su altri meno. Senza parlare poi del rallentamento connaturato ad una simile metodologia. E' meglio insegnare bene una cosa che insegnarne male due, siamo d'accordo; ma al semestre successivo un altro docente parte da dove si suppone io abbia lasciato le cose, e non c'e' tempo per coprire eventuali buchi ... Ma forse Enriques non aveva sperimentato tutte le riforme del sistema scuola-universita' che abbiamo sperimentato noi! Ah, un altro punto (esperienza personale, ma son sicuro che e' esperienza di molti, anche alle scuole medie inferiori e superiori): ho insegnato un certo corso per 5 anni, ed ogni anno mi si diceva "il prossimo anno cambia tutto, questo corso non ci sara' piu' e dovrai insegnare altre cose". Non passa forse la voglia di essere socratici?

Scusate, ancora una cosa. Nella mia vita da apprendista (studente + postdoc etc.) ho imparato ben poche cose dalle lezioni ex-cathedra, appunto perche' sono stati pochi quei docenti che sapevano trasmettere qualcosa. In tutto il resto, ho imparato piu' dai libri (leggasi: autoapprendimento) che dalle persone. Questo per ribadire che, si, e' vero che le lezioni ex-cathedra vanno fatte; ma vanno fatte bene (nel senso di cui sopra), altrimenti servono poco.

Cordialmente,
Lucio Demeio.

Nautilus ha detto...

"Avete un'idea di quale il LIVELLO in termini di CONTENUTI dell'insegnamento cui pensava e che effettivamente prestava un Enriques."
Ah ah Prof.Israel, è verissimo, a me che faccio fisica a livello liceale i saggi di matematica e geometria di Enriques sembrano testi quasi esoterici...da un certo livello in poi credo che occorra soprattutto saper ascoltare, tanto più che in un aula universitaria con cento studenti il metodo socratico è inapplicabile.
Però per colmare quelle deficienze incredibili cui lei accenna mi pare utilissimo.
Quest'anno la lezione che ha avuto più successo in termini di comprensione degli allievi su un argomento di solito ostico è stata quella sui cicli frigoriferi quando ho dichiarato che non me ne ricordavo granchè e chiedevo il loro aiuto per arrivare in fondo alla questione. Mai avuto una classe più attenta e collaborativa. E dopo mi son ricordato delle parole di Enriques sul "farsi ignorante". Peccato non possa usarsi più spesso, sennò subodorano il trucco...
A Lucio, col quale concordo in tutto (sul tema "lavagna" ho scritto prima di aver letto il suo): sì, è sempre meglio una cosa ben fatta che due (o più) non digerite (lo capissero in alto loco) e se chi viene dopo di noi trova il buco pazienza, tanto dare solo un'"infarinatura" di molti argomenti i buchi li lascia lo stesso. In fisica poi è meno dannoso trovarsi di fronte pochi ma saldi concetti che molte nozioni approssimative e quindi in definitiva sbagliate.

Lucio ha detto...

in un aula universitaria con cento studenti il metodo socratico è inapplicabileNon e' proprio vero; non si puo' socratizzare con cento persone, quindi si finisce col socratizzare con pochi, ma anche gli altri si faranno coinvolgere di piu'.

Sulla questione dei "buchi", invece, dipende molto dalla materia. In fisica, o anche in fisica-matematica o meccanica razionale, forse si puo' saltare qualcosa; nei corsi di Analisi Matematica, recentemente ridotti a 6 crediti (parlo di Ingegneria), e' molto piu' pericoloso.

Cordialmente,
Lucio Demeio.

Barbara ha detto...

Riprendo una affermazione di Lucio: “ho insegnato un certo corso per 5 anni, ed ogni anno mi si diceva "il prossimo anno cambia tutto, questo corso non ci sara' piu' e dovrai insegnare altre cose". Non passa forse la voglia di essere socratici?"

