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sabato 30 gennaio 2010

L'Iran khomeinista è il vero erede del nazismo


 È venuta la Giornata della Memoria 2010 e personalmente l’ho trascorsa in casa. Non sono stato chiamato a partecipare ad alcun evento o manifestazione, neppure come invitato, malgrado abbia dedicato qualche libro alla questione ebraica e alle leggi razziali del 1938 e una serie interminabile di articoli all’antisemitismo. Non me ne stupisco e non me ne dolgo perché ho da tempo assunto come regola quella di parlare, in queste occasioni, soltanto dell’antisemitismo che minaccia gli ebrei viventi. Del resto, non si ripete fino alla noia, che conoscere la storia passata serve a non ripeterne gli orrori? Tuttavia, parlare dell’antisemitismo di oggi non è gradito e serve a farsi depennare. Come ha scritto Fiamma Nirenstein sul Giornale, per lo più, si usano dire due parole di circostanza per poi parlare di Hiroshima, delle minoranze etniche e della Resistenza. A me capitò di sentir equiparare i campi di concentramento e i centri di permanenza temporanea (CPT) per i clandestini. Qualcuno più audace passa dai CPT a Gaza, e ne deriva l’equazione Gaza = Auschwitz, da cui discende il corollario che gli israeliani (e quindi gli ebrei) sono i nuovi nazisti. Ebbene, per poter parlare della Shoah non pago il pedaggio di dire che Maroni è il nuovo Himmler, per cui preferisco starmene a casa a sfogliare in silenzio le foto dei miei parenti trucidati ad Auschwitz, i pochi documenti che ne conservo, e a parlarne con i miei figli.
Tuttavia quest’anno sono successi alcuni fatti nuovi che potrebbero cambiare le cose – almeno speriamo. Il primo fatto è noto ed è stato riportato da tutti i giornali. Ma conta sottolinearne un aspetto cruciale che già il Giornale ha indicato con un titolo efficace: «Khamenei celebra la Shoah: “ Un giorno Israele sarà distrutto”». Niente di nuovo, s’intende. I dirigenti iraniani ci hanno abituato al loro slogan ripetuto in tutte le salse: Israele va distrutto, Israele è un ramo secco che sta cadendo, basta dare una scossa all’albero, e così via. Ma quel che c’è di nuovo stavolta è la scelta di aver fatto questo proclama, e con tanto clamore, proprio nella Giornata della Memoria, nel giorno in cui si ricorda lo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti. Non è intervenuta soltanto la Guida Suprema del regime iraniano, l’ayatollah Ali Khamenei – sottolineando che i tempi dell’inevitabile distruzione dipendono dal modo in cui le nazioni islamiche affronteranno il tema – ma anche il presidente del parlamento Alì Larijani – già capo della delegazione che trattava la questione nucleare e da tanti in occidente lodato come personalità ragionevole e moderata – che ha parlato in modo truculento di Israele ridotto a «terra bruciata».
In verità, non c’è neppure nulla di nuovo dal punto di vista delle intenzioni: il regime iraniano non ha mai fatto mistero di stabilire uno stretto collegamento tra questione israeliana e questione ebraica. L’Iran è oggi il centro mondiale del negazionismo, il paese che promuove attivamente la propaganda della tesi secondo cui lo sterminio degli ebrei non è mai avvenuto, e che comunque in fin dei conti Hitler qualche buona ragione a detestare gli ebrei l’aveva. È un antisemitismo che si pone in continuità con i legami tra una parte del mondo islamico e il regime nazista simboleggiato dalle relazioni amichevoli tra Hitler e il Gran Muftì di Gerusalemme.
Tuttavia, fino ad ora, una parte consistente dell’opinione pubblica occidentale ha chiuso gli occhi di fronte al carattere esplicitamente antisemita dell’antisionismo iraniano. Anche il presidente Obama ha condannato certe espressioni ma non ha preso atto del fatto che esse erano ispirate da una volontà di vero e proprio genocidio razziale.
Ora nessuno può chiudere gli occhi. Non vi sono alibi. La dichiarazione della volontà di distruggere Israele fatta non in un giorno qualsiasi dell’anno, ma proprio il 27 gennaio, ha un significato inequivocabile. È quanto dire: “nel giorno in cui si ricorda lo sterminio di un terzo degli ebrei del mondo, noi vi annunciamo che ci apprestiamo a proseguire l’opera sterminandone un altro terzo”. E poi, di questo sterminio si dirà che non è mai avvenuto, come lo si dice ora del primo. Chi può chiudere gli occhi di fronte al proclama sfrontato che la lotta contro Israele è una lotta contro gli ebrei? Come non vedere che “celebrare” così la Shoah appone a questa lotta un’etichetta razziale inequivocabile?
Tutto ciò è terribile ma potrebbe essere una buona notizia se servirà, una buona volta, ad aprire gli occhi e a svegliare le coscienze.
La seconda buona notizia è che nel nostro paese, nei discorsi ufficiali delle massime autorità – dal presidente della Repubblica Napolitano, al premier Berlusconi al presidente della Camera Fini – è stato denunciato esplicitamente il pericolo dell’antisemitismo di oggi e, in particolare, il pericolo dell’antisemitismo iraniano che minaccia quel terzo del mondo ebraico che vive in Israele. Forse questi segnali inizieranno a svegliare l’opinione pubblica. E magari, l’anno prossimo, le celebrazioni del 27 gennaio potrebbero essere meno ritualistiche e commemorare gli ebrei morti per mettere in luce le minacce che incombono sugli ebrei viventi, e non per cambiare discorso.

