«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
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giovedì 24 dicembre 2009
La scuola dà i numeri. E sono tutti sbagliati
«Sotto questa riforma vi è l’idea per la quale tutto quello che non sembra efficace nell’organizzazione sociale deve essere relegato tra le opzioni o semplicemente tolto». Così Max Gallo, membro dell’Académie Française, ha commentato il proposito sciagurato della nuova riforma scolastica francese che considera facoltative la storia e la geografia alla fine del liceo scientifico e che suscitato la rivolta molti intellettuali. Va preso atto che è in azione un fronte transazionale che – per dirla con le arroganti parole dell’ispettore generale francese Roger-François Gauthier – conduce una «lotta militante» per mandare in soffitta l’istruzione basata sulle conoscenze e le discipline; e andrebbe costituito un fronte di difesa della cultura e della ragione perché il continente europeo non affondi nel sottosviluppo. Perché mai l’Europa deve esistere solo per unificare le pulsioni e le iniziative peggiori? La «disfatta della scuola» in Francia è stata raccontata dal celebre matematico Laurent Lafforgue (nel libro omonimo appena tradotto da Marietti); in Inghilterra si parla di sostituire la storia con Facebook e Twitter; e in Italia vi sono “centri studi” che propongono di eliminare il latino perché non piace agli studenti – un criterio con cui, a maggior ragione, andrebbe abolita la matematica.
L’istruzione sta cadendo dalla padella nella brace e, per di più, con l’olio della padella che gli si rovescia addosso. Fuor di metafora, i guasti provocati da certi pedagogisti e didatti stanno per diventare poca cosa rispetto a un nuovo tsunami che oltretutto amplifica quei guasti. I quali – va ricordato – sono derivati dall’idea di privilegiare la metodologia sui contenuti: apprendere ad apprendere anziché apprendere. I contenuti sono secondari, quel che conta è il metodo: addestrare un esercito di teste “ben fatte” (non importa se da teste mal fatte e vuote). Gli strumenti per realizzare questa “riforma” erano l’abolizione degli odiati “programmi” (parola ormai impronunciabile), l’autoformazione e l’autonomia scolastica. Così, al posto dei programmi abbiamo avuto le “Indicazioni nazionali”, che non prescrivono i contenuti che lo studente deve conoscere al termine del percorso, ma le “competenze” da acquisire, in un’orgia di linguaggio “didattichese”, in cui trionfa la “complessità”, la storia è ridotta all’acquisizione dell’idea del tempo e conoscere la geografia significa soprattutto «costruire le proprie geografie».
In realtà, chi conosca i “programmi” di un tempo sa bene che consistevano di elenchi essenziali. La lettura del decreto del 1913 che istituiva il “Liceo-Ginnasio moderno” ridicolizza, per chiarezza e modernità pedagogica, certi ampollosi proclami odierni. Ma, si sa, la chiacchiera pseudoculturale vacua e tronfia piace, soprattutto perché è alla portata degli ignoranti, che celano dietro di essa la loro confusione mentale. Così, l’eliminazione dei programmi ha avuto l’effetto di aprire le porte all’intervento in materia scolastica di una sterminata platea di persone che, in precedenza, non avrebbe osato aprir bocca. Coloro che ripetono che i mali della scuola possono essere guariti solo con dosi massicce di autonomia non si avvedono, poveretti, che è proprio il trionfo dei metodologi e dei nullatenenti (intellettuali) ad aver trafugato l’autonomia scolastica. Difatti, la finta autonomia di cui gode la scuola non è quella gestionale, l’unica sensata, bensì quella di intervenire sui contenuti anche in forme scriteriate purché entro il contesto soffocante di una valanga di prescrizioni – tra cui a breve la demenziale “certificazione delle competenze” – e di indicazioni teoriche che stringono la scuola in una soffocante cappa di piombo ideologica, contenute in miriadi di circolari verbose e insensate.
La padella in cui rischia di cadere il sistema dell’istruzione è il potere degli “esperti”. Si tratta spesso di persone che non hanno mai fatto un’ora di lezione in vita loro e che non hanno conoscenza specifica di alcuna materia, e spesso prive di preparazione culturale. Quel che pretendono di possedere è la professionalità di gestire la scuola e di ottimizzarne il rendimento, e questo soltanto perché conoscono certi precetti di gestione aziendale che vogliono far credere utili ad ogni bisogna. In certi casi, si tratta di manager che si sono convertiti alla problematica scolastica con l’identica mentalità e le identiche tecniche con cui conferivano i bollini di qualità a ditte di produzione di yogurth o di calze. In altri casi, di burocrati e funzionari che si sono arruolati nella «lotta militante» di cui parlava l’ispettore francese.
C’è quasi da rimpiangere i pedagogisti di stato: quantomeno si trattava di intellettuali e, in certi casi, di gente colta. Salvo il fatto che le lamentazioni odierne di taluni di costoro, che si vedono anche loro assoggettati alle prescrizioni dei manager dei bollini qualità, non meritano compassione ed fanno pensare piuttosto agli apprendisti stregoni.
Ho letto uno dei progetti di questi nuovi “riformatori”, mirante alla riqualificazione dell’insegnamento della matematica. Per valutarlo – anche i valutatori, si rassegnino, possono essere valutati – basta una sola osservazione. Nel testo è possibile sostituire la matematica con un’altra materia qualsiasi – storia, ceramica, economia domestica o musica – senza bisogno di cambiare una sola frase. In altri termini, l’estensore di matematica non sa nulla e ancor meno gliene importa: egli si è limitato a vendere un pacchetto di istruzioni da lui reputato buono per il processo produttivo di una merce qualsiasi. In compenso, il documento pullula di terminologia anglo-manageriale – “coaching”, “training on the job”, “tutoring on the job”, “repository”, “learning object” – che può abbindolare qualche sprovveduto ma non nasconde un drammatico vuoto concettuale. Come non lo nasconde l’apparato organizzativo pesante, che prevede quantità di “tutor”, gruppi di lavoro, équipe, pacchi di relazioni. Da chi formati e da chi redatti? Troppo faticoso entrare nel merito. Meglio cavarsela delegando ai preesistenti gruppi di metodologia didattica. Così mentre il sistema dell’istruzione casca dalla padella nella brace il vecchio olio della padella gli si rovescia addosso.
Ogni tentativo di ridare alla scuola la dignità di un’istituzione formativa che abbia al suo centro la trasmissione del sapere ha sempre incontrato nemici accaniti. Anche stavolta la reazione emerge, con il tipico accanimento di chi detesta la cultura e, per dirla con Gallo, tutto ciò che non appare direttamente funzionale all’utilità sociale. Si parla tanto di autonomia scolastica? La risposta è allora nelle mani degli insegnanti, che se ne avvalgano nel senso migliore, esercitando in pieno la loro missione di formare intellettualmente e culturalmente i giovani, con la dignità di educatori e non di esecutori passivi delle prescrizioni degli incompetenti tecnocrati dei bollini qualità.
(Il Giornale, 17 dicembre 2009)
Un giorno i nostri figli non saranno più bocciati, avranno solo “successi differiti”
La britannica Professional Associations of Teachers (PAT) ha avanzato la proposta di bandire l’uso della parola «bocciatura» dalle scuole del Regno Unito e di sostituirla con il termine «successo differito»… La preoccupazione degli zelanti educatori è di evitare che gli alunni si demoralizzino. Difatti, secondo loro, l’annuncio di un fallimento potrebbe allontanarli dallo studio per tutta la vita. «Noi vogliamo affermare il principio che i ragazzi non necessariamente ottengono un successo alla prima prova», ha detto il portavoce dell’associazione. D’altra parte – ha concesso – «ammettiamo che non è possibile semplicemente cancellare una parola dal dizionario».
Grazia loro. Tuttavia, quel che i signori della PAT trovano ragionevole è di abolire l’uso della parola nel mondo scolastico. Potremmo farci quattro risate di fronte a questo vero e proprio trionfo del politicamente corretto. Ma anche se è probabile che questa buffonata non farà molta strada, a ben vedere c’è poco da ridere. Non soltanto perché a proporla è un’associazione di insegnanti e non un qualsiasi psicolabile vociante per strada, ma perché, a ben vedere, si tratta della logica conseguenza di un andazzo che va avanti da anni e che ha le sue premesse nell’idea che se uno va male a scuola non paga alcun prezzo ma accumula soltanto «debiti formativi» da ripagare prima o poi, in un modo o nell’altro; di fatto in nessun modo serio. E così come il termine «disabile» si è tramutato nell’espressione «diversamente abile» (largamente usata da noi nelle circolari e nella decretazione), in perfetta analogia i «debiti formativi» diventano «successi differiti». C’è poco quindi da stupirsi: questa è soltanto l’espressione coerente e compiuta della teoria del «successo formativo garantito», pilastro della scuola “democratica”, in cui tutti sono uguali, o meglio, debbono essere uguali per decreto o non per quello che fanno. E se non sono uguali, è colpa della scuola e dell’insegnante.
