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La scuola dà i numeri. E sono tutti sbagliati





 «Sotto questa riforma vi è l’idea per la quale tutto quello che non sembra efficace nell’organizzazione sociale deve essere relegato tra le opzioni o semplicemente tolto». Così Max Gallo, membro dell’Académie Française, ha commentato il proposito sciagurato della nuova riforma scolastica francese che considera facoltative la storia e la geografia alla fine del liceo scientifico e che suscitato la rivolta molti intellettuali. Va preso atto che è in azione un fronte transazionale che – per dirla con le arroganti parole dell’ispettore generale francese Roger-François Gauthier – conduce una «lotta militante» per mandare in soffitta l’istruzione basata sulle conoscenze e le discipline; e andrebbe costituito un fronte di difesa della cultura e della ragione perché il continente europeo non affondi nel sottosviluppo. Perché mai l’Europa deve esistere solo per unificare le pulsioni e le iniziative peggiori? La «disfatta della scuola» in Francia è stata raccontata dal celebre matematico Laurent Lafforgue (nel libro omonimo appena tradotto da Marietti); in Inghilterra si parla di sostituire la storia con Facebook e Twitter; e in Italia vi sono “centri studi” che propongono di eliminare il latino perché non piace agli studenti – un criterio con cui, a maggior ragione, andrebbe abolita la matematica.
L’istruzione sta cadendo dalla padella nella brace e, per di più, con l’olio della padella che gli si rovescia addosso. Fuor di metafora, i guasti provocati da certi pedagogisti e didatti stanno per diventare poca cosa rispetto a un nuovo tsunami che oltretutto amplifica quei guasti. I quali – va ricordato – sono derivati dall’idea di privilegiare la metodologia sui contenuti: apprendere ad apprendere anziché apprendere. I contenuti sono secondari, quel che conta è il metodo: addestrare un esercito di teste “ben fatte” (non importa se da teste mal fatte e vuote). Gli strumenti per realizzare questa “riforma” erano l’abolizione degli odiati “programmi” (parola ormai impronunciabile), l’autoformazione e l’autonomia scolastica. Così, al posto dei programmi abbiamo avuto le “Indicazioni nazionali”, che non prescrivono i contenuti che lo studente deve conoscere al termine del percorso, ma le “competenze” da acquisire, in un’orgia di linguaggio “didattichese”, in cui trionfa la “complessità”, la storia è ridotta all’acquisizione dell’idea del tempo e conoscere la geografia significa soprattutto «costruire le proprie geografie».
In realtà, chi conosca i “programmi” di un tempo sa bene che consistevano di elenchi essenziali. La lettura del decreto del 1913 che istituiva il “Liceo-Ginnasio moderno” ridicolizza, per chiarezza e modernità pedagogica, certi ampollosi proclami odierni. Ma, si sa, la chiacchiera pseudoculturale vacua e tronfia piace, soprattutto perché è alla portata degli ignoranti, che celano dietro di essa la loro confusione mentale. Così, l’eliminazione dei programmi ha avuto l’effetto di aprire le porte all’intervento in materia scolastica di una sterminata platea di persone che, in precedenza, non avrebbe osato aprir bocca. Coloro che ripetono che i mali della scuola possono essere guariti solo con dosi massicce di autonomia non si avvedono, poveretti, che è proprio il trionfo dei metodologi e dei nullatenenti (intellettuali) ad aver trafugato l’autonomia scolastica. Difatti, la finta autonomia di cui gode la scuola non è quella gestionale, l’unica sensata, bensì quella di intervenire sui contenuti anche in forme scriteriate purché entro il contesto soffocante di una valanga di prescrizioni – tra cui a breve la demenziale “certificazione delle competenze” – e di indicazioni teoriche che stringono la scuola in una soffocante cappa di piombo ideologica, contenute in miriadi di circolari verbose e insensate.
La padella in cui rischia di cadere il sistema dell’istruzione è il potere degli “esperti”. Si tratta spesso di persone che non hanno mai fatto un’ora di lezione in vita loro e che non hanno conoscenza specifica di alcuna materia, e spesso prive di preparazione culturale. Quel che pretendono di possedere è la professionalità di gestire la scuola e di ottimizzarne il rendimento, e questo soltanto perché conoscono certi precetti di gestione aziendale che vogliono far credere utili ad ogni bisogna. In certi casi, si tratta di manager che si sono convertiti alla problematica scolastica con l’identica mentalità e le identiche tecniche con cui conferivano i bollini di qualità a ditte di produzione di yogurth o di calze. In altri casi, di burocrati e funzionari che si sono arruolati nella «lotta militante» di cui parlava l’ispettore francese.
C’è quasi da rimpiangere i pedagogisti di stato: quantomeno si trattava di intellettuali e, in certi casi, di gente colta. Salvo il fatto che le lamentazioni odierne di taluni di costoro, che si vedono anche loro assoggettati alle prescrizioni dei manager dei bollini qualità, non meritano compassione ed fanno pensare piuttosto agli apprendisti stregoni.
Ho letto uno dei progetti di questi nuovi “riformatori”, mirante alla riqualificazione dell’insegnamento della matematica. Per valutarlo – anche i valutatori, si rassegnino, possono essere valutati – basta una sola osservazione. Nel testo è possibile sostituire la matematica con un’altra materia qualsiasi – storia, ceramica, economia domestica o musica – senza bisogno di cambiare una sola frase. In altri termini, l’estensore di matematica non sa nulla e ancor meno gliene importa: egli si è limitato a vendere un pacchetto di istruzioni da lui reputato buono per il processo produttivo di una merce qualsiasi. In compenso, il documento pullula di terminologia anglo-manageriale – “coaching”, “training on the job”, “tutoring on the job”, “repository”, “learning object” – che può abbindolare qualche sprovveduto ma non nasconde un drammatico vuoto concettuale. Come non lo nasconde l’apparato organizzativo pesante, che prevede quantità di “tutor”, gruppi di lavoro, équipe, pacchi di relazioni. Da chi formati e da chi redatti? Troppo faticoso entrare nel merito. Meglio cavarsela delegando ai preesistenti gruppi di metodologia didattica. Così mentre il sistema dell’istruzione casca dalla padella nella brace il vecchio olio della padella gli si rovescia addosso.