Secondo me questa esperienza aiuta molto a capire il nocciolo del veleno che è stato iniettato nella scuola a piccole ma continue dosi: la forzata oggettivizzazione del processo educativo.
I provvedimenti legislativi che si sono succeduti dagli anni 70 in poi, esaltando le questioni organizzative, la gestione “democratica” del sistema, i metodi e le strategie di apprendimento, hanno svilito la centralità del soggetto, di ogni soggetto: l’alunno, il maestro, lo scrittore, il poeta, l’autore delle opere d’arte e delle conquiste scientifiche, il personaggio che ha fatto la nostra storia. Tutto è stato ridotto a pura informazione e nel mare delle informazioni i contenuti veri alla fine si perdono, mentre rimane solo l’attenzione maniacale per la quantità, la forma e il fumo.
Se la cultura è una cosa viva, dentro la quale palpita il cuore della nostra civiltà, essa può rivivere solo dentro un rapporto umano.
Ma in una scuola dove contano solo dati e metodi, di maestri non sembra più esserci il bisogno. Servono i tecnici, quelli che possiedono un mare di competenze (pianificare, inventare, pubblicizzare, ballare, cantare, spegnere i fuochi e scrivere fiumi di banalità sui registri).
Se il maestro è insostituibile, se quello che insegna è una sorta di testamento di inestimabile valore, i tecnici invece sono intercambiabili, quello che insegnano non ha importanza; essi possono trovarsi un anno in una classe (o in un corso), l’anno dopo in un’altra, un anno possono essere chiamati a lavorare su una disciplina, l’anno dopo su un’altra. A molti è passata la voglia di fare cultura per questo tipo di violenza sistematica subita nel tempo.

coccinella ha detto...

La professione dell'insegnante non è semplice, se si affronta con coscienza e non è facile far imparare agli alunni anche le conoscenze più elementari. E' proprio la nostra professionalità che sa trovare il modo di presentarle, di capire come comunicarle ai ragazzi e rendere i concetti semplici, perché possano diventare patrimonio di chi ascolta. Si diventa insegnanti con lo studio e una specifica preparazione, ma con l'animo dell'insegnante si nasce.
Ci sono tanti modi per presentarsi agli alunni e ognuno di noi entra in rapporto vero con loro secondo lo stile che gli è proprio e non di altri; solo così si riesce ad entrare in sintonia per capire il modo giusto di esprimersi. Davvero importante è il rapporto umano che si stabilisce tra insegnante e alunno, perché è quello che permette la fiducia, condizione necessaria a rendere l'insegnamento efficace.

Pasquale Picone ha detto...

Gent.mo Prof. Israel,
da una prima lettura della relazione, prodotta dal Gruppo di lavoro da lei diretto, ho dovuto constatare l'assenza della funzione di supervisione.
Nell'esperienza che ho maturato presso la SSIS-Lazio, proprio con il ruolo di supervisore, ho dovuto faticosamente ritagliarmi dei contorni di identità del ruolo stesso e della relativa funzione. Distinguendola dalla tendenza, diffusissima tra i miei colleghi, di "scimmiottare" le lezioni universitarie sulla programmazione, la valutazione, ecc. Quest'ultime, ovviamente, sono di pertinenza dei docenti universitari. La tendenza a snaturare la specificità della supervisione affiorava già nel lessico largamente in uso e nei tempi di svolgimento delle attività: si confondeva facilmente il tirocinio osservativo con quello attivo e quest'ultimo con la supervisione. Come è noto, le confusioni di lessico sono un sintomo di rappresentazioni poco chiare. Il tirocinio del primo anno SSIS era esclusivamente osservativo. L'addestramento all'osservazione delle variabili che concorrono a rappresentare il mondo della scuola e della professionalità del docente è già di per sè lavoro cospicuo. E' prevalentemente un lavoro sulle rappresentazioni. Sbloccando, ad esempio, le rappresentazioni interiorizzate dalle passate esperienze delle diverse fasi della scolarizzazione attraverso le quali ogni specializzando è passato. Quindi, gli specializzandi, in orario mattutino svolgono, nel setting scolastico, il tirocinio osservativo, inteso come raccolta di dati. In orario pomeridiano, nel setting accademico, partecipano alle sedute di supervisione, intese come attività di eleborazione di quei dati. Ogni membro del gruppo, ricostruisce narrativamente ciò che ha osservato. Il gruppo interviene con ipotesi e proposte di interpretazioni, fondate sulla connessione di metologia dell'insegnamento, di teoria della valutazione, ecc. Soprattutto di confronto e progressiva messa a fuoco delle rappresentazioni individuali, nei termini della motivazione professionale, della missione della scuola attuale, delle luci e delle ombre insite nella professionalità docente e dei processi di scolarizzazione. A mia volta ho potuto osservare, attraverso questa impostazione della supervisione, alcuni interessanti processi di costruzione dell'identità professionale del docente in formazione. Ad es. gli specializzandi del primo anno, rispetto ad alcune interazioni didattiche osservate nei settings scolastici, tendono in genere ad identificarsi solo con l'allievo. Al secondo anno l'identificazione si sposta verso il docente. Sono anche affiorate delle interessanti dinamiche intrapsichiche rispetto ai processi formativi di base: ad es. l'ambivalenza verso le figure di riferimento. Affiorano, cioè, con gli ovvi cambiamenti di soggetti e forma, gli stessi processi evolutivi della prima infanzia, questa volta verso i grandi autori di cui si deve, a propria volta, trasmetterne il pensiero alle nuove generazioni e verso i modelli dei docenti avuti nelle diverse fasi della scolarizzazione primaria. secondaria e terziaria (quella più recente).
Ecco, a me sembra che l'attività di supervisione possa contribuire molto alla costruzione della identità professionale dei docenti.
Nell'impianto previsto dalla relazione del gruppo da lei dirette si potrebbe specificarlo, come funzione a carico dei docenti-tutor e dei dirigenti scolastici che ne hanno competenza.

