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lunedì 26 ottobre 2009

Il rischio dell’ora di islam: una società fatta di ghetti



 La discussione sull’ora di religione islamica sta prendendo una brutta piega: quella della confusione. Secondo il senatore Urso l’ipotesi di introdurre l’ora di religione islamica è compatibile con i Concordati del 1929 e del 1984. È vero che, a norma delle intese raggiunte con lo Stato, anche gli ebrei potrebbero avere le loro ore di ebraismo, ma a spese loro. Si continua però a trascurare il fatto che simili intese sono state possibili per l’esistenza di un referente unico – l’Unione delle Comunità Ebraiche – che i musulmani non hanno. Qualcuno pensa di accollare allo Stato il compito di federatore del variegato mondo islamico italiano per darsi un interlocutore? E anche se questa fantasia si avverasse, chi pagherebbe gli insegnanti? Se l’insegnamento fosse a spese della “comunità” islamica non si vede come intervenire nella scelta degli insegnanti, chi ne compilerebbe gli albi. Quantomeno dovrebbero essere create commissioni miste. È facile immaginare quale contenzioso sorgerebbe visto che persino nel caso cattolico la scelta degli insegnanti è di pertinenza del Vicariato. Se invece si decidesse di finanziare gli insegnanti di religione islamica, si creerebbe una inaccettabile disparità con le altre religioni.
Già queste questioni formali mostrano in quale ginepraio ci si sta muovendo disinvoltamente. Poi c’è la questione dei numeri, su cui pure si sorvola e che pone un problema di sostanza pesante come un macigno. Sono i numeri a rendere virtuale il diritto degli ebrei alla loro ora di religione. Anche se il numero dei musulmani in Italia è cresciuto si tratta comunque di una minoranza stretta, distribuita in modo non uniforme, senza contare che non sappiamo quanti di loro sono interessati all’insegnamento religioso. Si pensa di costituire classi di una o due alunni? Quanti insegnanti sarebbero necessari? Oppure si pensa di procedere a un accorpamento dei musulmani in classi in cui siano più numerosi? Ma si è già visto a cosa portino simili concentrazioni. Chi pensa di andare in questa direzione gioca col fuoco del comunitarismo, ovvero della frantumazione della società in gruppi separati. Un’autentica follia.
Poi ci sono le vere questioni di sostanza. Ora, piaccia o non piaccia, non esistono esempi di società dotate di una minima capacità di aggregazione che non abbiano una cultura dominante, il che non significa (o non deve significare) prevaricante. Molti paesi europei sono a cultura cattolica prevalente, altri sono a cultura protestante, la costituzione degli Stati Uniti (il paese “multiculturale” per eccellenza) riflette chiaramente una precisa visione religiosa, Israele ha una cultura ebraica dominante, e persino la città di Salonicco – da cui venne la mia famiglia – aveva una cultura dominante ebraica e quando la perse si dissolse come esperienza originale. Mi sono permesso di avanzare su questo giornale la tesi che sarebbe bene rafforzare, attraverso un ripensamento dell’insegnamento della religione a scuola, le radici giudaico-cristiane caratterizzzanti la cultura storica del nostro paese. Sono consapevole che questo è molto chiedere, ma ora constato che traballa anche la proposta più pragmatica: e cioè che, constatando che il 90% per cento degli alunni ancora frequenta l’ora di religione cattolica, è opportuno non mettere in discussione questa istituzione in quanto espressione di una perdurante religiosità di maggioranza che esprime un fattore identitario prevalente nella comunità nazionale.
Pare che anche diverse autorità del mondo cattolico siano poco convinte di questo. Siamo sinceri. Trovo che abbia ragione Alberto Melloni sul Corriere della Sera a denunciare i limiti dell’ora di religione «che ha fabbricato più agnostici della scuola brezneviana». Aggiungo che ciò deriva anche dal suo carattere equivoco: non un’ora di cultura, ma, si dice, neppure di catechesi. Però è confessionale, altrimenti non sarebbe gestita dalla Chiesa. Il risultato è che, da un lato, continua ad essere prevaricatoria nei confronti degli alunni di altre religioni – anche per le pretese di collocazione in orari centrali; dall’altro, trasmette – anche per il livello di certi insegnanti che nulla sanno di religione e teologia – una religiosità “debole”, e spesso un pasticciato sociologismo buonista o addirittura postcomunista. Proprio per questo a me pare che l’unica soluzione, per quanto difficile, sia quella di un radicale ripensamento dell’ora di religione. Ma, a quanto pare, il fronte della discussione è molto più arretrato. Qui pare che si profili uno strano compromesso tra l’accanita difesa dell’istituzione “ora di religione cattolica” nelle forme attuali, e la concessione di uno spazio analogo alla religione islamica. Insomma, l’orizzonte diventa davvero il comunitarismo, anche se per il momento ci si arrocca, senza entusiasmo né speranze, sulla linea di resistenza di una maggioranza declinante. Se la vedranno i nostri figli o nipoti. Sembra che alcuni cattolici non vedano che su questa linea si schierano anche settori laicisti che sembrano accettare l’idea dell’ora islamica più come ariete contro il primato dell’ora di religione cattolica che per autentica convinzione.
Se questa è la linea che si profila è evidente che essa non può essere accettata passivamente da chi ha a cuore la sopravvivenza, ed anzi la rivitalizzazione su idealità rinnovate e ripensate, dei fondamenti della nostra civiltà – il che non è retorica passatista o arroccamento, ma la volontà di promuovere e sviluppare una visione della società che è stata costruita nei secoli sulla base di una concezione della vita associata radicata nell’etica e nella morale ebraico-cristiana. Fatte salve le differenze teologiche e di pratica religiosa è questo il terreno comune su cui si sono costruiti, attraverso tanti sacrifici i diritti della persona. In questo contesto può trovare posto la presenza musulmana, con l’esclusione però tassativa che si creino zone separate dominate da leggi e regole diverse. L’idea di una società divisa in zone cattoliche, ghetti ebraici e quartieri sotto la giurisdizione della sharia fa rabbridividire. Se questa fosse la tendenza – come fanno temere certi commenti confusi e apatici – e la scuola ne fosse il primo laboratorio, allora la risposta non potrà che essere rigorosamente laica: nessuna ora di religione a scuola, di alcun tipo, ed eventualmente un’ora di storia delle religioni, però tenuta da insegnanti diplomati con un’apposita laurea magistrale e abilitati in una classe ideata allo scopo. Se la tendenza fosse al cedimento verso la società comunitarista, allora questa sarebbe la sola possibile linea di resistenza, la quale potrebbe riscuotere molti più consensi di quanto si pensi. È questo che si vuole?