Ogni tentativo di ridare alla scuola la dignità di un’istituzione formativa che abbia al suo centro la trasmissione del sapere ha sempre incontrato nemici accaniti. Anche stavolta la reazione emerge, con il tipico accanimento di chi detesta la cultura e, per dirla con Gallo, tutto ciò che non appare direttamente funzionale all’utilità sociale. Si parla tanto di autonomia scolastica? La risposta è allora nelle mani degli insegnanti, che se ne avvalgano nel senso migliore, esercitando in pieno la loro missione di formare intellettualmente e culturalmente i giovani, con la dignità di educatori e non di esecutori passivi delle prescrizioni degli incompetenti tecnocrati dei bollini qualità.

(Il Giornale, 17 dicembre 2009)

Un giorno i nostri figli non saranno più bocciati, avranno solo “successi differiti”



La britannica Professional Associations of Teachers  (PAT) ha avanzato la proposta di bandire l’uso della parola «bocciatura» dalle scuole del Regno Unito e di sostituirla con il termine «successo differito»… La preoccupazione degli zelanti educatori è di evitare che gli alunni si demoralizzino. Difatti, secondo loro, l’annuncio di un fallimento potrebbe allontanarli dallo studio per tutta la vita. «Noi vogliamo affermare il principio che i ragazzi non necessariamente ottengono un successo alla prima prova», ha detto il portavoce dell’associazione. D’altra parte – ha concesso – «ammettiamo che non è possibile semplicemente cancellare una parola dal dizionario».
Grazia loro. Tuttavia, quel che i signori della PAT trovano ragionevole è di abolire l’uso della parola nel mondo scolastico. Potremmo farci quattro risate di fronte a questo vero e proprio trionfo del politicamente corretto. Ma anche se è probabile che questa buffonata non farà molta strada, a ben vedere c’è poco da ridere. Non soltanto perché a proporla è un’associazione di insegnanti e non un qualsiasi psicolabile vociante per strada, ma perché, a ben vedere, si tratta della logica conseguenza di un andazzo che va avanti da anni e che ha le sue premesse nell’idea che se uno va male a scuola non paga alcun prezzo ma accumula soltanto «debiti formativi» da ripagare prima o poi, in un modo o nell’altro; di fatto in nessun modo serio. E così come il termine «disabile» si è tramutato nell’espressione «diversamente abile» (largamente usata da noi nelle circolari e nella decretazione), in perfetta analogia i «debiti formativi» diventano «successi differiti». C’è poco quindi da stupirsi: questa è soltanto l’espressione coerente e compiuta della teoria del «successo formativo garantito», pilastro della scuola “democratica”, in cui tutti sono uguali, o meglio, debbono essere uguali per decreto o non per quello che fanno. E se non sono uguali, è colpa della scuola e dell’insegnante.
C’è poco da ridere. Che luogo educativo è una scuola da cui l’insuccesso è bandito per decreto, tutto va bene e nessuno sbatte mai la faccia contro il muro? Il bello è che coloro che accusano chi ragiona come noi di «severismo» (un neologismo degno del livello intellettuale della PAT), sono gli stessi che predicano che la scuola deve essere luogo di formazione dei cittadini. Bei cittadini quelli che sono stati educati a credere che non esistano doveri di alcun tipo, che studiare è un’opzione e che il successo te lo garantisce qualcun altro, che comunque prima o poi arriverà – è soltanto «differito» – che vivono tra otto cuscini di piume, coccolati e viziati per tenerli lontano dall’idea che si possa fallire, altrimenti potrebbero disperarsi e crollare. Altro che fucina di cittadini consapevoli… È una fabbrica di imbelli che, all’uscita dalla scuola, si schianteranno di fronte ai primi inevitabili insuccessi: il lavoro che non si trova, e se lo trovi il datore di lavoro ti sbatte fuori perché nessuno ti ha insegnato a faticare anche quando non ne hai voglia, la (il) fidanzata/o che ti pianta perché sei una lagna di viziato/a, la multa da pagare perché non hai ancora capito che non puoi fare il comodo tuo come a scuola, la dichiarazione delle tasse da fare e non ti va ma non puoi rinviarla all’anno dopo come lo studio della matematica e il funzionario delle imposte non si lascia prendere a pernacchie come il professore.
Per vedere i risultati dell’opera di questi educatori e maestri di retorica che infestano mezza Europa, non bisognerà aspettare. Sono già sotto gli occhi. Non è neppure un «insuccesso differito».