Con la più viva cordialità
prof. Pasquale Picone
dirigente scolastico
del Liceo Scientifico Statale "A: Meucci"
di Ronciglione (VT)

Teresa ha detto...

Sono una "giovane leva", ma più vecchia di Enricomaria. Ho infatti compiuto 33 anni e ovviamente sono ancora precaria. Non vi descrivo il mio percorso perchè sarebbe tedioso; dico solo che io come altri giovani insegnanti ci troviamo a percorrere una strada senza fine che i colleghi più anziani riescono a capire solo quando anche i loro figli cadono nella "trappola" (ma questo discorso non vale solo per la scuola purtroppo, vale anche per l'università e per il mondo del lavoro in generale..). Pur appartenendo alla nuova generazione sono pur sempre del '75, ho frequentato il liceo quando si veniva bocciati per una sola materia e ho frequentato l'università (cdl in chimica) con 30 corsi corposi TUTTI ANNUALI in 5 anni.Nessuno ha usato con me strategie didattiche particolari, ma posso dire che ho bellissimi ricordi di molti miei insegnanti liceali e universitari. Le teorie della SSIS le ho prese con le pinze; certamente rispondevano a un bisogno di rinnovamento, e forse quel bombardamento al 200% sulle strategie alternative mirava solo a far passare l'1% di tutto il discorso, sapendo poi che quando uno va a insegnare la tentazione della lezione ex-cathedra è sempre forte. Io la preferisco, ma non è detto che in alcuni tipi di scuole non serva integrarla con qualche trovata didattica alternativa: lo studente di liceo è diverso da quello della scuola professionale.
Piuttosto, e scusate se sposto l'argomento, come giovane insegnante mi preoccupano di più altri tipi di problematiche. Invito il prof. Israel, di cui conosco l'opinione in merito all'argomento, a dare un'occhiata al seguente articolo:

http://www.tecnicadellascuola.it/index.php?id=25726&action=view

Sono per la meritocrazia, ma non quella che discende dal farsi valutare da dirigenti scolastici spesso corrotti e diventati presidi con un corsetto ope legis. Sottoponetemi a tutte le valutazioni del mondo, ma voglio entrare nella scuola tramite concorsi seri e oggettivi, non tramite il parere discrezionale dei dirigenti scolastici italiani. So che non sono tutti uguali (il dirigente della scuola dove insegno quest'anno è molto competente, ma è il primo caso dopo 6 anni di insegnamento con presidi corrotti e ignoranti), ma in questo momento, in questo Paese, la chiamata diretta sarebbe un vero disastro.
Prof Israel, dica qualcosa.
Con questi presupposti anche i discorsi sull'utilità della lezione frontale diventano secondari. Prima dobbiamo decidere CHI dovrebbe impartire una lezione. Poi possiamo dibattere sul come. Grazie.