C’è poco da ridere. Che luogo educativo è una scuola da cui l’insuccesso è bandito per decreto, tutto va bene e nessuno sbatte mai la faccia contro il muro? Il bello è che coloro che accusano chi ragiona come noi di «severismo» (un neologismo degno del livello intellettuale della PAT), sono gli stessi che predicano che la scuola deve essere luogo di formazione dei cittadini. Bei cittadini quelli che sono stati educati a credere che non esistano doveri di alcun tipo, che studiare è un’opzione e che il successo te lo garantisce qualcun altro, che comunque prima o poi arriverà – è soltanto «differito» – che vivono tra otto cuscini di piume, coccolati e viziati per tenerli lontano dall’idea che si possa fallire, altrimenti potrebbero disperarsi e crollare. Altro che fucina di cittadini consapevoli… È una fabbrica di imbelli che, all’uscita dalla scuola, si schianteranno di fronte ai primi inevitabili insuccessi: il lavoro che non si trova, e se lo trovi il datore di lavoro ti sbatte fuori perché nessuno ti ha insegnato a faticare anche quando non ne hai voglia, la (il) fidanzata/o che ti pianta perché sei una lagna di viziato/a, la multa da pagare perché non hai ancora capito che non puoi fare il comodo tuo come a scuola, la dichiarazione delle tasse da fare e non ti va ma non puoi rinviarla all’anno dopo come lo studio della matematica e il funzionario delle imposte non si lascia prendere a pernacchie come il professore.
Per vedere i risultati dell’opera di questi educatori e maestri di retorica che infestano mezza Europa, non bisognerà aspettare. Sono già sotto gli occhi. Non è neppure un «insuccesso differito».
mercoledì 23 dicembre 2009
Chi usa Pacelli per far litigare ebrei e B-XVI
Ho più volte sostenuto che la questione del comportamento del papa Pio XII di fronte alla Shoah non si presta a sentenze trancianti sullo stile inaugurato dal “Vicario” di Rolf Hochhuth. Al contrario, gli approfondimenti storiografici acquisiti in questi ultimi anni hanno reso incredibile la tesi radicale di un Papa quasi complice dello sterminio degli ebrei, o comunque del tutto indifferente ad esso. La prudenza imporrebbe di consegnare questa vicenda interamente alla ricerca storica rigorosa, condotta sui documenti disponibili e sugli archivi che verranno messi a disposizione, e non a polemiche contingenti, affrettate o contrassegnate dall’emotività. Inoltre, la questione della beatificazione di Pio XII, così come di ogni altro Papa o personalità cristiana, appartiene alla sfera delle decisioni della Chiesa su cui nessuno può interferire o dettare comportamenti. Da questo punto di vista la dichiarazione congiunta del Rabbino capo di Roma, del presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e del presidente della Comunità Ebraica Romana, appare equilibrata. Si dichiara difatti di non «poter interferire su decisioni interne della Chiesa che riguardano le sue libere espressioni religiose» e si esprime la riconoscenza per i «singoli e le istituzioni della Chiesa che si adoperarono per salvare gli ebrei perseguitati». Tale riconoscenza andrebbe estesa anche a Pio XII, poiché non è credibile che un numero così elevato di ebrei potesse essere accolto addirittura a S. Giovanni in Laterano senza una volontà precisa del papa. È tuttavia comprensibile che, dopo vari decenni in cui la figura di Pio XII è stata definitivamente identificata con quella addirittura di un complice dello sterminio o, quantomeno, di un indifferente, una parte del mondo ebraico – e anche del mondo cristiano – non riesca ad accettare un’immagine diversa senza un percorso all’interno della ricerca storiografica che aiuti ad abbandonare un approccio emotivo.
Va detto con franchezza che interviene in questa vicenda qualcosa di bizzarro che assomiglia a quella che, in altri contesti, viene chiamata la “giustizia a orologeria”. In altri termini, in tutti i passaggi cruciali per i rapporti ebraico-cristiani, accade qualcosa o interviene qualche iniziativa che provoca emozioni, sconcerto, riapre ferite chiuse a fatica. Non rievocheremo questi casi. Ma è indubbio che la questione di Pio XII si riapre con un singolare sincronismo sempre nei momenti in cui sono in agenda passaggi importanti per i rapporti ebraico-cristiani. Oppure salta fuori un vescovo Williamson mentre si affrontano i delicati aspetti di preparazione di un viaggio del papa in Israele. Se a ciò si aggiunge che, al momento dato, parte della stampa è pronta a cercare esclusivamente il parere dell’incendiario di turno, il quadro è completo.
Non è mia intenzione fare dietrologia. Stiamo ai fatti. Qualsiasi cosa si tenti di dire contro l’evidenza, Ratzinger, come cardinale e “teorico” del pontificato di Giovanni Paolo II e poi come papa, è un protagonista del progresso dei rapporti ebraico-cristiani – e sottolineo la parola “rapporto” anziché quella di “dialogo”. Chiunque voglia procedere in questa direzione non deve dare spazio a chi lavora per un drammatico arretramento. Si mettano in opera tutti i confronti utili a creare un contesto in cui la questione di Pio XII non diventi il tema della visita del papa in Sinagoga. Ma tutto deve essere fatto per non far saltare questa visita: sarebbe il regalo più gradito a chi preferisce coltivare il seme della discordia. Ebrei e cristiani hanno troppe cose in comune e iniziative da condurre: a partire da quella per la libertà religiosa in ogni parte del mondo.
(Il Foglio, 22 dicembre 2009)
martedì 22 dicembre 2009
lunedì 21 dicembre 2009
Negare il Natale a 97 alunni su 100 non è tolleranza ma autocensura
L’ultima della serie l’abbiamo appresa dalle cronache. In un istituto scolastico di Leonessa (provincia di Rieti) comprendente scuola materna, elementare e media, la dirigente scolastica ha cancellato le festività natalizie, vietando qualsiasi addobbo che evochi anche lontanamente il Natale, per non offendere la sensibilità religiosa di tre bambini musulmani su cento alunni. Non intendo sprecare inchiostro sulla questione se sia sensato privare di una tradizione consolidata il 97 per cento delle famiglie con relativi bambini: qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso può rispondere da sola. Intendo piuttosto chiedere quando mai – una volta soltanto dal dopoguerra a oggi – sia accaduto che tanta acutissima sensibilità per i fedeli musulmani si sia manifestata per i seguaci di altre religioni, in particolare per famiglie e bambini ebrei. Eppure, di certo, situazioni con percentuali del genere si sono verificate. In genere – e posso dirlo con cognizione di causa – si sono risolte con reciproco buon senso e tolleranza. Chi fa frequentare ai figli una scuola a maggioranza cattolica non può ragionevolmente pretendere la cancellazione di ogni riferimento religioso al Natale. Può chiedere certamente che non si imponga ai propri bambini la recitazione di preghiere o di poesie religiose e che essi siano liberi di non partecipare agli atti carichi di aspetti confessionali. Con una reciproca ragionevolezza le questioni si risolvono senza troppi problemi. Ma non si ricordano casi di dirigenti scolastici che, per garantire la sensibilità religiosa di una piccola minoranza, abbiano imposto la totale cancellazione del Natale, resistendo in modo ferreo alle richieste delle famiglie, del sindaco, della diocesi e persino – pare – della dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale.
Come mai proprio in questo caso si sente il bisogno di difendere con tanto implacabile rigore la libertà di pensiero e di religione? Paura? Dhimmitudine? Conformismo? Odio di sé? Il menu delle risposte è ampio ma nessuno può sensatamente includervi il semplice spirito di tolleranza. La tolleranza a corrente alternata non merita questo nome.
In realtà questo tipo di manifestazioni s’iscrivono in una tendenza per cui tutti i simboli caratteristici della religiosità che appartiene alla tradizione europea debbono essere messi tra parentesi o addirittura nascosti, mentre quelli musulmani possono essere esibiti in piena libertà. È auspicato il ritorno dei culti cristiani nelle catacombe, mentre il divieto svizzero di costruire minareti è condannato come una manifestazione bestiale di razzismo. Il premier turco Erdogan – ovvero il rappresentante dell’islam più “moderato”, quello che dovrebbe portarci quasi ottanta milioni di musulmani in Europa – ha dichiarato: «I minareti sono le nostre baionette, le cupole i nostri caschi, le moschee le nostre caserme e i credenti il nostro esercito». Nessuno si è scandalizzato per simili dichiarazioni guerrafondaie. Anzi si trovano in abbondanza persone pronte a rifornire di viveri e munizioni l’esercito dei credenti, mentre proibiscono stelle di Natale e presepi come se si trattasse di materiale sovversivo. Il sindaco di Londra invita a digiunare durante il Ramadan per immedesimarsi nello spirito della religione musulmana. Ma il reciproco non deve valere. Secondo i dhimmi i bambini musulmani debbono essere preservati da ogni contatto anche lontano con altre fedi, mentre gli altri debbono essere educati alla cultura del “diverso”. E poi ci si chiede come mai anche in Italia un referendum sui minareti avrebbe lo stesso esito che in Svizzera.