mercoledì 23 dicembre 2009

Chi usa Pacelli per far litigare ebrei e B-XVI



Ho più volte sostenuto che la questione del comportamento del papa Pio XII di fronte alla Shoah non si presta a sentenze trancianti sullo stile inaugurato dal “Vicario” di Rolf Hochhuth. Al contrario, gli approfondimenti storiografici acquisiti in questi ultimi anni hanno reso incredibile la tesi radicale di un Papa quasi complice dello sterminio degli ebrei, o comunque del tutto indifferente ad esso. La prudenza imporrebbe di consegnare questa vicenda interamente alla ricerca storica rigorosa, condotta sui documenti disponibili e sugli archivi che verranno messi a disposizione, e non a polemiche contingenti, affrettate o contrassegnate dall’emotività. Inoltre, la questione della beatificazione di Pio XII, così come di ogni altro Papa o personalità cristiana, appartiene alla sfera delle decisioni della Chiesa su cui nessuno può interferire o dettare comportamenti. Da questo punto di vista la dichiarazione congiunta del Rabbino capo di Roma, del presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e del presidente della Comunità Ebraica Romana, appare equilibrata. Si dichiara difatti di non «poter interferire su decisioni interne della Chiesa che riguardano le sue libere espressioni religiose» e si esprime la riconoscenza per i «singoli e le istituzioni della Chiesa che si adoperarono per salvare gli ebrei perseguitati». Tale riconoscenza andrebbe estesa anche a Pio XII, poiché non è credibile che un numero così elevato di ebrei potesse essere accolto addirittura a S. Giovanni in Laterano senza una volontà precisa del papa. È tuttavia comprensibile che, dopo vari decenni in cui la figura di Pio XII è stata definitivamente identificata con quella addirittura di un complice dello sterminio o, quantomeno, di un indifferente, una parte del mondo ebraico – e anche del mondo cristiano – non riesca ad accettare un’immagine diversa senza un percorso all’interno della ricerca storiografica che aiuti ad abbandonare un approccio emotivo.
Va detto con franchezza che interviene in questa vicenda qualcosa di bizzarro che assomiglia a quella che, in altri contesti, viene chiamata la “giustizia a orologeria”. In altri termini, in tutti i passaggi cruciali per i rapporti ebraico-cristiani, accade qualcosa o interviene qualche iniziativa che provoca emozioni, sconcerto, riapre ferite chiuse a fatica. Non rievocheremo questi casi. Ma è indubbio che la questione di Pio XII si riapre con un singolare sincronismo sempre nei momenti in cui sono in agenda passaggi importanti per i rapporti ebraico-cristiani. Oppure salta fuori un vescovo Williamson mentre si affrontano i delicati aspetti di preparazione di un viaggio del papa in Israele. Se a ciò si aggiunge che, al momento dato, parte della stampa è pronta a cercare esclusivamente il parere dell’incendiario di turno, il quadro è completo.
Non è mia intenzione fare dietrologia. Stiamo ai fatti. Qualsiasi cosa si tenti di dire contro l’evidenza, Ratzinger, come cardinale e “teorico” del pontificato di Giovanni Paolo II e poi come papa, è un protagonista del progresso dei rapporti ebraico-cristiani – e sottolineo la parola “rapporto” anziché quella di “dialogo”. Chiunque voglia procedere in questa direzione non deve dare spazio a chi lavora per un drammatico arretramento. Si mettano in opera tutti i confronti utili a creare un contesto in cui la questione di Pio XII non diventi il tema della visita del papa in Sinagoga. Ma tutto deve essere fatto per non far saltare questa visita: sarebbe il regalo più gradito a chi preferisce coltivare il seme della discordia. Ebrei e cristiani hanno troppe cose in comune e iniziative da condurre: a partire da quella per la libertà religiosa in ogni parte del mondo.

(Il Foglio, 22 dicembre 2009)