Giorgio Israel ha detto...

Sono completamente d'accordo e non esito a dire chiaramente che sono contrarissimo alla chiamata diretta e all'assunzione con giudizio d'istituto. L'ho scritto in più di un articolo, dicendo fra l'altro che sarebbe un modo per offrire un enorme territorio d'affari per la malavita organizzata. Con che modalità credo che sarebbe un insulto all'intelligenza spiegarlo.

Teresa ha detto...

Grazie per la risposta. Mi conforta sapere che c'è ancora qualche intellettuale con il coraggio di parlare chiaro.

enricomaria57a ha detto...

Anche io credo che siano pochi gli intellettuali coraggiosi, capace di dire cose scomode ma vere. Vorrei però esprimere la mia rabbia ed il mio rancore verso un sistema, quello del reclutamento docenti, veramente penoso in tanti suoi aspetti. Sono d'accordo nel criticare la chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici: la scuola sarebbe sottoposta al solito clientelismo feudale,assolutamente antimeritocratico.
E' anche giusto denunciare gli incovenienti presenti nell'attuale sistema delle graduatorie permanenti: un comma del decreto ministeriale impedisce l'attuazione di quanto previsto in una legge dello stato, determinando di fatto che, a parità di punteggio tra due candidati, la preferenza non venga data al candidato più giovane d'età ma al candidato iscritto da più tempo nella graduatoria (anzianità di iscrizione delle graduatorie).
Ecco perchè trovo un sistema del genere profondamente ingiusto per chi, come me, si è laureato nei giusti tempi, nella prima sessione utile, e ha fatto subito il concorso di ammissione alla SSIS, risultando vincitore. Cosa dovevo fare e cosa ho fatto finora,a 26 anni, se non il mio dovere?
Ho obbedito e rispettato le esigenze legate al fattore tempo, ormai imperante in questa società frenetica, ed adesso mi trovo, e come me diverse persone, ad attendere la chiamata, che arriverà secondo un criterio di anzianità e non di meritocrazia. Dov'è il merito tanto sbandierato da questo governo? Il merito significa responsabilità, professionalità, competenza e conoscenza di quanto si svolge: non penso che il sistema delle graduatorie permanenti sia in grado di assicurarlo e nemmeno di valutarlo.
Sulla spinossa questione del reclutamento proporrei la costituzione di un albo nazionale, aperto a solo personale dotato di abilitazione, su base regionale e non provinciale.
Il reclutamento si dovrebbe attuare con le medesime modalità previste ora, non attraverso la chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici, ma attraverso la chiamata da una regolare graduatoria. Questo per evitare tortuose azioni di carattere clientelare.
Grazie
Cordiali Saluti

Celer ha detto...

