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martedì 29 settembre 2009

Discorso del Primo Ministro d'Israele Benjamin Netanyahu alla 64a sessione dell'Assemblea Generale dell' ONU. New York, 24 settembre 2009





Signor Presidente, Signore e Signori, circa 62 anni fa le Nazioni Unite riconobbero il diritto degli Ebrei - popolo antico di 3500 anni - ad un proprio stato nella patria dei propri antenati. Oggi sono qui come Primo Ministro di Israele, lo stato ebraico, e vi parlo a nome del mio paese e del mio popolo. Le Nazioni Unite furono fondate dopo la carneficina della seconda guerra mondiale e gli orrori dell'Olocausto. Avevano il compito di prevenire la possibilità del ricorrere di tali orrendi eventi. Nulla minaccia alla base quel compito essenziale più dell'attacco sistematico alla verità. Ieri il Presidente dell'Iran era su questo stesso podio a sputare le sue ultime tiritere antisemite. Soltanto pochi giorni prima aveva ripetuto che l'Olocausto è una bugia. Il mese scorso sono stato in una villa in un sobborgo di Berlino chiamato Wannsee. Là il 20 gennaio 1942 dirigenti nazisti di alto grado si ritrovarono dopo un buon pasto a decidere come sterminare il popolo ebraico. Gli appunti dettagliati di quell'incontro sono stati conservati dai successivi governi tedeschi. Ecco qui una copia di quegli appunti, in cui i Nazisti davano istruzioni precise su come portare a compimento lo sterminio degli Ebrei. Si tratta di una bugia? Il giorno prima di andare a Wannsee, a Berlino mi hanno consegnato i disegni originali per la costruzione del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, dove furono assassinati un milione di Ebrei. Anche questa è una bugia? Lo scorso giugno il Presidente Obama ha reso visita al campo di concentramento di Buchenwald. Il Presidente Obama ha reso tributo a una bugia? E che dire dei sopravvissuti di Auschwitz che sulle braccia ancora portano tatuato il numero impresso loro dai Nazisti? Anche quei tatuaggi sono bugie? Un terzo del popolo ebraico morì in quell'inferno. Quasi tutte le famiglie ebree furono colpite, inclusa la mia. I nonni di mia moglie, le due sorelle ed i tre fratelli di suo padre, e tutte le zie gli zii e i cugini furono assassinati dai Nazisti. Anche questa è una bugia? Ieri su questo podio ha parlato l'uomo che dice che l'Olocausto è una bugia. A voi che avete rifiutato di venire qui ad ascoltarlo, e a voi che siete usciti in segno di protesta: sia lode a voi. Avete mostrato dirittura morale e onorato i vostri paesi. Ma a voi che avete dato ascolto a questo negatore dell'Olocausto io dico a nome del mio popolo, il popolo ebraico, e di tutte le persone per bene in ogni parte del mondo: non vi vergognate? Non avete pudore? Appena sei decenni dopo l'Olocausto voi legittimate un uomo che nega che sei milioni di Ebrei siano stati assassinati e giura di eliminare lo stato ebraico. Che vergogna! Che presa in giro della Carta dell'ONU! Forse qualcuno di voi crede che quest'uomo e il suo odioso regime minaccino soltanto gli Ebrei. Sbagliate. La storia ha provato più volte che quando si inizia con l'attaccare gli Ebrei si finisce col travolgere anche gli altri. Questo regime in Iran si alimenta di un fondamentalismo estremista che ha fatto irruzione sulla scena mondiale tre decenni fa, dopo essere rimasto latente per secoli. Negli ultimi trenta anni questo fanatismo ha attraversato il globo con violenza omicida e con imparziale sangue freddo nella scelta delle sue vittime. Ha spietatamente macellato Musulmani e Cristiani, Ebrei e Induisti, e molti altri ancora. Benchè abbiano diverse origini, gli aderenti a questa fede spietata vogliono riportare l'umanità al Medio Evo. Ovunque possono, costoro impongono una società irreggimentata e arretrata in cui le donne, le minoranze, i gay e chiunque non paia seguace della vera fede è brutalmente sottomesso. La lotta contro questo fanatismo non è uno scontro di religioni nè uno scontro di civiltà. E' uno scontro fra la civiltà e la barbarie, fra il 21° e il 9° secolo, fra coloro che glorificano la vita e coloro che glorificano la morte. L'arretratezza del 9° secolo non può tener testa al progresso del 21° secolo. Il richiamo della libertà, il potere della tecnologia, l'ampiezza della comunicazione vinceranno sicuramente. Il passato non può davvero trionfare sul futuro. E il futuro offre a tutti i popoli magnifiche riserve di speranza. Il progresso avanza a velocità esponenziale. Sono passati secoli fra la macchina da stampa e il telefono, decenni fra il telefono e il personal computer, soltanto pochi anni fra il personal computer e internet. Quello che pochi anni fa sembrava irraggiungibile oggi è già obsoleto, e a malapena possiamo immaginare le evoluzioni future. Troveremo la chiave del codice genetico. Cureremo l'incurabile. Allungheremo la vita. Troveremo una alternativa economica ai combustibili fossili e ripuliremo il pianeta. Sono orgoglioso che il mio paese, Israele, sia all'avanguardia in questo progresso e traini l'innovazione nelle scienze e nella tecnologia, in medicina, biologia, agricoltura e acqua, energia e ambiente. Ovunque si sviluppino, queste innovazioni offrono all'umanità un futuro illuminato da promesse mai immaginate prima. Ma se il fanatismo più primitivo ottiene le armi più micidiali, la direzione della storia può invertirsi per un periodo di tempo. E come avvenne con la tardiva vittoria sul Nazismo, le forze del progresso e della libertà vinceranno soltanto dopo che l'umanità avrà pagato un terribile prezzo in sangue e in beni. E' per questo che il maggiore pericolo oggi per il mondo è il coniugarsi del fanatismo religioso con le armi di sterminio di massa. Il compito più urgente per questo consesso è impedire che i tiranni di Teheran si impossessino di armi nucleari. Gli stati membri dell'ONU saranno all'altezza della sfida? La comunità internazionale saprà tener testa a un dispotismo che terrorizza il proprio popolo che coraggiosamente chiede libertà? Agirà contro i dittatori che hanno frodato apertamente le elezioni e sparato agli Iraniani che protestavano, soffocandoli nel loro sangue? Si opporrà ai più pericolosi sostenitori e perpetratori di terrorismo al mondo? Soprattutto saprà la comunità internazionale impedire che il regime terrorista dell'Iran sviluppi armi nucleari, mettendo in pericolo la pace nel mondo intero? Gli Iraniani si stanno coraggiosamente opponendo a questo regime. Le persone di buona volontà in tutto il mondo sono dalla loro parte, come le migliaia di persone che stanno protestando qui fuori. Sarà l'ONU dalla loro parte? Signore e signori, il giudizio sull' ONU non è ancora emesso, ma gli indizi recenti non sono incoraggianti. Invece di condannare i terroristi e i loro protettori in Iran, qui alcuni hanno condannato le loro vittime. E' esattamente quello che ha fatto un recente rapporto ONU su Gaza, che ha messo sullo stesso piano i terroristi e le loro vittime. Per otto lunghi anni Hamas ha lanciato da Gaza migliaia di missili, mortai e razzi sulle città israeliane vicine. Anno dopo anno questi missili sono stati deliberatamente sparati sui nostri civili: l'ONU non ha votato neppure una