La Grande Crisi
Forse, osserva Piero Ostellino sul Corriere della Sera, dopo le stagioni dell’“abuso della ragione” e dell’“irrazionalismo romantico” stiamo entrando nella “stagione della ragionevolezza”. A sostegno di tale ipotesi egli osserva che nessuno spettro totalitario si aggirerebbe per l’Europa e tanto meno per il mondo mentre nel 1989 si sarebbe esaurita la stagione dell’“irrazionalismo razionalista e giacobino”. Inoltre, “nel 2006 – con la crisi finanziaria mondiale – si è rivelata disastrosamente fallace anche la pretesa neoscientista di prevedere, e disciplinare, l’imperscrutabile spontaneismo sociale, economico e finanziario, attraverso l’utilizzo dell’informatica”.
Magari così fosse. Meglio sarebbe non scambiare la realtà con i nostri ragionevoli auspici. E non essere troppo eurocentrici. Difatti, se gli spettri totalitari classici non si aggirano più per l’Europa è ottimistico affermare che ancor meno si aggirino per il mondo. Al contrario, il mondo è percorso da una pleiade di totalitarismi declinati nelle forme più fantasiose. Ed è una magra consolazione che non si identifichino esattamente con i modelli totalitari europei di un tempo. Essi hanno comunque la forma di un incrocio tra quei modelli e altre culture: tipico è il caso dell’integralismo islamico che ha esplicitamente assimilato aspetti del modello comunista e di quello hitleriano. Ma quel che conta è che non è affatto scomparsa la caratteristica peculiare dei totalitarismi europei, così bene analizzata da François Furet: l’aspirazione palingenetica, cui anche Ostellino si riferisce, definendola come la pretesa di “raddrizzare il legno storto dell’Umanità” e di creare l’Uomo nuovo. Essa è tuttora l’asse portante dei totalitarismi di oggi. L’integralismo islamico non si propone forse di imporre un nuovo ordine mondiale basato sul Corano e sulla sharia, con cui sostituire le corrotte democrazie occidentali?
Quanto alla pretesa neoscientista, il riconoscimento della sua disastrosa fallacia è ancor più lontano. Certo, tutti dicono che siamo alla crisi delle certezze e che occorre ripensare a fondo certi capisaldi dottrinari come la teoria delle aspettative razionali e la credenza nella razionalità del mercato. Tommaso Padoa-Schioppa, sul Corriere della Sera, parla di “insensata credenza che potesse continuare così, dal mito della razionalità del mercato e da ingegneri finanziari che inventavano prodotti e circuiti nei quali il rischio sembrava scomparire dal sistema come la donna dall’armadio del prestigiatore”. Stefano Cingolani, sul Foglio, racconta le ammissioni dei luminari della London School of Economics circa i fallimenti della teoria economica contemporanea ma avverte giustamente che “l’autocritica, per quanto gradita e necessaria, non è sufficiente”.
Non soltanto non è sufficiente ma una seria autocritica non è neppure iniziata. Forse la crisi è stata troppo blanda per i soggetti responsabili del disastro, banche e operatori finanziari, che se la sono cavata a buon mercato (è proprio il caso di dirlo…) con l’aiuto delle finanze statali e che sembrano ricominciare a razzolare come prima.
Sono rimasto attonito quando la mia banca, dopo aver azzerato gli interessi sui conti correnti “perché c’è la crisi”, ha inviato per posta ai correntisti un libretto in carta patinata invitandoli a rivolgersi a un proprio consulente finanziario perché formuli “scientificamente” il loro profilo di propensione al rischio e, su questa base, proponga i “prodotti” corrispondenti a tale profilo. Insomma, si ricomincia a razzolare proprio come prima seguendo un modo di pensare che deriva, a sua volta, da una visione teorica dell’economia che impone da decenni la sua egemonia, non a caso detta “mainstream”. È questa visione che i luminari della London School e dei vari santuari della teoria economica dovrebbero avere il coraggio di sbaraccare: ma non lo fanno perché ciò equivarrebbe ad ammettere un fallimento teorico, a chiudere interi dipartimenti e cattedre, a rompere legami consolidati tra mondo accademico e finanza, fino a cambiare la politica del conferimento dei premi Nobel.