(Tempi, 23 dicembre 2009)
giovedì 17 dicembre 2009
Il fuoruscito che vide in Stalin e nei suoi fan la medesima foga depuratrice dei nazisti
Non sono stato uno degli amici più intimi dello storico Victor Zaslavsky, improvvisamente scomparso il 29 novembre scorso, e quindi non sono la persona più titolata a ricordarlo. Ma proprio per questo può avere valore la testimonianza di chi, pur non avendo avuto un rapporto continuativo con lui, è stato così profondamente colpito dalla sua personalità di intellettuale e dalla sua profonda umanità.
Victor Zaslavsky ti si presentava subito come uno di quei personaggi dei grandi romanzi russi: schivo, con un sorriso un po’ ironico sul volto, ma pronto alla battuta o all’osservazione penetrante, e a offrirti i racconti affascinanti di una persona che aveva vissuto passando per mezzo mondo dopo aver abbandonato l’Unione Sovietica. Talora era anche esilarante, come quanto raccontò che il posto in cui più aveva sofferto il freddo in vita sua non era stato in Russia o in Canada, bensì… a Ostia, dove aveva soggiornato come fuoruscito. Victor era un ingegnere e questa sua preparazione scientifica mi ha fatto sempre sentire una consonanza e una comprensione immediata di temi e problemi, nelle occasioni in cui abbiamo parlato.
Naturalmente egli è noto per essere stato un grande storico che ha avuto un ruolo fondamentale nel mettere a nudo i meccanismi del potere sovietico nei suoi rapporti con i partiti comunisti dei paesi occidentali e, in particolare, con il partito comunista italiano. La sua opera storiografica si è estesa nell’arco di un trentennio ed ha scavato i temi della società sovietica nel periodo di Breznev, dell’emigrazione ebraica, della perestroika. Nessuna concessione all’ideologia da parte di Zaslavsky. Nonostante il fatto che le naturali ferite per le sue vicende personali avrebbero potuto portarlo ad atteggiamenti emotivi, egli si è attenuto al modello di una storiografia rigorosamente documentaria. Ed è in tale direzione, avvalendosi di materiali d’archivio di recente disponibilità, che ha prodotto alcune delle sue ultime opere più dirompenti. Prima di tutte, il libro Togliatti e Stalin, il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, scritto con Elena Aga-Rossi, che ha demolito il mito della svolta di Salerno e di una via togliattiana di un comunismo nazionale democratico, mostrando che quella scelta faceva parte di un preciso progetto di Stalin. Poi Lo stalinismo e la sinistra italiana del 2004, che sviluppò e approfondì questa tematica.
Un’altra opera magistrale di Zaslavsky è stata la ricostruzione del massacro di Katyn in Pulizia di classe, con cui ha smantellato definitivamente le menzogne staliniane tese a scaricare la responsabilità di quella strage sui nazisti, con la sostanziale connivenza dell’occidente. Delle conclusioni di quel libro ho più volte ripreso l’osservazione concernente l’analogia profonda che corre tra i due grandi totalitarismi del Novecento: «il tentativo di creare una società nuova, utilizzando i metodi “scientifici” dell’igiene sociale e della “purificazione” dal “contagio borghese”».
È facile immaginare quanto queste tesi fossero insopportabili per chi non ha tagliato il cordone ombelicale con il comunismo. Non posso dimenticare un convegno storico in cui un amico venne a raccontarmi di essere stato vivamente redarguito da alcuni partecipanti per essersi messo a chiacchierare con un “tipo come quello”. Zaslavsky per parte sua, aveva come scudo la sua ironia, con cui chiedeva sempre come mai non ci rendessimo conto che certe persone, malgrado le loro proteste in senso contrario, parlavano allo stesso identico modo di quei comunisti che lui aveva conosciuto fino a quando aveva vissuto in Unione Sovietica. Questa lucida ironia ci mancherà molto.
(Tempi, 16 dicembre 2009)
mercoledì 16 dicembre 2009
Occhio alla metafisica travestita da scienza
È perfettamente comprensibile che i passati tumultuosi rapporti tra scienza e fede – in buona sostanza il “caso Galileo” – inducano alla prudenza e al desiderio di non aprire nuovi conflitti e anzi di stabilire un terreno di concordia. Ma spesso si dimentica che quei conflitti furono tali soprattutto per motivi d’intolleranza nei confronti del libero pensiero, mentre, nella sostanza, le posizioni di fondo che si confrontavano erano perfettamente legittime. Il timore che nascano nuove accuse d’intolleranza – nel contesto dell’ostilità diffusa in occidente nei confronti del “proprio” pensiero religioso – non può però indurre ad accettare come “verità scientifiche” indiscutibili, da prendere per buone come tali e da “conciliare” con la fede, quelle che sono soltanto credenze metafisiche contrabbandate come fatti oggettivi sperimentalmente accertati.
Le neuroscienze contemporanee hanno aperto terreni nuovi di ricerca e permettono di approfondire tanti aspetti del funzionamento del cervello prima inaccessibili e di descrivere, in prima approssimazione, ciò che accade nel cervello quando si pensa. Ma è assolutamente arbitrario sostenere che le neuroscienze stiano chiarendo (o addirittura abbiano chiarito) la formazione del pensiero e abbiano dissolto il concetto “metafisico-teologico” di anima in quello oggettivo-naturalistico di mente-cervello. Al contrario, la transizione senza soluzione di continuità dalle neuroscienze alle neurofilosofie, facendo credere che le seconde siano la logica conseguenza delle prime, è indebita e rappresenta un modo inelegante di far passare per verità oggettive basate sul metodo sperimentale una vecchia metafisica materialistica che ha le sue origini nella rilettura unilaterale del cartesianesimo da parte di Lamettrie, d’Holbach, Cabanis, Hélvetius e altri. Non a caso, anche i riduzionisti più radicali ma attenti a un approccio serio, come Jean-Pierre Changeux, si guardano dal ricorrere a terminologie del tipo «il cervello pensa», ammettendo con Paul Ricoeur trattarsi di un vero e proprio ossimoro.
Sono ancor oggi perfettamente appropriate le parole scritte quasi un secolo fa da Henri Bergson: «È comprensibile che degli scienziati che filosofeggiano oggi sulla relazione tra fisico e psichico si schierino con l’ipotesi parallelista: i metafisici non hanno fornito loro nient’altro. Ammetto pure che preferiscano la dottrina parallelista a tutte quelle che si potrebbero ottenere con lo stesso metodo di costruzione a priori: trovano in questa filosofia un incoraggiamento ad andare avanti. Ma se qualcuno di loro ci verrà a dire che questa è scienza, che è l’esperienza che ci rivela un parallelismo rigoroso e completo tra vita cerebrale e mentale, ah no!, lo fermeremo e gli risponderemo: potete senz’altro, voi scienziato, sostenere questa tesi, come la sostiene il metafisico, ma non è più lo scienziato che parla in voi, è il metafisico. Ci restituite semplicemente quel che vi abbiamo prestato. La dottrina che ci offrite la conosciamo: esce dalle nostre botteghe, siamo noi filosofi ad averla fabbricata; ed è merce vecchia, molto vecchia. Non per questo vale di meno, ma neppure per questo è migliore. Datela per quel che è, e non fatela passare per un risultato della scienza, per una teoria modellata sui fatti e capace di rimodellarsi su di essi: una dottrina che ha potuto assumere, prima che si sviluppasse la nostra fisiologia e la nostra psicologia, la forma perfetta e definitiva in cui si riconosce una costruzione metafisica».
Una lettura intellettualmente libera delle ricerche e dei risultati delle neuroscienze contemporanee deve saper discernere criticamente i risultati oggettivi dalle indebite estrapolazioni metafisiche. Tanto per fare un solo esempio, la dimostrazione di Changeux che, mentre una persona acquisisce l’idea che due forme geometriche diversamente poste sono congruenti mediante una rotazione, lo stesso fenomeno geometrico accade in ambito neuronale, è di grande interesse ma non costituisce (come si pretende) una dimostrazione dell’ipotesi parallelista mediante la descrizione di come si producano nel cervello le rappresentazioni. Difatti, la rappresentazione scelta è del tutto particolare e la “dimostrazione” non contraddice, anzi è coerente con l’idea bergsoniana che gli stati cerebrali descrivano soltanto gli aspetti locomotori dell’attività mentale. Si conferma la difficoltà di descrivere la formazione di pensieri non riconducibili a fenomeni spazio-temporali rappresentabili nei termini della spazio-temporalità matematica. Né alcuno sa indicare come superarla se non attraverso la semplice affermazione apodittica della riducibilità di ogni aspetto della realtà a relazioni quantitative. Ma questa è una mera ipotesi metafisica.
Il punto è che non appena si accetta l’ideologia naturalistica, non vi è più “dialogo”: la conciliazione tra scienza e fede avviene per sparizione del secondo “dialogante”. Nessun pensiero religioso vivo può convivere con il naturalismo, che ne costituisce la negazione radicale. Il naturalismo ha come progetto la riduzione del pensiero e dell’anima a mere manifestazioni di processi fisico-chimici. Entro questa riduzione i temi della libertà, della finalità, della morale si dissolvono.