lunedì 21 dicembre 2009

Negare il Natale a 97 alunni su 100 non è tolleranza ma autocensura

 
L’ultima della serie l’abbiamo appresa dalle cronache. In un istituto scolastico di Leonessa (provincia di Rieti) comprendente scuola materna, elementare e media, la dirigente scolastica ha cancellato le festività natalizie, vietando qualsiasi addobbo che evochi anche lontanamente il Natale, per non offendere la sensibilità religiosa di tre bambini musulmani su cento alunni. Non intendo sprecare inchiostro sulla questione se sia sensato privare di una tradizione consolidata il 97 per cento delle famiglie con relativi bambini: qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso può rispondere da sola. Intendo piuttosto chiedere quando mai – una volta soltanto dal dopoguerra a oggi – sia accaduto che tanta acutissima sensibilità per i fedeli musulmani si sia manifestata per i seguaci di altre religioni, in particolare per famiglie e bambini ebrei. Eppure, di certo, situazioni con percentuali del genere si sono verificate. In genere – e posso dirlo con cognizione di causa – si sono risolte con reciproco buon senso e tolleranza. Chi fa frequentare ai figli una scuola a maggioranza cattolica non può ragionevolmente pretendere la cancellazione di ogni riferimento religioso al Natale. Può chiedere certamente che non si imponga ai propri bambini la recitazione di preghiere o di poesie religiose e che essi siano liberi di non partecipare agli atti carichi di aspetti confessionali. Con una reciproca ragionevolezza le questioni si risolvono senza troppi problemi. Ma non si ricordano casi di dirigenti scolastici che, per garantire la sensibilità religiosa di una piccola minoranza, abbiano imposto la totale cancellazione del Natale, resistendo in modo ferreo alle richieste delle famiglie, del sindaco, della diocesi e persino – pare – della dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale.
Come mai proprio in questo caso si sente il bisogno di difendere con tanto implacabile rigore la libertà di pensiero e di religione? Paura? Dhimmitudine? Conformismo? Odio di sé? Il menu delle risposte è ampio ma nessuno può sensatamente includervi il semplice spirito di tolleranza. La tolleranza a corrente alternata non merita questo nome.
In realtà questo tipo di manifestazioni s’iscrivono in una tendenza per cui tutti i simboli caratteristici della religiosità che appartiene alla tradizione europea debbono essere messi tra parentesi o addirittura nascosti, mentre quelli musulmani possono essere esibiti in piena libertà. È auspicato il ritorno dei culti cristiani nelle catacombe, mentre il divieto svizzero di costruire minareti è condannato come una manifestazione bestiale di razzismo. Il premier turco Erdogan – ovvero il rappresentante dell’islam più “moderato”, quello che dovrebbe portarci quasi ottanta milioni di musulmani in Europa – ha dichiarato: «I minareti sono le nostre baionette, le cupole i nostri caschi, le moschee le nostre caserme e i credenti il nostro esercito». Nessuno si è scandalizzato per simili dichiarazioni guerrafondaie. Anzi si trovano in abbondanza persone pronte a rifornire di viveri e munizioni l’esercito dei credenti, mentre proibiscono stelle di Natale e presepi come se si trattasse di materiale sovversivo. Il sindaco di Londra invita a digiunare durante il Ramadan per immedesimarsi nello spirito della religione musulmana. Ma il reciproco non deve valere. Secondo i dhimmi i bambini musulmani debbono essere preservati da ogni contatto anche lontano con altre fedi, mentre gli altri debbono essere educati alla cultura del “diverso”. E poi ci si chiede come mai anche in Italia un referendum sui minareti avrebbe lo stesso esito che in Svizzera.
 (Tempi, 23 dicembre 2009)

giovedì 17 dicembre 2009

Il fuoruscito che vide in Stalin e nei suoi fan la medesima foga depuratrice dei nazisti



Non sono stato uno degli amici più intimi dello storico Victor Zaslavsky, improvvisamente scomparso il 29 novembre scorso, e quindi non sono la persona più titolata a ricordarlo. Ma proprio per questo può avere valore la testimonianza di chi, pur non avendo avuto un rapporto continuativo con lui, è stato così profondamente colpito dalla sua personalità di intellettuale e dalla sua profonda umanità.
Victor Zaslavsky ti si presentava subito come uno di quei personaggi dei grandi romanzi russi: schivo, con un sorriso un po’ ironico sul volto, ma pronto alla battuta o all’osservazione penetrante, e a offrirti i racconti affascinanti di una persona che aveva vissuto passando per mezzo mondo dopo aver abbandonato l’Unione Sovietica. Talora era anche esilarante, come quanto raccontò che il posto in cui più aveva sofferto il freddo in vita sua non era stato in Russia o in Canada, bensì… a Ostia, dove aveva soggiornato come fuoruscito. Victor era un ingegnere e questa sua preparazione scientifica mi ha fatto sempre sentire una consonanza e una comprensione immediata di temi e problemi, nelle occasioni in cui abbiamo parlato.
Naturalmente egli è noto per essere stato un grande storico che ha avuto un ruolo fondamentale nel mettere a nudo i meccanismi del potere sovietico nei suoi rapporti con i partiti comunisti dei paesi occidentali e, in particolare, con il partito comunista italiano. La sua opera storiografica si è estesa nell’arco di un trentennio ed ha scavato  i temi della società sovietica nel periodo di Breznev, dell’emigrazione ebraica, della perestroika. Nessuna concessione all’ideologia da parte di Zaslavsky. Nonostante il fatto che le naturali ferite per le sue vicende personali avrebbero potuto portarlo ad atteggiamenti emotivi, egli si è attenuto al modello di una storiografia rigorosamente documentaria. Ed è in tale direzione, avvalendosi di materiali d’archivio di recente disponibilità, che ha prodotto alcune delle sue ultime opere più dirompenti. Prima di tutte, il libro Togliatti e Stalin, il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, scritto con Elena Aga-Rossi, che ha demolito il mito della svolta di Salerno e di una via togliattiana di un comunismo nazionale democratico, mostrando che quella scelta faceva parte di un preciso progetto di Stalin. Poi Lo stalinismo e la sinistra italiana del 2004, che sviluppò e approfondì questa tematica.
Un’altra opera magistrale di Zaslavsky è stata la ricostruzione del massacro di Katyn in Pulizia di classe, con cui ha smantellato definitivamente le menzogne staliniane tese a scaricare la responsabilità  di quella strage sui nazisti, con la sostanziale connivenza dell’occidente. Delle conclusioni di quel libro ho più volte ripreso l’osservazione concernente l’analogia profonda che corre tra i due grandi totalitarismi del Novecento: «il tentativo di creare una società nuova, utilizzando i metodi “scientifici” dell’igiene sociale e della “purificazione” dal “contagio borghese”».
È facile immaginare quanto queste tesi fossero insopportabili per chi non ha tagliato il cordone ombelicale con il comunismo. Non posso dimenticare un convegno storico in cui un amico venne a raccontarmi di essere stato vivamente redarguito da alcuni partecipanti per essersi messo a chiacchierare con un “tipo come quello”. Zaslavsky per parte sua, aveva come scudo la sua ironia, con cui chiedeva sempre come mai non ci rendessimo conto che certe persone, malgrado le loro proteste in senso contrario, parlavano allo stesso identico modo di quei comunisti che lui aveva conosciuto fino a quando aveva vissuto in Unione Sovietica. Questa lucida ironia ci mancherà molto.