(Il Giornale, 29 gennaio 2010)

Mi ha fatto un gran piacere constatare che questo articolo è stato ripreso favorevolmente sul sito dell'AID, Agenzia Iran Democratico, Sito ufficiale dell'Associazione rifugiati politici iraniani residenti in Italia

martedì 26 gennaio 2010

La sfida della scuola e la questione nazionale


Qualche giorno fa è scoppiato il caso di una scuola elementare di Noventa Padovana in cui la maestra ha assegnato come compito per casa la traduzione in dialetto veneto di una poesia. In sé, l’episodio non meriterebbe un clamore particolare. Esso costituisce soltanto un sintomo di come una malintesa autonomia scolastica abbia ridotto la scuola a un emporio di attività integrative (in questo caso dedicate alla “valorizzazione delle tradizioni locali”) che penalizza soprattutto le materie portanti, come la lingua e la letteratura italiana, la matematica e le scienze, la storia, la geografia. Quel piccolo episodio assume importanza in relazione ai risultati di un’analisi condotta dall’Accademia della Crusca assieme all’Invalsi (l’Istituto per la valutazione), da cui risulta che, su un importante campione dei temi di maturità del 2007, circa il 58% conteneva errori gravissimi di grammatica, sintassi, organizzazione logica e persino di ortografia, insomma da bocciatura senza appello; mentre soltanto il 20% dei temi era stato valutato insufficiente negli esami di stato. Non soltanto questo dato – che conferma quel che qualsiasi docente universitario constata misurandosi con gli studenti che la scuola gli consegna – non ha ricevuto l’attenzione che merita. Non soltanto i riformatori che hanno fabbricato la scuola che produce questi risultati continuano a far finta di nulla riproponendo imperterriti i loro modelli. Ma molti commenti attorno all’episodio di Noventa Padovana sono stati improntati a uno sprezzante fastidio: la cosa più importante sarebbe il recupero delle tradizioni locali, chi se ne importa dell’ossessione per la lingua italiana. C’è chi crede che si possa costruire un futuro basato sui dialetti e l’inglese; non capendo che, se è possibile che un futuro lontano riservi una realtà sociale e linguistica diversa, per ora, e per un bel pezzo, la forza culturale, scientifica e tecnologica di un paese poggia, e poggerà, sugli stati nazionali.
Ho fatto di recente un viaggio in Sud Africa e mi ha colpito il fatto che un paese uscito da pochi anni da drammi epocali, e che ne porta i segni tangibili, sia proiettato verso un futuro di costruzione unitaria che non si attarda alle recriminazioni, per quanto giustificate. «Proudly SouthAfrican», orgogliosamente SudAfricano, si legge dappertutto. Invece da noi si sta preparando il ricordo dell’Unità d’Italia in un’orgia autodistruttiva di svalutazione di quel fatto storico e di recriminazioni virulente (dopo 150 anni!) per eventi incomparabili con l’orrore dell’apartheid (durato fino a pochi anni fa). È legittimo ripensare storicamente l’Unità d’Italia, ma la storia la fanno gli storici e non, a colpi d’accetta, sindaci che cancellano la dedica di piazze a Garibaldi, mentre resta l’intitolazione di vie e scuole a personaggi ben più discutibili come Palmiro Togliatti o Nicola Pende. Invece di far storia con le delibere e gli occhi volti al passato e con sterili recriminazioni, non sarebbe meglio occuparsi di costruire il futuro con spirito «proudly Italian»?
Se siamo qui a parlare del futuro del paese e a paventarne il declino è perché il punto a cui siamo giunti lo dobbiamo proprio al processo che è di moda denigrare. Mi limito a un breve accenno sul tema della scienza. L’Italia è stata il primo paese a creare un’accademia delle scienze (l’Accademia dei Lincei), che però ha dovuto subito chiudere i battenti proprio perché non sostenuta da uno stato nazionale, mentre le accademie scientifiche di punta si affermavano nelle grandi nazioni europee come la Francia e l’Inghilterra. A metà dell’Ottocento, l’Italia, malgrado i suoi Galilei e Volta, era un paese scientificamente marginale, senza accademie e università di rilievo, senza un sistema di istruzione moderno, con