condanna di questi attacchi criminali. Non abbiamo sentito una parola - neppure una - da parte del Consiglio per i Diritti Umani dell'ONU (istituzione dal nome quanto mai fuorviante). Nel 2005 Israele, nella speranza di favorire la pace, si ritirò unilateralmente fin dall'ultimo centimetro di Gaza. Smantellò 21 insediamenti e trasferì più di 8000 Israeliani. Non abbiamo avuto pace. Abbiamo avuto invece una base terrorista sostenuta dall'Iran a 50 miglia da Tel Aviv. La vita nelle città e nei paesi vicini a Gaza divenne un incubo. Gli attacchi dei razzi di Hamas, vedete, non soltanto continuarono, ma si moltiplicarono per dieci. Anche allora l'ONU tacque. Dopo otto anni di attacchi senza interruzione, Israele fu obbligata a rispondere. Come avremmo dovuto rispondere? Beh, c'è un solo esempio nella storia in cui migliaia di razzi vennero sparati su una popolazione civile. Fu quando i Nazisti lanciarono razzi sulle città inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale. In quella guerra gli Alleati rasero al suolo le città tedesche, facendo centinaia di migliaia di morti. Israele decise di comportarsi diversamente. Di fronte a un nemico che commetteva un doppio crimine di guerra perchè sparava su una popolazione civile riparandosi dietro a una popolazione civile, Israele tentò di condurre attacchi mirati contro i lanciarazzi. Non era un compito facile, perchè i terroristi sparavano dalle case e dalle scuole, usavano le moschee come depositi di armi e trasportavano gli esplosivi sulle ambulanze. Israele, invece, cercò di ridurre al minimo i morti avvisando i civili palestinesi di lasciare le zone di attacco. Abbiamo lanciato innumerevoli volantini sulle loro case, mandato migliaia di SMS, chiamato migliaia di cellulari per chiedere alla popolazione di andarsene. Nessun altro paese si è mai data tanta pena per allontanare dalla zona di pericolo la popolazione civile nemica. Eppure di fronte a un caso tanto chiaro di aggressione, chi ha scelto di condannare il Consiglio per i Diritti Umani dell'ONU? Israele. Una democrazia che si difende legittimamente dal terrorismo è moralmente impiccata e squartata, e per di più dopo un processo ingiusto. In base a questi principi distorti, il Consiglio per i Diritti Umani dell'ONU avrebbe mandato alla sbarra Roosevelt e Churchill come criminali. Che perversione della verità. Che perversione della giustizia. Signori delegati all'ONU, intendete accettare questa farsa? Se lo fate, l'ONU tornerà ai suoi giorni più bui, quando i peggiori violatori dei diritti umani sedevano a giudicare le democrazie rette dalla legge, quando il Sionismo fu considerato razzismo, quando una maggioranza automatica poteva dichiarare che la terra è piatta. Se questa Assemblea non respinge la relazione del Consiglio, manda ai terroristi in tutto il mondo il messaggio che il terrore paga, che se lanci attacchi contro zone densamente popolate la fai franca. E condannando Israele questa Assemblea sferrerebbe un colpo mortale alla pace. Ecco perchè. Quando Israele lasciò Gaza, molti sperarono che gli attacchi missilistici sarebbero cessati. Altri pensarono che, se non altro, Israele sarebbe stata legittimata all'auto-difesa. Quale legittimazione? Quale auto-difesa? La stessa ONU che si rallegrò per l'uscita di Israele da Gaza e promise di sostenere il nostro diritto all'autodifesa ora ci accusa - accusa il mio popolo, il mio paese - di crimini di guerra ? E per che cosa? Per esserci difesi con senso di responsabilità. Che presa in giro! Israele si è giustamente difesa dal terrorismo. Questa relazione squilibrata e ingiusta è un banco di prova per i governi. Vi schierate con i terroristi o con Israele? Dovete rispondere ora. Ora, non più tardi. Perchè se chiederete ad Israele di assumersi altri rischi per la pace, dobbiamo sapere - oggi - che domani sarete al nostro fianco. Soltanto se sappiamo di aver diritto a difenderci possiamo ancora correre altri rischi per avere la pace. Signore e Signori, Tutta Israele vuole la pace. Ogni volta che un leader arabo cercò davvero la pace, noi abbiamo fatto pace. Abbiamo fatto pace con l'Egitto di Anwar Sadat. Abbiamo fatto pace con la Giordania di Re Hussein. E se i Palestinesi vogliono davvero la pace, io e il mio governo e il popolo di Israele faremo la pace. Ma vogliamo una pace vera, difendibile, definitiva. Nel 1947 questa Assemblea stabilì due stati per due popoli - uno stato ebraico e uno stato arabo. Gli Ebrei accettarono la decisione. Gli Arabi la rifutarono. Chiediamo ai Palestinesi di fare finalmente quello che hanno rifutato per 62 anni: dire sì allo stato ebraico. Proprio come a noi si chiede di riconoscere uno stato nazionale palestinese, ai Palestinesi si deve chiedere di riconoscere lo stato nazionale degli Ebrei. Gli Ebrei non sono conquistatori stranieri in Israele. Questa è la terra dei nostri padri. Sul muro di questo grande edificio è incisa la grande visione biblica della pace: 'Le nazioni non alzeranno la spada sulle nazioni. Non conosceranno più guerra'. Queste parole furono dette dal profeta ebreo Isaia 2800 anni fa nel mio paese, nella mia città, sulle colline della Giudea e per le strade di Gerusalemme. Non siamo stranieri in questa terra. E' la nostra patria. Benchè così strettamente legati a questa terra, noi riconosciamo che ci vivono anche i Palestinesi, che vogliono una casa propria. Vogliamo vivere fianco a fianco con loro, due popoli liberi che vivono in pace, dignità e prosperità. Ma dobbiamo avere sicurezza. I Palestinesi avranno tutti i poteri necessari per il pieno autogoverno, eccetto quei pochi poteri che possono essere un pericolo per Israele. Per questo uno stato palestinese deve essere de-militarizzato in modo reale. Non vogliamo un'altra Gaza, un'altra base terroristica iraniana sopra Gerusalemme e sulle colline a pochi chilometri da Tel Aviv. Vogliamo la pace. Credo che la pace si possa raggiungere. Ma soltanto se respingiamo le forze del terrore, guidate dall'Iran, che vogliono distruggere la pace, eliminare Israele e scardinare l'ordine mondiale. La scelta per la comunità internazionale è se vuole tener testa a quelle forze, o vuole lasciar loro spazio. Più di 70 anni fa Winston Churchill denunciò la "riconfermata incapacità dell'umanità ad imparare", la maluagurata abitudine delle società civili a dormire finchè il pericolo quasi le soffoca. Churchill deprecò quella che definì "mancanza di previsione, indisponibilità ad agire quando è semplice e facile farlo, poca chiarezza di idee, confusione nelle valutazioni, finchè si arriva all'emergenza, finchè l'istinto di auto conservazione non alza la sua voce dissonante". Parlo qui oggi con la speranza che il giudizio di Churchill sulla "indisponibilità ad imparare dell'umanità" si riveli questa volta errato. Parlo qui oggi con la speranza che impariamo dalla storia - che questa volta riusciamo a prevenire il pericolo. Nello spirito delle parole eterne pronunciate da Giosuè oltre 3000 anni fa, siamo forti e d'animo coraggioso. Affrontiamo il pericolo, assicuriamo il nostro futuro e, col volere di Dio, costruiamo una pace che duri nelle generazioni future.
(traduzione di Laura Camis de Fonseca)