(Il Giornale, 22 ottobre 2009)

giovedì 22 ottobre 2009

Se chiamare l’altro “ebreo” diventa usanza comune

In alcuni spiacevoli episodi che mi hanno riguardato, molti hanno fatto ricorso, sui media e in rete, a espressioni di quel tipo. I malevoli le hanno usate per disprezzo, ma altri le hanno ripetute in buona fede, come se fosse normalel

Ricordiamo tutti cosa successe quando Berlusconi definì il presidente Obama «bello e abbronzato»: la fine del mondo. Se avesse usato l’espressione «il nero Obama» sarebbe intervenuto il Consiglio di sicurezza dell’Onu e, se avesse usato l’espressione «il negro Obama», le truppe dell’Onu lo avebbero deportato sull’isola di Sant’Elena. A parte gli scherzi sull’Onu, nessuno può contestare che le due ultime espressioni siano rispettivamente sconveniente ed estremamente sconveniente, diciamo pure razziste.
È legittimo che un africano, motu proprio, dichiari la propria “negritudine” nel senso in cui la intendeva Leopold Senghor: l’insieme dei valori culturali africani. Ma se un altro appiccica l’epiteto a una persona, che magari neppure sa chi sia e cosa pensi, non sta facendo altro che indicare provocatoriamente la sua “razza”. Non è una cosa diversa dire «l’ebreo Tal dei tali». Non credo che il direttore di Tempi apprezzerebbe una lettera che suonasse così: «Non concordo con la tesi esposta su questo periodico dall’ebreo Yasha Reibman». In questi tempi, la riscrittura di un libro sul razzismo fascista mi porta a rileggere documenti di quel periodo: allora era usuale dire «l’ebreo Einstein», «l’ebreo Volterra», «l’ebreo Momigliano». Ma si trattava, per l’appunto, di un linguaggio volutamente razzista, in cui l’indicazione dell’ebraicità era priva di relazione col tema (la fisica di Einstein o la matematica di Volterra) e mirava a indicare: «Quel signore fa parte di quella razza…».
Dire «l’ebreo Einstein» senza alcun motivo non è meno grave che dire «il negro Obama». Nel primo caso manca persino il pretesto di riferirsi a un dato evidente come il colore della pelle. Che gli ebrei abbiano il naso adunco o le labbra spesse è un luogo comune razzista. Racconto un episodio. Mio padre – certamente di “pura razza ebraica” almeno dal Quattrocento – quando era assistente di biologia fu presentato a un noto professore lombrosiano. Gli amici del professore, per stuzzicarlo, lo invitarono a indovinare di quale origine fosse mio padre, che veniva dall’Oriente. Quello lo squadrò davanti e di profilo, di sopra e di sotto e proclamò deciso: «Razza araboide»… Allora un ebreo si identifica dal cognome? Il mio è quasi una bandiera. Eppure mi capita di incontrare persone che credono che io sia cristiano, magari perché ho apprezzato un discorso di Benedetto XVI oppure perché – è accaduto giorni fa – Israel è un nome sacro per un cristiano…
E poi si può essere ebrei per ragioni religiose, per un legame con un’antica identità nazionale (da cui è nato il sionismo), per un legame culturale o soltanto per un legame sentimentale con lontane ascendenze. Si dice che vi sono mille modi di essere ebrei. Spetta al soggetto decidere se identificarsi e dichiararsi in un certo modo; non ad altri, tantomeno usando l’epiteto in un modo che richiama il razzismo di un tragico passato.
Ebbene, alcuni recenti spiacevoli episodi che mi hanno riguardato, su cui non voglio tornare e per i quali ho ricevuto molta solidarietà, hanno lasciato qualcosa di assai spiacevole sul terreno. Si tratta del fatto che molti abbiano fatto ricorso, sui giornali e in rete, a espressioni del tipo «l’ebreo Giorgio Israel», «un ebreo come Giorgio Israel», e via di seguito. I malevoli le hanno usate con tono evidentemente sprezzante, altri le hanno ripetute in buona fede come se fosse del tutto normale.
Ora, chi segue questa rubrica sa che non sono affatto indulgente nei confronti del politicamente corretto. Ma, in coscienza, come si fa a non trovare inquietante che un simile modo di parlare entri nel linguaggio comune?

(Tempi, 22 ottobre 2209)