una cultura scientifica parcellizzata e irrilevante. Nel Settecento, neanche il Regno di Piemonte era riuscito a trattenere uno dei suoi più grandi matematici, Lagrange, trasferitosi a Parigi. Le cose cambiarono in pochi decenni, dopo l’Unità, per merito di un manipolo di scienziati che studiarono e importarono i grandi modelli europei, per merito di personalità come i matematici senatori Luigi Cremona – ministro dell’istruzione e fra i creatori delle scuole di ingegneria – e Vito Volterra, fondatore di tutte le principali istituzioni scientifico-tecnologiche del paese, a partire dal Consiglio delle Ricerche. A fine Ottocento, l’Italia era al terzo posto mondiale in matematica e si stava affermando nella fisica al punto che la fisica nucleare moderna, con Fermi e i suoi colleghi, sarebbe stata una creazione italiana e grandi risultati sarebbero stati ottenuti in biologia, come mostra il fatto che i grandi Nobel della biologia molecolare moderna sono in gran parte allievi della scuola di Giuseppe Levi. Questo è accaduto perché un governo nazionale ha sostenuto questa impresa e ha deciso di creare un sistema di istruzione moderno e unitario. Ed è accaduto perché l’Italia disponeva già di un patrimonio che poche altre regioni del mondo avevano: un lingua unitaria che permetteva la comunicazione al di là della frammentazione dei dialetti, ed una lingua sostenuta da una delle culture più importanti del mondo.
Ripeto: se noi oggi possiamo discutere di rischi di “declino” di un paese che ha una posizione mondiale di tutto rilievo, e di come porvi rimedio, è perché abbiamo raggiunto questa posizione grazie a quanto fatto durante il processo unitario. Ancor più rapidamente possiamo ritornare a una condizione di assoluta marginalità se ci accingiamo a distruggere quel che abbiamo costruito non comprendendone il valore e anzi svalutandolo irresponsabilmente. Nessuna persona seria può disprezzare le tradizioni locali e i dialetti, che debbono essere preservate e valorizzate come elemento importante delle nostre radici culturali. Ma l’idea di studiare la fisica in friulano o in inglese e la storia in siciliano o in inglese, marginalizzando la lingua che viene appresa in modo naturale in famiglia, tanto più dopo che decenni (anche di opera meritoria della televisione) l’hanno consolidata sempre di più come tessuto unitario del paese, è irresponsabile e autodistruttivo. Un paese di dialetti per la vita quotidiana e di inglese per le comunicazioni professionali non è soltanto un’idea velleitaria, perché le mutazioni linguistiche sono processi storici lenti che non si prestano facilmente ad essere forzati; ma prospetta un futuro di drammatico declino culturale e di subordinazione scientifico-tecnologica.
Perciò non si tratta di stracciarsi le vesti per la vicenda veneta, quando di preoccuparsi – e molto – per la scarsa attenzione al sondaggio dell’Invalsi e dell’Accademia della Crusca che, nel divario con gli esiti dei giudizi effettivi, mostra in quanto poco conto venga tenuto l’apprendimento della lingua. Come ha osservato la professoressa Elena Ugolini, commissaria dell’Invalsi, quei risultati non mettono in luce soltanto povertà di pensiero, ma assenza di strumenti basilari di logica e di espressione: «ragazzi così che futuro possono avere?». Questa è l’emergenza cui la scuola deve far fronte e che deve essere percepita da tutti come una questione nazionale, assieme a quella dell’analfabetismo matematico. Sono emergenze cui non si fa fronte con escogitazioni di metodologia didattica o burocratico-aziendalistiche, come il programma Merito e Qualità per la matematica improvvidamente varato dal Ministero. Bensì comprendendo che è sui contenuti dell’insegnamento che si vince la scommessa. E questo, nel caso dell’italiano, significa ovviamente studiare la lingua ma anche abituare e appassionare gli alunni alla ricchezza e alla complessità dell’espressione linguistica acquisita attraverso la lettura dei testi letterari. Insomma, rammentando una buona volta che uno dei compiti principali della scuola è la trasmissione della cultura.