Ma – ripeto – opporsi risolutamente al naturalismo non significa opporsi alla scienza. Al contrario. Significa opporsi a qualcos’altro: alla pretesa ontologica, ovvero di costruire una scienza oggettiva dell’essere. Questa filosofia si è impantanata nella diatriba tra dualismo e monismo che non poteva non condurre al prevalere di quest’ultimo in versione materialistica: ne fa testo la facilità con cui il cartesianesimo è stato riletto in chiave materialistica e, come tale, è stato sussunto a filosofia fondativa della scienza.
Chi ha cuore i temi che sono al centro dell’esperienza e del pensiero religiosi non dovrebbe dialogare con le neurofilosofie, bensì, da un lato guardare alla scienza (alla neuroscienza) nei precisi confini in cui essa ha un valore indiscutibile e, dall’altro, dialogare (e far dialogare la teologia) con le filosofie che hanno tentato nel corso del Novecento di superare le aporie dei grandi sistemi ontologici. Penso in particolare a filosofi come Bergson e Husserl che hanno affrontato questo obbiettivo, in modi assai diversi ma con una preoccupazione comune, come ha ben messo in luce Emmanuel Lévinas.
(L’Osservatore Romano, 9-10 dicembre 2009)
lunedì 7 dicembre 2009
A proposito di turpiloquio e di linguaggio politicamente corretto
Non intendo aggiungere un’altra voce superflua al coro di biasimo nei confronti del presidente della Camera Gianfranco Fini per aver qualificato con una parolaccia chi dice cose spiacevoli nei confronti degli stranieri e degli immigrati. Più che di un problema di dignità della carica osserverei quanto segue. Il ricorso ormai generalizzato al turpiloquio sta facendo sì che l’uso di una terminologia discreta, anzi addirittura letteraria, stia diventando di straordinaria efficacia. Provare per credere. Invece di dire a qualcuno che vi sta sulle scatole (eufemismo) o che vorreste prenderlo a calci nel sedere (traduzione eufemistica di una battutaccia usata, a quanto pare, in un Consiglio dei ministri), provate a dire qualcosa del genere: «lei mi ha definitivamente stufato», «la prego cortesemente di togliersi di torno». L’effetto sarà dirompente. Infatti, un simile linguaggio è tanto inusuale che l’interlocutore resterà di sasso e non troverà la misura giusta per reagire.
Ma c’è un’altra questione di merito assai più interessante. La stampa informa che Fini si è espresso esattamente così: «Chi dice che gli stranieri sono diversi è uno stronzo». Ebbene, se Fini mirava a colpire i razzisti e gli xenofobi ha sbagliato completamente bersaglio e ha incautamente offeso antirazzisti e xenofili.
Da tempo “diverso” non è un’offesa, bensì il supremo complimento negli ambienti a prova di bomba in termini di tolleranza. “Diverso” è la cosa più bella e nobile. Chi sarebbe oggi talmente sciocco da non voler essere “diverso”? Tempo fa fui invitato in una scuola per una manifestazione contro il razzismo e l’antisemitismo, di assoluto stampo democratico e politicamente correttissima. Quando fu il mio turno di parlare agli studenti il Preside mi presentò così: «Ed ora siamo ansiosi di sentire il punto di vista di un “diverso” come il professor Israel…». Invero, per un istante pensai di mandarlo a quel paese, ma compresi subito che se avessi interpellato il poveretto con uno stentoreo «stronzo», egli sarebbe a dir poco scoppiato in lacrime… Lui voleva farmi un complimento. Perché oggigiorno “diverso è bello”. È l’omologazione che è orrenda. Siamo tutti “diversi”, Un ebreo è “diverso”, ma anche un cattolico è “diverso”: “diverso” dagli altri, che sono “diversi” da lui. Un malato è “diverso” non meno di una persona sana. Del resto, come viene definita una persona che ha una menomazione, con rispetto parlando, del tipo essere paralizzato alle gambe? Non certamente come un “disabile” – Dio ne scampi – ma come un “diversamente abile”. Personalmente mi sentirei preso in giro se, essendo cieco, mi definissero così: ma so di non aver assimilato i principi della correttezza politica. Tuttavia, per quanto non mi ci trovi a mio agio, sono perfettamente consapevole che, secondo la vulgata corrente, viviamo in un mondo di “diversità”, che per questo è bello. Mi sembra un modo elegante di tradurre il vecchio detto «il mondo è bello perché è vario», ma so che questo è un pensiero ignobile.
In conclusione, dispiace dirlo, ma Fini appare disinformato (anzi, “diversamente” informato) e fermo a significati lessicali desueti. Se dovessi dargli un rispettoso e sommesso consiglio, direi che la prossima volta dovrebbe usare anziché la parola «stronzo», la locuzione «diversamente intelligente», e naturalmente riferirla a chi è tanto malvagio da non ammettere che anche gli stranieri sono dei “diversi”. Si potrebbe osservare che, per ragioni di coerenza e di rispetto nei confronti degli stronzi, gli individui intelligenti potrebbero essere chiamati «diversamente stronzi». Ma anche questo è un pensiero ignobile e politicamente scorretto.
(Tempi, 9 dicembre 2009)
sabato 5 dicembre 2009
Sono passati due anni e c'è poco da aggiungere
Può essere imbarazzante rileggere quel che si è scritto tempo fa, quando contiene diagnosi o addirittura previsioni su una materia ostica e complessa come le relazioni politiche e strategiche. Sarebbe scioccamente narcisistico dire che ho avuto un sentimento di sollievo rileggendo l’articolo dal titolo “Come e perché è morta la questione palestinese” che ho firmato sul Foglio, assieme al direttore Giuliano Ferrara, il 22 maggio 2007. Sarebbe sciocco narcisismo rallegrarsi per il fatto che quel che vi era scritto potrebbe essere riproposto oggi parola per parola, quasi senza aggiornamenti: in realtà è una tragedia.
Tanto più è una tragedia perché l’articolo meriterebbe un aggiornamento su un solo punto: la prospettiva odierna non è più quella di “due popoli, due stati”, ma di tre stati. E quanto ai popoli, l’identità di uno dei due appare sempre più liquefatta o trasformata in quella di avamposto della rivoluzione permanente dell’islamismo iraniano. Scrivevamo allora che la formula “due popoli, due stati” era lontana come non mai, se mai aveva avuto prospettive reali e faceva risaltare la colossale ipocrisia del parlare di “processo di pace”. Erano i tempi della guerra civile con Hamas e non era chiaro come sarebbe andata a finire anche se quel dramma era bastato a Hanna Siniora per dire che il progetto nazionale palestinese era morto. Oggi abbiamo dietro di noi il consolidamento del potere di Hamas, malgrado l’operazione “Piombo fuso” di Israele, il declino del potere di Abu Mazen e l’indebolimento di Fatah, l’allontanarsi in una nebbia confusa delle più timide prospettive di conciliazione tra i due movimenti palestinesi attorno a un progetto di stato nazionale. E qualcuno è finito a parlare di tre stati… Insomma, l’ipocrisia di continuare a parlare di “processo di pace” è divenuta oggi un autentico scandalo, soltanto un modo per distogliere gli occhi dalla realtà e dalle vere poste in gioco.
Più di due anni fa esponevamo la ragione primaria per cui la questione palestinese era morta: l’assenza di tutte le caratteristiche che contrassegnano il processo di formazione di uno stato nazionale e, tra di esse, la più importante, ovvero la manifestazione della volontà di costruire. Gli ebrei giunti in Palestina in una serie di “aliyah” iniziate nel 1881 non attesero di ottenere uno stato per costruire qualcosa, né anteposero a questa costruzione una questione militare. Lo stato nazionale fu la logica conseguenza di un processo di lunghissima durata il cui centro era stato il dissodamento delle terre, l’agricoltura, la realizzazione di centri abitati, di scuole, la promozione della cultura e della scienza. Cosa vieterebbe ai palestinesi di Gaza di costruire un primo nucleo di stato nazionale, per giunta con il sostegno degli imponenti aiuti finanziari internazionali? Chi potrebbe imporre blocchi alle frontiere o restrizioni di fronte alla volontà concretamente espressa di perseguire questo obbiettivo civile tralasciando quello militare? Ma siamo ben lungi da ciò, oggi ancor più di ieri. Gaza è una portaerei islamica, imbottita di missili e armi di ogni tipo, che vive nell’attesa di un confronto vincente con Israele e che sostiene la sua economia sugli aiuti internazionali concessi, a loro volta, nella speranza di esorcizzare quel confronto. Il potere di Abu Abbas e del Fatah sul West Bank è ormai esangue, tenuto in piedi come simulacro di un’alternativa alla trasformazione dell’intera area “palestinese” in una base iraniana.