(Tempi, 16 dicembre 2009)

mercoledì 16 dicembre 2009

Occhio alla metafisica travestita da scienza



È perfettamente comprensibile che i passati tumultuosi rapporti tra scienza e fede – in buona sostanza il “caso Galileo” – inducano alla prudenza e al desiderio di non aprire nuovi conflitti e anzi di stabilire un terreno di concordia. Ma spesso si dimentica che quei conflitti furono tali soprattutto per motivi d’intolleranza nei confronti del libero pensiero, mentre, nella sostanza, le posizioni di fondo che si confrontavano erano perfettamente legittime. Il timore che nascano nuove accuse d’intolleranza – nel contesto dell’ostilità diffusa in occidente nei confronti del “proprio” pensiero religioso – non può però indurre ad accettare come “verità scientifiche” indiscutibili, da prendere per buone come tali e da “conciliare” con la fede, quelle che sono soltanto credenze metafisiche contrabbandate come fatti oggettivi sperimentalmente accertati.
Le neuroscienze contemporanee hanno aperto terreni nuovi di ricerca e permettono di approfondire tanti aspetti del funzionamento del cervello prima inaccessibili e di descrivere, in prima approssimazione, ciò che accade nel cervello quando si pensa. Ma è assolutamente arbitrario sostenere che le neuroscienze stiano chiarendo (o addirittura abbiano chiarito) la formazione del pensiero e abbiano dissolto il concetto “metafisico-teologico” di anima in quello oggettivo-naturalistico di mente-cervello. Al contrario, la transizione senza soluzione di continuità dalle neuroscienze alle neurofilosofie, facendo credere che le seconde siano la logica conseguenza delle prime, è indebita e rappresenta un modo inelegante di far passare per verità oggettive basate sul metodo sperimentale una vecchia metafisica materialistica che ha le sue origini nella rilettura unilaterale del cartesianesimo da parte di Lamettrie, d’Holbach, Cabanis, Hélvetius e altri. Non a caso, anche i riduzionisti più radicali ma attenti a un approccio serio, come Jean-Pierre Changeux, si guardano dal ricorrere a terminologie del tipo «il cervello pensa», ammettendo con Paul Ricoeur trattarsi di un vero e proprio ossimoro.
Sono ancor oggi perfettamente appropriate le parole scritte quasi un secolo fa da Henri Bergson: «È comprensibile che degli scienziati che filosofeggiano oggi sulla relazione tra fisico e psichico si schierino con l’ipotesi parallelista: i metafisici non hanno fornito loro nient’altro. Ammetto pure che preferiscano la dottrina parallelista a tutte quelle che si potrebbero ottenere con lo stesso metodo di costruzione a priori: trovano in questa filosofia un incoraggiamento ad andare avanti. Ma se qualcuno di loro ci verrà a dire che questa è scienza, che è l’esperienza che ci rivela un parallelismo rigoroso e completo tra vita cerebrale e mentale, ah no!, lo fermeremo e gli risponderemo: potete senz’altro, voi scienziato, sostenere questa tesi, come la sostiene il metafisico, ma non è più lo scienziato che parla in voi, è il metafisico. Ci restituite semplicemente quel che vi abbiamo prestato. La dottrina che ci offrite la conosciamo: esce dalle nostre botteghe, siamo noi filosofi ad averla fabbricata; ed è merce vecchia, molto vecchia. Non per questo vale di meno, ma neppure per questo è migliore. Datela per quel che è, e non fatela passare per un risultato della scienza, per una teoria modellata sui fatti e capace di rimodellarsi su di essi: una dottrina che ha potuto assumere, prima che si sviluppasse la nostra fisiologia e la nostra psicologia, la forma perfetta e definitiva in cui si riconosce una costruzione metafisica».
Una lettura intellettualmente libera delle ricerche e dei risultati delle neuroscienze contemporanee deve saper discernere criticamente i risultati oggettivi dalle indebite estrapolazioni metafisiche. Tanto per fare un solo esempio, la dimostrazione di Changeux che, mentre una persona acquisisce l’idea che due forme geometriche diversamente poste sono congruenti mediante una rotazione, lo stesso fenomeno geometrico accade in ambito neuronale, è di grande interesse ma non costituisce (come si pretende) una dimostrazione dell’ipotesi parallelista mediante la descrizione di come si producano nel cervello le rappresentazioni. Difatti, la rappresentazione scelta è del tutto particolare e la “dimostrazione” non contraddice, anzi è coerente con l’idea bergsoniana che gli stati cerebrali descrivano soltanto gli aspetti locomotori dell’attività mentale. Si conferma la difficoltà di descrivere la formazione di pensieri non riconducibili a fenomeni spazio-temporali rappresentabili nei termini della spazio-temporalità matematica. Né alcuno sa indicare come superarla se non attraverso la semplice affermazione apodittica della riducibilità di ogni aspetto della realtà a relazioni quantitative. Ma questa è una mera ipotesi metafisica.
Il punto è che non appena si accetta l’ideologia naturalistica, non vi è più “dialogo”: la conciliazione tra scienza e fede avviene per sparizione del secondo “dialogante”. Nessun pensiero religioso vivo può convivere con il naturalismo, che ne costituisce la negazione radicale. Il naturalismo ha come progetto la riduzione del pensiero e dell’anima a mere manifestazioni di processi fisico-chimici. Entro questa riduzione i temi della libertà, della finalità, della morale si dissolvono.
Ma – ripeto – opporsi risolutamente al naturalismo non significa opporsi alla scienza. Al contrario. Significa opporsi a qualcos’altro: alla pretesa ontologica, ovvero di costruire una scienza oggettiva dell’essere. Questa filosofia si è impantanata nella diatriba tra dualismo e monismo che non poteva non condurre al prevalere di quest’ultimo in versione materialistica: ne fa testo la facilità con cui il cartesianesimo è stato riletto in chiave materialistica e, come tale, è stato sussunto a filosofia fondativa della scienza.
Chi ha cuore i temi che sono al centro dell’esperienza e del pensiero  religiosi non dovrebbe dialogare con le neurofilosofie, bensì, da un lato guardare alla scienza (alla neuroscienza) nei precisi confini in cui essa ha un valore indiscutibile e, dall’altro, dialogare (e far dialogare la teologia) con le filosofie che hanno tentato nel corso del Novecento di superare le aporie dei grandi sistemi ontologici. Penso in particolare a filosofi come Bergson e Husserl che hanno affrontato questo obbiettivo, in modi assai diversi ma con una preoccupazione comune, come ha ben messo in luce Emmanuel Lévinas.