Il punto è che l’“insensata” credenza nella razionalità del mercato e la teoria delle aspettative razionali sono strettamente legate. Difatti, quest’ultima è basata sull’idea che le aspettative (le attese dei soggetti economici di fronte a eventi che possono influire sulle loro decisioni) sono “razionali” quando i soggetti hanno una conoscenza e una capacità di previsione perfetta del funzionamento del mercato. Questo comportamento razionale condurrebbe a un’evoluzione del mercato determinata e prevedibile e proprio agli eventi che gli agenti si aspettano. Comportatevi “razionalmente” e la realtà sarà “razionale”. E questa è esattamente l’ideologia che ispira il depliant in carta patinata della mia banca. La sua resistenza è legata a una tradizione che affonda nella microeconomia neoclassica e si è consolidata attraverso il mito che la realtà economica possa essere descritta in termini matematici di efficacia pari a quella dimostrata in fisica. Non si può sottovalutare il peso che ha avuto nella crisi la mitologia dell’efficacia della modellistica matematica. È dagli anni settanta che, malgrado si fossero manifestati sintomi premonitori gravissimi (come il crack della finanziaria Long Term Capital Management nel 1998), si è continuato a dare per buona l’idea che bastasse frullare nei computer il modello matematico di Black-Scholes-Merton – quello che pretende di descrivere con concetti di meccanica statistica l’andamento nel tempo di prodotti finanziari (come un portafoglio di azioni, obbligazioni e valute) e di opzioni definite su di essi – per realizzare il sogno di un’economia razionale. Si è continuato a far girare questo frullatore fino a che i comportamenti “emotivi” e “irrazionali” (in realtà ragionevoli) hanno fatto saltare il sistema. Ma ancora pochi hanno il coraggio di dire che quel modello è basato su ipotesi grottescamente irrealistiche. E pochissimi hanno il coraggio di denunciare l’incredibile rozzezza di una rappresentazione della razionalità soggettiva in termini di massimizzazione dell’utilità. Difatti, ciò equivarrebbe all’invito a chiudere i battenti di una visione dell’economia fallimentare sul piano teorico e pratico. Intanto, sul piano pratico, si va avanti a testa bassa verso il prossimo burrone con la “high frequency trading”, la nuova frontiera di negoziazione dei titoli mediante algoritmi matematici e computer, al ritmo di millesimi di secondo. Si dice che questa è una bomba atomica che potrebbe far saltare per aria i mercati, ma nessuno ha il coraggio di disinnescarla.
Le chiacchiere sui cambiamenti nel modo di pensare e di agire indotti dalla crisi sono una perfetta manifestazione di gattopardismo. Del resto, come potrebbe essere altrimenti? L’idea di razionalità come massimizzazione dell’utilità – ovvero di quella funzione che descriverebbe le preferenze del soggetto – è diffusa e radicata in un ambito molto più vasto di quello economico. Alla stessa idea si fa riferimento nel campo delle neuroscienze, quando addirittura si pretende di dimostrare – confrontando con la risonanza magnetica le reazioni cerebrali di un soggetto di fronte a differenti oggetti di consumo – che le funzioni di utilità sarebbero strutture innate del cervello. Naturalmente si tratta di analisi di stupefacente rozzezza, ma tant’è: il neoscientismo è un’ideologia tecnocratica e, come tale, resiste ai fatti e ai fallimenti.
Quella idea rozza di razionalità viene riproposta ovunque in modo cieco e acritico. È il mantra della corporazione degli “esperti” che, in ogni campo, si arrogano la pretesa di rendere razionali i nostri comportamenti e le nostre azioni; che si tratti della “produzione” di cultura, ricerca o insegnamento o della produzione di figli. In ogni circostanza la pretesa è che i comportamenti naturali, in quanto “irrazionali” e “selvaggi”, debbano essere sostituiti con comportamenti basati sui precetti di una razionalità definita in termini “scientifici oggettivi”.
Inutile dire che tutto ciò ha poco a che vedere con la scienza come conoscenza. Il vero problema è che ormai più che la scienza abbiamo di fronte la tecnoscienza e la sua pretesa di onnipotenza tanto smisurata quanto concettualmente fragile. Se accade che, nello stesso numero del Corriere della Sera in cui compare l’articolo di Ostellino, Alberto Quadrio Curzio indichi, tra le priorità per uscire dalla crisi, lo sviluppo della “tecnoscienza”, c’è poco da credere che la lezione sia stata compresa. Era la prima volta in assoluto che mi capitava di veder usare il termine “tecnoscienza” in termini positivi. Magari si potesse soltanto riderne.