(Il Messaggero, 23 gennaio 2010)

domenica 24 gennaio 2010

Dan Brown, ovvero come vendere bufale preparate con competenza scolastica

Ho sempre istintivamente evitato di leggere i romanzi di Dan Brown. Dovendo intraprendere un lungo viaggio aereo e vagabondando tra gli scaffali della libreria dell’aeroporto mi sono detto che forse potevo cogliere l’occasione per leggerne uno e farmi un’idea non per sentito dire. In fondo, ho pensato, sarà un modo di passare il tempo: quantomeno la trama sarà accattivante. Così ho comprato il primo romanzo a portata di mano, Angeli e demoni, in inglese.
Trama animata e divertente? Non soltanto una mortale bufala, una broda allungata a forza pur di riempire un numero accettabile di pagine. Ma un’accozzaglia di assurdità da lasciare a bocca aperta. Non si tratta soltanto dell’inverosimiglianza della trama, del fatto che le costruzioni fantascientifiche sono assolutamente improbabili: per esempio, è difficile che un aereo sperimentale che viaggia a una velocità di una quindicina di volte quella del suono possa atterrare su un aeroporto normale senza essere notato. Non si tratta neppure soltanto del carattere malamente abbozzato dei personaggi, talvolta caricaturali fino al limite del ridicolo. Si pone una domanda più elementare: è mai possibile che uno scrittore di best seller che guadagna quattrini a palate non abbia la possibilità di ingaggiare qualcuno che gli riveda il testo in modo da non propinare parole in italiano malamente storpiate? Non è un’usanza tipicamente americana quella di avvalersi dei “revisori stilistici”? Evidentemente Dan Brown è un pasticcione, un avaro o gli piace prendersi in giro da solo, visto che ci propina “Capella Sistina” con una “p” sola, fa dire che «non si può entrare perché… è chiusa temprano», fa intimare che «basta di parlare» e così di seguito. Sembra di sentire uno di quei turisti americani che parlano a mozziconi di un italiano improbabile: il guaio è che quei mozziconi vengono messi in bocca a personaggi italiani. Ma dove Brown raggiunge un vertice è nella descrizione di Roma dall’alto dell’aereo: un dedalo caotico di viuzze che si avvolgono senza regola alcuna attorno a chiese e ruderi “in rovina” (sic) e nelle quali impazzano miriadi di auto Fiat. Un’immagine, osserva Brown, che è il simbolo dell’assenza di ordine. Insomma Roma è il caos allo stato puro. Che sensibilità artistica e culturale! Con spettacolare incoscienza Brown si presenta nella parte caricaturale del cow boy giunto dal profondo Midwest che si chiede perché non si butti giù quel rudere in rovina del Colosseo per rifarne uno nuovo in vetrocemento e non si spiani tutto il centro di Roma per sostituirlo con un sistema di strade ortogonali comprensibili.
È comunque indubbio che Brown è totalmente inconsapevole della propria ignoranza. Ad esempio, sapete quale religione si praticava nel Pantheon di Roma? Il culto di tutti gli dei pagani, ovvero… il panteismo… C’è poco da ridere. Milioni di persone si bevono queste boiate pazzesche e finiscono pure col credere che il panteismo sia il politeismo.
Alla fine di questa lettura mi sono chiesto quale giudizio potrebbe ottenere Dan Brown nei termini della fatidica triade conoscenze/competenze/abilità tanto cara ai patiti di valutazione scolastica. La risposta è semplice. A competenze se la cava benissimo: per esempio, «sa usare strumenti e materiali finalizzandoli al raggiungimento di uno scopo, in seguito a un proprio progetto». Difatti, è riuscito a finalizzare una massa di bufale e di castronerie al conseguimento di una montagna di quattrini. Ad abilità poi non ne parliamo: sta alle stelle. Più “abile” di lui difficile trovarne. Quanto a conoscenze sta a zero. Ma che importa? Quello che conta è che nella certificazione delle competenze se la caverebbe alla grande.  

