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sabato 28 novembre 2009

I mille controesempi che falsificano la teoria “matematico quindi contestatore”



È una cosa nota: un grande rischio per chi studia un argomento o scrive su di esso è innamorarsene troppo. È comprensibile che Paolo Giordano, laureato in fisica teorica e autore del romanzo La solitudine dei numeri primi sia appassionato di matematica, ma non dovrebbe esagerare. Sul Corriere della Sera ha commentato la vicenda del giovane studente iraniano Mahmoud Vahidnia – medaglia d’oro alle Olimpiadi di matematica, che, avendo criticato l’ayatollah Khamenei, è stato arrestato – dicendo che i matematici, in quanto avvezzi al ragionamento sono avversari dei dogmi e quindi potenziali dissidenti. «In matematica – dice Giordano – ogni pensiero dogmatico è traballante e illusorio, basta una nuova idea, la cui verità o falsità sarà ineluttabilmente sotto gli occhi di tutti, basta una domanda ben posta, per sgretolarlo in mille pezzi». Secondo Giordano per convincersene basterebbe ripassare il percorso che lega i matematici alla contestazione fin dai tempi remoti: e cita Galileo, Évariste Galois, Laurent Schwartz e Niels Bohr che metteva in guardia contro la bomba atomica. Ma – aggiunge – «un miliardo di casi particolari non fanno una teoria», «affidarsi agli esempi non è un modo soddisfacente di rispondere» e quindi quel che conta è la «spiegazione generale», insomma constatare la natura antidogmatica in sé del pensiero matematico.
Già, ma uno strumento chiave del pensiero matematico è il controesempio. Quando ero studente chiesi a un mio professore, celebre matematico, qualche consiglio per studiare bene. Mi disse: supponga sempre che quel che legge sia falso e cerchi per ogni teorema un controesempio. Insomma, se è vero che un miliardo di casi favorevoli non fanno un teorema, è altrettanto vero che basta un caso sfavorevole a demolirlo. Ora, di controesempi al teorema di Giordano ne esistono a mazzi. A fronte del contestatore Galois vi è l’esempio di un matematico almeno importante quanto lui, Louis-Augustin Cauchy, legittimista monarchico, cattolico conservatore, un “conformista” radicale. A fronte di Niels Bohr c’era Werner Heisenberg che lavorava per realizzare l’atomica nella Germania nazista, Edward Teller negli Stati Uniti e Bruno Pontecorvo nell’Unione Sovietica. I matematici sono naturalmente contestatori dei regimi autoritari insofferenti delle critiche? E allora chi era Ludwig Bieberbach, matematico filonazista, alfiere della cosiddetta “matematica tedesca” e accanito antisemita? Sulla sua rivista Deutsche Mathematik si pubblicavano articoli di ricerca e di razzismo. Vi scriveva Oswald Teichmüller, oggi considerato un genio matematico, i cui “spazi di Teichmüller” sono uno concetto importante della moderna geometria. Egli era membro delle SA (Sturmabteilung), nazista estremo, violento antisemita, e pubblicava articoli di matematica persino sull’organo ufficiale del partito nazista.
Se poi andiamo al caso italiano, i matematici fascisti servili nei confronti del regime furono la norma. Accettarono con giubilo le leggi razziali, persino con una nota ufficiale unanimemente votata dal Consiglio scientifico dell’Unione Matematica Italiana.  Poi quando cadde il fascismo i più importanti tra loro diedero prova della loro libertà di pensiero precipitandosi a scrivere libri su “scienza e fede” o rifugiandosi sotto le ali protettive del Partito comunista.
Perciò lasciamo perdere i teoremi suggeriti dall’entusiasmo. La matematica di per sé non sviluppa né l’anticonformismo, né lo spirito critico, né il senso democratico, né la tolleranza. Per converso, si può essere anticonformista, democratico, tollerante e dotato di spirito critico ed essere una perfetta capra in matematica.


Tempi, 18 novembre 2009

sabato 21 novembre 2009

L’ultima degli “studiosi” targati Olp? Gerusalemme non è mai stata ebraica



Scriveva André Neher che la storia dell’antisemitismo è offuscata dal fatto che essa «non ha in nessun modo eliminato l’antisemitismo dalla storia. Essa continua a drenare nelle sue acque inquinate l’anti mascherato da complementi mutevoli (-giudaismo, -semitismo, -sionismo), ma l’oggetto resta lo stesso: l’uomo ebreo. Anche l’obbiettivo è lo stesso: il suo sterminio. Fin tanto che il “termine” non sarà realizzato, l’antisemita non avrà pace. Non si può trarre alcuna lezione dalla storia se non che i suoi protagonisti dispongono di un guardaroba inesauribile: vi trovano la maschera appropriata all’hic et nunc del loro folle ruolo» (Hanno ritrovato la loro anima, Marietti, 2006).

Questa osservazione ci insegna che non serve fermarsi alla condanna dell’antisemitismo passato, ma la lezione da trarre dalla sua storia è che occorre sempre vigilare per identificare il nuovo guardaroba con cui si riveste l’antico folle proposito. È questo che – lo ripeterò fino alla noia – rende inefficace e ritualistica la Giornata della memoria, se vi si parla soltanto di quel che hanno subìto gli ebrei morti e mai delle minacce che sovrastano gli ebrei viventi. Né basta deprecare e condannare il negazionismo della Shoah, ovvero i tentativi di “dimostrare” che lo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti non c’è mai stato. C’è un “nuovo” negazionismo, ancora più devastante, che si sta diffondendo con l’aiuto dell’ignoranza storica. Si tratta della tesi secondo cui gli ebrei in Terra Santa non ci sono mai stati e quindi non hanno alcun legame con quella terra; inoltre, che Gerusalemme non ha nulla di ebraico, per il semplice motivo che quella città gli ebrei non l’hanno mai abitata.