(Il Foglio, agosto 2009)
15 commenti:
Come funzionerebbe bene il mondo se non ci fossero i suoi indisciplinati abitanti ...
La visione (riduzionista) tecnoscientifica non solo mal si applica alla gran parte delle cose interessanti del mondo ma fallisce, ad esempio, anche quando pretende di spiegare i comportamenti collettivi di un sistema attraverso il dettaglio microscopico (e quindi, con un uso massiccio dell'informatica). "Se Simplicio avesse avuto un Cray ..." scriveva il mio vecchio maestro. D'altra parte, il flusso dei finanziamenti da tempo alimenta prevalentemente le ricerche che promettono risultati applicativi a brevissimo termine (basta che siano "innovative" e "ad alto contenuto tecnologico", affrontino la "complessità" et voilà, l'argent) e diventa sempre più difficile esprimere il proprio disagio di fronte a questi arroganti e "ricchi" tecnoscienziati.
Caro Prof. Israel condivido interamente tanto quest'articolo che quello che ha pubblicato oggi Il Messaggero
Non possiamo continuare a prendere decisioni su concetti vaghi (la cultura olistica, la testa ben fatta, le competenze....), su una razionalità che non c'è (come dimostrano gli studi sui tanti inganni di cui è vittima il nostro cervello), e sopratutto dobbiamo fuggire da quella enorme carica d'ideologia (che è fin troppo diffusa tra esperti, politici, commentatori e tanti altri) che porta a confondere i propri desideri con i fatti.
Grazie per il tentativo di diffusione di un minimo di buon senso.
Gent.mo Prof. Israel,
il TG1, nel servizio di ieri sera sul TFA, ha parlato di selezione per il tirocinio a gennaio. Questa data è gia certa?
Grazie mille per l'attenzione
E.B.
In merito alle numerose richieste circa la data in cui sarà operativo il TFA rispondo che ciò dipende dai tempi di formulazione dei pareri del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari.
Alle numerose richieste concernenti casi particolari di classi di abilitazione e altre situazioni personali non mi è in alcun modo possibile dare risposta perché dovrei dedicarvi gran parte del mio tempo, non disponendo peraltro di alcun supporto di segreteria. Me ne dispiace vivamente.
Giorgio Israel
A proposito di neuroscienze, ha mai letto "il cervello delle donne" di Louann Brizendine? Io non ho nessuna vera conoscenza nel campo, ma alla frase "le donne dovrebbero quindi accoppiarsi con uomini simmetrici e di bell'aspetto" ho preferito chiudere il tomo e dedicarmi a qualcosa di meno eugenetico. Magari lei riesce a leggerlo fino alla fine quel capolavoro...
Totalmente d'accordo.
Una società d' investimenti mobiliari LTCM è fallita nel 1998. I suoi gestori pensavano di avere tra le mani la formula "scientifica" per arricchirsi sui mercati finanziari. Tutto cio' è il preoccupante sintomo di una mutazione scientista della società? Direi di no: LTCM era solo un operatore del mercaton in concorrenza con altri, e il fatto stesso che un mercato continuasse ad esistere costituiva la migliore gatranzia contro pretese tecnocratiche. Detto cio', non capisco come la paura dello scientismo si saldi con la paura del mercato.
Non capisco molto nemmeno come il fallimento di un mercato (la grande crisi) possa essere interpretato come prova della sua inefficienza. EMH (Efficiency Market Hypotesys) dice qualcosa di ben diverso e non garantisce certo la libera economia da crisi e fallimenti. E' forse un' ipotesi non-falsificabile? Al contrario, è falsificabilissima: basta portare un algoritmo attraverso il quale fare soldi sicuri in borsa (battere il mercato) e l' ipotesi della razionalità è falsificata. Falkenberg esprime in modo nitido questi concetti e le frequenti confusioni che generano. Ancora una volta: attaccare il mercato concorrenziale equivale ad aprire le porte ai tecnocrati e ai loro monopolistici algoritmi. Le accuse contro la razionalità dei mercati e scientismo non convivono mai molto bene.