Quindi, oggi ancor più di ieri, non esiste alcuna volontà costruttiva, ma un solo obbiettivo: l’eliminazione di Israele. E che questo sia l’unico obbiettivo è testimoniato dal pervicace rifiuto di considerarne sia pur ipoteticamente il riconoscimento. Così, se si può parlare di questione e di stato palestinese è soltanto nel senso di uno stato islamico che dovrebbe prendere il posto di Israele al termine di un confronto vittorioso.
Un altro tema che veniva sollevato nell’articolo di due anni fa era quello del negazionismo: non soltanto quello della Shoah, ma quello della presenza storica degli ebrei in Palestina. Ebbene, anche questo tema lo ritroviamo oggi, e in termini di molto aggravati. L’idea di questa forma di negazionismo era stata lanciata Arafat durante il vertice di Camp David del 2002: affermò che un tempio ebraico a Gerusalemme non era mai esistito. Oggi questa tematica dilaga. Anche la televisione di Fatah ha sostenuto con dovizia di argomenti “scientifici” che tutta la storia della presenza ebraica in Terrasanta è inventata di sana pianta. Insomma, la Bibbia, inclusi i Vangeli, sono un colossale falso sionista. Inutile dire che questa propaganda recluta alfieri anche in occidente. Spuntano fuori archeologi improvvisati che spiegano che il Muro del Pianto non ha mai fatto parte del Tempio il quale, casomai, era in altro luogo. Secondo costoro, cadendo così le pretese ebraiche sul Monte del Tempio, la questione di Gerusalemme sarebbe facilmente risolubile, ovviamente a favore dei musulmani.
Questa esplosione di negazionismo rende evidente che la posta in gioco è tutto salvo che la volontà di costruire una nazione palestinese che conviva con Israele. Lo ha messo in luce la vicenda di un musulmano che ha avuto il coraggio di scrivere in un saggio la verità: il professor Sari Nusseibeh. Egli ha riconosciuto che il Monte del Tempio è il luogo che testimonia il legame profondo, storico e documentato, degli ebrei con Gerusalemme. Anzi, se quel luogo è divenuto sacro anche ai musulmani è perché Maometto venne a visitarlo con la coscienza del suo carattere sacro per l’ebraismo e il cristianesimo in quanto “religioni di Abramo”. Il coraggioso riconoscimento di Nusseibeh mirava a spazzare via la deleteria tendenza al rifiuto dell’“archeologia nemica”. Se questo punto di vista fosse stato accolto ci si sarebbe trovati di fronte a un passaggio decisivo. Perché, se Gerusalemme rappresenta il massimo punto di contesa, il tema più difficile, quasi insolubile, su cui si esprime il vertice dell’inconciliabile, non è forse la mossa più intelligente partire proprio di lì, riconoscere reciprocamente il diritto a gestire pacificamente ciò che è più sacro per entrambi?
Ma l’intervento del professor Nusseibeh non soltanto non ha smosso le coscienze ma ha messo lui in una situazione insostenibile. Pare che abbia ricevuto minacce. Di certo, egli non ha aperto più bocca e ha declinato l’invito a parlare in un incontro alla Scuola biblica di Gerusalemme. Ancora una volta la possibilità di costruire qualcosa è stata rifiutata.
Di fronte alla negazione totale non c’è dubbio che Israele sia stanco, ed è più che comprensibile. Anche i “falchi” come l’ex-ministro della difesa Mofaz parlano di trattare col diavolo, ovvero con Hamas. È duro, quasi impossibile accettare l’idea che in qualche recesso non si annidi una dose minima di realismo. Quel che è peggio è che il desiderio di trovarla può far scambiare per realismo quelli che sono soltanto espedienti tattici. Israele, per amore della vita, cerca di ottenere Gilad Shalit liberando un numero spropositato di prigionieri palestinesi, in uno scambio che Massimo D’Alema definirebbe “sproporzionato”. E il governo Netanyahu ha accettato di bloccare qualsiasi costruzione nella West Bank per dieci mesi. Ma è doloroso dire che tutto questo non servirà a molto. Non siamo più di fronte a una questione palestinese e l’esistenza di Israele è ormai parte di un problema geopolitico di vaste dimensioni. L’abbandono di Israele al suo destino è il tema su cui l’islam radicale capitanato dall’Iran vuole misurare la debolezza dell’occidente. E per ottenere questo risultato, da un lato lascia intendere che questo abbandono è la chiave per risolvere ogni problema – come Hitler lasciava credere che lo fosse la questione dei Sudeti – e, dall’altro, ne offre la giustificazione diffondendo la tematica negazionista, non tanto quella sulla Shoah quanto quella assai più efficace che delegittima l’intera storia ebraica. Lo spegnersi della voce di Nusseibeh, come due anni fa quella di Siniora, è la testimonianza che ben altro è in gioco che la “questione palestinese”. È in campo l’idea tentatrice che senza Israele il mondo sarebbe più vivibile. Se ci si soffermerà a contemplare incerti questo volto di Medusa si giungerà a un momento in cui sarà troppo tardi per tutti. (Il Foglio, 2 dicembre 2009)
sabato 28 novembre 2009
I mille controesempi che falsificano la teoria “matematico quindi contestatore”
È una cosa nota: un grande rischio per chi studia un argomento o scrive su di esso è innamorarsene troppo. È comprensibile che Paolo Giordano, laureato in fisica teorica e autore del romanzo La solitudine dei numeri primi sia appassionato di matematica, ma non dovrebbe esagerare. Sul Corriere della Sera ha commentato la vicenda del giovane studente iraniano Mahmoud Vahidnia – medaglia d’oro alle Olimpiadi di matematica, che, avendo criticato l’ayatollah Khamenei, è stato arrestato – dicendo che i matematici, in quanto avvezzi al ragionamento sono avversari dei dogmi e quindi potenziali dissidenti. «In matematica – dice Giordano – ogni pensiero dogmatico è traballante e illusorio, basta una nuova idea, la cui verità o falsità sarà ineluttabilmente sotto gli occhi di tutti, basta una domanda ben posta, per sgretolarlo in mille pezzi». Secondo Giordano per convincersene basterebbe ripassare il percorso che lega i matematici alla contestazione fin dai tempi remoti: e cita Galileo, Évariste Galois, Laurent Schwartz e Niels Bohr che metteva in guardia contro la bomba atomica. Ma – aggiunge – «un miliardo di casi particolari non fanno una teoria», «affidarsi agli esempi non è un modo soddisfacente di rispondere» e quindi quel che conta è la «spiegazione generale», insomma constatare la natura antidogmatica in sé del pensiero matematico.
Già, ma uno strumento chiave del pensiero matematico è il controesempio. Quando ero studente chiesi a un mio professore, celebre matematico, qualche consiglio per studiare bene. Mi disse: supponga sempre che quel che legge sia falso e cerchi per ogni teorema un controesempio. Insomma, se è vero che un miliardo di casi favorevoli non fanno un teorema, è altrettanto vero che basta un caso sfavorevole a demolirlo. Ora, di controesempi al teorema di Giordano ne esistono a mazzi. A fronte del contestatore Galois vi è l’esempio di un matematico almeno importante quanto lui, Louis-Augustin Cauchy, legittimista monarchico, cattolico conservatore, un “conformista” radicale. A fronte di Niels Bohr c’era Werner Heisenberg che lavorava per realizzare l’atomica nella Germania nazista, Edward Teller negli Stati Uniti e Bruno Pontecorvo nell’Unione Sovietica. I matematici sono naturalmente contestatori dei regimi autoritari insofferenti delle critiche? E allora chi era Ludwig Bieberbach, matematico filonazista, alfiere della cosiddetta “matematica tedesca” e accanito antisemita? Sulla sua rivista Deutsche Mathematik si pubblicavano articoli di ricerca e di razzismo. Vi scriveva Oswald Teichmüller, oggi considerato un genio matematico, i cui “spazi di Teichmüller” sono uno concetto importante della moderna geometria. Egli era membro delle SA (Sturmabteilung), nazista estremo, violento antisemita, e pubblicava articoli di matematica persino sull’organo ufficiale del partito nazista.
Se poi andiamo al caso italiano, i matematici fascisti servili nei confronti del regime furono la norma. Accettarono con giubilo le leggi razziali, persino con una nota ufficiale unanimemente votata dal Consiglio scientifico dell’Unione Matematica Italiana. Poi quando cadde il fascismo i più importanti tra loro diedero prova della loro libertà di pensiero precipitandosi a scrivere libri su “scienza e fede” o rifugiandosi sotto le ali protettive del Partito comunista.
Perciò lasciamo perdere i teoremi suggeriti dall’entusiasmo. La matematica di per sé non sviluppa né l’anticonformismo, né lo spirito critico, né il senso democratico, né la tolleranza. Per converso, si può essere anticonformista, democratico, tollerante e dotato di spirito critico ed essere una perfetta capra in matematica. Tempi, 18 novembre 2009
sabato 21 novembre 2009
L’ultima degli “studiosi” targati Olp? Gerusalemme non è mai stata ebraica
Scriveva André Neher che la storia dell’antisemitismo è offuscata dal fatto che essa «non ha in nessun modo eliminato l’antisemitismo dalla storia. Essa continua a drenare nelle sue acque inquinate l’anti mascherato da complementi mutevoli (-giudaismo, -semitismo, -sionismo), ma l’oggetto resta lo stesso: l’uomo ebreo. Anche l’obbiettivo è lo stesso: il suo sterminio. Fin tanto che il “termine” non sarà realizzato, l’antisemita non avrà pace. Non si può trarre alcuna lezione dalla storia se non che i suoi protagonisti dispongono di un guardaroba inesauribile: vi trovano la maschera appropriata all’hic et nunc del loro folle ruolo» (Hanno ritrovato la loro anima, Marietti, 2006).