lunedì 28 settembre 2009

sabato 26 settembre 2009

Esterofilia

Una mania nazionale è ritenere che quel che si fa fuori del nostro paese sia sempre migliore. Una manifestazione della xenofilia italiana consiste nel credere che i sistemi d’istruzione europei, siano sempre preferibili nostro. Quanto più si approfondisce la situazione tanto più si constata che non è così. E questo non è un bene, bensì una disgrazia. Difatti, se il contesto europeo non tale da “tirarci su” offrendo modelli vincenti, sarà difficile venir fuori dalla crisi dell’istruzione.
Un paese che viene portato a modello ideale della scuola è l’Inghilterra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un’insegnante elementare inglese che conosce anche il sistema italiano. Ci ha parlato di un insegnamento strutturato in modo ultra schematico per quell’esigenza di semplificazione che gli “esperti” chiamano (orrendamente) “essenzializzazione”. Per apprendere la lingua non si leggono libri, né si fanno composizioni scritte, bensì soltanto conversazioni ed esercitazioni lessicali. Gli alunni si avvalgono di lavagnette su cui verbalizzano concetti con frasi brevissime. Deve trattarsi di questioni impersonali con assoluto divieto di riferirsi alla sfera personale e familiare. L’insegnamento della matematica consiste solo di calcolo mentale, con gare di velocità, senza mai affrontare problemi di geometria o di aritmetica. Lo studio della storia, della geografia e delle scienze non ha carattere sistematico e si riduce a temi particolari scelti anno per anno. Per esempio, un anno si può studiare la seconda guerra mondiale, l’anno successivo la civiltà egizia. Lo studio delle scienze può ridursi al tema “animali domestici”.
Gli insegnanti preparano le lezioni in modo parimenti schematico: deciso l’argomento, scaricano da internet i materiali su cui impostare il lavoro degli alunni.
C’è chi difende le meraviglie della scuola inglese perché si muove sulla nuova frontiera: il “disallineamento” tra classe anagrafica e livelli di apprendimento. Niente più classi scolastiche per età, bensì gruppi di apprendimento definiti da livelli certificati individualmente. I gruppi di livello si aggregano e disaggregano in funzione dei vari settori (scienze, lingua) e non sono mai composti dalle stesse persone. Non è qui possibile mostrare l’assurdità teorica e pratica di un simile schema. Limitiamoci a riferire il racconto dell’insegnante circa quel che accade al livello elementare. Gli alunni vengono divisi per banchi colorati secondo i livelli e spostati di gruppo secondo i settori. Questa ripartizione crea sentimenti di competizione e di vero e proprio odio tra i gruppi di livello inferiore e superiore che, appena si allenta la sorveglianza dell’insegnante, si picchiano come branchi di animali. L’insegnante era colpita dall’innocenza dei bambini italiani a confronto con quelli inglesi, cresciuti troppo in fretta e capaci di prendere a pugni l’insegnante all’uscita da scuola. Un simile livello di aggressività richiede regole di condotta molto severe: durante l’intervallo spesso non ci si può neppure alzare.
L’altro giorno la maestra di mio figlio ha detto una frase stupenda: «È molto difficile entrare nel cuore di suo figlio, ma io credo di averne trovato la chiave». Ho pensato che se la scuola italiana regge ancora è per merito di insegnanti così. È lo stesso spirito che emerge nel bel libro Almanacco di un professore di Gennaro Lubrano Di Diego (Guida, 2009): un rapporto educativo in cui una persona guida un’altra a formare la propria conoscenza e la propria libertà – perché la conoscenza è libertà – e non un sistema di regolette per tenere a bada un formicaio, inevitabilmente un formicaio impazzito.
(Tempi, 24 settembre 2009)

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(Vincino - Il Foglio, 26 settembre 2009)
Per alcuni link informativi vedi nei commenti

lunedì 21 settembre 2009

Intervista a "Il Riformista"

Professor Israel, secondo le anticipazioni, il decreto sull’università che il ministro Gelmini sta per proporre dovrebbe diminuire drasticamente il ricorso a docenti a contratto. Perché si è reso necessario questo provvedimento?

La situazione non è omogenea. Vi sono università o facoltà che ricorrono poco o niente ai contratti d’insegnamento. Al contrario, altre vi fanno ampio ricorso. È noto che in certi casi si bandisce un gran numero di contratti pagati vergognosamente poco: fino a poche centinaia di euro lordi per un corso di sessanta ore. Ciò rappresenta comunque uno sperpero inaccettabile di denaro al solo scopo di tenere in piedi un gran numero di lauree, sfruttando le speranze di chi si illude che facendo un corso universitario acquisirà un titolo di benemerenza per un posto fisso. È un malcostume che deve essere stroncato. La riduzione dei corsi di laurea è necessaria e salutare, e spesso può essere indolore in quanto realizzata col semplice taglio dei contratti di insegnamento.

Nei giorni scorsi il ministro ha affermato che il 3 + 2 è fallito e che bisogna eliminarlo. Eppure c’è chi sostiene che il problema non è la formula adottata, che ha funzionato e funziona bene altrove, ma il modo in cui è stata distorta dalle università. Oltretutto, queste avevano a che fare, a loro volta, con datori di lavoro, in particolare le stesse pubbliche amministrazioni, che non hanno capito il senso e l’utilità delle lauree brevi. Forse era il caso di aspettare ancora prima di dichiarare fallimento. Non è presto per tornare indietro?

Su questa questione sovrasta una grande bugia che si riassume nello slogan: «ce lo ha chiesto l’Europa». Non è vero. Le indicazioni di Bologna e di Lisbona, evocate quando si tratta di affermare l’assoluta necessità di certe innovazioni – come l’introduzione della terna conoscenze/competenze/abilità – sono iniziative unilaterali e “private”, destituita di qualsiasi valore normativo. Noi abbiamo scelto di aderire all’indicazione del 3 + 2 (laurea triennale seguita dalla laurea specialistica, ora magistrale). Potevamo non farlo, come non lo hanno fatto altri paesi. Penso che sia difficile trovare qualcuno disposto a difendere il 3 + 2, salvo chi l’ha introdotto. Vorrei ricordare che, in precedenza, si pensò di introdurre un diploma biennale, che sarebbe stata un’ottima soluzione per un profilo professionale pratico di ambizioni realistiche. Si è scelta un’altra strada. La laurea triennale è una via di mezzo che non corrisponde a quasi nessuno sbocco professionale, non ha senso e non è utile. Chi farebbe costruire un ponte a un laureato triennale, gli affiderebbe una causa o ne farebbe un insegnante? Persino per fare il farmacista non si ritiene sufficiente la laurea triennale. Il risultato è che quasi tutti gli studenti proseguono con la specialistica e conseguono alla fine una preparazione che è al più uguale a quella che si otteneva con la quadriennale, spessoè  inferiore, pagando il prezzo di un anno in più. Difatti, mentre con la quadriennale si seguivano corsi annuali o semestrali che consentivano una preparazione approfondita e solida, ora tutto si disperde in una miriade di corsi al più trimestrali, talora di poche ore, il che porta lo studente a un agitarsi isterico di esame in esame senza riuscire ad assimilare niente altro che spolverature di nozioni. Finita la triennale, un buon pezzo della specialistica (o magistrale) serve e colmare le carenze pregresse, col risultato che si perde un anno per ottenere meno di quel che si otteneva con quattro. Questo lo sanno tutti, è vox populi. Che poi alcunee università si siano comportate male, moltiplicando lauree e corsi e frammentandoli, è vero. Ma anche nei casi in cui questo non è stato fatto gli inconvenienti sono rimasti, e potrei fare esempi. Peraltro quel malcostume è stato stimolato da una formula strutturalmente sbagliato e condita dal perverso sistema dei crediti che hanno trasformato i corsi e gli esami in un autentico mercato delle vacche («vengo al suo seminario se lei mi da tot crediti»). Tornare indietro? Se si chiedesse ai professori universitari cosa pensano del 3 + 2 la risposta maggioritaria sarebbe «ne penso male», se si chiedesse loro di tornare indietro la risposta unanime sarebbe «mai e poi mai». Chi ha voglia di rimettere mano a tutto il sistema dopo aver passato anni a impazzire dietro la costruzione di lauree, a calcolare crediti, a definire percorsi e corsi? Anche questo – aver costretto ai docenti a un avvilente lavoro da burocrati distogliendoli dalle loro funzioni prioritarie – è stato una delle imperdonabili colpe di questo sistema che ha fatto emergere i peggiori – quelli che hanno la voluttà della “gestione” – a scapito dei migliori, quelli che vogliono soprattutto insegnare e far ricerca.

Sempre leggendo le anticipazioni relative ai contenuti del decreto si ha l’impressione che si prospetti un sistema centralizzato, in cui il ministero controlla, programma, autorizza e decide cosa è meglio per ciascuno. Nei paesi che hanno le università migliori del mondo le cose non funzionano in questo modo. Come mai qui è necessario tornare a un sistema che sembra ispirato da una concezione paternalista piuttosto che liberale della società?