Non mi pare che né Ostellino né Padoa Schioppa siano dei nemici del mercato... E criticare il mito scientista della razionalità del mercato non significa essere contro il mercato, bensì contro un'ideologia del mercato.
Strano, perchè chi sostiene EMH offre un' ipotesi fasificabile di mercato efficiente, cosa c' è di meno ideologico? Basta capire cosa sia EMH è non gridare alla sua falsificazione non appena il mercato fallisce in modo anche clamoroso.
EMH (mainstream) è un' ipotesi del tutto indipendente da CAPM (la teoria da cui furiescono molti degli algoritmi denunciati dall' articolo). Anzi, in una certa misura si tratta di teorie contrapposte, come dicevo nell' altro post. Secondo me non ha senso fare di tutta l' erba un fascio: mentre EMH riceve conferme tutti i giorni (non esistono operatori in grado di battere sistematicamente i mercati finanziari), CAPM, anche se spesso usata dagli operatori, è unanimente conosciuta nell' accademia come una teoria che non ha mai ricevuto serie conferme, altro che "dogma accademico". E' detto in tutti i corsi a chiare lettere: stimare un beta affidabile è pressochè impossibile.
Padoa Schioppa è stato un noto tecnocrate che ha operato in Banca d' Italia, nella Comunità Europea, fino a ricoprire incarichi Tecnici in alcuni Ministeri. E chi se non una figura del genere ha interesse nel denunciare i fallimenti del mercato? Quando il mercato fallisce, è il tecnocrate che viene chiamato a sostituirlo o a rimodellarlo. E' normale che per loro fallisca tanto spesso. Ostellino ha una formazione diversa e le sue parole sono più comprensibili.
EMH si puo' falsificare mediante un confronto in cui un operatore (algoritmo) riesce a fare sistematicamente soldi in borsa battendo il mercato. Ma questo confronto è irreperibile.
Dico questo perchè lei, Professore, spesso lei presenta una similitudine che mi lascia perplesso: i difensori dell' economia di mercato sono oggi nella medesima posizione dei Comunisti di una volta, non prendono atto del fallimento del sistema che propugnano. Ritengo indebito il parallelo poichè nel caso del Comunismo il confronto cruciale esisteva eccome e ben visibile.
Sostenere che un Padoa Schioppa sia un nemico dell'economia di mercato è davvero ridicolo. Ostellino è più "comprensibile" ma è accantonato. Spero che non si arrivi al punto di sostenere che anche Keynes era un nemico dell'economia di mercato... Il fatto è che vi sono tante posizioni e sfumature in chi accetta il contesto di un'economia di mercato e il mainstream non è la Bibbia per diritto divino del mercato. Non sono certamente il solo a sostenere che il Mainstream è un colabrodo teorico - questo non c'è una sola persona, salvo gli imbecilli, che si permetta di contestarlo - e e non offre alcuna rappresentazione concreta e utilizzabile del mercato. È una pura e semplice metafora (se non una mitologia). E il largo stuolo che lo sostiene è composto da persone che sono tutto salvo che nemici del mercato. Se però non si può criticare una determinata concezione senza essere tacciato di essere un nemico del mercato, la discussione è chiusa, anzi non può neanche aprirsi. E, ammesso e non concesso, che l'ipotesi centrale del mainstream si presenti in forma falsificabile (alla maniera di una teoria scientifica in senso popperiano, che non è), quando si potrà parlare di falsificazione se non quando fallisce? Forse soltanto quando fa comodo ai suoi sostenitori? Oppure prefissando la modalità di falsificazione secondo i propri comodi? Ma questa è appunto ideologia, ideologia pura, alla maniera di quella comunista. E poi lei continua col vizio di voler risolvere le cose con qualche link a qualche blog di dubbio valore dove si trova una sentenza apodittica sparata magari da un economista di terzo livello che, per la sua impostazione, ha tutto l'interesse a difendere una tesi senza fondamento e isolata, altro che accademia.
Comunque, ripeto, non ho alcun interesse a una discussione in cui le critiche implicano automaticamente l'essere un nemico del mercato.