E' oltremodo evidente a tutti che il sistema di reclutamento degli insegnanti ha realizzato negli ultimi 10 anni un forte abbassamento della professionalità media dei docenti e, nel contempo, un aumento del precariato. Io penso che si tratti di un progetto politico, ma potrebbe anche trattarsi di eterogenesi dei fini: il risultato non cambia. Togli i concorsi, aggiungi riconversioni, abilitazioni speciali e, soprattutto, abilitazioni a pagamento conferite da università ( escludendo, in parte, le SSIS)e ancora aggiungi punteggi acquisiti presso scuole private fuori controllo dello Stato ( non della CEI, s'intende), avrai come unico evidente risultato una massa di insegnanti, o aspiranti tali, privi di qualsiasi professionalità, competenza e motivazione ( cosa gravissima perchè senza motivazione non si studia e se non si studia non si insegna).Trattasi di persone talvolta anche colte e intelligenti, laureate naturalmente, magari in Ingegneria addirittura (!) per lo più inadatte all'insegnamento, che quando approdano al ruolo ( cosa che non sanno neanche loro se lo vorrebbero davvero, per via di alcune responsabilità che la cosa comporta) avrebbero bisogno di tanto training e formazione in servizio. Tutto ciò naturalmente costa soldi, risorse umane e tempo, per cui...se ne fa a meno. Il dirigente scolastico fa loro intendere di dare 6 a tutti, di compilare i numerosi papiri, di firmare tutto, e fine. Loro stessi si autodefiniscono "certificatori" e in breve tempo si autoaddestrano in "tutto quello che devi sapere per evitare il ricorso al Tar" e vivono infelici privando di qualsiasi curiosità la maggior parte dei loro allievi, che imparano a vivacchiare...A proposito di bufale, concludo sulla questione degli strumenti didattici. Premesso che personalmente lavoro benissimo con la mia lavagna di ardesia, il mio gessetto e le mutande vecchie di non voglio sapere chi per cancellare, naturalmente uso Internet e insegno a fare ricerca critica in rete ai miei ragazzi da molti anni, facendo conto sui mezzi domestici di ognuno. Ho qualche esperienza di formazione aziendale e ho partecipato a qualche conferenza di universitari con l'ausilio di Power point: a parte qualche eccezione, lo strumento si rivela passivizzante semplicemente perchè non consente di essere modificato sulla base dell'interazione con l'uditorio, per cui al di là della funzione di stimolo o di aggancio per la memoria, diventa una gabbia tanto più rigida quanto più patinata. So per certo che spesso viene usato proprio per difendersi, per limitare le domande, a volte in buona fede, per far presto. E' evidente che in tutto ciò non c'è e non può esserci nulla di formativo: manca l'interazione appunto, il feedback spesso anche silente delle facce, delle posture, dei colpi di tosse sulla base dei quali torni indietro, vai avanti, approfondisci. Insomma via, anche Platone lo diceva, già a proposito della scrittura! E poi queste immagini che evocano e aprono a percorsi individuali, come nella lettura appunto, e non consentono un fuoco comune di attenzione. Gli insegnanti fanno lezione in tutte le buone scuole di questo Paese e i ragazzi le seguono con molta attenzione nella maggioranza dei casi, ve lo garantisco. In questo senso la scuola italiana ha mantenuto fede ad un certo tipo di tradizione, anche oratoria e un pizzico esibizionista, che tuttavia dà ancora buoni risultati. Basta vedere i risultati dell'indagine OCSE-PISA soprattutto sul versante umanistico, ma anche su quello scientifico ( che tuttavia richiede anche laboratori, questo è ovvio). Non è così in altri Paesi europei che hanno adottato metodologie anglosassoni, in teoria più attive, come ad esempio la Germania. Ho scoperto solo di recente, grazie ad uno scambio culturale di mio figlio, che il livello liceale è piuttosto basso rispetto ai nostri riferimenti: storia della filosofia non è compresa in nessun piano di studi e raramente ai ragazzi si chiede di ascoltare attivamente una lezione tenuta da un loro professore! Abbiamo dunque bisogno di riflettere, di conoscere, di aprirci ad un eventuale miglioramento della scuola e della didattica senza pregiudizi e utilizzando parole e concetti della pedagogia per intenderci con la maggior chiarezza possibile.
Stefania Fabris, insegnante di Pedagogia e Scienze umane, Genova

Chiara ha detto...

enricomaria57a, anch'io sono più o meno nella tua situazione, e naturalmente condivido le tue parole, che mi sembrano tra l'altro di buon senso, forse a me...ma non a tutti....
in fondo il discorso non è così complicato: le SSIS le hanno chiuse per una lotta di potere all'interno dell'università; la chiamata diretta serve per trasformare la scuola in un serbatoio di voti controllato dai presidi; la scuola pubblica va abbattuta per far crescere, a spese dei contribuenti e contro la Costituzione, le scuole paritarie targate CEI.
Chi non lo ammette, o è scemo o in malafede.

Giorgio Israel ha detto...

Di certo le SSIS non sono state chiuse per una lotta di potere interna all'università. Questa è una sciocchezza sesquipedale. Firmato: uno scemo o (a piacimento) in malafede, peraltro contrario alla chiamata diretta, ma per ragioni ben più serie di quella detta, e difensore della scuola pubblica.

Chiara ha detto...

la vostra riforma della scuola? in bocca al lupo, caro professore.

anche se io resto scettico: non ci scrolla di dosso in un attimo 60 anni di storia repubblicana, nei quali non si è fatto altro che abbattere pezzo dopo pezzo la riforma Gentile (latino dalle medie, esami a settembre, esame di maturità su tutte le materie, etc...).