Di quali paesi parliamo? Tutti i sistemi europei sono in prevalenza statali e talora funzionano ancora bene. Gli Stati Uniti sono un altro mondo e ogni confronto è impossibile. Va anche detto – tanto per uscire dai luoghi comuni politicamente corretti – che storicamente i sistemi pubblici e statali hanno dato ottimi risultati. Le università americane non potevano neppure lontanamente competere con quelle europee fino alla Seconda guerra mondiale e la scuola secondaria americana ancora è a un livello molto più basso di quella francese o italiana. Si dimentica che lo sfascio del sistema universitario italiano – e di quello scolastico – ha un’origine precisa: la trasformazione della figura del docente in un impiegato sindacalizzato, l’ingresso dei sindacati nella struttura con la pretesa di voler persino determinare carriere e modalità dell’insegnamento, i giganteschi ope legis dagli anni settanta in poi, alternati con concorsi e idoneità che erano altrettante ope legis, l’uso del sistema dell’istruzione come ammortizzatore sociale attraverso assunzioni di massa, e via dicendo. Da allora l’università non è più un luogo di formazione, di ricerca e di cultura. È forse soltanto colpa degli universitari se da quasi quarant’anni si parla soltanto di stato giuridico dei docenti e le uniche riforme della didattica che sono state funzionali a problematiche del mercato del lavoro (peraltro mal comprese, come nel caso del 3 + 2)? Questi sono i veri nodi. Per il resto, se si auspica la privatizzazione del sistema universitario italiano si deve capire che questo è possibile soltanto in modo molto graduale, a meno che qualcuno non voglia chiudere tutto e abbandonarsi alla spontaneità degli “animal spirits”. Nel frattempo, il controllo centrale degli standard e dei livelli non può che competere a una struttura centrale. Anche qui non è bene intrattenersi con i sogni. Tanti parlano di abolizione del valore legale del titolo di studio. In teoria è l’uovo di Colombo. Soltanto che non basta dare una schiacciatina all’uovo per farlo stare in piedi. Molti sanno, ma preferiscono non dirlo ad alta voce, che un simile provvedimento implicherebbe un’opera di delegificazione di portata epocale, difficile persino da prevedere. Invece di porsi obbiettivi belli da dire e quasi impossibili da realizzare sarebbe meglio procedere concretamente: per esempio, concedendo alle università la libertà di definire il livello delle tasse e pagare il prezzo della concorrenza che si creerebbe. Queste sono forme di liberalizzazione attuabili e che possono portare a un risanamento del sistema, fermo restando che la ricerca di base deve essere difesa, pena la decadenza del paese a livelli irrecuperabili.

Un ruolo molto importante nel modello di università proposto dal ministro Gelmini ha l’idea di un sistema di valutazione nazionale. Tuttavia, molti sostengono che tale sistema può funzionare bene solo per le discipline in cui la comunità scientifica può adoperare standard internazionali. Per il diritto, o per la letteratura, la faccenda è più complicata. Come si può rispondere a questa obiezione?

 Sulla questione della valutazione ritengo che si debba andare con i piedi di piombo. La valutazione della ricerca non l’abbiamo scoperta oggi: è stata inventata nel Settecento. Il problema è che oggi la massa dei prodotti della ricerca è tale che è difficile usare l’unico sistema sensato, e cioè la valutazione qualitativa, verbale, specifica, basata su un’analisi approfondita dei risultati e delle pubblicazioni da parte di esperti del settore, e non più anonima, perché ormai dietro l’anonimato si celano regolamenti di conti tra fazioni. Ma la tentazione è di affidarsi a meccanismi numerici basati su algoritmi che tengono conto di una serie di parametri che rinviano sempre da un giudizio a un altro che gli sta dietro, col rischio che, di passo in passo, un giudizio non ci sia mai, bensì soltanto pregiudizi (pubblicare all’estero è meglio, questa rivista è meglio di quella quindi l’articolo è migliore, ecc.). Si afferma che questi metodi sono oggettivi, ma questo è ridicolo perché, in fin dei conti, essi debbono basarsi su giudizi emesso da qualcuno, fosse anche soltanto sulla qualità della rivista su cui è pubblicato un articolo. Inoltre, gli algoritmi, i parametri e i metodi di valutazione sono spesso definiti da “ditte” private composte da esperti che ragionano in termini manageriali astratti senza avere la minima idea di cosa sia realmente la ricerca scientifica. Quindi, la necessità di valutare in massa e rapidamente può congiurare in modo perverso con l’interesse di gruppi che mirano soltanto a fare affari. Non mi stancherò di ricordare – a costo di passare per rimbecillito – che alcuni mesi fa è uscito un autorevolissimo rapporto della International Mathematical Unione, dell’International Council of Industrial and Applied Mathematics a dell’Institute of Mathematical Statistics (le massime autorità in materia di numeri!) che smantella certi sistemi di valutazione, come il citation index, afferma che «i numeri non sono di per sé superiori ai giudizi ponderati» e che la ricerca di metodi «oggettivi», di «standard», è un’«illusione».  Si denuncia il rischio enorme che la ricerca di base – proprio quella che costituisce la colonna portante di tutto il sistema della ricerca – venga colpita duramente da questi sistemi. Vogliamo adottarli affrettamente proprio mentre altrove ci si interroga sui guasti che rischiano di produrre? Quanto alle materie umanistiche è del tutto evidente che il ricorso a parametri ISI o al citation index ne costituiscono la pietra tombale. Inoltre, come ha osservato Cesare Segre, per questa via si sottrae la valutazione ai soli competenti, mettendola in mano a tecnocrati che usano schemi preformati sottratti ad ogni valutazione (talora si assiste a un uso francamente ridicolo di certe tecniche statistiche). L’unica valutazione seria della ricerca è l’autovalutazione della comunità scientifica, in forme che debbono essere rese stabili, obbligatorie e regolamentate, ma non possono e non debbono fare a meno di entrare nel merito dei contenuti della ricerca.


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con l'aggiunta di una replica a Roberto Moscati inviata a Il Riformista




Caro Direttore,
una difesa efficace del 3 + 2 universitario richiederebbe una replica meno stizzita e formalistica di quella di Roberto Moscati alla mia intervista. Difatti, se come lui stesso ammette, è “abitudine ricorrente” parlare male del Processo di Bologna, vi sono motivi di sostanza diversi da un’ostilità preconcetta. Non entro nel merito delle imprecisioni che mi sono attribuite, che sono più formali che sostanziali. Ad esempio, è vero che molti stati hanno accettato in linea di principio le direttive di Bologna, ma molti non le hanno applicate e (come nel caso della Spagna) recalcitrano a farlo, in altri (come la Francia) si manifestano vivaci spinte a tornare indietro. Inoltre, sarebbe interessante saperne di più sui vasti sbocchi professionali aperti alla laurea triennale e ignoti per colpa dei docenti che non informano. Quel che è chiaro è che la laurea triennale non serve a fare il medico, il farmacista, l’avvocato, l’insegnante, l’ingegnere, il ricercatore scientifico, ecc. ecc., ma probabilmente a ottenere un aumento di stipendio in un impiego. Se si pensa a sbocchi professionali che potrebbero corrispondere a lauree come “scienza della cura e dell’igiene del cane e del gatto”, “scienze equine”, “schedatura del fiore e del verde” o “turismo alpino”, allora sarebbe meglio riempirli con migliori competenze. D’altra parte la proliferazione di migliaia di corsi di laurea triennali insensati e di più di centomila (pare 150.000) corsi universitari, alcuni di pochissimi crediti (anche due) non è soltanto colpa delle università ma anche del perverso invito contenuto in un sistema strutturalmente disgregante. Non è certo un caso se è apparso necessario correggerne le distorsioni con il DM 270.
Anche l’abbassamento del livello dell’istruzione (ammesso da Moscati) è legato alle caratteristiche del sistema come è stato provato da molte analisi. Risale al marzo 2004 un memorabile articolo di Claudio Magris (Corriere della Sera) che denunciava con esempi molto precisi il degrado e la mercificazione introdotti dal sistema dei crediti. Quando ci si trova di fronte un povero studente che, mancandogli un credito, ti chiede di darglielo facendo con lui una chiacchierata, non si può evitare di porsi delle domande. Ragioniamo sul merito. È forse possibile svolgere in una ventina di ore un corso su un metodo di programmazione, ma non un corso di storia, di filosofia, di fisica teorica, di equazioni differenziali o di biologia molecolare. Se si è costretti a tagliare quasi tutte le dimostrazioni dei teoremi perché non c’è tempo, è quanto diplomare un falegname senza avergli mai fatto segare un pezzo di legno. Questi sono fatti. Ideologia è difendere per ragioni di principio un sistema a dispetto dei fatti. Ciò posto – l’ho detto e lo ripeto – è responsabile non abbattere il sistema con la stessa disinvoltura con cui fu introdotto. Ma certamente esso va corretto seriamente e monitorato costantemente.