sabato 17 ottobre 2009

Divulgazione scientifica


La pagina de Il Giornale dedicata alla “neuromania” (13 ottobre) suscita una domanda: a che punto stiamo arrivando – a che punto arrivano certi scienziati – nel presentare la ricerca scientifica al pubblico? Possediamo grandi modelli di divulgazione scientifica, come le esposizioni “popolari” della relatività da parte di Einstein o i libri del matematico Henri Poincaré che, quasi un secolo fa, vendevano centinaia di migliaia di copie. Li risfoglio per convincermi di non sbagliare: non vi trovo nulla che riguardi previsioni fantastiche circa la scienza che verrà. Einstein ha esposto una teoria esistente, non si è mai sognato di profetare cosa sarebbe accaduto dopo trent’anni. Poincaré, nel parlare dei problemi posti dalla teoria dei quanti, conclude dicendo che, allo stato delle cose, dibatterne sarebbe «buttar via l’inchiostro». La scienza insegna a procedere pazientemente, studiando, pensando, approfondendo: il futuro si costruisce man mano così.
Oggi sembra invece che un certo numero di scienziati – e una coorte di divulgatori che li segue a ruota – non trovi di meglio che prevedere il futuro in toni da fantascienza. Che lo faccia un Asimov si può capire, ma lui non pretendeva di fare scienza e almeno era un grande scrittore. Apro un libro appena tradotto – “La guerra dei buchi neri” di Leonard Susskind – e leggo che il futuro della fisica «qualunque esso sia» si chiamerà gravità quantistica. Ma come «qualunque esso sia»? Già, perché «anche senza conoscerne la forma in dettaglio, possiamo dire con sicurezza che il nuovo paradigma conterrà concetti di spazio e tempo molto lontani da quelli a cui siamo abituati». Quali non si sa, ma è “certo” che «l’esistenza oggettiva dei punti nello spazio e degli istanti di tempo sta per uscire di scena, seguendo il destino della simultaneità, del determinismo e della foca monaca». Teniamo a mente questa sentenza di morte del determinismo: ci torneremo. Per ora restiamo esterrefatti a sentire che la scienza presente si basa sull’idea che i punti dello spazio e gli istanti temporali (enti puramente matematici) siano oggettivamente esistenti.
Fantascienza, non scienza, e per giunta esposta con scarso rigore. Dice sempre Susskind che la relatività ci ha costretto a «riprogrammare le nostre reti neurali» e che stiamo andando incontro a una riprogrammazione ancor più radicale. È un modo molto “neuro” di dire che abbiamo cambiato (e cambieremo) modo di pensare. Ma già da molti anni i neurofisiologi avveduti (come Jean-Pierre Changeux) hanno spiegato che l’analogia tra cervello e computer non regge. E allora perché gabellare al volgo con la parola “riprogrammare” un’analogia infondata?
Colpisce soprattutto l’ansia frenetica di parlare del futuro, di fantasticare sui trionfi della scienza che verrà anziché parlare del presente, delle questioni risolte e, soprattutto, dei problemi irrisolti. Non dovrebbe essere questo il vero spirito della scienza? Modestia, pazienza, tenacia, spirito critico, mettere in luce le difficoltà anziché farsi propaganda con il megafono. E siccome è noto che sulle grandi questioni teoriche lasciate aperte dalla fisica della prima metà del Novecento la ricerca annaspa, che la teoria delle stringhe è in crisi, la domanda maligna è: non è che, per caso, questa proiezione fantascientifica è una fuga dal duro presente?