"non sono le idee che mi spaventano, ma le facce..." diceva Flaiano. Infatti, scorro l'elenco dei ministri della (pubblica) istruzione dall'Unità agli anni '40 e trovo Benedetto Croce, Luigi Cremona (per un mese, ma un grande matematico), Francesco De Sanctis, Adolfo Omodeo, Giovanni Gentile, etc... e, poi, guardo il curriculum di Mariastella Gelmini e, sinceramente, cari amici, io non mi sento più molto bene....

Giorgio Israel ha detto...

Ah, ma io sono del tutto disincantato. Basta vedere l'intreccio di squallidi corporativismi che grava sulla scuola e sull'università italiana. Non si può muovere un passo senza che qualche gruppetto non si faccia avanti strepitando a chiedere "diritti" (inesistenti) e a difendere il suo "particulare". Ciò detto, occorre provare a fare qualcosa, altrimenti tanto vale emigrare (e dove poi? non è che le cose vadano tanto meglio altrove). Con il principio della totale indipendenza. Nello specifico, se vedessi che il progetto che abbiamo elaborato per la formazione venisse stravolto prenderei le distanze immediatamente.

Barbara ha detto...

Leggendo l'ultimo intervento di Chiara, mi è venuta la voglia di trascrivere un capoverso del libro di Mario Giordano, il già citato "5in condotta".
La riporto di seguito:


C'è un modo per invertire la rotta? Quando il ministro Gelmini ha reintrodotto il grembiule e il 5in condotta, le si sono rivoltati tutti contro. "Ci vuole ben altro." E' vero: ci vuole ben altro. Ci vuole sempre "ben altro". Il benaltrismo è il nostro sport preferito. Ma mentre aspettiamo il ben altro non conviene iniziare da qualche parte? (...) La divisa non è tutto? Sì, ma ti dà il senso dell'obbligo. Il 5 in pagella non basta? Forse, però ti ricorda che esiste anche la disciplina. Non sarà ben altro, ma è un buon inizio...
Mario Giordano, “5 in condotta” pag 139.


La Gelmini non sarà Benedetto Croce o Giovanni Gentile, ma per il momento sembra avere al suo fianco buoni consiglieri.

Celer ha detto...

Se davvero il progetto politico per la scuola fosse stato anche solo lontanamente quello di incoraggiare la serietà, l'impegno e il merito, secondo gli slogan ormai abusati da cotanti giornalisti - che per infangare la scuola sono riusciti persino a pubblicare fior fiore di libri, peraltro parecchio copincollati dai repertori delle bufale in internet - ritenete voi che si sarebbe giunti a maggio senza uno straccio di regolamento sulla valutazione? Al posto del Ministro avreste voi previsto la sanatoria generale con l'ammissione in massa di tutti gli studenti all'esame di maturità grazie al voto di condotta che fa media e l'ammissione automatica con la media del 6? E' disastro, altro che merito. Il merito della confusione e della distruzione. C'è da vergognarsi.

Barbara ha detto...

Io mi vergogno di una scuola trasformata in centro di assistenza sociale, dove tutto è concesso, dove si allagano i bagni, si imbrattano i muri, si umiliano e si perseguitano i compagni diligenti ed educati, passandola sempre liscia.
Mi vergogno di una scuola che sforna progetti sul caciocavallo, il tamburello sardo, la raccolta della monnezza, il ballo hip hop.
Mi vergogno di una scuola inverosimilmente burocratizzata, schiacciata sotto il peso delle montagne di cartacce da riempire.
Sto male in una scuola senz'anima, dove viene imposto un forzato tecnicismo ed un'asettica cosificazione in ogni aspetto del lavoro.
Ringrazio mille volte chiunque faccia anche un solo, minuscolo passo verso la direzione inversa rispetto a quella che ci ha portato, anno dopo anno, al degrado etico e culturale.

Lucio ha detto...

Il problema, gentile signora Barbara, e' che quello che lei chiama degrado etico e culturale e che ha cosi' bene descritto nelle prime righe del suo commento, non si ferma con le divise o il 5 in condotta.