Giorgio Israel

venerdì 18 settembre 2009

mercoledì 16 settembre 2009

ALLIEVI DI GOEBBELS

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Non è certamente per un pavido tentativo di mettersi al riparo ma per mostrare fino a che punto di malafede si possa arrivare pur di costruire dei capri espiatori se dico che quel che ha fatto il Gruppo di lavoro sulla formazione degli insegnanti da me presieduto non aveva nulla a che vedere col problema del precariato. Al contrario. La nostra scelta è stata di separare il problema della formazione iniziale degli insegnanti da quello del reclutamento e di occuparci soltanto del primo, il che era peraltro prescritto dal decreto costitutivo della commissione. Quel che rende grottesche le accuse che ci vengono mosse in certi siti estremisti – e a me in particolare come «vero autore della Riforma che sta sconvolgendo la vita a decine di famiglie» – è che aver separato questi temi è stato il principale motivo di critica che taluno ha mosso al nostro progetto… Noi abbiamo ritenuto che il problema della formazione andasse distinto da quello del reclutamento, in quanto il primo è di natura essenzialmente teorica – a differenza del secondo, più pratico – e richiedesse di essere una buona volta definito a regime, in una prospettiva stabile, e non provvisoria, legata alla contingenza e a misure tampone. Quindi un problema distinto dal reclutamento, per non dire da quello del precariato, che ha una natura di emergenza e può essere affrontato soltanto in termini di scelte politiche volte a superare nel modo più indolore una drammatica eredità accumulatasi in decenni di politiche sconsiderate.
Se il nostro progetto ha qualche cosa a che fare col precariato è casomai nel senso che, per il futuro, esso mira ad evitare la creazione di altre sacche di precari!… Ai critici che ci invitavano, secondo il solito metodo all’italiana, a ricorrere al principio di implicazione – A è legato a B, B e C, ecc. quindi o si risolve tutto insieme, o niente (e quindi niente) – abbiamo risposto che, visto che si parla tanto di spirito scientifico, chi vuol affrontare razionalmente i problemi complessi deve saperli distinguerli in sottoproblemi risolubili e non intrecciarli l’uno sull’altro come un nodo gordiano.
Quindi una delle critiche principali (e sbagliata) al nostro progetto è stata di esserci occupati soltanto di formazione… Di altre – un rapporto più equilibrato tra scuola e università nel processo di formazione, più spazio al tirocinio – si è tenuto conto in un processo di consultazione e di confronto a tutto ispirato salvo che a un decisionismo impositivo. In fin dei conti, il nostro progetto ha riscosso molti più consensi che critiche e molti hanno capito che esso prefigura un futuro di maggiore serietà e senza precariato.
Questo, ripeto, tutti hanno dato mostra di averlo capito. Ma ora qualcuno ha deciso di far credere ai precari in agitazione che siamo noi ad aver costruito una “riforma” per farli piangere. In breve, si sta fabbricando in perfetta malafede un capro espiatorio.
In questi mesi, le polemiche in cui ci siamo trovati sono state tutte civili, salvo qualche insulto isolato nei limiti della norma. Ho registrato personalmente i soliti riferimenti al mio “ebraismo” da parte dei soliti estremisti, magari qualche caduta di stile di un funzionario in pensione, qualche frasaccia sul mio cognome («è tutto un programma»), ma sono abituato dalla nascita a questi detriti, che non mi fanno né caldo né freddo. Però stalvolta è stato passato un confine: non soltanto per la definizione di «puparo ebreo», quanto per il parallelismo con Marco Biagi rafforzato da un riferimento “teorico” insistito al fatto che, come allora Biagi sarebbe stato lo strumento della costruzione del precariato in generale (cosa che peraltro è un falso macroscopico), così oggi la sua operazione si starebbe riproponendo nella scuola.
Volete la prova che si vuol dir questo a dispetto dei fatti? Nel blog in oggetto, mentre si continua a far finta che il lavoro della nostra commissione abbia riguardato il precariato, l’amministratore ha tentato blandamente di calmare le acque osservando che «i tecnici seguono gli indirizzi politici, non hanno il potere di imporre riforme. Sarebbe come caricare su Marco Biagi la responsabilità della precarizzazione del lavoro. Qualcuno l’ha fatto, ma era un folle terrorista».
La risposta che ha ricevuto è talmente emblematica che non merita commenti (quantomeno per chi conserva un minimo di buona fede): «Ognuno di noi è responsabile di quello che fa. Non esistono tecnici per la dequalificazione della scuola e per terrorizzare decine di migliaia di famiglie. È una scelta politica. In quanto a Biagi certamente è da condannarne l’omicidio ma quando collaborava con il governo avrebbe dovuto chiedersi l’effetto delle sue proposte su una intera generazione di giovani che è incanutita da precaria senza futuro e sull’altra che ne sta seguendo le sorti».
Dunque, non soltanto sono – siamo – ormai bollati come coloro che hanno preso addirittura la decisione politica di terrorizzare decine di migliaia di famiglie, ma l’omicidio di Biagi è condannato con il solito “ma”. La tecnica è quella codificata da Goebbels e che, per esplicita ammissione di Hitler, era stata copiata dai metodi stalinisti: ripetere cento volte la stessa bugia perché diventi una verità, fabbricare un capro espiatorio, additarlo al pubblico ludibrio per isolarlo meglio. Qui, poi, l’operazione torna particolarmente comoda, data la natura ebraica di un soggetto implicato, la quale ha una lunga tradizione di demonizzazione.
In queste ore sono arrivate tante manifestazioni di solidarietà che sono davvero confortanti. Ma fino a un certo punto. Perché a fronte delle chiare prese di posizioni di Fioroni e Buttiglione resiste una zona di silenzio. Talvolta, oltre al silenzio c’è di molto peggio. Così Repubblica ha derubricato la vicenda al fatto che il ministro Gelmini avrebbe colto «un’appetitosa chance offerta da un “cretino”» ed ha aggiunto: «Peccato che lo staff del ministro Gelmini si sia basato sulle agenzie senza neanche visitare il sito». Comica gaffe, perché è proprio Repubblica ad aver riferito una balla: «il vero artefice della riforma è il professor Giorgio Israel, ebreo come lo era Biagi»… A parte il fatto che non risulta che Biagi fosse ebreo, il tenore del messaggio era ben altro: «La Gelmini a questa riforma sta dando solamente il nome e la faccia. In realtà, l’artefice dietro le quinte di essa, il puparo, è l’ebreo Giorgio Israel. Come lo era Biagi, il riformatore della legge del lavoro, come lo è quel nano malefico di Brunetta». E una visita al sito, e ad altri connessi, avrebbe permesso di constatare che c’era anche dell’altro, e che, come abbiamo visto, non cessa di esserci. A che pro un atteggiamento tanto fazioso? In tal modo, si finisce col pagare (e far pagare) un prezzo troppo alto minimizzando una vergognosa e pericolosa demonizzazione, per giunta di stile razzista, solo per conquistare i precari a un’operazione politica.
(Il Giornale, 16 settembre 2009)