Anche per quel che riguarda le neuroscienze la solfa quotidiana è che esse stanno spiegando “tutto”, che “tra poco” non esisteranno più segreti del funzionamento della mente. Esce un libro sui neuroni a specchio e il suo scopo non è tanto quello di descrivere di che si tratti e quali sono i problemi aperti. No. Lo scopo principale è gettarsi a capofitto a dire che “tra poco sapremo tutto”, che il libero arbitrio è andato in soffitta, e persino a dare prescrizioni sulla riscrittura dell’etica a norma dei neuroni a specchio.
Ma fermiamoci un momento. Non diceva il nostro fisico che ormai il determinismo ha fatto la fine della foca monaca? Il biologo, invece, recupera il relitto buttato via dai fisici e dichiara – come il professor Priori a Il Giornale – che la sua è «indubbiamente» una concezione deterministica, che il cervello spiega benissimo chi siamo, e che questo determinismo può scatenare tutti i dibattiti etici che si vuole ma è un dato di fatto. Insomma, il mondo inanimato non è deterministico e quello della vita lo sarebbe? Assai poco credibile. Ma è davvero chiaro cosa sia il determinismo? In una delle sue accezioni esso implica che, note le condizioni iniziali di un sistema, si sia in grado, almeno in linea di principio, di prevedere in modo esatto la sua evoluzione (futura e passata). Se davvero tramite il cervello si fosse in grado di spiegare chi siamo, allora si dovrebbe poter rispondere alla seguente sfida: dimostrare rigorosamente da quali processi neuronali derivi la frase «non credo un acca di quel che lei dice», deducendone non soltanto la struttura grammaticale e sintattica – il che è già un bel compito – ma anche il significato. In realtà, quel che si sa fare è mostrare che in corrispondenza di certi stati d’animo o pensieri si accende più o meno intensamente questa o quella area neuronale. Ma questo, oltre ad essere un fenomeno rozzamente macroscopico, non esprime alcuna determinazione ma soltanto una correlazione: ovvero, quando succede questo succede anche quello. Chiunque capisce che da una correlazione non discende alcun legame di causa-effetto. Uno scienziato dovrebbe conoscere la capitale differenza tra correlazione e determinazione. Il professor Priori parla di «correlati deterministici», che è un modo ambiguo di forzare il dato che si tratta di correlazioni e niente più. Uno spiritualista potrebbe ben dire che in questa correlazione se vi è qualcosa che determina è l’anima… Il punto da tener presente è questo: cosa sia “determinante” è una questione metafisica. Di conseguenza, non è elegante gabellare la metafisica materialistica per scienza. Studiare cosa accade nel cervello mentre penso è certamente molto interessante e utile. Ma la neuromania – neuroeconomia, neuropsicologia, neuroetica e via neurotizzando – come scienza non ha molto di più di un pugno di mosche in mano, e, in quanto metafisica, non ha altre risorse che presentarsi come fantascienza.
Il problema principale è però il seguente. Parliamo tanto di educare i giovani alla mentalità scientifica e di diffondere la conoscenza scientifica. Una buona divulgazione dovrebbe educare a una visione della ricerca come un’attività paziente, faticosa, spesso costellata di insuccessi, prudente, critica e aliena dalla spettacolarizzazione. Il rischio è che invece di educare i giovani allo spirito scientifico li si addestri a diventare dei piazzisti.
(Il Giornale, 16 ottobre 2009)