(L’Osservatore Romano, 9-10 dicembre 2009)

lunedì 7 dicembre 2009

A proposito di turpiloquio e di linguaggio politicamente corretto

Non intendo aggiungere un’altra voce superflua al coro di biasimo nei confronti del presidente della Camera Gianfranco Fini per aver qualificato con una parolaccia chi dice cose spiacevoli nei confronti degli stranieri e degli immigrati. Più che di un problema di dignità della carica osserverei quanto segue. Il ricorso ormai generalizzato al turpiloquio sta facendo sì che l’uso di una terminologia discreta, anzi addirittura letteraria, stia diventando di straordinaria efficacia. Provare per credere. Invece di dire a qualcuno che vi sta sulle scatole (eufemismo) o che vorreste prenderlo a calci nel sedere (traduzione eufemistica di una battutaccia usata, a quanto pare, in un Consiglio dei ministri), provate a dire qualcosa del genere: «lei mi ha definitivamente stufato», «la prego cortesemente di togliersi di torno». L’effetto sarà dirompente. Infatti, un simile linguaggio è tanto inusuale che l’interlocutore resterà di sasso e non troverà la misura giusta per reagire.

Ma c’è un’altra questione di merito assai più interessante. La stampa informa che Fini si è espresso esattamente così: «Chi dice che gli stranieri sono diversi è uno stronzo». Ebbene, se Fini mirava a colpire i razzisti e gli xenofobi ha sbagliato completamente bersaglio e ha incautamente offeso antirazzisti e xenofili.

Da tempo “diverso” non è un’offesa, bensì il supremo complimento negli ambienti a prova di bomba in termini di tolleranza. “Diverso” è la cosa più bella e nobile. Chi sarebbe oggi talmente sciocco da non voler essere “diverso”? Tempo fa fui invitato in una scuola per una manifestazione contro il razzismo e l’antisemitismo, di assoluto stampo democratico e politicamente correttissima. Quando fu il mio turno di parlare agli studenti il Preside mi presentò così: «Ed ora siamo ansiosi di sentire il punto di vista di un “diverso” come il professor Israel…». Invero, per un istante pensai di mandarlo a quel paese, ma compresi subito che se avessi interpellato il poveretto con uno stentoreo «stronzo», egli sarebbe a dir poco scoppiato in lacrime… Lui voleva farmi un complimento. Perché oggigiorno “diverso è bello”. È l’omologazione che è orrenda. Siamo tutti “diversi”, Un ebreo è “diverso”, ma anche un cattolico è “diverso”: “diverso” dagli altri, che sono “diversi” da lui. Un malato è “diverso” non meno di una persona sana. Del resto, come viene definita una persona che ha una menomazione, con rispetto parlando, del tipo essere paralizzato alle gambe? Non certamente come un “disabile” – Dio ne scampi – ma come un “diversamente abile”. Personalmente mi sentirei preso in giro se, essendo cieco, mi definissero così: ma so di non aver assimilato i principi della correttezza politica. Tuttavia, per quanto non mi ci trovi a mio agio, sono perfettamente consapevole che, secondo la vulgata corrente, viviamo in un mondo di “diversità”, che per questo è bello. Mi sembra un modo elegante di tradurre il vecchio detto «il mondo è bello perché è vario», ma so che questo è un pensiero ignobile.