(Tempi, 27 gennaio 2010)

lunedì 18 gennaio 2010

Una replica sull'eugenetica

Cara Melania Rizzoli,
ho letto con disagio la sua lettera indirizzata al sottosegretario Eugenia Roccella. Non sono un medico come lei, ma so cos’è la scienza e la sua lettera costituisce la conferma del fatto che la medicina non è una scienza. Il che non significa che non si tratti di una prassi ancor più complessa e nobile di una scienza “oggettiva”. Difatti, come ha scritto un celebre medico e storico della medicina, Mirko Grmek «i medici devono agire anche non conoscendo tutti gli elementi del problema» e la medicina è lungi dal possedere tutti gli elementi del problema. E aggiungeva di non credere che «la medicina di oggi sia più “scientifica” di quella del passato, pur se la maggior parte delle persone, soprattutto tra i medici, dirà di sì, ma si tratta di persone che non conoscono la storia della scienza». Scriveva un altro illustre studioso, Georges Canguilhem: «Vi è scienza di un oggetto soltanto se esso ammette la misura e la spiegazione causale», e questo non è il caso. Credendo che la medicina sia una “semplice” scienza si finisce con lo scrivere autentiche assurdità “scientifiche”, come lei  – non se ne abbia a male – ha fatto in questa lettera.
In tutta la sua lettera lei non fa altro che parlare di diritto a volere dei figli sani con certezza, come se qualcuno al mondo potesse garantire qualcosa del genere. Lei parla di «vita certa, sicura, senza malattia». Ma quando mai? Quale persona seria può garantire una vita certa, sicura e senza malattia sulla base di test genetici? Non esiste alcuna possibilità – salvo pochissimi casi ben noti – di garantire una «modifica scientifica di difetti incompatibili con la vita», bensì soltanto una probabilità, la cui stima è estremamente complessa e vaga, di ottenere qualche risultato migliorativo.
Lei parla di «geni difettosi» che dalla loro unione producono non la vita ma «la morte certa», abusando in modo inaccettabile del termine “certo” e “certezza” in un contesto in cui è consentito soltanto parlare in termini statistici. Si dovrebbe avere maggior riguardo per la statistica e non strapazzarla come se fornisse certezze assolute. Abusando del termine “certo” lei commette un errore gravissimo: confondere la correlazione con la causalità e far credere che una concomitanza di eventi implichi l’esistenza di un un legame di causa-effetto. Un simile legame non esiste né in termini positivi che negativi: perché come non esiste alcuna certezza che si verifichi un evento negativo non esiste alcuna garanzia che la modifica di “errori” genetici produca il risultato voluto, il quale poi riguarda soltanto un aspetto minimo della panoplia patologica che resta completamente aperta, incluse le possibili interazioni dei nostri interventi su cui sappiamo ben poco.