Credo che la prima azione da compiere in tal senso sia quella di riformare ... i genitori! Ma lo sa che le famiglie di quei ragazzi che hanno allagato i bagni alla fine non hanno pagato nulla? Ma lo sa che che i genitori difendono sempre e comunque i loro ragazzi, e che la parola dello studente/alunno vale piu' della parola dell'insegnante ("papa', il/la prof. di fisica ce l'ha con me")?

Per cambiare questo atteggiamento c'e' da lavorare parecchio all'interno della societa' e restituire alla scuola ed al corpo docente quel prestigio sociale che ha ormai perso. Un po' anche per cause interne al corpo docente stesso, ma molto per il dilagante arrivismo nella nostra societa'. A cosa serve il 5 in condotta se poi il Consiglio di Classe decide di trasformarlo in un 6 o un 7? E lo sa perche'? Perche' perdendo studenti la scuola perde finanziamenti, quindi posti di lavoro, etc. Ma gli strumenti in possesso della scuola per "farsi sentire" esistono gia', solo che non vengono applicati. Ma lo sa che i genitori imprenditori mandano dei figli perfettamente imbecilli a studiare ingegneria, per poi metterli a lavorare nella propria azienda, e pretendono DAL SISTEMA UNIVERSITARIO che questo li faccia progredire a tutti i costi?

E tutto questo non ha nulla a che fare con progetti sul caciocavallo, il tamburello sardo, la raccolta della monnezza, il ballo hip hop (il prof. Israel non e' d'accordo, lo so, ma io la penso cosi'). La serieta' con cui si affronta la scuola ed i suoi problemi, compreso il prestigio sociale di cui sopra, non ha nulla a che vedere con i pedagogismi e la docimologia, secondo me. Ci puo' essere un sistema scolastico molto serio e dotato di prestigio sociale, sia che sia improntato ed un insegnamento piu' tradizionale sia che vada nella direzione dei pedagogismi. Cosi' come ci puo' essere una scuola degradata, con bagni allagati etc., sia con un metodo d'insegnamento che con un altro.

E non mi stanchero' mai di dire che nel sistema scuola-educazione noi investiamo pochissime risorse rispetto agli altri paesi (ad esempio, Svezia ed Israele sono ad oltre il 4 perc. del PIL, gli USA tra il 2 ed il 3, noi sotto l'un perc.). A questa questione si suole obiettare con il problema degli sprechi e del fatto che non ci sono soldi. Purtroppo, anche qui, si va a colpire "nel mucchio" invece di operare interventi mirati (l'ho gia' scritto nel mio commento al post con le vignette). Ma gli istituti scolastici di altri paesi, quanto a strutture (biblioteche, laboratori, disponibilita' del personale, trattamenti economici dei docenti, etc.) sono quasi quasi paragonabili a dipartimenti universitari; da noi invece cadono i soffitti, i docenti vivono nel precariato con stipendi da fame, etc.

Cordiali saluti,
Lucio Demeio

Barbara ha detto...

Gentilissimo signor Lucio, il contenuto di ciò che lei ha scritto sui genitori e sui provvedimenti disciplinari, mi è arcinoto; non mi potrebbe sfuggire per il semplice fatto che a scuola ci lavoro.
Ma è pazzesco che in questo Paese, anche quando qualcosa si sta muovendo verso la direzione giusta, si ami tanto piangere e lamentarsi, alimentando così senza requie l'immobilismo che ci affossa e ci risucchia nelle sabbie mobili.
Vorrei risponderle con le parole argute di Mario Giordano.

- Quando mi sento dire che "il problema della scuola non esiste, il problema è della società", mi viene da ridere. E da dove nasce il problema della società? Piove giù da cielo insieme alla grandine? Entra nel camino con Babbo Natale? Suvvia, siamo seri: che cosa viene prima? Il Paese o l'istruzione? Come minimo, siamo al paradosso dell'uovo e della gallina. Ma qualcuno, intanto, spieghi ai nostri studenti cosa significa paradosso. E magari dica loro che non ha nulla a che fare con le cunette del manto stradale. -

I soldi c'entrano tra il poco e il niente con la sostanza del problema.

Fausto di Biase ha detto...

Ben detto, professor Israel!