E si veda anche il commento sul blog del Gruppo di Firenze



Piccola Posta di Adriano Sofri


Per qualche ragione fortuita mi sono accorto in ritardo della questione sollevata attorno a Giorgio Israel. Ho pensato di recuperare le notizie. Poi ne ho fatto a meno, avendo visto che qualcuno ha detto “l’ebreo Giorgio Israel”. Basta, naturalmente, per chiedere a Israel di considerarmi dalla sua parte a qualunque costo e senza alcuna distinzione.

domenica 13 settembre 2009

ECCO COSA SIGNIFICA OCCUPARSI DI SCUOLA

Occuparsi di scuola in Italia...
Significa veder circolare in rete elucubrazioni teoriche secondo cui il progetto sulla formazione iniziale degli insegnanti elaborato dalla nostra commissione ministeriale è nientemeno che responsabile del precariato...
E farebbe parte di un disegno analogo a quello perseguito da Biagi con la sua legge sul lavoro.
Naturalmente sono delle pure e semplici follie. Il nostro progetto con le questioni del precariato non ha nulla a che vedere e tantomeno con la legge Biagi.
Ma nulla giustifica una simile frase efferata:

La Gelmini a questa riforma sta dando solamente il nome e la faccia. In realtà, l'artefice dietro le quinte di essa, il puparo, è
l'ebreo Giorgio Israel. Come lo era Biagi, il riformatore della legge del lavoro, come lo è quel nano malefico di Brunetta.


Per chi ricorda quale trattamento abbia avuto Biagi penso che non ci siano bisogno di commenti.

Altri chiedono:

Chi è Giorgio Israel che a quanto pare è il vero autore della Riforma Gelmini che sta sconvolgendo la vita a migliaia di famiglie?


E un altro osserva:

Ti è venuto il prurito a leggerne il cognome?

Non trovo nulla da dire.
Soltanto che tutto ciò non è per niente piacevole.