In conclusione, dispiace dirlo, ma Fini appare disinformato (anzi, “diversamente” informato) e fermo a significati lessicali desueti. Se dovessi dargli un rispettoso e sommesso consiglio, direi che la prossima volta dovrebbe usare anziché la parola «stronzo», la locuzione «diversamente intelligente», e naturalmente riferirla a chi è tanto malvagio da non ammettere che  anche gli stranieri sono dei “diversi”. Si potrebbe osservare che, per ragioni di coerenza e di rispetto nei confronti degli stronzi, gli individui intelligenti potrebbero essere chiamati «diversamente stronzi». Ma anche questo è un pensiero ignobile e politicamente scorretto.


(Tempi, 9 dicembre 2009)

sabato 5 dicembre 2009

Sono passati due anni e c'è poco da aggiungere



Può essere imbarazzante rileggere quel che si è scritto tempo fa, quando contiene diagnosi o addirittura previsioni su una materia ostica e complessa come le relazioni politiche e strategiche. Sarebbe scioccamente narcisistico dire che ho avuto un sentimento di sollievo rileggendo l’articolo dal titolo “Come e perché è morta la questione palestinese” che ho firmato sul Foglio, assieme al direttore Giuliano Ferrara, il 22 maggio 2007. Sarebbe sciocco narcisismo rallegrarsi per il fatto che quel che vi era scritto potrebbe essere riproposto oggi parola per parola, quasi senza aggiornamenti: in realtà è una tragedia.
Tanto più è una tragedia perché l’articolo meriterebbe un aggiornamento su un solo punto: la prospettiva odierna non è più quella di “due popoli, due stati”, ma di tre stati. E quanto ai popoli, l’identità di uno dei due appare sempre più liquefatta o trasformata in quella di avamposto della rivoluzione permanente dell’islamismo iraniano. Scrivevamo allora che la formula “due popoli, due stati” era lontana come non mai, se mai aveva avuto prospettive reali e faceva risaltare la colossale ipocrisia del parlare di “processo di pace”. Erano i tempi della guerra civile con Hamas e non era chiaro come sarebbe andata a finire anche se quel dramma era bastato a Hanna Siniora per dire che il progetto nazionale palestinese era morto. Oggi abbiamo dietro di noi il consolidamento del potere di Hamas, malgrado l’operazione “Piombo fuso” di Israele, il declino del potere di Abu Mazen e l’indebolimento di Fatah, l’allontanarsi in una nebbia confusa delle più timide prospettive di conciliazione tra i due movimenti palestinesi attorno a un progetto di stato nazionale. E qualcuno è finito a parlare di tre stati… Insomma, l’ipocrisia di continuare a parlare di “processo di pace” è divenuta oggi un autentico scandalo, soltanto un modo per distogliere gli occhi dalla realtà e dalle vere poste in gioco.
Più di due anni fa esponevamo la ragione primaria per cui la questione palestinese era morta: l’assenza di tutte le caratteristiche che contrassegnano il processo di formazione di uno stato nazionale e, tra di esse, la più importante, ovvero la manifestazione della volontà di costruire. Gli ebrei giunti in Palestina in una serie di “aliyah” iniziate nel 1881 non attesero di ottenere uno stato per costruire qualcosa, né anteposero a questa costruzione una questione militare. Lo stato nazionale fu la logica conseguenza di un processo di lunghissima durata il cui centro era stato il dissodamento delle terre, l’agricoltura, la realizzazione di centri abitati, di scuole, la promozione della cultura e della scienza. Cosa vieterebbe ai palestinesi di Gaza di costruire un primo nucleo di stato nazionale, per giunta con il sostegno degli imponenti aiuti finanziari internazionali? Chi potrebbe imporre blocchi alle frontiere o restrizioni di fronte alla volontà concretamente espressa di perseguire questo obbiettivo civile tralasciando quello militare? Ma siamo ben lungi da ciò, oggi ancor più di ieri. Gaza è una portaerei islamica, imbottita di missili e armi di ogni tipo, che vive nell’attesa di un confronto vincente con Israele e che sostiene la sua economia sugli aiuti internazionali concessi, a loro volta, nella speranza di esorcizzare quel confronto. Il potere di Abu Abbas e del Fatah sul West Bank è ormai esangue, tenuto in piedi come simulacro di un’alternativa alla trasformazione dell’intera area “palestinese” in una base iraniana.
Quindi, oggi ancor più di ieri, non esiste alcuna volontà costruttiva, ma un solo obbiettivo: l’eliminazione di Israele. E che questo sia l’unico obbiettivo è testimoniato dal pervicace rifiuto di considerarne sia pur ipoteticamente il riconoscimento. Così, se si può parlare di questione e di stato palestinese è soltanto nel senso di uno stato islamico che dovrebbe prendere il posto di Israele al termine di un confronto vittorioso.