Lo spunto fu dato da Yasser Arafat durante la conferenza di Camp David del 2002. Disse che l’esistenza di un tempio ebraico a Gerusalemme era un’invenzione storica, che la città era sempre stata musulmana e mai un’ebreo vi aveva messo piede. Fu bloccato fermamente da Bill Clinton ma l’idea era lanciata e da quel momento ha iniziato a circolare. In questi ultimi tempi dilaga. Le autorità islamiche del Monte del Tempio hanno preso a ripetere lo slogan. Altrettanto fa Hamas e il suo leader Khaled Meshaal ha dichiarato che Israele non ha alcun diritto su Gerusalemme che appartiene storicamente soltanto agli arabi, cristiani o musulmani che siano. Abu Mazen, che ha un vecchio passato di negazionista (fece una tesi di dottorato negazionista in Unione Sovietica) non è stato da meno, lasciando che alla televisione palestinese di al Fatah (al Filistiniya) un membro esecutivo dell’Olp, Saleh Rafat, affermasse che un Tempio ebraico a Gerusalemme non è mai esistito. Per parte sua, lo “storico” palestinese e funzionario dell’Olp Nabil Alqam ha ripetuto in televisione questa tesi affermando che la storia ebraica in Terra Santa è tutta inventata. L’ha sostituita con cinquemila anni di storia palestinese…

Il Muro Occidentale, detto del Pianto? Quattro pietre di sostegno del terrapieno delle Moschee. I bagni rituali venuti fuori dagli scavi? Li avranno fabbricati gli israeliani. La Bibbia? Un cumulo di favole inventate e compilate dai Savi di Sion, quelli dei Protocolli. Le legioni romane che distrussero il Tempio? Erano comparse sioniste travestite da soldati romani che allestirono una sceneggiata. L’arco di Tito lo fabbricarono, senza alcun dubbio, dei falsari del ghetto.

Basta così. Sarebbe da ridere se non fosse una cosa seria, perché c’è pure chi è disposto a crederci. Sono infamie che meriterebbero una risposta ferma incluso un rinvio al mittente dell’untuosa “avance” di Meshaal nei confronti dei cristiani.


http://www.tempi.it/opinioni/008031-l-ultima-degli-studiosi-targati-olp-gerusalemme-non-mai-stata-ebraica

mercoledì 18 novembre 2009

La scuola delle «competenze» demenziali



Sulla pagina web del mio corso universitario una mano pia ha aggiunto: Modalità di erogazione: convenzionale. Cosa sono io? Una una pompa di benzina, un gasometro, un elettrodotto? In realtà, chi ha fatto quell’aggiunta non poteva agire diversamente perché si tratta di norme imposte dalla “trasparenza” e l’università deve piegarsi a queste normative burocratiche per quanto offensive per la cultura. E bisogna anche subire quel “convenzionale”. Pazienza se si fosse detto “tradizionale”; ma convenzionale significa «stabilito per convenzione, per accordo». Quale sarebbe qui la “convenzione”?
Il linguaggio demenzial-burocratico è anche cinghia di trasmissione della trinità che scende dall’empireo pedagogico: «conoscenze/competenze/abilità». Non chiedete all’empireo una definizione esatta della trinità: non ve la saprà dare e non esiste un accordo su di essa, sebbene sia un luogo comune anche a livello comunitario. Ma questo non vuol dir niente: di baggianate europeiste siamo sommersi. I poveri docenti che tentano di mettersi in regola in tempo non si raccapezzano. Passi per le conoscenze: ad esempio, conoscere le equazioni di secondo grado. Passi pure per le abilità: saperle risolvere. Ma molti confondono le abilità con le competenze e dicono che il loro corso farà acquisire la conoscenza del tal concetto nel senso di «comprenderne il significato» e la competenza nel senso di saperlo «usare». E sbagliano, perché questa è l’abilità mentre la competenza è qualcosa di più, come la comprovata capacità di usare conoscenze e abilità metodologiche, personali, relazionali e anche affettive per risolvere problemi, affrontare situazioni. Insomma la competenza sarebbe l’agire personale basato su conoscenze e abilità.
A cosa servono questi marchingegni? A battere il nozionismo, si dice. Perché chi si ferma alle conoscenze non è detto che sappia usarle e tantomeno metterle in opera “abilmente” per risolvere problemi e affrontare situazioni. In realtà, sono temi chiari dai tempi di Socrate, senza bisogno di ricorrere a simili esplosioni definitorie. È da sempre nella tradizione della matematica e della fisica – e anche di tante discipline umanistiche come quelle filologiche – la consapevolezza che conoscere concetti non vuol dir niente se non si sa farne uso fino a riuscire a metterli in opera per risolvere problemi complicati. Nelle celebri prove di ammissione alla École Politechnique parigina non si facevano certo interrogazioni di nozioni ma si proponevano difficili problemi che vagliavano le effettive capacità del candidato. Insomma, si è sempre detto e ripetuto che conoscere “a pappagallo” nozioni non serve a niente e che chi resta a questo livello è un incapace. Edgar Morin si è reso famoso con la frase secondo cui «è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena», che però risale a Montaigne. Fin qui non siamo alla scoperta dell’ombrello ma a quella dell’acqua calda. Secondo certi “teorici” il mondo finora è stato popolato di idioti e la capacità di formare gente colta e capace è nata con loro. Tutto il sapere che ci è stato consegnato è deficiente perché costruito da gente che non sapeva cosa sono le “competenze”.
Il problema è che il fatale trittico non è solo inutile, ma conduce a risultati disastrosi perché codifica una separazione a tre livelli; come se esistessero situazioni accettabili in cui uno possiede conoscenze ma non sa farne uso, oppure sa farne uso ma si blocca di fronte a un problema. È una distinzione che svilisce l’idea di conoscenza che è sempre stata pensata come inclusiva dei tre aspetti (giustamente mai distinti) e da valutare complessivamente. Distinguendo si introduce l’idea assurda che l’acquisizione assolutamente passiva di concetti sia una forma di conoscenza. Insomma, uno che conosca a menadito tutte le regole della “consecutio temporum” avrebbe un’ottima conoscenza del latino ma, essendo totalmente incapace di applicarle, non avrebbe competenze e abilità. In realtà, quella persona è semplicemente un ignorante crasso. Non potrebbe darsi un esempio più clamoroso della definizione di Hannah Arendt di certe teorie pedagogiche: «un incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità».
Il guaio è che questa insensata logomachia contiene un’idea ancor più insensata e cioè che, mentre le conoscenze non si possono misurare, le competenze sarebbero misurabili, il che consentirebbe di introdurre la “certificazione delle competenze” a scuola. In verità, gli “esperti” ammettono candidamente: 1) che esistono innumerevoli definizioni di competenze, 2) che misurare le competenze è praticamente impossibile. Alla fine degli anni novanta si riunì una commissione mondiale per stabilire una definizione di competenza: ne vennero proposte a centinaia e non si venne a capo di nulla. Tra queste vi sono le definizioni forti – che tengono conto dei fattori affettivi e motivazionali, manifestamente non misurabili – e quelle deboli – che si confondono con le abilità – le quali forse si prestano a vaghissime misurazioni. Inutile dire che si trascura il fatto – omissione inammissibile per chi abbia una minima cognizione di metodologia scientifica – che per parlare di misurazione bisognerebbe introdurre un’unità di misura. Unità di misura delle competenze? Non facciamo ridere.
Il problema è che la legge 169/2008 e il decreto legislativo 59/2004 impongono che al termine della scuola primaria e secondaria di primo grado si rilasci allo studente la certificazione delle competenze. Finora, tutti i ministri hanno schivato l’incubo proprio perché non si sa come dare una definizione sensata di competenza. Ma l’obbligo incombe, anche perché “l’Europa lo chiede”, assieme all’introduzione della paletta di metallo per la pizza. Da un paio di anni le scuole hanno sperimentato l’improba certificazione in ottemperanza a una circolare ministeriale, costruendosi propri modelli. Presentiamo ai lettori uno di questi modelli, circolante in alcune scuole. Come si vede, l’unità di misura delle competenze è il numero delle caselle barrate… Ogni commento è inutile, per rispetto dell’intelligenza dei lettori. Mi limito a quello di un professore: «è l’annichilimento dell’autonomia professionale del docente da parte dei nemici giurati del buon senso».
Come potrà mai il ministero produrre un modello sensato per regolare una materia intrinsecamente insensata? L’unico consiglio che si potrebbe dare ai ministri Gelmini e (per la semplificazione) Calderoli sarebbe di avviare l’abrogazione secca delle disposizioni legislative sulla “certificazione delle competenze”.