lunedì 7 settembre 2009

LA NOTTE IMPENETRATA

Probabilmente mentre si dorme si sogna sempre ma gran parte dei sogni viene dimenticata, a meno che non si attribuisca importanza al sognare. Sapevo che, rileggendo l’Interpretazione dei sogni di Freud avrei ricominciato a ricordarli, come la prima volta. Ed è successo che, risvegliandomi da un sogno, ho pensato all’articolo sulla coscienza da scrivere sul Foglio. La relazione tra le due cose mi è apparsa presto chiara, mentre per capire il sogno mancano troppi elementi: è noto che interpretare i sogni è difficile, soprattutto se si fa a meno di schemi preconfezionati.
Nel sogno tornavo da chissà quale assenza e di che durata per ritrovare mio padre. Mia madre non c’era; se era assente perché morta anche nel sogno, non era chiaro: nel sogno l’assenza non è mai definitiva. La grande casa ripartita un tempo in uno studio medico e in un’abitazione, era ora divisa in due appartamenti distanti. Nel primo mio padre custodiva in una culla il mio primo figlio ridiventato neonato, ma io, che apparentemente ero venuto per riprenderlo, dovevo cercarlo nell’altro appartamento. Entravo nel portone della casa in cui ho vissuto da bambino gettando uno sguardo nella cassetta delle lettere di cui riconoscevo anche col tatto il legno marrone scuro consunto scorgendovi dei plichi a me indirizzati, tra cui le istruzioni del cellulare che ho comprato da poco, ma non li prelevavo nonostante avessi le chiavi in tasca. Il portiere mi salutava cordialmente, ma era un altro, mai visto. Salivo le scale riconoscendo gradini, piastrelle, pareti con dettagli dimenticati, ed entravo trovandovi mio figlio, ma più grande, forse dell’età di cinque o sei anni, per nulla sorpreso di vedermi, come se ci fossimo incontrati un minuto prima. Il proverbiale disordine di mio padre era evidente nel pavimento delle stanze, cosparso di giocattoli. Erano i miei giocattoli, di quando avevo l’età di mio figlio, giocattoli dimenticati e ora riscoperti uno ad uno, passando di stanza in stanza, mentre al tatto le maniglie di ottone rivelavano forme toccate tanti anni fa e finora del tutto dimenticate, come la maniglia difettosa di quella finestra che era possibile ruotare soltanto con una manovra appropriata. Dietro di me sentivo presente ma invisibile la mia famiglia, con i figli minori divenuti più grandi del maggiore. Mio padre, la persona più di buonumore e più chiacchierona del mondo, a dispetto di tutte le sue traversie, che usava cantare appena sveglio, era silenzioso – non una sola parola – come chiuso in un muto rimprovero di abbandono. Lo sentivo questo muto rimprovero, assieme a quello ancor più pesante legato alla misteriosa assenza di mia madre. Un senso di malinconica impotenza veniva alfine vinto dalla volontà di affrontare il difficile impegno di far rinascere in mio padre il carattere di un tempo e far riemergere mia madre dalla sua assenza. Sono stati il sentimento gioioso del nuovo impegno assunto, e lo stupore per la riscoperta di sensazioni visive e tattili del tutto perdute a causare il mio risveglio. E allora ho pensato alla coscienza…
Perché? Non per il contenuto del sogno la cui interpretazione richiederebbe la conoscenza di troppi altri aspetti. Ma perché mi ha stupito la capacità di recupero della memoria che può manifestarsi nel sogno, a livelli impossibili da sveglio e, al contempo, la sua struttura organizzata così evidente malgrado tante assurdità, i salti logici, spaziali e temporali, la composizione di elementi tratti dalla realtà in un contesto apparentemente caotico ma che contiene una “storia”, delle “idee”, che prendono senso proprio in quel contesto, perché quanto più ci si sforza di ritessere il sogno entro la logica di una storia ordinaria tanto più diventa sfuggente il suo significato.
È naturale pensare alla coscienza, perché nel sonno la coscienza vigile, quella che dirige le azioni e i pensieri da sveglio, è assente o molto attenuata. Ed è naturale pensare alle sue relazioni col cervello o, piuttosto, a quel che fa il cervello in questi stati diversi se – come ha scritto giorni fa un illustre biologo – la coscienza è soltanto “una parte” del cervello, il quale sarebbe “molto di più”, se non altro perché si nutre, ha scambi metabolici.
Il tema fondamentale, la chiave della faccenda è la memoria e i neuroprofessori non la cantano giusta dicendo che tutto è ormai chiaro. Non è chiaro per niente. Anche se ammettiamo che i ricordi siano tutti depositati nel cervello (lasciando da parte il “come”), l’analogia con la memoria di massa di un calcolatore non funziona per niente. Nel calcolatore tutto è registrato in modo evidente ed è sufficiente un’operazione banale per recuperarlo anche nel coacervo più intricato di informazioni. Non così nella memoria umana, in cui la maggior parte dei ricordi è indisponibile e spesso i tentativi di ricostruire un evento passato sono vani. Ma il passato sta tutto lì e preme sulle nostre spalle come uno zaino di cui si conosce in piccola parte il contenuto. Il fatto curioso, ma indubbio, è che la coscienza vigile – l’unica funzione capace di ricercare attivamente i ricordi – quanto più è vigile e attiva tanto più non è interessata a vivere nel passato. Essa seleziona i ricordi in funzione del progetto di vita che ci diamo continuamente, sceglie nel passato ciò che è utile al futuro. E quando si accinge a ricostruire un ricordo perduto non può farlo come un computer, ma deve procedere faticosamente, spesso aiutandosi con la ricostruzione del contesto che sta attorno a quel “buco”, e quindi uscendo dalla memoria in senso stretto; magari finendo col recuperare qualcosa che assomiglia soltanto a quel che cerchiamo, che ne contiene solo dei pezzi; o lo ricostruisce come il brogliaccio di un testo irrimediabilmente perduto. Talvolta tutto dipende da meccanismi di associazione spontanei – come quelli illustrati dalla celebre “madeleine” di Proust – i quali spesso restituiscono il ricordo in forme molto più precise e vivide delle ricostruzioni operate dalla coscienza vigile e attiva.
Ammettiamo che questa coscienza vigile sia una parte del cervello, quella che è inattiva nel sonno. Se i ricordi sono tutti depositati nel cervello, l’attività cerebrale residua dovrebbe permettere che essi riemergano in modo più “libero” – poiché il “controllore” che sceglie in funzione della vita attiva è assente – in modo “puro”, indipendente dal contesto, e del tutto caotico. Ma soltanto in parte è così. Difatti, nel sogno i ricordi riemergono con una precisione sensoriale – tattile, uditiva, visiva, acustica – di precisione irraggiungibile, come tante “madeleine” di Proust; proprio come è accaduto nel mio sogno, riemergere stupefacente di fatti, oggetti e sensazioni irraggiungibili dalla coscienza vigile. Ma non emergono affatto in modo caotico, come i prodotti di una macchina lasciata funzionare sulla base di un programma di produzione stocastica dei ricordi. Nient’affatto. I sogni si sviluppano in base a una logica difficile da penetrare ma indubbiamente presente, non sono quasi mai un coacervo di immagini ma esprimono sempre una “storia” che contiene un senso, come ogni storia, e in cui la coscienza è all’opera anche se in altro modo.
Tutto questo non è nuovo e appartiene alle grandi intuizioni di Freud, anche se forse egli ha avuto il torto di attribuire questi fenomeni fino ad allora trascurati ma decisivi nella vita psichica della persona, a una forma di attività psichica più elementare, legata a forme istintuali e primordiali, anziché a un particolare strato dell’attività cosciente non vigile. Forse il limite più grande è stato nel dare tanta importanza all’interpretazione del sogno e poi ridurre tale interpretazione a schemi fissi che troppi epigoni privi di genio avrebbero usato in modo schematico e povero. È un limite che deriva da un altro: e cioè dal rapporto contraddittorio che Freud ebbe con il modello esplicativo delle scienze esatte, da un lato considerato come un riferimento inalienabile e dall’altro continuamente contraddetto dall’uso di un metodo ermeneutico estraneo al determinismo fisico-matematico. Per questo in Freud è possibile sempre trovare la frase in cui egli prevede che le scienze biologiche forniranno la chiave esplicativa finale dei fenomeni psichici e quella in cui deplora i vincoli che il riduzionismo materialista impone a uno sviluppo pieno dell’analisi della psiche.
A distanza di un secolo quei vincoli sono divenuti sempre più pesanti. Da palla al piede sono diventati una catena: pare che non si possa più dire nulla sulla mente e sulla coscienza se non lo si deriva da proprietà del cervello. E, al contempo, siamo in “surplace”. Ne sappiamo enormemente di più sul cervello, sappiamo tanto dei processi cerebrali che accompagnano gli eventi mentali, non abbiamo fatto un solo passo avanti nella spiegazione di come i processi mentali verrebbero prodotti dal cervello. Se chiedessi a un neuroprofessore una descrizione esatta (scientifica!) di come il cervello abbia prodotto il mio sogno e una deduzione materialistica delle sue immagini, del suo contenuto, del suo significato, non riuscirebbe neppure ad aprire bocca. Mi metterebbe sotto risonanza magnetica per registrare i fenomeni cerebrali che avvengono contestualmente ai miei sogni, fornendomi così interessanti banalità. Come quella che è stata annunziata giorni fa: i buoni sentimenti accendono certe aree del cervello legate a sensazioni di piacere, da cui la “deduzione” che saremmo naturalmente buoni. Chissà cosa si accende nel cervello di quel delinquente che ti supera a 200 orari sulla corsia di emergenza facendo le corna.
Nessuno può contestare che «quando penso qualcosa accade nel mio cervello» (Ricoeur), ma «se il soprabito è appeso al chiodo la forma del chiodo non dice nulla circa quella del soprabito» (Bergson). Se ancora siamo qui a constatare la forza di queste obiezioni non è forse perché, come è abusivo dedurre le proprietà della materia da quelle dello spirito è altrettanto abusivo il procedimento inverso?
È sufficiente percorrere i tentativi di riduzionismo materialistico per rendersi conto dei loro vizi di origine. Per esempio, Jean-Pierre Changeux si propone di demolire le tesi bergsoniane mostrando che mentre una persona acquisisce l’idea che due forme geometriche diversamente poste sono congruenti attraverso un procedimento di rotazione, un processo parallelo accade nell’ambito neuronale. Ma in tal modo, mentre non dimostra affatto come si costruisca effettivamente la rappresentazione di un oggetto geometrico nel cervello, dimostra una delle tesi centrali bergsoniane… e cioè che gli stati cerebrali descrivono soltanto gli aspetti locomotori dell’attività mentale. È come assistere all’andirivieni degli attori sulla scena di una commedia senza udire una sola parola di quel che dicono. E difatti tutte queste analisi cerebrali toccano soltanto gli aspetti geometrico-meccanici e non sfiorano minimamente la dimensione del significato.
Un altro esempio è dato da certe ricerche sui processi di decisione. Si da per dimostrato che i mutamenti cerebrali associati a una decisione precedano di un intervallo temporale sia pur minimo la presa concreta della decisione. In questo caso, come in casi analoghi, si confronta un processo fisico che accade nel cervello, misurato con apparecchi fisici, con un resoconto verbale. Con quale rigore scientifico si possono confrontare fenomeni di natura tanto diversa, l’uno che si svolge nel tempo fisico-matematico formalizzato, l’altro che è irrevocabilmente legato a una testimonianza verbale e si svolge nel tempo psicologico, nella durata?
Al neuroprofessore che sentenzia che la coscienza è una parte del cervello si può contrapporre con non minore fondatezza che lo stato psicologico deborda il fatto cerebrale da ogni lato. E anzi, allo stato dei fatti, con maggiore fondatezza, perché l’analisi cerebrale non è in grado di restituirci nulla dei processi mentali, se non gli aspetti meramente locomotori e spaziali che li accompagnano, nulla dei contenuti e dei significati di cui sono pieni.
Peraltro l’idea secondo cui soltanto i fatti materiali hanno carattere di realtà è contraria al più elementare buon senso. Al contrario, «l’esistenza di cui siamo più certi e che conosciamo meglio è incontestabilmente la nostra, perché di tutti gli altri oggetti abbiamo nozioni che possono essere giudicate esteriori o superficiali, mentre percepiamo noi stessi interiormente, profondamente» (Bergson). Dell’esistenza di ogni oggetto che non mi è direttamente presente posso credere per testimonianza, per induzione o per altri motivi, comunque indiretti, mentre la coscienza non mi abbandona mai, neppure per un istante. Nessuno può dare una prova dell’assenza di coscienza.
Ecco perché non ho voglia né tempo di attendere la consumazione dei secoli fino a che i neuroprofessori scrivano in formule di biochimica molecolare i processi della coscienza. Non ho interesse a esplorare la mia coscienza, vigile e non, fatta di pensieri, di concetti e di sogni, con questi pallidi balbettamenti anziché con i mezzi offerti dalla psicologia, dalla letteratura, dall’arte, dalla musica, che di certo dicono molto di più su quel che abbiamo dentro di noi di quattro accensioni e spegnimenti neuronali.
Dicevamo della musica. Nella Recherche di Proust, Charles Swann ascolta la “petite phrase” della sonata per violino e pianoforte di Vinteuil e si rende conto che è composta soltanto di cinque note, ma che quel che conta è il richiamo costante di due fra di esse e la loro piccola distanza: «Il campo aperto davanti al musicista non è una meschina gamma di sette note, ma una gamma incommensurabile, quasi tutta sconosciuta per intero, dove soltanto, qua e là, separate da spesse tenebre inesplorate, alcuni dei milioni di accenti di tenerezza, di passione, di coraggio, di serenità che la compongono, ciascuno altrettanto diverso dagli altri di quanto lo è un universo da un altro universo, sono stati scoperti da alcuni grandi artisti che ci rendono il servizio, risvegliando in noi ciò che corrisponde al tema che hanno trovato, di mostrarci quale ricchezza, quale varietà, nasconde a nostra insaputa questa grande notte impenetrata e scoraggiante della nostra anima che scambiamo con del vuoto e con del nulla».
Notte impenetrata quando volgiamo lo sguardo altrove e che può essere scoraggiante scambiare con il vuoto e il nulla. A meno che, con Azriel di Gerona il kabbalista, non ricordiamo che il nulla è la dimensione di Dio.
(Il Foglio, 2 settembre 2009)