Un altro tema che veniva sollevato nell’articolo di due anni fa era quello del negazionismo: non soltanto quello della Shoah, ma quello della presenza storica degli ebrei in Palestina. Ebbene, anche questo tema lo ritroviamo oggi, e in termini di molto aggravati. L’idea di questa forma di negazionismo era stata lanciata Arafat durante il vertice di Camp David del 2002: affermò che un tempio ebraico a Gerusalemme non era mai esistito. Oggi questa tematica dilaga. Anche la televisione di Fatah ha sostenuto con dovizia di argomenti “scientifici” che tutta la storia della presenza ebraica in Terrasanta è inventata di sana pianta. Insomma, la Bibbia, inclusi i Vangeli, sono un colossale falso sionista. Inutile dire che questa propaganda recluta alfieri anche in occidente. Spuntano fuori archeologi improvvisati che spiegano che il Muro del Pianto non ha mai fatto parte del Tempio il quale, casomai, era in altro luogo. Secondo costoro, cadendo così le pretese ebraiche sul Monte del Tempio, la questione di Gerusalemme sarebbe facilmente risolubile, ovviamente a favore dei musulmani.
Questa esplosione di negazionismo rende evidente che la posta in gioco è tutto salvo che la volontà di costruire una nazione palestinese che conviva con Israele. Lo ha messo in luce la vicenda di un musulmano che ha avuto il coraggio di scrivere in un saggio la verità: il professor Sari Nusseibeh. Egli ha riconosciuto che il Monte del Tempio è il luogo che testimonia il legame profondo, storico e documentato, degli ebrei con Gerusalemme. Anzi, se quel luogo è divenuto sacro anche ai musulmani è perché Maometto venne a visitarlo con la coscienza del suo carattere sacro per l’ebraismo e il cristianesimo in quanto “religioni di Abramo”. Il coraggioso riconoscimento di Nusseibeh mirava a spazzare via la deleteria tendenza al rifiuto dell’“archeologia nemica”. Se questo punto di vista fosse stato accolto ci si sarebbe trovati di fronte a un passaggio decisivo. Perché, se Gerusalemme rappresenta il massimo punto di contesa, il tema più difficile, quasi insolubile, su cui si esprime il vertice dell’inconciliabile, non è forse la mossa più intelligente partire proprio di lì, riconoscere reciprocamente il diritto a gestire pacificamente ciò che è più sacro per entrambi?
Ma l’intervento del professor Nusseibeh non soltanto non ha smosso le coscienze ma ha messo lui in una situazione insostenibile. Pare che abbia ricevuto minacce. Di certo, egli non ha aperto più bocca e ha declinato l’invito a parlare in un incontro alla Scuola biblica di Gerusalemme. Ancora una volta la possibilità di costruire qualcosa è stata rifiutata.
Di fronte alla negazione totale non c’è dubbio che Israele sia stanco, ed è più che comprensibile. Anche i “falchi” come l’ex-ministro della difesa Mofaz parlano di trattare col diavolo, ovvero con Hamas. È duro, quasi impossibile accettare l’idea che in qualche recesso non si annidi una dose minima di realismo. Quel che è peggio è che il desiderio di trovarla può far scambiare per realismo quelli che sono soltanto espedienti tattici. Israele, per amore della vita, cerca di ottenere Gilad Shalit liberando un numero spropositato di prigionieri palestinesi, in uno scambio che Massimo D’Alema definirebbe “sproporzionato”. E il governo Netanyahu ha accettato di bloccare qualsiasi costruzione nella West Bank per dieci mesi. Ma è doloroso dire che tutto questo non servirà a molto. Non siamo più di fronte a una questione palestinese e l’esistenza di Israele è ormai parte di un problema geopolitico di vaste dimensioni. L’abbandono di Israele al suo destino è il tema su cui l’islam radicale capitanato dall’Iran vuole misurare la debolezza dell’occidente. E per ottenere questo risultato, da un lato lascia intendere che questo abbandono è la chiave per risolvere ogni problema – come Hitler lasciava credere che lo fosse la questione dei Sudeti – e, dall’altro, ne offre la giustificazione diffondendo la tematica negazionista, non tanto quella sulla Shoah quanto quella assai più efficace che delegittima l’intera storia ebraica. Lo spegnersi della voce di Nusseibeh, come due anni fa quella di Siniora, è la testimonianza che ben altro è in gioco che la “questione palestinese”. È in campo l’idea tentatrice che senza Israele il mondo sarebbe più vivibile. Se ci si soffermerà a contemplare incerti questo volto di Medusa si giungerà a un momento in cui sarà troppo tardi per tutti.




(Il Foglio, 2 dicembre 2009)