martedì 13 ottobre 2009

Progetto culturale



La sfida educativa pensata dalla Cei non è il gioco vuoto dell’apprendere ad apprendere

Problemi bioetici e problemi educativi hanno in comune la questione antropologica. In entrambi i casi tutto dipende dalla concezione dell’uomo: soggetto di libertà o uomo-macchina che agisce secondo procedure determinate? Nel primo caso l’antinomia tra la visione della salute e della malattia in termini meramente materiali e una visione umanistica è di solito evidente e chiara a chiunque. Anche nel secondo caso l’antinomia dovrebbe essere evidente: l’educazione è una mera applicazione di tecniche pedagogico-didattiche o mira alla formazione di una persona capace di porsi domande di senso? Invece, purtroppo, molti di coloro che aderiscono convintamente al secondo punto di vista, poi, quando vengono ai fatti, si adeguano ai più piatti tecnicismi pedagogici. Insomma, sulla questione educativa si manifesta un basso livello di “vigilanza epistemologica”, ovvero una scarsa capacità di tenere lontani quei cavalli di Troia che vanificano anche i propositi più convinti.
Ritengo che il volume “La sfida educativa” (Laterza, 2009) – opera importante del Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana – esprima un livello sorprendentemente elevato di “vigilanza epistemologica”. Questo libro – che spazia su tutti i temi della crisi educativa, famiglia, scuola, impresa, lavoro, consumo, mass media, ecc. – pone al centro la questione antropologica, individuando come fattore primario della crisi educativa la scomposizione dell’umano: scissione tra intelligenza e affettività, riduzione della razionalità alle forme analitiche indotte da una visione positivistica della scienza, divaricazione tra educazione e formazione, rarefazione della domanda di senso. E tuttavia – si osserva – la mera invocazione di parole come “senso”, “persona” e “valori” non vale a esorcizzare una crisi tanto profonda. Bisogna «tornare alla radice umana della capacità educativa», ovvero alla consapevolezza che il punto di partenza dell’educazione è il venire-al-mondo e il suo enigma. L’educazione è la continuazione «di quell’agire con cui i genitori per primi rendono ragione al figlio della promessa che essi gli hanno fatto mettendolo al mondo». Di qui il rapporto indissolubile tra generazione ed educazione. L’educazione è «un esercizio di umanità» che mette in gioco molti attori – il soggetto, la famiglia, la scuola, l’insegnante – ed è quindi un’alleanza tra generazioni. L’educazione ha bisogno di “autorità” e di “tradizione” – deve essere conservatrice, diceva Hannah Arendt – perché solo così può fornire gli strumenti adeguati a rinnovare il mondo. La questione del senso si pone nel rapporto del giovane con l’autorità e la tradizione, nonché attraverso l’acquisizione delle «narrazioni delle grandi tradizioni culturali, religiose, morali e politiche, che hanno proposto sensi unitari dell’esistenza, del mondo e della storia»; e non nella metafora postmoderna del gioco, «inteso come gratuità dell’accadere sgravato da responsabilità e da scopi», da cui discende l’idea dell’autoformazione perché «non si può e non si deve insegnare dove si è diretti, ma solo a vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte».