Per quanto riguarda la ``conversazione socratica'', mi permetto di suggerire un metodo che e` piaciuto ai miei studenti universitari di matematica (del primo anno) :

1. li faccio sedere distanziati uno dall'altro (almeno una sedia vuota tra due studenti)

in modo che non possano facilmente guardare nel quaderno dell'altro

2. dopo aver spiegato un po' di cose, formulo una domanda, un esercizio, un quesito, un problema, che deve essere risolto subito da loro in classe

( con l'intesa che le soluzioni non saranno da me usate per dare loro un voto o per formare la base del voto finale)

3 (a) giro tra i banchi per vedere cosa scrivono, rispondere alle loro domande, dare suggerimenti, se e` il caso ad alta voce in modo che sia utile per tutti;

e

3 (b) quando vedo errori gravi o soluzioni nuove e diverse da quelle date dagli altri, torno alla lavagna e spiego a tutti l'errore da evitare o la soluzione nuova trovata da qualcuno

Ho capito che per gli studenti questo mettere le mani in pasto subito dopo una spiegazione e` importante, perche', nella civilta` dell'immagine in cui ci troviamo, l'abitudine al pensiero astratto e` in via di estinzione tra i giovani.

Per quanto riguarda le diapositive (pardon, ``slides'') concordo con il Suo giudizio. Intanto e` intollerabile che non si sappia piu` parlare in italiano. Alle tesi di laurea dicono ``performance'' (con l'accento sulla sillaba sbagliata) e usano mille altre parole della lingua inglese, in modo e in misura intollerabile. Trovo scandaloso che (a parte le cose che Lucio Russo scrisse nel suo Segmenti e Bastoncini) non si siano levate voci di intellettuali su questo problema della lingua. Citati scrive pezzi sul commissario Colombo, ma nessuno si scandalizza se vengono introdotte nel nostro parlato espressioni di cui potremmo benissimo fare a meno.

Lucio ha detto...

Gentilissima signora Barbara,

avrei voluto risponderle prima, ma uno nella vita deve fare anche altre cose, oltre a seguire i blog.

Le parole di Mario Giordano sembrano indicare che i mali della societa' (degrado morale e quant'altro) siano causati dalla scuola, o che i problemi della scuola abbiano causato il degrado nella societa' (forse le parole sono imprecise, ma il senso mi pare questo). Giordano pero' si dimentica che ne' la scuola deriva dall societa', ne' la societa' dalla scuola. C'e' piuttosto un rapporto di feedback, o forse di simbiosi tra le due. La scuola e' parte della societa', ma allo stesso tempo forma le generazioni di domani. Quel che mi pare, e' che al giorno d'oggi piu' che di simbiosi si tratta di parassitismo, nel senso che la societa' sfrutta il mondo della scuola - in tanti modi, ci vorrebbe un libro, non un commento in un blog - e funge da parassita.

Per quanto riguarda i finanziamenti, non e' assolutamente vero che non c'entrano. Servono a tante cose: a stabilizzare i docenti ed a fermare la girandola di insegnanti che gli alunni/studenti si trovano sul loro percorso; servono a migliorare le strutture, ad estendere le scuole a tempo pieno (ci sono regioni anche importanti dove non ce ne stanno), a creare e diversificare attivita' culturali e ricreative, non per sostituire gli insegnamenti curricolari tradizionali (italiano, matematica, storia, geografia, lingue, etc.) ma per completarli. Per offrire ai ragazzi una gamma di (potenziali) interessi che anche colmino la noia ed il vuoto esistenziale di cui il prof. Israel parla in un altro post recente.

Certo, i soldi non servono (o servono poco) a trasmettere valori. Ma forse la prima istituzione deputata a questo e' la famiglia, piuttosto che la scuola. E se i valori trasmessi dalla famiglia "remano contro" quello che si fa nella scuola, c'e' da metterci una pezza!

Cordialmente,
Lucio Demeio.

Gianfranco Massi ha detto...

A Chiara vorrei dare un consiglio (me lo permetto, potrei esserle nonno): se riesce a trovarlo si legga il libretto della commedia teatrale "I Tromboni" di Federico Zardi, del 56, riadattata per la Rai-TV nel 1971. Le potrà servire per correggere l' effetto mitizzante che talvolta, per certi uomini, la distanza in anni può produrre su certi personaggi del passato.

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