(Il Giornale, 15 novembre 2009)





mercoledì 11 novembre 2009

ALCUNI COMMENTI AI COMMENTI AGLI ULTIMI DUE POST-ARTICOLI



Ogni tanto vado a navigare un poco per leggere qualche commento a quello che scrivo.
Poco, s'intende, perché non desidero perdere troppo tempo in questa attività e perché mai mi metterei a rispondere uno per uno a tutti i commenti che si possono trovare in giro.
Ma di tanto in tanto è istruttivo cercare di capire come viene recepito quel che scrivi, soprattutto come viene recepito da chi non è d'accordo.
Ho raccolto qualcuno dei commenti più cattivi per fare qualche riflessione in merito.
Naturalmente, è facile trovare sul mio conto le solite sparate antisemite. Come altrimenti chiamare il fatto che uno la butti subito sull"ebreo"? Per esempio, dicendo che «i cognomi non mentono mai (o poche volte) "nomen homen" [sic]», e che «sono sempre più evidenti i legami tra servizi e sionismo», poiché «il primo compito del sionismo è infiltrare lo stato tramite le massonerie». Pare che il fatto che i miei articoli costituiscano una critica di certe azioni della maggioranza vadano interpretati come l'intenzione sionista di «rimuovere Berlusconi e mettercisi loro, così legheremo i nostri destini a quelli di Israele, per disintegrare completamente dal di dentro la principale identità cristiano cattolica che è quella italiana».
Un matto, direte. Già, ma di pazzie del genere ne circolano molte e forse le peggiori sono quelle più “moderate", come quelle di chi mi giudica dal fatto che ho messo un link a Fiamma Nirenstein e a Magdi Allam: «di ebrei reazionari è pieno e non c'è ragione che debbano essere migliori degli altri». Il vero scandalo - pensate un po' - è che un ebreo così sia «un docente». Di docenti "progressisti" e scandalosi ne conosco, in verità, parecchi.
Ma passi ancora. Non mi si dica che non è sintomatico questo: prevedere che il ministro Gelmini accusi i miei critici di «antisemitismo» così si avrebbe «una prova dell'idiozia della ministra» e del fatto che il mio articolo «ridicolo e trasugnante [sic] di bile» è «privo di argomenti».
Già, piacerebbe ma non accadrà…. E perché mai dovrebbe accadere? In un caso il ministro intervenne a dire che chi mi aveva definito come un «fondamentalista sionista» in modo assolutamente pretestuoso, era un antisemita. Ma se uno critica nel merito il mio articolo per i suoi contenuti perché mai si dovrebbe accusare di antisemitismo questa critica?
Certo, che se uno prima prevede che vi sarà un'accusa di antisemitismo nei confronti di chi mi ha criticato e quindi ne ricava la conclusione che io non ho argomenti perché l'unico modo che ho di sostenere le mie tesi è di accusare di antisemitismo chi le critica…. questa persona ha bisogno di una lezione di logica elementare. Oppure ha qualche problemino psicologico.
Il fatto interessante è un altro. E cioè che chi mi ha preventivamente classificato come un "reazionario fascista servo della Gelmini" e anzi longa manus del suo disegno di distruzione della scuola (e, per giunta, sionista) perde la testa di fronte a un paio di articoli che non riesce a far rientrare nella sua classificazione. «Non saprei dire come Galli Della Loggia o Israel si pongono nella geografia politica, se non pro o contro Gelmini (questi particolari pezzi mi paiono contro)». Oppure: «in questo articolo non emerge il vero pensiero di Israel». Per cui, in fin dei conti, il visionario di congiure sioniste contro Berlusconi non è più illogico di questi signori. Anche loro non ci capiscono niente e si chiedono come sia potuto succedere che sia sparito il mio "vero" pensiero - quello berlusconiano, s'intende - e che cosa ci sia "sotto".
Ebbene, sotto c'è una cosa semplicissima. Quale che sia il valore di quel che penso, io penso con la mia testa e dico quel che penso, e talora non è in consonanza con l'"autorità". Non sono il servo di alcuno. Forse è perturbante e persino sconvolgente, ma è semplicemente così.  E allora, sì, un articolo è critico nei confronti della scelta del ministro Gelmini di aver affidato questa tematica a Corradini e aver firmato la sua proposta e l'altro è critico nei confronti del progetto di legge del direttore de Il Secolo Perina.
Sono diventato un nemico del governo oppure, siccome questo è impossibile, data la mia acclarata natura di sporco fascista sionista, ci deve essere "qualcosa sotto"? Perdete pure tempo attorno a questa inutile domanda.
Per parte mia dico che potrebbe anche accadere che mi dissoci da altre scelte governative sul tema dell'istruzione. 
Sarà un bel rebus da risolvere.
La necessità assoluta (e devastante per chi vi obbedisce) di classificare la gente in amici e nemici si vede anche da un fatto.