Questa osservazione ci insegna che non serve fermarsi alla condanna dell’antisemitismo passato, ma la lezione da trarre dalla sua storia è che occorre sempre vigilare per identificare il nuovo guardaroba con cui si riveste l’antico folle proposito. È questo che – lo ripeterò fino alla noia – rende inefficace e ritualistica la Giornata della memoria, se vi si parla soltanto di quel che hanno subìto gli ebrei morti e mai delle minacce che sovrastano gli ebrei viventi. Né basta deprecare e condannare il negazionismo della Shoah, ovvero i tentativi di “dimostrare” che lo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti non c’è mai stato. C’è un “nuovo” negazionismo, ancora più devastante, che si sta diffondendo con l’aiuto dell’ignoranza storica. Si tratta della tesi secondo cui gli ebrei in Terra Santa non ci sono mai stati e quindi non hanno alcun legame con quella terra; inoltre, che Gerusalemme non ha nulla di ebraico, per il semplice motivo che quella città gli ebrei non l’hanno mai abitata.
Lo spunto fu dato da Yasser Arafat durante la conferenza di Camp David del 2002. Disse che l’esistenza di un tempio ebraico a Gerusalemme era un’invenzione storica, che la città era sempre stata musulmana e mai un’ebreo vi aveva messo piede. Fu bloccato fermamente da Bill Clinton ma l’idea era lanciata e da quel momento ha iniziato a circolare. In questi ultimi tempi dilaga. Le autorità islamiche del Monte del Tempio hanno preso a ripetere lo slogan. Altrettanto fa Hamas e il suo leader Khaled Meshaal ha dichiarato che Israele non ha alcun diritto su Gerusalemme che appartiene storicamente soltanto agli arabi, cristiani o musulmani che siano. Abu Mazen, che ha un vecchio passato di negazionista (fece una tesi di dottorato negazionista in Unione Sovietica) non è stato da meno, lasciando che alla televisione palestinese di al Fatah (al Filistiniya) un membro esecutivo dell’Olp, Saleh Rafat, affermasse che un Tempio ebraico a Gerusalemme non è mai esistito. Per parte sua, lo “storico” palestinese e funzionario dell’Olp Nabil Alqam ha ripetuto in televisione questa tesi affermando che la storia ebraica in Terra Santa è tutta inventata. L’ha sostituita con cinquemila anni di storia palestinese…
Il Muro Occidentale, detto del Pianto? Quattro pietre di sostegno del terrapieno delle Moschee. I bagni rituali venuti fuori dagli scavi? Li avranno fabbricati gli israeliani. La Bibbia? Un cumulo di favole inventate e compilate dai Savi di Sion, quelli dei Protocolli. Le legioni romane che distrussero il Tempio? Erano comparse sioniste travestite da soldati romani che allestirono una sceneggiata. L’arco di Tito lo fabbricarono, senza alcun dubbio, dei falsari del ghetto.
Basta così. Sarebbe da ridere se non fosse una cosa seria, perché c’è pure chi è disposto a crederci. Sono infamie che meriterebbero una risposta ferma incluso un rinvio al mittente dell’untuosa “avance” di Meshaal nei confronti dei cristiani.
mercoledì 18 novembre 2009
La scuola delle «competenze» demenziali
Sulla pagina web del mio corso universitario una mano pia ha aggiunto: Modalità di erogazione: convenzionale. Cosa sono io? Una una pompa di benzina, un gasometro, un elettrodotto? In realtà, chi ha fatto quell’aggiunta non poteva agire diversamente perché si tratta di norme imposte dalla “trasparenza” e l’università deve piegarsi a queste normative burocratiche per quanto offensive per la cultura. E bisogna anche subire quel “convenzionale”. Pazienza se si fosse detto “tradizionale”; ma convenzionale significa «stabilito per convenzione, per accordo». Quale sarebbe qui la “convenzione”?
Il linguaggio demenzial-burocratico è anche cinghia di trasmissione della trinità che scende dall’empireo pedagogico: «conoscenze/competenze/abilità». Non chiedete all’empireo una definizione esatta della trinità: non ve la saprà dare e non esiste un accordo su di essa, sebbene sia un luogo comune anche a livello comunitario. Ma questo non vuol dir niente: di baggianate europeiste siamo sommersi. I poveri docenti che tentano di mettersi in regola in tempo non si raccapezzano. Passi per le conoscenze: ad esempio, conoscere le equazioni di secondo grado. Passi pure per le abilità: saperle risolvere. Ma molti confondono le abilità con le competenze e dicono che il loro corso farà acquisire la conoscenza del tal concetto nel senso di «comprenderne il significato» e la competenza nel senso di saperlo «usare». E sbagliano, perché questa è l’abilità mentre la competenza è qualcosa di più, come la comprovata capacità di usare conoscenze e abilità metodologiche, personali, relazionali e anche affettive per risolvere problemi, affrontare situazioni. Insomma la competenza sarebbe l’agire personale basato su conoscenze e abilità.
A cosa servono questi marchingegni? A battere il nozionismo, si dice. Perché chi si ferma alle conoscenze non è detto che sappia usarle e tantomeno metterle in opera “abilmente” per risolvere problemi e affrontare situazioni. In realtà, sono temi chiari dai tempi di Socrate, senza bisogno di ricorrere a simili esplosioni definitorie. È da sempre nella tradizione della matematica e della fisica – e anche di tante discipline umanistiche come quelle filologiche – la consapevolezza che conoscere concetti non vuol dir niente se non si sa farne uso fino a riuscire a metterli in opera per risolvere problemi complicati. Nelle celebri prove di ammissione alla École Politechnique parigina non si facevano certo interrogazioni di nozioni ma si proponevano difficili problemi che vagliavano le effettive capacità del candidato. Insomma, si è sempre detto e ripetuto che conoscere “a pappagallo” nozioni non serve a niente e che chi resta a questo livello è un incapace. Edgar Morin si è reso famoso con la frase secondo cui «è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena», che però risale a Montaigne. Fin qui non siamo alla scoperta dell’ombrello ma a quella dell’acqua calda. Secondo certi “teorici” il mondo finora è stato popolato di idioti e la capacità di formare gente colta e capace è nata con loro. Tutto il sapere che ci è stato consegnato è deficiente perché costruito da gente che non sapeva cosa sono le “competenze”.
Il problema è che il fatale trittico non è solo inutile, ma conduce a risultati disastrosi perché codifica una separazione a tre livelli; come se esistessero situazioni accettabili in cui uno possiede conoscenze ma non sa farne uso, oppure sa farne uso ma si blocca di fronte a un problema. È una distinzione che svilisce l’idea di conoscenza che è sempre stata pensata come inclusiva dei tre aspetti (giustamente mai distinti) e da valutare complessivamente. Distinguendo si introduce l’idea assurda che l’acquisizione assolutamente passiva di concetti sia una forma di conoscenza. Insomma, uno che conosca a menadito tutte le regole della “consecutio temporum” avrebbe un’ottima conoscenza del latino ma, essendo totalmente incapace di applicarle, non avrebbe competenze e abilità. In realtà, quella persona è semplicemente un ignorante crasso. Non potrebbe darsi un esempio più clamoroso della definizione di Hannah Arendt di certe teorie pedagogiche: «un incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità».
Il guaio è che questa insensata logomachia contiene un’idea ancor più insensata e cioè che, mentre le conoscenze non si possono misurare, le competenze sarebbero misurabili, il che consentirebbe di introdurre la “certificazione delle competenze” a scuola. In verità, gli “esperti” ammettono candidamente: 1) che esistono innumerevoli definizioni di competenze, 2) che misurare le competenze è praticamente impossibile. Alla fine degli anni novanta si riunì una commissione mondiale per stabilire una definizione di competenza: ne vennero proposte a centinaia e non si venne a capo di nulla. Tra queste vi sono le definizioni forti – che tengono conto dei fattori affettivi e motivazionali, manifestamente non misurabili – e quelle deboli – che si confondono con le abilità – le quali forse si prestano a vaghissime misurazioni. Inutile dire che si trascura il fatto – omissione inammissibile per chi abbia una minima cognizione di metodologia scientifica – che per parlare di misurazione bisognerebbe introdurre un’unità di misura. Unità di misura delle competenze? Non facciamo ridere.