Non stupisce che da premesse così chiare e forti derivi la netta condanna del modello che divarica educazione e formazione, «in funzione dell’acquisizione di conoscenze, abilità, competenze, coerenti con l’assetto tecnologico del mondo contemporaneo». La critica coraggiosa del modello aziendalista dominato dall’enciclopedismo, il proceduralismo e il metodologismo, riesce a gettare alle ortiche l’insulsa filastrocca delle conoscenze/abilità/competenze da troppi ripetuta a pappagallo senza capire che non esprime altro che un’ideologia tecnocratica. Né stupisce che l’approdo sia una critica della famosa formula dell’«apprendere a apprendere». Ma è inconsueta la chiarezza con cui viene formulata. Si osserva che la sostituzione di un sapere disinteressato volto al progresso della conoscenza con un apprendimento che si confronta con bisogni pratici, e l’ossessione per metodi di valutazione sempre più sofisticati che la identificano con una misurazione – il che, aggiungo, è anche una sciocchezza concettuale – conducono alla complicità tra una ragione che rinuncia alla ricerca dei fondamenti e una tecnologia antoreferenziale. Di qui l’ideologia dell’educazione come «saper fare», come istruzioni a «come fare a». La formula dell’«apprendere a apprendere» è peggio di una mutilazione: è l’idea fuorviante che educare non significa proporre «contenuti, valori, visioni del mondo», insomma cultura, ma puro e semplice addestramento operativo. Essa comporta la deleteria riduzione dell’insegnante a «facilitatore», mentre costui ha la funzione ben più importante di «presentare, attraverso le diverse discipline, riferimenti simbolici e modelli di comportamento che possano essere significativi per la vita dei giovani».
Queste coraggiose affermazioni fanno del libro uno dei documenti più incisivi e costruttivi che siano stati prodotti di recente sulla questione educativa. Non vi è qui lo spazio per diffondersi sull’analisi dei contesti specifici. Sono temi tanto vasti e complessi che sarebbe troppo pretendere che la «vigilanza epistemologica» non abbia qualche cedimento. Così, di quando in quando, riemergono le famigerate conoscenze/abilità/ competenze e si riaffaccia un gergo didattichese di stile euroburocratico. È ben nota la solerzia con cui l’ideologia di Bruxelles spazza via ogni minima concessione a visioni antropologiche del tipo di quelle sostenute nel libro. Proprio per questo sarebbe stata auspicabile una maggiore attenzione a non lasciar spazio ad approcci contraddittori. Perché prendere per buona la formula dell’“education”, che è un’esemplare applicazione della riduzione tecnicistica dell’educazione? Sarebbe stato anche bene non prendere per oro colato certe statistiche sulla condizione dell’istruzione, anch’esse ispirate a metodi assai discutibili.
Concludo con una questione di grande importanza: la scienza. Se al libro è sottesa l’idea che l’approccio tecnicistico all’educazione distrugge una visione umanistica, se con tanta chiarezza si critica la mutilazione positivistica della ragione, non si può eludere il problema di come insegnare le scienze. Né è possibile risolverlo dicendo che le scienze sono educative in quanto conducono alla questione della “verità” attraverso l’esame della «corrispondenza delle loro affermazioni con una “realtà” che non dipende da noi». È comprensibile il timore di esporsi all’accusa di una “riapertura del processo a Galileo”, ma accettare un realismo oggettivista ingenuo e non porre il problema di una tecnoscienza che esprime pura volontà di potenza e nessuna aspirazione alla verità, inficia la forza del discorso. Nessuna educazione alla verità è compatibile con l’elusione del tema del “senso” di ciò che la scienza persegue. Affrontare la questione della scienza – dai suoi aspetti concettuali alle implicazioni concrete sull’istruzione (quali relazioni occorre stabilire tra insegnamento della scienza e della filosofia?) – è un’esigenza che discende proprio dalle tesi proposte in questo libro importante.