Come mai - mi chiedo - come mai il professor Corradini, nominato esattamente come me presidente di un Gruppo di lavoro ministeriale e che è pervenuto a una relazione approvata dal ministro non viene definito e trattato come un servo berlusconiano, uno sporco traditore, un nemico del popolo, non viene paragonato a Marco Biagi, e non gli arrivano - come a me - messaggi in cui viene accusato di collaborazionismo con i fascisti al potere?
Come mai?
Forse perché il professor Corradini è a priori, e qualsiasi cosa faccia, un "compagno"?
E allora, se queste care persone ragionano così - e non sono poche a ragionare così, purtroppo - perché mai debbono lamentarsi che si diffondano tesi come quelle da me sostenute? Si diffondono e c'è chi da loro retta, perché opporre queste genere di obiezioni è penosamente perdente.
Leggo che c'è chi se la prende con ira “con chi ha lasciato che queste cose venissero dette senza opporre un solo argomento, un solo contraddittorio, uno straccio di discussione pubblica». 
Già, ma per «opporre argomenti» bisogna che siano tali e non grida e insulti, epiteti e imprecazioni. 
Per parte mia, da quando mi occupo di queste cose cerco confronti continuamente. Pochissimi mi hanno risposto e quando l'hanno fatto, anche in confronti pubblici, gli è andata assai male. Soprattutto quando si sono rifiutati di accettare il principio che quanto vado affermando sia una posizione legittima, ragionata, pensata in piena libertà. cui replicare con argomenti, non con insulti, e prendendo le mie tesi per quello che sono senza farne contraffazioni di comodo. Con chi ha voluto discutere in modo aperto e civile, senza scomuniche e contrapposizioni di principio e ideologiche, è stato possibile intendersi e anche trovare punti di accordo. 
Gli altri sono perdenti. Perdenti a priori, perché hanno rinunciato a ragionare con la testa. Ed è inutile che si lamentino.
Qualcuno può davvero credere di distruggere i miei argomenti attribuendomi la tesi che «insegnare la Costituzione sa di totalitarismo»?
Basta leggere l'articolo. Ho detto il contrario. Ho avuto nel liceo un professore di storia e filosofia che ci ha tenuto una serie di lezioni di costituzioni comparate, da quelle napoleoniche alla nostra. Ricordo queste lezioni come una delle cose migliori del liceo. Quindi, insegnare le e "la" Costituzione va benissimo. Contesto che sia un bene indottrinare alla Costituzione come a un catechismo e soprattutto allo scopo di rifare un Uomo nuovo nella prospettiva di un'etica universale. Contesto che si voglia, in tal modo, far passare la solita pedagogia che ha massacrato la scuola italiana (quella pedagogia, non "la" pedagogia).
Infatti, c'è chi l'ha capito benissimo e ha osservato che io non dico «che non bisogna studiare la Costituzione o che non bisogna educare, ma che l'educazione è conseguenza della conoscenza e della cultura». Infatti. Si risponda a quel che scrivo senza trovare facili scappatoie falsificandolo.
Un altro dice che «meglio una testa ben fatta che una testa ben piena» è una frase di Montaigne e io crederei (ignorantone…) che sia di Edgar Morin. Lo so, lo so che è di Montaigne, e l'ho scritto. Ma ho spiegato che il modo in cui Morin l'ha ripresa è fasullo, sbagliato e fuorviante. Ho scritto in dettaglio su questo. Si può non condividere, ma il tema è questo e a questo bisogna rispondere. Non cavandosela con una mia (sperata) ignoranza.
Un altro dice che non devo aver mai messo piede in una scuola. Ho due figli in età scolare e conosco benissimo la scuola, il modo in cui s'insegna, i contenuti ed ho continui rapporti con insegnanti. E potrei anche osservare che c'è chi osserva migliaia di fatti (testa piena) e non ne capisce un acca (testa mal fatta).
Infine, c'è chi dice che Israel, Galli della Loggia e Gelmini - sempre uniti, sempre insieme, non possiamo che stare sempre insieme, siamo fascisti marchiati dalla nascita - stanno facendo alla scuola quello che fecero i black block a vetrine, sportelli bancomat e automobili a Genova…. 
Vabbè… Che dire? Consolatevi con l'aglietto, come si dice a Roma.
Lo sfacelo culturale della sinistra, di "questa" sinistra - non ho nulla contro la sinistra in quanto tale, ci si creda o no: naturalmente no, perché fa comodo credere che sia un "nemico" - è nell'incapacità di ammettere che possano esistere persone che la pensano diversamente e che ragionano con la loro testa, in piena libertà e in buona fede; per cui talvolta te li puoi ritrovare a dire quel che meno t'aspetti. No, gli "altri" devono essere per forza tutti mascalzoni, imbecilli, ignoranti, in malafede, reazionari, fascisti o ebrei.
Cominciò Umberto Eco con la tesi (razzista) che chi non vota a sinistra è cretino o mascalzone. È una tesi rassicurante e che evita di discutere e di pensare. Si vuol continuare così?
Continuate così, cari signori. Vi aspetta un luminoso avvenire… Salvo il fatto che, nell'attesa, state rendendo la vita difficile in questo paese.