martedì 1 settembre 2009

Il disastro del successo formativo garantito

Il grave fenomeno di impreparazione degli studenti che accedono all’università denunciato da Il Messaggero è noto da anni al mondo universitario, che assiste con sconcerto a un progressivo degrado di cui è, sia pure in misura minore, corresponsabile, per la mediocrità dei processi di formazione degli insegnanti. Si tratta tuttavia di un fenomeno non soltanto italiano che coinvolge tutto il sistema europeo dell’istruzione. È assurdo dire che l’Italia è il fanalino di coda perché nella fascia di età 25-34 anni abbiamo soltanto 15 laureati contro i 38 della Francia e i 31 del Regno Unito. Se mai questo potrebbe essere il segnale che il sistema italiano si difende dal degrado meglio di altri, visto che basterebbe promuovere tutti per essere il fanale di testa… È questo un uso fuorviante dei dati statistici oppure l’ennesimo prezzo alla sciagurata ideologia del “successo formativo garantito”?
Sono numerose le prove del carattere europeo del disastro. Qualche anno fa il matematico Laurent Lafforgue (medaglia Fields, l’equivalente del Nobel per la matematica) fu costretto a dimettersi dal Consiglio Superiore per l’Educazione francese per aver denunciato con forza il degrado dell’insegnamento ed aver deplorato che i rimedi fossero messi in mano a quegli “esperti” scolastici, burocrati e valutatori le cui teorie e pratiche educative erano all’origine del fenomeno. Affermò che era come se un Comitato per i diritti dell’uomo si fosse affidato ai consigli dei khmer rossi. La vicenda non finì così, perché molte altre personalità si sono unite alla battaglia di Lafforgue. Per esempio, la docente dell’Ecole Politechnique Catherine Krafft ha reso nota una ricerca sugli studenti di fisica in termini che ricalcano esattamente la descrizione della nostra situazione: «ortografia difettosa, vocabolario povero e mal impiegato, grammatica quasi ignorata, espressione confusa e caotica, frasi ridondanti ma vuote di contenuto, stile oscuro e pesante, incapacità di decifrare i testi, di capire, di apprezzare». Un appello per la rifondazione della scuola ha chiesto al presidente Sarkozy un radicale intervento di fronte alla «malattia» della scuola che si manifesta non soltanto nei fenomeni descritti dalla Krafft, ma nella «quasi totale sparizione del ragionamento matematico nelle scuole» (stiamo parlando della Francia, una delle potenze mondiali della matematica!) e nella sparizione «dei riferimenti cronologici e geografici essenziali», ovvero nella distruzione della storia e della geografia.
Sono fenomeni facilmente constatabili nella nostra scuola, in particolare nella primaria: dal cattivo insegnamento della matematica – spesso dissolto in fumose chiacchiere sulla logica e la teoria degli insiemi o, per converso, sulla “matematica pratica” – alla sostituzione delle conoscenze di storia e geografia con la costruzione delle “proprie” storie e geografie. A ben vedere, la “frasaccia” sui khmer rossi che costrinse Lafforgue alle dimissioni è assai meno campata in aria di quanto sembri. Quando leggiamo nell’articolo di un ispettore generale francese, Roger-François Gauthier, l’invito a una «lotta militante» (testuale) che in una decina d’anni dovrebbe mandare in soffitta l’istruzione basata sulle conoscenze e le discipline per sostituirla con una fumosa scuola olistica mirante alle “competenze”, viene da chiedersi cosa spinge un funzionario pubblico a tanta arroganza ideologica. In Inghilterra, l’ex direttore dell’Office for Standards in Education ha proposto una riforma delle elementari che riduce le materie a cinque, eliminando quasi del tutto storia e geografia a profitto dello “studio” di blog, di podcast, Wikipedia, Twitter e Facebook e dei correttori ortografici Microsoft al posto della grammatica. Un autentico delirio volto a creare una legione di analfabeti, ignari della storia da cui vengono e del contesto in cui vivono e privi di principi etici. Dove traggono queste persone l’audacia di proporre la distruzione (anziché la riforma, come è giusto, ma con saggezza e prudenza) di secoli di istruzione da cui sono derivati risultati culturali straordinari? È l’alleanza tra un ceto di “esperti” e burocrati e alcune scuole di pedagogia e didattica attorno a una serie di slogan ripetuti pappagallescamente: meglio una testa ben fatta che una testa piena, primato della metodologia sui contenuti, valorizzare le competenze rispetto alle conoscenze, visione “olistica” della cultura e dissoluzione della divisione disciplinare, garanzia del successo formativo, autoapprendimento, e via dicendo.
Tutto ciò sarebbe buffo se non fosse pericoloso. Difatti, la prima critica del nozionismo – e cioè che è più importante saper ragionare che non accumulare nozioni – l’ha formulata Socrate, e non il profeta della nuova istruzione Edgar Morin. Soltanto che la pedagogia intelligente è quella che costruisce il saper ragionare sul materiale vivo e concreto della conoscenza e non mediante la trasmissione di precetti astratti di metodologia pura (la “scienza dei nullatenenti”, come la definiva Lucio Colletti). Le due cose debbono andare strettamente insieme, pena lo sbilanciamento verso due estremizzazioni entrambe perniciose – nozionismo e vacua metodologia – ed ora siamo sbilanciati disastrosamente verso il secondo polo. È assurdo tormentare i bambini delle elementari con gli “indicatori spaziali e temporali” anziché costruire la capacità di dominare lo spazio e il tempo mediante l’acquisizione critica di conoscenze geografiche e storiche. Così come è pura demagogia culturale parlare di “complessità” (una nozione che neppure gli scienziati sanno definire in modo univoco) quando non si ha neppure un’idea delle teorie fisiche “semplici”. Non è possibile contrapporre, e neppure distinguere nettamente, “conoscenze” e “competenze”: del resto, lo sanno bene quegli stessi pedagogisti ed “esperti” che, mentre straparlano di “misurazione delle competenze”, ammettono nei loro congressi che una definizione accettabile di questa nozione è impossibile.
Come Lafforgue e tante menti libere non possiamo accettare passivamente certi slogan – il cui fallimento è peraltro testimoniato dai fatti – soltanto perché sono divenuti il mantra di certi ambienti burocratici comunitari. Non siamo in Europa per mandare i cervelli all’ammasso, ma per valorizzare le migliori tradizioni della nostra cultura.
La ricostruzione di una scuola degna di questo nome richiede un grande lavoro ideale e culturale. Per avviarlo non è possibile aspettare una revisione adeguata delle normative e dei programmi. Occorre che innanzitutto si manifesti l’impegno degli attori principali del sistema dell’istruzione, ovvero degli insegnanti. Occorre che gli insegnanti e i dirigenti scolastici, per quanto e per tanti versi umiliati, ritrovino il senso della loro funzione, così centrale e strategica in una società avanzata; sottraendosi ai tentativi di ridurli a meri “facilitatori” e compilatori di questionari; ritrovando il piacere di trasmettere conoscenze costruendo la capacità di conoscere per la via maestra, che è quella di suscitare la passione di apprendere, la curiosità per quel che non si sa; utilizzando gli strumenti migliori e selezionando tra i libri quelli che mirano a quel fine e non all’affermazione di ideologie didattico-pedagogiche. In fin dei conti, se a qualcosa deve servire l’autonomia scolastica non è ad affermare mediocri autonomie gestionali, ma a promuovere un insegnamento autentico, libero e non asservito all’ideologia. Se questo movimento culturale prenderà forma, la revisione dell’assetto normativo e programmatico ne sarà una conseguenza inevitabile.
(Il Messaggero, 28 agosto 2009)