(Il Foglio, 13 ottobre 2009)

domenica 11 ottobre 2009

Immigrati e cittadinanza

Sono figlio di un immigrato. Potrei mai nutrire un’ostilità pregiudiziale nei confronti degli immigrati e dell’opportunità che possano conseguire la cittadinanza? Mio padre proveniva dall’Impero Ottomano che non riconosceva lo status di cittadini agli ebrei, ma soltanto quello di “protetti”. Egli non aveva quindi un vero passaporto ma soltanto un permesso d’ingresso per venire a frequentare l’università in Italia. Quando decise di chiedere la cittadinanza italiana – perché un incendio (probabilmente doloso) aveva distrutto il quartiere ebraico di Salonicco – vi furono serie difficoltà, in quanto non possedeva una nazionalità di origine. Furono superate da una dichiarazione del console portoghese di Salonicco che attestò l’esistenza di un documento presso quel consolato secondo il quale la famiglia di mio padre era giunta dal Portogallo nel 1493, e quindi la nazionalità di origine era portoghese. Superati questi ostacoli e ottenuta la nazionalità italiana, dopo pochi anni gli fu tolta, nel 1938, con le leggi razziali. Per otto anni, fino al 1945 quando tornò nei suoi diritti, mio padre si aggirò con un sinistro passaporto rosso barrato di nero che attestava la sua qualità di apolide. Malgrado queste vicissitudini, era fiero di essere italiano, di conoscere la lingua in modo perfetto, di aver fatto il servizio militare, e quando si prospettò per me l’opportunità di frequentare la scuola francese decise per il no, ritenendo che dovessi essere perfettamente integrato. Penso che una delle cose che più lo ferì fu la lettera con cui le autorità fasciste gli intimavano di restituire il tesserino di ufficiale medico in congedo, in quanto di “razza ebraica”. Da mio padre ho sempre sentito espressioni di grande affetto per l’Italia, per le sua bellezze naturali e artistiche, per la sua cultura, per la sensibilità e intelligenza dei suoi abitanti. Lui, ebreo, seppe inserire la sua identità religiosa e le sue radici culturali in quelle italiane, in particolare riuscendo a stabilire un dialogo profondo con il mondo cristiano.
Perché racconto tutte queste cose? Perché sono fermamente convinto – e la mia vicenda familiare ha rafforzato in me questa convinzione – che l’acquisizione della cittadinanza di un paese deve corrispondere a un autentico desiderio di integrarsi nella cultura, nelle tradizioni e nei modi di vita di quel paese, sia pure portandovi la propria eredità culturale, le proprie esperienze e la propria sensibilità, il che può costituire un arricchimento se, appunto, avviene all’interno di un’accettazione profonda e sentita. Trovo pertanto avventate e superficiali certe proposte volte a semplificare le modalità di conferimento della cittadinanza. Esse non tengono conto della realtà, e cioè che, da un lato, ci troviamo in una situazione di indebolimento del senso di identità nazionale e dei suoi fondamenti culturali e, dall’altro, siamo in presenza di masse di persone che non hanno alcun interesse a integrarsi. Al contrario, esse vogliono occupare spazi in cui gestire la propria “diversità” in totale e anche aggressiva autonomia. Il vero problema è rappresentato dal tentativo di introdurre modi di vita radicalmente conflittuali con la concezione dei diritti civili e della persona che sono stati conquistati con tanta fatica nelle società occidentali, e addirittura di volerli difendere legittimando una giuridisdizione parallela basata sulla sharia. Non sono ipotesi: basti guardare a quel che accade in Olanda o in Gran Bretagna. Affrontare demagogicamente il problema della cittadinanza è la via maestra per aprire conflitti di portata drammatica e sgretolare il tessuto della convivenza civile.
(Tempi, 8 ottobre 2009)

lunedì 5 ottobre 2009

Fareste educare i vostri figli da gente simile?