P.S.  Ribadisco, questo è un blog, una sorta di diario. Ho offerto le mie riflessioni a chi possono interessare. Non intendo minimamente aprire un "dibbattito", tantomeno con i miei "detrattori". Sono andato pazientemente a leggere molti commenti su di me. Presento qualche mio commento sui commenti. Forse è meglio provare a riflettere in silenzio, invece di mettersi subito a strillare. Per una volta, almeno.

L'ora di educazione civica è una truffa ideologica


Era una pia illusione che il dominio più che trentennale del pedagogismo “progressista” abbandonasse il campo della scuola che considera come proprietà indiscussa, su cui sperimentare la sua ideologia a costo di ridurlo a un panorama di rovine.
Ernesto Galli Della Loggia, sul Corriere della Sera, ha accusato la commissione ministeriale presieduta dal pedagogista Luciano Corradini di aver proposto una insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” concepito come il vangelo di una religione politica volta a formare nientemeno che l’Uomo Nuovo nello spirito di un’etica di stato illiberale. Ma il dibattito rischia di andare sul binario sbagliato se diventa uno schierarsi a favore o contro un simile insegnamento o come una discussione  sulle sue modalità. Il problema che Galli Della Loggia solleva – a mio avviso correttamente – è assai più profondo. Non è in discussione l’opportunità di insegnare gli elementi della Costituzione: è bene che gli studenti conoscano i principi che presiedono alla formazione delle leggi in questo paese. Quel che è inaccettabile non è solo che si faccia della Costituzione un catechismo, ma l’ideologia sottostante: voler usare questo strumento come mezzo di formazione della personalità dei giovani, concepire la scuola non come un luogo di trasmissione di conoscenze e di cultura, bensì come strumento per la formazione dell’Uomo Sociale ideale. Dietro la prosa della commissione Corradini rispunta il cavallo di Troia del pedagogismo progressista, in questo caso di marca cattolico-dossettiana, che non rinuncia a stendere la sua mano morta sul sistema dell’istruzione.
Galli Della Loggia coglie perfettamente il punto quando parla di un’ideologia che concepisce la scuola non come luogo di istruzione ma luogo di educazione. E, aggiungo, di educazione totale, anzi totalitaria, di cui è esempio il modello della Educación para la Ciudadanía che il governo Zapatero tenta di imporre alla Spagna. Non voglio qui esplorare il problema della coerenza con cui persone che i giorni dispari difendono il valore della famiglia e combattono il laicismo di stato, i giorni pari vogliono una scuola che educhi a «promuovere il benessere proprio e altrui», a «esprimere sentimenti ed emozioni», a creare un’«etica universale». Sono contraddizioni laceranti su cui si dibatte parte del mondo cattolico, soprattutto progressista, che, mentre proclama di difendere lo spazio educativo della famiglia, aderisce a dottrine pedagogiche di matrice scientista e totalitaria (da Rousseau a Dewey a Makarenko) e si scava la fossa da solo. Sono contraddizioni su cui si dibatte anche parte del mondo laico. E se è comprensibile che il pedagogismo etico di Stato possa essere in consonanza con una certa eredità culturale di sinistra, è meno comprensibile che chi si dichiara liberale possa unirsi a chi propone l’ora di «educazione all’affettività» o i «corsi di sentimento». Simili contraddizioni fanno capire perché ha senso dire che la nostra società ha perso la capacità di educare, tende a disfarsi del problema per pigrizia, incapacità o paura, demanda tutto alla scuola e a una corporazione di specialisti dell’educazione, depositari della dottrina che prescrive come deve essere fatto un uomo giusto, buono e socialmente positivo.
Certo, se si attribuisce alla scuola una simile funzione di educazione totale, questa corporazione deve esservi: qualcuno dovrà pur scrivere i libri che stabiliscono le regole del vivere civile, dell’affettività, dei comportamenti relazionali corretti. Invece, la grandezza di una società liberale sta nel lasciare ciascuno “libero” di prendere la via che preferisce, dandogli lo strumento principe per tale scelta: la conoscenza. Perché la conoscenza, e soltanto la conoscenza, è libertà. Il resto lo si costruisce giorno per giorno: nella famiglia in primo luogo, con i maestri, con gli amici, nelle esperienze di relazione sociale. Ma se l’educazione è di stato, allora occorrerà una corporazione di specialisti dell’educazione che si collochi al disopra di tutti. Peraltro, la patente di detentori della verità educativa costoro non possono che conquistarsela attraverso un’affermazione di potere, e poche cose sono antidemocratiche come il potere dei “sapienti”. È quel che stiamo sperimentando da un trentennio. Ed è una storia senza fine, perché il pedagogismo di stato esce dalla porta e rientra dalla finestra, con l’aiuto di una burocrazia ministeriale ormai plasmata dalla sua ideologia “progressista”.
È evidente che una siffatta corporazione, per restare in sella, ha bisogno di distruggere la figura dell’insegnante “maestro”, di ridurlo a mero “facilitatore” che applica le teorie calate dall’alto. Di qui l’ossessione metodica con cui si proscrive l’uso di qualsiasi termine che richiami sia pur vagamente la scuola che trasmette conoscenze e cultura a favore del politicamente corretto pedagogista. È drasticamente vietato parlare di programmi, di discipline, di idee. La parola “conoscenze” è pronunziabile soltanto entro la trinità delle «conoscenze/competenze/abilità». Mi scriveva un professore di recente che, stufo di un questionario in cui si chiedeva quale abilità formasse la sua materia, la fisica, ha osato scrivere che essa non forma abilità bensì trasmette «idee»… Ha rischiato il linciaggio. Già, perché l’occhiuta sorveglianza con cui si cerca di imporre a ogni insegnante una serie di adempimenti e un linguaggio che riflettono l’ideologia della «comunità educante» evoca la funzione del Commissario politico. Mi scriveva un altro insegnante che la pretesa di imporre l’uso di schemi e termini codificati mira all’«annichilimento dell’autonomia professionale degli insegnanti da parte di questi nemici giurati del buon senso». Eppure, provate a chiedere a qualcuno di costoro il significato esatto del termine “competenze”: non ve lo saprà dire. Ancor meno saprà dire come si misurano le competenze: gli stessi “specialisti” del settore ammettono che questa misurazione è impossibile. Ciononostante, un’altra prescrizione sta per abbattersi sulla scuola: la “certificazione delle competenze”. In un’altra occasione, se il giornale me ne darà spazio, proverò a spiegare quale tsunami ciò potrà rappresentare per il sistema dell’istruzione.
Per ora concludo osservando che questi ultimi aspetti non sono altra cosa della questione da cui siamo partiti: il nesso è l’ideologia secondo cui occorre plasmare le teste e non trasmettere conoscenze. Queste ultime sono secondarie, e di esse si può fare (e si fa) scempio. In questi ultimi tempi, è emersa nella scuola un’insofferenza crescente verso questa ideologia. Ma in trent’anni si è consolidato un blocco di potere difficile da scalfire e il riaffacciarsi della figura del “pedagogista di stato”, che si sperava definitivamente scomparsa, non è un buon segno.


(Il Giornale, 10 novembre 2009)