Il problema è che la legge 169/2008 e il decreto legislativo 59/2004 impongono che al termine della scuola primaria e secondaria di primo grado si rilasci allo studente la certificazione delle competenze. Finora, tutti i ministri hanno schivato l’incubo proprio perché non si sa come dare una definizione sensata di competenza. Ma l’obbligo incombe, anche perché “l’Europa lo chiede”, assieme all’introduzione della paletta di metallo per la pizza. Da un paio di anni le scuole hanno sperimentato l’improba certificazione in ottemperanza a una circolare ministeriale, costruendosi propri modelli. Presentiamo ai lettori uno di questi modelli, circolante in alcune scuole. Come si vede, l’unità di misura delle competenze è il numero delle caselle barrate… Ogni commento è inutile, per rispetto dell’intelligenza dei lettori. Mi limito a quello di un professore: «è l’annichilimento dell’autonomia professionale del docente da parte dei nemici giurati del buon senso».
Come potrà mai il ministero produrre un modello sensato per regolare una materia intrinsecamente insensata? L’unico consiglio che si potrebbe dare ai ministri Gelmini e (per la semplificazione) Calderoli sarebbe di avviare l’abrogazione secca delle disposizioni legislative sulla “certificazione delle competenze”. (Il Giornale, 15 novembre 2009)
mercoledì 11 novembre 2009
ALCUNI COMMENTI AI COMMENTI AGLI ULTIMI DUE POST-ARTICOLI
Ogni tanto vado a navigare un poco per leggere qualche commento a quello che scrivo.
Poco, s'intende, perché non desidero perdere troppo tempo in questa attività e perché mai mi metterei a rispondere uno per uno a tutti i commenti che si possono trovare in giro.
Ma di tanto in tanto è istruttivo cercare di capire come viene recepito quel che scrivi, soprattutto come viene recepito da chi non è d'accordo.
Ho raccolto qualcuno dei commenti più cattivi per fare qualche riflessione in merito.
Naturalmente, è facile trovare sul mio conto le solite sparate antisemite. Come altrimenti chiamare il fatto che uno la butti subito sull"ebreo"? Per esempio, dicendo che «i cognomi non mentono mai (o poche volte) "nomen homen" [sic]», e che «sono sempre più evidenti i legami tra servizi e sionismo», poiché «il primo compito del sionismo è infiltrare lo stato tramite le massonerie». Pare che il fatto che i miei articoli costituiscano una critica di certe azioni della maggioranza vadano interpretati come l'intenzione sionista di «rimuovere Berlusconi e mettercisi loro, così legheremo i nostri destini a quelli di Israele, per disintegrare completamente dal di dentro la principale identità cristiano cattolica che è quella italiana».
Un matto, direte. Già, ma di pazzie del genere ne circolano molte e forse le peggiori sono quelle più “moderate", come quelle di chi mi giudica dal fatto che ho messo un link a Fiamma Nirenstein e a Magdi Allam: «di ebrei reazionari è pieno e non c'è ragione che debbano essere migliori degli altri». Il vero scandalo - pensate un po' - è che un ebreo così sia «un docente». Di docenti "progressisti" e scandalosi ne conosco, in verità, parecchi.
Ma passi ancora. Non mi si dica che non è sintomatico questo: prevedere che il ministro Gelmini accusi i miei critici di «antisemitismo» così si avrebbe «una prova dell'idiozia della ministra» e del fatto che il mio articolo «ridicolo e trasugnante [sic] di bile» è «privo di argomenti».
Già, piacerebbe ma non accadrà…. E perché mai dovrebbe accadere? In un caso il ministro intervenne a dire che chi mi aveva definito come un «fondamentalista sionista» in modo assolutamente pretestuoso, era un antisemita. Ma se uno critica nel merito il mio articolo per i suoi contenuti perché mai si dovrebbe accusare di antisemitismo questa critica?
Certo, che se uno prima prevede che vi sarà un'accusa di antisemitismo nei confronti di chi mi ha criticato e quindi ne ricava la conclusione che io non ho argomenti perché l'unico modo che ho di sostenere le mie tesi è di accusare di antisemitismo chi le critica…. questa persona ha bisogno di una lezione di logica elementare. Oppure ha qualche problemino psicologico.
Il fatto interessante è un altro. E cioè che chi mi ha preventivamente classificato come un "reazionario fascista servo della Gelmini" e anzi longa manus del suo disegno di distruzione della scuola (e, per giunta, sionista) perde la testa di fronte a un paio di articoli che non riesce a far rientrare nella sua classificazione. «Non saprei dire come Galli Della Loggia o Israel si pongono nella geografia politica, se non pro o contro Gelmini (questi particolari pezzi mi paiono contro)». Oppure: «in questo articolo non emerge il vero pensiero di Israel». Per cui, in fin dei conti, il visionario di congiure sioniste contro Berlusconi non è più illogico di questi signori. Anche loro non ci capiscono niente e si chiedono come sia potuto succedere che sia sparito il mio "vero" pensiero - quello berlusconiano, s'intende - e che cosa ci sia "sotto".
Ebbene, sotto c'è una cosa semplicissima. Quale che sia il valore di quel che penso, io penso con la mia testa e dico quel che penso, e talora non è in consonanza con l'"autorità". Non sono il servo di alcuno. Forse è perturbante e persino sconvolgente, ma è semplicemente così. E allora, sì, un articolo è critico nei confronti della scelta del ministro Gelmini di aver affidato questa tematica a Corradini e aver firmato la sua proposta e l'altro è critico nei confronti del progetto di legge del direttore de Il Secolo Perina.
Sono diventato un nemico del governo oppure, siccome questo è impossibile, data la mia acclarata natura di sporco fascista sionista, ci deve essere "qualcosa sotto"? Perdete pure tempo attorno a questa inutile domanda.
Per parte mia dico che potrebbe anche accadere che mi dissoci da altre scelte governative sul tema dell'istruzione.
Sarà un bel rebus da risolvere.
La necessità assoluta (e devastante per chi vi obbedisce) di classificare la gente in amici e nemici si vede anche da un fatto.
Come mai - mi chiedo - come mai il professor Corradini, nominato esattamente come me presidente di un Gruppo di lavoro ministeriale e che è pervenuto a una relazione approvata dal ministro non viene definito e trattato come un servo berlusconiano, uno sporco traditore, un nemico del popolo, non viene paragonato a Marco Biagi, e non gli arrivano - come a me - messaggi in cui viene accusato di collaborazionismo con i fascisti al potere?
Come mai?
Forse perché il professor Corradini è a priori, e qualsiasi cosa faccia, un "compagno"?
E allora, se queste care persone ragionano così - e non sono poche a ragionare così, purtroppo - perché mai debbono lamentarsi che si diffondano tesi come quelle da me sostenute? Si diffondono e c'è chi da loro retta, perché opporre queste genere di obiezioni è penosamente perdente.
Leggo che c'è chi se la prende con ira “con chi ha lasciato che queste cose venissero dette senza opporre un solo argomento, un solo contraddittorio, uno straccio di discussione pubblica».
Già, ma per «opporre argomenti» bisogna che siano tali e non grida e insulti, epiteti e imprecazioni.
Per parte mia, da quando mi occupo di queste cose cerco confronti continuamente. Pochissimi mi hanno risposto e quando l'hanno fatto, anche in confronti pubblici, gli è andata assai male. Soprattutto quando si sono rifiutati di accettare il principio che quanto vado affermando sia una posizione legittima, ragionata, pensata in piena libertà. cui replicare con argomenti, non con insulti, e prendendo le mie tesi per quello che sono senza farne contraffazioni di comodo. Con chi ha voluto discutere in modo aperto e civile, senza scomuniche e contrapposizioni di principio e ideologiche, è stato possibile intendersi e anche trovare punti di accordo.
Gli altri sono perdenti. Perdenti a priori, perché hanno rinunciato a ragionare con la testa. Ed è inutile che si lamentino.
Qualcuno può davvero credere di distruggere i miei argomenti attribuendomi la tesi che «insegnare la Costituzione sa di totalitarismo»?
Basta leggere l'articolo. Ho detto il contrario. Ho avuto nel liceo un professore di storia e filosofia che ci ha tenuto una serie di lezioni di costituzioni comparate, da quelle napoleoniche alla nostra. Ricordo queste lezioni come una delle cose migliori del liceo. Quindi, insegnare le e "la" Costituzione va benissimo. Contesto che sia un bene indottrinare alla Costituzione come a un catechismo e soprattutto allo scopo di rifare un Uomo nuovo nella prospettiva di un'etica universale. Contesto che si voglia, in tal modo, far passare la solita pedagogia che ha massacrato la scuola italiana (quella pedagogia, non "la" pedagogia).
Infatti, c'è chi l'ha capito benissimo e ha osservato che io non dico «che non bisogna studiare la Costituzione o che non bisogna educare, ma che l'educazione è conseguenza della conoscenza e della cultura». Infatti. Si risponda a quel che scrivo senza trovare facili scappatoie falsificandolo.