La critica al mercato è possibile e spesso è valida. Quel che suona strano è vederla abbinata alla critica verso la tecnocrazia scientista. L' eventuale restringimento del ruolo dei mercati richiede infatti un ampliamento del ruolo dei tecnocrati. Certo, gli esiti coprono un ampio spettro di soluzioni possibili: si va dai tecnocrati della banca centrale, alla PS, che con formule complicate calcolano il tasso di sconto (e la loro esistenza è accettata anche da molti liberisti morbidi), fino al burocrate sovietico che dal suo calcolatore fa uscire regole e prezzi da imporre a tutto il sistema.
E, ammesso e non concesso, che l'ipotesi centrale del mainstream si presenti in forma falsificabile (alla maniera di una teoria scientifica in senso popperiano, che non è), quando si potrà parlare di falsificazione se non quando fallisce?
Il modo per falsificare EMH, ipotesi che possiamo tranquillamente definire il mainstream dell' economia finanziaria, esiste eccome e l' ho detto a chiare lettere: basta indicare l' algoritmo (o l' operatore), in grado di battere sistematicamente il mercato finanziario, ovvero in grado di fare sistematicamente soldi in borsa. Mi sembra tutto molto chiaro. Se le "formulette scientifiche" potessero sostituirsi al mercato, infatti, l' economia mainstream andrebbe in soffitta con il mercato stesso e largo ai tecnocrati interventisti e ai loro pseudo-mercati artificiali sempre più ristretti e liofilizzati.
Inoltre, poichè EMH prevede numerosi fallimenti dei mercati, come si puo' pretendere di falsificarla limitandosi a far notare che il mercato fallisce? E' la confusione più comune nei profani, quella brillantemente denunciata dall' Eric Falkenstein del primo link (mi permetto solo collegamenti verso economisti nel loro campo di prima categoria ma soprattutto anti-deologici, come è naturale che sia quando si mettono i soldi esattamente dove si mettono le parole).
"L'ho detto a chiare lettere"... Ma lei chi pensa di essere? Pensa che se la dice lei una grande sciocchezza diventa una verità? L'alternativa non è tra il mercato e una macchina; e forse uno è credibile e di prima categoria se mette i soldi dove mette le parole? Con un simile criterio avremmo la cultura dei trafficoni... ma lasciamo perdere, non sono interessato a questo tipo di polemiche.
9/07/2009 09:37:00 PM
Professore, lei travisa le mie parole: dicevo che "mettere i soldi dove si mettono le parole" forniva, per quanto possibile, la garanzia di un pensiero non ideologizzato. Nella sua replica diventava invece una garanzia di verità e credibilità. Assurdo, semmai quella, per quanto ci possa essere, sta nella lista di pubblicazioni scientifiche elencate (che, tanto per capirci, nanifica la lista di un PS).
Dicevo di aver parlato "a chiare lettere" ritenendo di aver espresso un' opinione non ambigua. Nella sua replica tutto cio' si trasforma in una pretesa di verità inappellabile mentre è lì solo per essere appellata.
Io rispetto il suo disaccordo e il suo diritto a non intrloquire. Le chiedo solo cortesemente di non apportare deformazioni di comodo a quanto dico.
Mi limito a dire che non mi trovo a mio agio nel discutere con affermazioni espresse in tono assertorio su questioni che richiederebbero maggiore prudenza e articolazione. So bene di ricorrere anch'io ad asserzioni apodittiche (per esempio sul legame tra mainstream e scientismo), ma se me lo permetto è perché dietro c'è uno studio e molti lavori incluso un libro pubblicato da MIT Press. Tanto per dirne un'altra: ho visto la lista delle pubblicazioni e non capisco cosa sia il PS (Partito Socialista, PlayStation, rete palestinese, Paul Samuelson?) che essa "nanifica", ma di certo è una lista molto ma molto unilaterale e modesta (ci vorrebbe poco per "nanificarla"), non sufficiente a conferire l'autorità che lei crede di trovarvi. Un investment adviser le cui pubblicazioni sono tutte su riviste non scientifiche. Io alle valutazioni "oggettive" non ci credo gran che, ma per chi ci crede, il risultato non sarebbe brillante...
Preferisco parlare a "chiari numeri" (soprattutto sul lavoro) piuttosto che a "chiare lettere". Assai spesso le "chiare lettere" sono lo specchio di un'inutile prosopopea.
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