lunedì 9 novembre 2009

I “corsi di sentimento” e altre riforme similsovietiche dell’educazione




È difficile trovare oggi qualcuno che si dichiari apertamente seguace delle teorie della pedagogista sovietica Aleksandra Kollontai e della sua pretesa di fabbricare l’uomo nuovo attraverso gli asili di stato in cui educare collettivisticamente i bambini sottratti alle famiglie. Persino nei più blandi kibbutzim la socializzazione dei bambini è ormai sparita e nelle mense si paga in denaro. Ma non ci si illuda, la gramigna rispunta dove meno te l’aspetti e, nell’era del postcomunismo, le teorie alla Kollontai possono riemergere sotto una forma libertaria e persino liberista che si presenta con una maschera candida e innocente. Il peggio è che c’è chi identifica perfettamente la gramigna a distanza e non vede quella che gli cresce sotto i piedi. Fuor di metafora, siamo tutti bravi a riconoscere e denunciare nello zapaterismo il collettivismo comunisteggiante di ritorno: educazione di stato per creare il cittadino nuovo – «educación para la ciudadanía» –, tutte le discipline scolastiche messe in funzione dell’educazione sociale – persino la matematica diventa «matematica del cittadino», ovvero la materia delle «decisioni sociali» –, l’etica e la morale si insegnano a scuola, niente più ruolo della famiglia, ridotta a una mera aggregazione di persone che decidono temporaneamente di vivere insieme. E siamo in tanti pronti ad applaudire quando gli spagnoli scendono in piazza in difesa della famiglia tradizionale bistrattata ed espropriata di tutto e contro uno statalismo che si ammanta di buonismo e di solidarismo.
Poi però troppi di coloro che vedono bene la gramigna lontana non si accorgono di averla nel proprio giardino e persino di coltivarla assorbendo, in totale assenza di senso critico, proprio quelle visioni che deplorano come distruttive. Penso ai corsi di “affettività”. Non mi importa se si riducano a corsi di sessualità o a corsi di affettività in senso ampio: i secondi sono peggiori dei primi. Perché, se nelle questioni sessuali esistono aspetti, diciamo, “tecnici” su cui si possono trasmettere informazioni oggettive, pretendere di insegnare l’affettività in senso ampio non è soltanto una cialtronata, ma è un classico esempio di espropriazione di una funzione fondamentale della famiglia per affidarla all’educazione collettiva. È una cialtronata perché mentre la fisica o la grammatica sono discipline dotate di principi o leggi oggettive e che possono essere insegnate sulla base di una conoscenza verificabile, l’affettività non è una “materia” basata su leggi, e non lo sarà mai. Un professore di affettività è un prevaricatore potenziale in quanto si sovrappone alla sensibilità altrui sulla base di una competenza inesistente e del tutto arbitraria. E soprattutto è “il” prevaricatore di stato della famiglia designato proprio a espropriarla del suo ruolo primario.
Ora veniamo a sapere che due deputate del Pdl, Giulia Cosenza e Flavia Perina, hanno depositato un progetto di legge per introdurre nella scuola l’“educazione emotivo-sentimentale”. Si parla addirittura di «insegnare le emozioni a scuola». Sarebbe interessante sapere come sarà strutturato il corso di laurea magistrale in educazione emotivo-sentimentale e chi avrà l’autorità – e sulla base di quali principi oggettivi – per selezionarne i laureati e garantire che gli insegnanti non interferiscano con l’educazione familiare e, in fin dei conti, non siano dei disturbati sul piano emotivo-sentimentale. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Ci permettiamo di suggerire caldamente alle parlamentari di ripensarci e di fare la saggia scelta di rinunciare al loro triste progetto.
(Tempi, 11 novembre 2009)

Va bene difendere l’ora di religione islamica ma non a prezzo di taroccare la storia





Nella discussione sull’introduzione dell’ora di religione islamica, Massimo D’Alema ha definito le posizioni di chi è contrario “primitive” e ha aggiunto che su quel fronte si sono uditi soltanto “suoni gutturali”. Un atteggiamento davvero raffinato, non c’è che dire, per chi è da molti inspiegabilmente considerato come una persona molto intelligente con cui è possibile dialogare. Se questo è un atteggiamento dialogante figuriamoci cosa fa D’Alema quando si arrabbia… Lasciamo il grand’uomo ai suoi vertici di pensiero e proviamo a fare qualche ragionamento “gutturale”.
Quel che appare imbarazzante, in questo periodo, è il ricorso disinvolto alla storia – e non soltanto a proposito del problema in oggetto – per sostenere delle tesi politiche. Leggiamo sui giornali che il ministro Pisanu, pur esprimendo qualche perplessità di ordine pratico, si è mostrato aperto nei confronti dell’ipotesi dell’introduzione dell’ora di religione islamica sostenendo che bisogna ricostruire un rapporto tra occidente e islam, perché quest’ultimo ha dato un apporto formidabile alla cultura del primo con le traduzioni dei classici greci. Il rapporto si è interrotto – ha aggiunto – perché l’islam è stato schiacciato dal colonialismo occidentale.
Ora, si possono apprezzare le buone intenzioni che animano queste affermazioni – volersi bene è sempre una bella cosa, purché l’amore sia ricambiato – ma non bisogna esagerare. Che l’islam abbia dato un grande apporto alla formazione della cultura europea è indubbio. Anzi si può aggiungere che per alcuni secoli l’islam conobbe una fioritura straordinaria, che può ben essere considerata come un autentico Rinascimento, mentre l’Europa occidentale era immersa in uno stato di arretratezza. L’islam trasmise l’eredità classica che aveva dapprima rifiutata e contribuito a cancellare con il rogo della Biblioteca di Alessandria (640 d.C.) e altre distruzioni che privarono il mondo per sempre di tanti testi originali ellenici ed ellenistici. Dall’ottavo secolo, l’islam elaborò in forme originali la cultura antica che aveva riscoperta, nel campo scientifico (matematico, in particolare, trasmettendo anche il sistema numerico indiano) e filosofico. Poi però, dal dodicesimo secolo, il mondo musulmano ripudiò questa tradizione, sia per effetto di una reazione violenta dell’ortodossia islamica contro la scienza e la filosofia – che diede luogo a un “caso Averroé” molti secoli prima del “caso Galileo” – sia per le invasioni barbare, turche e mongole che radicalizzarono questa trasformazione in senso integralista. Gli storici più attenti, anche in ambito musulmano, insistono sul fatto che da, quel momento, l’islam si è separato dalla modernità e che questa frattura non è stata mai ricomposta ed è anzi alla radice dei drammi e conflitti che stiamo vivendo. In tutto questo il colonialismo – che è un fenomeno molto più recente – non c’entra nulla. L’islam si è ritirato dallo sviluppo della cultura europea molto prima. Anche sulle traduzioni bisogna intendersi: l’assimilazione dei testi dell’antichità classica – su cui si sono sviluppati l’Umanesimo, il Rinascimento e poi la rivoluzione scientifica del Seicento – è avvenuta nelle grandi scuole di traduzione dal greco e dall’arabo che erano gestite quasi esclusivamente da cristiani ed ebrei nei territori spagnoli della “reconquista”.
Si tratta di questioni storiografiche complesse che non si prestano ad essere usate in modo disinvolto in funzione di progetti politici. Obama, con il discorso del Cairo, ha dato un pessimo esempio in questa direzione recitando un panegirico agiografico disseminato di castronerie. Non è il caso di imitarlo.