Un altro dice che «meglio una testa ben fatta che una testa ben piena» è una frase di Montaigne e io crederei (ignorantone…) che sia di Edgar Morin. Lo so, lo so che è di Montaigne, e l'ho scritto. Ma ho spiegato che il modo in cui Morin l'ha ripresa è fasullo, sbagliato e fuorviante. Ho scritto in dettaglio su questo. Si può non condividere, ma il tema è questo e a questo bisogna rispondere. Non cavandosela con una mia (sperata) ignoranza.
Un altro dice che non devo aver mai messo piede in una scuola. Ho due figli in età scolare e conosco benissimo la scuola, il modo in cui s'insegna, i contenuti ed ho continui rapporti con insegnanti. E potrei anche osservare che c'è chi osserva migliaia di fatti (testa piena) e non ne capisce un acca (testa mal fatta).
Infine, c'è chi dice che Israel, Galli della Loggia e Gelmini - sempre uniti, sempre insieme, non possiamo che stare sempre insieme, siamo fascisti marchiati dalla nascita - stanno facendo alla scuola quello che fecero i black block a vetrine, sportelli bancomat e automobili a Genova….
Vabbè… Che dire? Consolatevi con l'aglietto, come si dice a Roma.
Lo sfacelo culturale della sinistra, di "questa" sinistra - non ho nulla contro la sinistra in quanto tale, ci si creda o no: naturalmente no, perché fa comodo credere che sia un "nemico" - è nell'incapacità di ammettere che possano esistere persone che la pensano diversamente e che ragionano con la loro testa, in piena libertà e in buona fede; per cui talvolta te li puoi ritrovare a dire quel che meno t'aspetti. No, gli "altri" devono essere per forza tutti mascalzoni, imbecilli, ignoranti, in malafede, reazionari, fascisti o ebrei.
Cominciò Umberto Eco con la tesi (razzista) che chi non vota a sinistra è cretino o mascalzone. È una tesi rassicurante e che evita di discutere e di pensare. Si vuol continuare così?
Continuate così, cari signori. Vi aspetta un luminoso avvenire… Salvo il fatto che, nell'attesa, state rendendo la vita difficile in questo paese.
P.S. Ribadisco, questo è un blog, una sorta di diario. Ho offerto le mie riflessioni a chi possono interessare. Non intendo minimamente aprire un "dibbattito", tantomeno con i miei "detrattori". Sono andato pazientemente a leggere molti commenti su di me. Presento qualche mio commento sui commenti. Forse è meglio provare a riflettere in silenzio, invece di mettersi subito a strillare. Per una volta, almeno.
L'ora di educazione civica è una truffa ideologica
Era una pia illusione che il dominio più che trentennale del pedagogismo “progressista” abbandonasse il campo della scuola che considera come proprietà indiscussa, su cui sperimentare la sua ideologia a costo di ridurlo a un panorama di rovine.
Ernesto Galli Della Loggia, sul Corriere della Sera, ha accusato la commissione ministeriale presieduta dal pedagogista Luciano Corradini di aver proposto una insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” concepito come il vangelo di una religione politica volta a formare nientemeno che l’Uomo Nuovo nello spirito di un’etica di stato illiberale. Ma il dibattito rischia di andare sul binario sbagliato se diventa uno schierarsi a favore o contro un simile insegnamento o come una discussione sulle sue modalità. Il problema che Galli Della Loggia solleva – a mio avviso correttamente – è assai più profondo. Non è in discussione l’opportunità di insegnare gli elementi della Costituzione: è bene che gli studenti conoscano i principi che presiedono alla formazione delle leggi in questo paese. Quel che è inaccettabile non è solo che si faccia della Costituzione un catechismo, ma l’ideologia sottostante: voler usare questo strumento come mezzo di formazione della personalità dei giovani, concepire la scuola non come un luogo di trasmissione di conoscenze e di cultura, bensì come strumento per la formazione dell’Uomo Sociale ideale. Dietro la prosa della commissione Corradini rispunta il cavallo di Troia del pedagogismo progressista, in questo caso di marca cattolico-dossettiana, che non rinuncia a stendere la sua mano morta sul sistema dell’istruzione.
Galli Della Loggia coglie perfettamente il punto quando parla di un’ideologia che concepisce la scuola non come luogo di istruzione ma luogo di educazione. E, aggiungo, di educazione totale, anzi totalitaria, di cui è esempio il modello della Educación para la Ciudadanía che il governo Zapatero tenta di imporre alla Spagna. Non voglio qui esplorare il problema della coerenza con cui persone che i giorni dispari difendono il valore della famiglia e combattono il laicismo di stato, i giorni pari vogliono una scuola che educhi a «promuovere il benessere proprio e altrui», a «esprimere sentimenti ed emozioni», a creare un’«etica universale». Sono contraddizioni laceranti su cui si dibatte parte del mondo cattolico, soprattutto progressista, che, mentre proclama di difendere lo spazio educativo della famiglia, aderisce a dottrine pedagogiche di matrice scientista e totalitaria (da Rousseau a Dewey a Makarenko) e si scava la fossa da solo. Sono contraddizioni su cui si dibatte anche parte del mondo laico. E se è comprensibile che il pedagogismo etico di Stato possa essere in consonanza con una certa eredità culturale di sinistra, è meno comprensibile che chi si dichiara liberale possa unirsi a chi propone l’ora di «educazione all’affettività» o i «corsi di sentimento». Simili contraddizioni fanno capire perché ha senso dire che la nostra società ha perso la capacità di educare, tende a disfarsi del problema per pigrizia, incapacità o paura, demanda tutto alla scuola e a una corporazione di specialisti dell’educazione, depositari della dottrina che prescrive come deve essere fatto un uomo giusto, buono e socialmente positivo.
Certo, se si attribuisce alla scuola una simile funzione di educazione totale, questa corporazione deve esservi: qualcuno dovrà pur scrivere i libri che stabiliscono le regole del vivere civile, dell’affettività, dei comportamenti relazionali corretti. Invece, la grandezza di una società liberale sta nel lasciare ciascuno “libero” di prendere la via che preferisce, dandogli lo strumento principe per tale scelta: la conoscenza. Perché la conoscenza, e soltanto la conoscenza, è libertà. Il resto lo si costruisce giorno per giorno: nella famiglia in primo luogo, con i maestri, con gli amici, nelle esperienze di relazione sociale. Ma se l’educazione è di stato, allora occorrerà una corporazione di specialisti dell’educazione che si collochi al disopra di tutti. Peraltro, la patente di detentori della verità educativa costoro non possono che conquistarsela attraverso un’affermazione di potere, e poche cose sono antidemocratiche come il potere dei “sapienti”. È quel che stiamo sperimentando da un trentennio. Ed è una storia senza fine, perché il pedagogismo di stato esce dalla porta e rientra dalla finestra, con l’aiuto di una burocrazia ministeriale ormai plasmata dalla sua ideologia “progressista”.
È evidente che una siffatta corporazione, per restare in sella, ha bisogno di distruggere la figura dell’insegnante “maestro”, di ridurlo a mero “facilitatore” che applica le teorie calate dall’alto. Di qui l’ossessione metodica con cui si proscrive l’uso di qualsiasi termine che richiami sia pur vagamente la scuola che trasmette conoscenze e cultura a favore del politicamente corretto pedagogista. È drasticamente vietato parlare di programmi, di discipline, di idee. La parola “conoscenze” è pronunziabile soltanto entro la trinità delle «conoscenze/competenze/abilità». Mi scriveva un professore di recente che, stufo di un questionario in cui si chiedeva quale abilità formasse la sua materia, la fisica, ha osato scrivere che essa non forma abilità bensì trasmette «idee»… Ha rischiato il linciaggio. Già, perché l’occhiuta sorveglianza con cui si cerca di imporre a ogni insegnante una serie di adempimenti e un linguaggio che riflettono l’ideologia della «comunità educante» evoca la funzione del Commissario politico. Mi scriveva un altro insegnante che la pretesa di imporre l’uso di schemi e termini codificati mira all’«annichilimento dell’autonomia professionale degli insegnanti da parte di questi nemici giurati del buon senso». Eppure, provate a chiedere a qualcuno di costoro il significato esatto del termine “competenze”: non ve lo saprà dire. Ancor meno saprà dire come si misurano le competenze: gli stessi “specialisti” del settore ammettono che questa misurazione è impossibile. Ciononostante, un’altra prescrizione sta per abbattersi sulla scuola: la “certificazione delle competenze”. In un’altra occasione, se il giornale me ne darà spazio, proverò a spiegare quale tsunami ciò potrà rappresentare per il sistema dell’istruzione.
Per ora concludo osservando che questi ultimi aspetti non sono altra cosa della questione da cui siamo partiti: il nesso è l’ideologia secondo cui occorre plasmare le teste e non trasmettere conoscenze. Queste ultime sono secondarie, e di esse si può fare (e si fa) scempio. In questi ultimi tempi, è emersa nella scuola un’insofferenza crescente verso questa ideologia. Ma in trent’anni si è consolidato un blocco di potere difficile da scalfire e il riaffacciarsi della figura del “pedagogista di stato”, che si sperava definitivamente scomparsa, non è un buon segno. (Il Giornale, 10 novembre 2009)