E tanto di cappello a Napolitano, uno dei migliori Presidenti della Repubblica che abbiamo avuto


La maestra resiste imperterrita alle richieste dei genitori di far indossare ai bambini il grembiule. È una questione di ordine, di pulizia, di omogeneità nel vestire, di decoro… Gli argomenti passano come acqua sul vetro. Il rifiuto poggia su obiezioni di questo peso: il grembiule si impiglia nella sedia quando i bambini si alzano… Allora tanto vale mandarli a scuola nudi. Sorriso-smorfia cui segue una lunga lamentazione sulla maestra compresente che non c’è più e sulla disgrazia del maestro unico. Nella stessa classe – è un esempio, le testimonianze di questo tipo si ripetono – la maestra rifiuta il minuto di silenzio nel giorno dei funerali dei soldati uccisi a Kabul. «Sono troppo piccoli. Non capiscono, non capirebbero». Non ci crede neanche lei. Forse non ha capito il piccolo Simone Valente, anche se è stato giustissimo portarlo al funerale e mettergli in testa il basco del padre: un giorno, quando rivedrà quella foto, avrà una stretta di commozione e di amore al pensiero del padre e un moto di riconoscenza per chi gli ha lasciato quel ricordo prezioso. Forse non capisce un bambino di due anni, ma uno di sei, sette, otto anni capisce perfettamente. Non ho forse capito tutto io, alla morte di mia nonna – la prima morte che conobbi – all’età di sei anni? E non ho avuto presto, molto presto, una risposta alla domanda del perché la mia famiglia paterna fosse tanto vuota? Molto presto ho saputo dello sterminio che l’aveva fatta sparire. Non è stato affatto un errore. Al contrario. È servito a farmi crescere, a rendermi responsabile, a capire il male e il bene.
Tutti i bambini d’Italia debbono sapere che il padre del piccolo Simone e i suoi cinque colleghi sono morti per tutti noi, facendo il loro dovere da persone oneste, da cittadini esemplari, sacrificandosi per la democrazia e per la libertà. Invece, c’è chi vuole che questo non si sappia e neppure si dica. Perché? Semplicemente perché stanno dall’altra parte. Se sono sfrontati dicono che i militari italiani erano «mercenari», oppure che onorarne la memoria è «buttarla in retorica», se sono ipocriti si nascondono dietro scuse di psicologia infantile da strapazzo. Comportarsi così di fronte alla morte – e quale morte! –, avere persino il coraggio di oltraggiarla, schernirla o ignorarla, è una violenza senza pari che solo il fanatismo ideologico può produrre. Tanto più grave se proviene da funzionari pubblici, pronti a rivendicare l’autonomia soltanto quando si tratta di propagandare la propria ideologia. Il peccato veniale di opporsi al grembiule e quello mortale di opporsi al minuto di silenzio sono collegati da due fili rossi: l’essere un funzionario infedele e un’ideologia.
È un’ideologia che ha radici lontane. Un tempo si denigrava il tricolore – infangato dal fascismo e dalla retorica nazionale, si diceva – e gli si offriva come sola salvezza l’accoppiamento con la bandiera rossa. Oggi, che quasi nessuno ha il coraggio di credere alla seconda, si vuole stemperare il tricolore nello stendardo multicolore del pacifismo – quello sì espressione di una retorica bolsa. Il filo rosso di questa ideologia è l’odio di sé, l’idea che noi siamo oppressori imperialisti che debbono far penitenza, che la nostra civiltà fa schifo. Prima si voleva distruggerla rigenerandola con la rivoluzione comunista, oggi si vuole distruggerla consegnandola mani e piedi legati al terrorismo e alla “civiltà” talebana. L’ideologia pacifista si trasforma in spietata indifferenza di fronte alla morte di persone che hanno fatto nobilmente il proprio dovere. È raccapricciante l’idea che i nostri figli possano essere consegnati alle cure di simili “educatori”.
(Tempi, 1 ottobre 2009)

giovedì 1 ottobre 2009

PEANO

Leggo, sia pure in ritardo, della restituzione del premio Peano, attribuitogli nel 2002, da parte di Piergiorgio Odifreddi. La causa? la sua attribuzione a Giorgio Israel, colpevole di "pensiero fondamentalista".
Come pronipote di Giuseppe Peano, propagatore di ideali di tolleranza e creatore di una nuova lingua per la comunicazione internazionale, l'"Interlingua", oltrechè matematico insigne, non posso che esprimere la mia più completa solidarietà al prof. Israel, in totale ed assoluto dissenso dalle affermazioni del mio concittadino Odifreddi.

Cuneo,                                             Gianmichele Peano




Articolo di Michele Emmer su Galileo: "Conflitto matematico?"
http://www.galileonet.it/recensioni/11888/conflitto-matematico

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=260&sez=110&id=31369
http://moked.it/