(Tempi, 4 novembre 2009)

domenica 1 novembre 2009

Florenskij e l'infinito




  • Padroneggiare il concetto di infinito e di infinitamente piccolo è una delle grandi ambizioni su cui è nata la scienza moderna. La matematica atta a trattare questi concetti nacque nel Seicento come strumento per descrivere i fenomeni del moto e quindi come fondamento della nuova meccanica.
    Da dove nacque l’interesse per l’infinito? Non dispiaccia a chi nega che scienza e religione abbiano qualcosa a che spartire: esso ha una matrice teologica ed è legato all’idea di una divinità trascendente.
    Questa tematica era stata già compresa circa un secolo fa da un singolare pensatore russo Pavel A. Florenskij. Nato nel 1882, si laureò in matematica a Mosca nel 1904, l’anno in cui scrisse un saggio su “I simboli dell’infinito”. Personaggio geniale ed eclettico, Florenskij studiò filosofia, psicologia, teoria dell’arte e del linguaggio, e divenne uno specialista in ingegneria elettrotecnica; ma soprattutto sviluppò un interesse intenso per la teologia che lo portò, nel 1908, a diventare sacerdote ortodosso. Quando scoppiò la rivoluzione bolscevica era già celebre. Non volle lasciare il paese, malgrado fosse contrario al nuovo regime che alternò nei suoi confronti atteggiamenti di apertura, cercando di usarne le straordinarie competenze, e di controllo stretto. Florenskij restò per difendere la comunità ecclesiale e combattere il dogmatismo ideologico. Divenne ingombrante, fu imprigionato e poi fucilato nel 1937. Solo da pochi anni la sua opera sterminata è stata riscoperta e studiata. Nel saggio che ci interessa egli si occupa dell’opera, a lui contemporanea, del grande matematico tedesco Georg Cantor, creatore di una teoria degli insiemi infiniti che era il culmine dello sforzo secolare di dominare concettualmente l’infinito. Vogliamo qui illustrare la geniale intuizione con cui Florenskij comprese la natura teologica delle speculazioni matematiche di Cantor, ma per farlo dovremo fare una digressione introduttiva.
    Vale anche per l’infinito la frase di Alfred North Whitehead secondo cui la filosofia europea «consiste di una serie di note a piè di pagina di Platone» e, in generale, del pensiero greco. Certo, il pensiero filosofico-scientifico moderno si è discostato dalle conclusioni dominanti nel pensiero greco, ma ha dovuto solo “scegliere” in un inventario in cui le varie definizioni di infinito e le aporie connesse a tali definizioni erano state esplorate a fondo. Le difficoltà legate alla considerazione dell’infinito – espresse nei celebri paradossi di Zenone – indussero i Greci a un atteggiamento di diffidenza, soprattutto nei confronti dell’“infinito attuale”, l’infinito dato una volta per tutte, pensato con un atto unico. Aristotele privilegiò l’“infinito potenziale”, inteso non come una quantità data ma come un processo di crescita senza limiti. In generale, i Greci propesero per una visione finitista, che era coerente con quella del cosmo, visto come una sfera chiusa, limitata, dal raggio finito.
    Il monoteismo ebraico ruppe l’armonia greca tra uomo, cosmo e divinità introducendo un abisso tra l’uomo, creatura finita, e il suo mondo finito, da un lato, e un Dio concepito come Essere assoluto, trascendente, infinito. Era un abisso che soltanto la “voce” poteva superare: la voce di Dio che si rivela e quella dell’uomo che prega. Il teatro principale era spostato dalla natura alla sfera morale e religiosa della comunità umana. La teologia medioevale, sia ebraica che cristiana, recuperò lo spirito greco soltanto per quel che riguardava la sfera naturale: Aristotele divenne il praecursor Christi in naturalibus e, secondo Maimonide, la Torah conteneva forse una spiegazione dei segreti della natura, ma essa si era persa ed era ormai rimpiazzata dalla fisica di Aristotele. Ma la giustapposizione del trascendentalismo religioso col finitismo naturalistico conteneva una contraddizione interna insanabile. Già nel Medioevo si levarono molte voci a identificarla e criticarla. Tale fu il caso del filosofo ebreo Hasdaï Crescas le cui originalissime speculazioni sull’infinito aprirono la strada all’abbandono del finitismo aristotelico e dell’idea che il mondo è un plenum di oggetti e all’affermarsi di una visione geometrica dello spazio come contenitore vuoto in cui “galleggiano” i corpi. Sono i primi segni dello sbocciare del pensiero rinascimentale, del passaggio «dal mondo chiuso all’universo infinito» (Koyré) e che fu segnato dall’abbandono di Aristotele a favore di Platone.
    Edmund Husserl ha descritto magistralmente la visione che è alla base del ripensamento moderno dei compiti ereditati dalla filosofia antica, che «non arrivava a riconoscere la possibilità di un compito infinito», e ha spiegato come l’apertura verso il tema dell’infinito sia la fonte di un’idea della conoscenza come processo indefinito di approssimazione verso la “verità”. La novità è l’«idea di una totalità infinita dell’essere e di una scienza razionale che lo domina razionalmente».
    Qui si realizza pienamente la sintesi tra la razionalità greca e l’aspirazione ebraico-cristiana alla trascendenza. La razionalità greca viene proiettata verso un compito che supera i confini ristretti della concezione antica e insegue l’infinito come termine praticamente irraggiungibile ma perfettamente definito in un processo illimitato di avvicinamento. In questo quadro la matematica ha una funzione centrale, in quanto terreno su cui si realizza una conoscenza oggettiva.
    Certo, le resistenze all’abbandono del punto di vista antico furono grandi, persino da parte di pensatori rivoluzionari come Descartes, che esclude che l’uomo possa attingere all’infinito. «Sarebbe ridicolo – egli dice – che noi, che siamo finiti, intraprendessimo di determinare qualcosa dell’infinito e, in tal modo, supporlo finito cercando di capirlo». Secondo Descartes noi possiamo solo constatare cose in cui non vediamo limiti e quindi non diremo che sono infinite, ma che sono indefinite, «riservando a Dio soltanto il nome di infinito». Quindi sebbene l’universo sia, in quanto immagine di Dio, infinito – e qui Descartes rompe con l’aristotelismo – nella mente dell’uomo appare come un “interminatum”. Dio è l’infinito attuale, alla mente dell’uomo è riservato solo l’infinito potenziale.
    Ma proprio l’impossibilità di costruire una rappresentazione complessiva e definitiva dell’universo è il fondamento dell’oggettività della conoscenza! Se conoscenza umana e realtà fossero fuse, la seconda sarebbe finita e imperfetta come la prima e non sapremmo come accertare la verità delle nostre deduzioni. Ma noi sappiamo che esiste una realtà infinita, perfetta e oggettiva distinta dal nostro pensiero e irraggiungibile, in termini assoluti. Un processo di approssimazione indefinita verso di essa ci renderà certi che le nostre deduzioni partecipano, in modo sempre più perfezionato, della verità. Questa visione è il fondamento dell’oggettivismo scientifico, e Descartes la riprende dalla dottrina della docta ignorantia di Nicola Cusano. Per Cusano, «l’intelletto si comporta con la verità come il poligono con il cerchio: il poligono iscritto, quanti più lati ha, tanto più si avvicina al cerchio, senza diventar mai uguale a quello, anche se i suoi angoli vengono moltiplicati all'infinito, né giungere mai a coincidere col cerchio». Cusano è più audace di Descartes perché non arretra di fronte al concetto di infinito attuale: benché il processo di approssimazione della conoscenza sia “indefinito”, per avere senso esso deve avere come riferimento un infinito attuale, l’essenza oggettiva della realtà che è il riflesso delle leggi con cui Dio ha strutturato la natura.
    Questo è il nodo che viene colto brillantemente da Florenskij nel trattare della teoria degli insiemi transfiniti di Cantor. Egli si sofferma sulla «distinzione fondamentale e del tutto elementare tra infinito attuale e infinito potenziale» e afferma – riallacciandosi a Cantor – che il secondo non è un’idea ma un concetto ausiliario, un “cattivo infinito”. A suo parere, tale concetto fu generato dalle riflessioni di Anassimandro, «secondo il quale la potenza inesauribile, inestinguibile dell’essere, l’apeiron indefinito, riempie lo spazio e dalle sue viscere genera ogni cosa». Ma la parola apeiron non significa contrariamente a quanto riteneva Aristotele, l’infinito della materia prima, «ma solo una fusione e una combinazione di potenze, la possibilità di generare continuamente esseri».
    Il limite della nozione di infinito potenziale risulta dal fatto che esso non è pensabile senza l’infinito attuale: una crescita senza limiti non è pensabile se non in relazione a un contesto, che è proprio quello dato da un infinito attuale. Come potremmo pensare ad un numero sempre più grande di un altro se non in un ambiente, per esempio quello dei numeri interi? «Di conseguenza – afferma Florenskij – ogni infinito potenziale presuppone l’esistenza di un infinito attuale quale proprio limite sovrafinito, qualunque progresso infinito presuppone l’esistenza di uno scopo infinito nel progresso, ogni perfezionamento infinito necessita che sia ammessa l’infinita perfezione. Chi nega l’infinito attuale in qualunque accezione nega con ciò stesso anche l’infinito potenziale in quella stessa accezione, e il positivismo ha in sé gli elementi della propria corruzione. Come dire che nel positivismo ha luogo un autoavvelenamento tramite quanto prodotto dalla sua stessa attività».
    Oggi, di fronte al tentativo di presentare il relativismo come essenza della conoscenza scientifica, appare davvero attuale la penetrante critica del Florenskij della contraddizione del positivismo, che da un lato afferma il valore universale della conoscenza scientifica e, dall’altro, gli toglie fondamento concependo il processo conoscitivo come un avanzare a caso senza un termine di riferimento. La necessità di un termine di riferimento assoluto – il cerchio limite di Cusano – mostra la centralità del discorso teologico nella fondazione dell’epistemologia scientifica moderna. Senza il riferimento all’infinito, la scienza intesa come costruzione che mira alla crescita della conoscenza non può essere neppure pensata. Florenskij cita il teologo e filosofo tedesco Constantin Gutberlet per denunciare un modo sbagliato di riferirsi a Tommaso d’Aquino: «C’è una seria incoerenza nel fatto che nell’Evo moderno si sia provato di utilizzare con pedante meticolosità tutte le opinioni scientifiche – ovviamente obsolete – di Tommaso d’Aquino, dal quale invece si prendevano le distanze quanto a una questione speculativa importantissima quale è l’eternità del mondo. C’è incoerenza anche nel fatto che nella Conoscenza di Dio si consenta un insieme attuale infinito di possibili cose, di cui però si nega la possibilità. […] Se un insieme attualmente infinito è una contraddizione in sé, esso non può esistere nemmeno nella Mente di Dio se non in quanto assurdo, qualcosa tipo la quadratura del cerchio».
    Un altro tema di grande interesse del saggio di Florenskij è l’identificazione della radice della visione del mondo di Cantor nelle sue radici ebraiche. In realtà, oggi si ritiene che Cantor, certamente di origini ebraiche, fosse convertito al cristianesimo. Ma questo non è rilevante rispetto alle riflessioni di Florenskij. Egli identifica nello spirito ebraico ciò che fa dell’impresa scientifica di Cantor la manifestazione di «una grande fede» che mira a dimostrare la necessità dell’idea del transfinito. E osserva:
    «Se come persona, Cantor appare quale modello vivissimo di ebreo, la sua visione del mondo ne è altrettanto – se non più – tipica. L’idea dell’infinità perfetta (infinito finito) della persona assoluta – Dio – così come della persona umana è una prerogativa dell’ebraismo, e questa idea pare essere il fondamento più sostanziale di Cantor. […] alla sua anima l’idea dell’impossibilità dell’infinito attuale appare mostruosa. […] Persino l’infinito potenziale, per lui, è importante solo a condizione di una crescita non indefinita, non il-limitata nel senso primo del termine, ma a condizione tendere verso quello stesso confine, verso l’infinito attuale quale suo scopo ideale».
    Florenskij coglie nella spinta al ricongiungimento con il Dio trascendente il motore dell’aspirazione all’infinito che ha un ruolo centrale nella scienza moderna. Egli illustra questa tensione con un sorprendente riferimento a un’invocazione che ha un ruolo centrale nella festività di Pesach (la Pasqua ebraica) e che è contenuta nel testo che viene letto durante la notte della cena pasquale – la Hagaddah. Florenskij la riporta a conclusione del saggio come espressione della tensione al ricongiungimento con l’infinità divina (analoga alla richiesta di Giacobbe all’angelo con cui aveva lottato tutta la notte di non lasciarlo prima di averlo benedetto):
    «È probabile che tutti conoscano il “cantico pasquale degli ebrei. Ricorderete certamente l’insistenza decisa, la petulanza – per dirla in modo rozzo – delle preghiere a Dio. Tale incalzante richiesta, tale lotta con Dio, “non ti lascio finché non mi benedici”, sono quanto mai tipiche dell’opera di Georg Cantor, e penso di non poter spiegare meglio il senso del suo operato se non riportando il testo di tale cantico. Eccolo:
    Egli Che è possente ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora!
    Egli Che è prescelto ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora!
    Egli Che è grande ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora! Egli Che è onorato, fedele, giusto, pio ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora! Egli Che è puro, unico, possente, saggio, re, dotto, forte, prode, liberatore, giusto ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora!
    Egli Che è santo, pietoso, onnipotente, forte ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora!»
    Un secolo fa non si parlava di «radici giudaico-cristiane», ma il cristiano Florenskij aveva capito con profondità ineguagliabile ciò che la religiosità ebraica aveva dato al pensiero europeo moderno.
    (Il Foglio, 31 ottobre 2009)