Inoltre, non soltanto, come osserva Grmek, il programma genetico «è un qualcosa che interviene continuamente nella regolazione delle sintesi chimiche e che può sia provocare che combattere dei disturbi patologici in qualsiasi momento della vita individuale», ma il paradigma “tutto è genetico” è manifestamente privo di alcun fondamento. Esiste una miriade di fattori non genetici che possono intervenire a modificare il corso degli eventi. Affermare che «il cancro è una patologia genetica» è soltanto una mezza verità. Se fosse una verità tutti i discorsi circa la prevenzione alimentare e nei costumi di vita (anche psicologici)  sarebbero privi di fondamento: e non lo sono. Lei davvero crede che un giorno sarà possibile elaborare un test genetico globale con cui predire se un nascituro avrà nel futuro un cancro qualsivoglia e sopprimere di conseguenza tutti gli embrioni “difettosi” lasciando svilupparsi soltanto quelli “sani” offrendo loro la “garanzia” di non contrarre mai la terribile malattia? Se lo crede davvero mi permetta di invitarla alla riflessione.
Lei ha contrabbandato come “scientifico” qualcosa che è fuori dalla portata della medicina e cioé la garanzia di produrre figli sani mediante la selezione genetica. Questo è nient’altro che vendere illusioni. L’eugenetica di un tempo, che vendeva l’illusione di un’umanità perfetta, non era meno scientifica di quella attuale che propina il sogno pericoloso che bastino quattro test genetici ad avere addirittura un figlio “senza malattie”, in nome della pretesa di essere in grado di correggere gli errori della natura.
Mi lasci concludere con le parole di quaranta anni fa di Canguilhem, un pensatore razionalista, non certamente un bigotto: «… perché non sognare una caccia ai geni eterodossi, un’inquisizione genetica? E, nell’attesa, perché non privare i genitori sospetti della libertà di seminare senza limiti? Questi sogni, lo sappiamo, per alcuni biologi […] non sono soltanto dei sogni. Ma sognando questi sogni, si entra in un altro mondo, limitrofo del migliore dei mondi di Aldous Huxley, dal quale sono stati eliminati gli individui malati, le loro malattie singolari, e i loro medici. Ci si rappresenta la vita di una popolazione naturale come un sacco della tombola, cui sono preposti dei funzionari delegati dalla scienza della vita, i quali sono incaricati di verificare la regolarità dei numeri che esso contiene, prima che sia permesso ai giocatori di tirarli fuori dal sacco per metterli sulle cartelle. All’origine di questo sogno, vi è l’ambizione generosa di risparmiare a dei vivi innocenti e impotenti la colpa atroce di rappresentare gli errori della vita. All’arrivo del sogno, troviamo la polizia dei geni, coperta dalla scienza dei genetisti. Non se ne deve concludere che esista l’obbligo di rispettare un “laisser-faire, laisser-passer” genetico, ma soltanto che esiste l’obbligo di ricordare alla coscienza medica che sognare rimedi assoluti significa spesso sognare rimedi peggiori del male».
Giorgio Israel

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La lettera di Melania Rizzoli:

Gentile sottosegretario Roccella, leggo con stupore il suo duro giudizio sulla decisione del giudice civile di Salerno, dott. Antonio Scarpa, di aver autorizzato una coppia italiana alla selezione genetica embrionale per fecondare un figlio sano,e le scrivo d’impulso, come medico e come parlamentare della sua maggioranza, per difendere, condividere e sostenere fortemente questa scelta umana, difficile e per me apprezzabile. Lei parla di «gravissima sentenza», mentre io gioisco per la stessa ed ammiro la mancanza di viltà del giudice civile. Lei aggiunge «così si introduce il principio che la disabilità èun criterio di discriminazionerispettoaldirittodinascere »ed io le rispondo che l’Atrofia Muscolare Spinale di tipo 1, che la coppia lombarda trasmetteva geneticamente con la sua unione, non è una disabilità, ma una gravissima patologia, incompatibile con la vita,che paralizza, lentamente e gradatamente, tutta la muscolatura scheletrica e porta a morte sicura gli sfortunati bambini che riescono a superare i naturali e spontanei tentativi abortivi durante la propria gestazione, e che, appena nati, iniziano a paralizzarsi, già dal primo giorno di vita, per poi morire entro il loro primo anno di età a causa del lento soffocamento. Cara sottosegretario Roccella, lei ricorda che «l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, cuore della legge 40, è riservato solo alle coppie infertili, per avere le stesse opportunità di chi può procreare naturalmente, e non serve a selezionare un figlio», ed io le rammento che la coppia in questione aveva provato testardamente e diligentemente a non «selezionare un bambino», aveva tentato più volte a«procreare naturalmente», nel pieno rispetto della vostra legge 40, con il gratificante risultato di assistere sconsolata e disperata a quattro lutti, tre aborti a gravidanza avanzata ed un bimbo nato vivo, ma morto asfissiato e soffocato, lentamente, a sette mesi, tutti vissuti non tra sorrisi e carillon, ma tra medici, medicine ed ospedali. La coppia «fertile» in questione ha quindi deciso di rivolgersi ad un giudice per avere l’autorizzazione a procreare un figlio che viva, magari sano, ma comunque non portatore ed esente da quella patologia che ha stroncato la vita dei precedenti quattro figli. Avrebbero potuto recarsi all’estero, ma devono aver pensato, loro,a quel giudice italiano che in Italia lo scorso anno ha dato l’autorizzazione all’induzione della morte su una ragazza in coma vegetativo, che pure respirava autonomamente, quindi come non ottenere l’autorizzazione all’induzioneallavita? Allavita certa,sicura, senza malattia È forse un reato aprire una breccia nella tanto discussa legge, peraltro già bocciata parzialmente dalla Corte Costituzionale? È forse un reato desiderare di mettere al mondo dei figli sani, che vivano la vita, e non debbano conoscere solo dolore, sofferenza e malattia?È un reato di noi parlamentari impedire il diritto alla salute ed alla vita. Non si tratta di nessuna selezione genetica, ma di modifica scientifica di errori genetici, di difetti incompatibili con la vita, che è e resta sacra. È come la scoperta di un nuovo farmaco, che elimina e sconfigge una patologia, e a cui dobbiamo essere grati. Cara sottosegretario, comprendo e capisco il suo ruolo, ma non condivido una sola parola della sue dichiarazioni, anzi auspico, da parlamentare di questa maggioranza, e da medico quale sono, una modifica della legge 40, non per un’apertura alla selezione genetica insensata, ma per l’allargamento della legge anche a quelle coppie «fertili» che sono però portatrici di geni difettosi, di geni che dalla loro unione producono non la vita ma la morte certa nei figli che ne derivano. Perché oggi che stiamo lottando tutti insieme per sconfiggere il cancro nel mondo, non possiamo considerare anche quelle genetiche ed incompatibili con la vita come «patologie da sconfiggere» ed eliminare?Non è il cancro stesso una patologia genetica? Non stiamo studiando il genoma in proposito? Il nostro compito in Parlamento è quello di aiutare i cittadini nel loro diritto alla salute e alla vita, e di modificare quelle leggi,come la 40 del 2004 ,per permettere a quei genitori che lo desiderano, di procreare figli sani. Questo si chiama progresso della scienza, della ricerca e della tecnica, che noi parlamentari dobbiamo incoraggiare e normare, certo, ma senza frenare ed impedire, nella rincorsa di un consenso cattolico che temiamo di perdere! Ma quale uomo di Chiesa auspicherebbe la nascita e la vita infelice di un bambino? Quale Papa non approverebbe la «cura» per eliminare una malattia? Quale Dio assisterebbe inerte alle sofferenze ed alla morte asfissiata di un bambino indifeso? La natura stessa cerca di eliminare con ripetute minacce di aborto quei feti difettati geneticamente, e spesso ci riesce, spegnendo «naturalmente » quelle vite destinate ad una breve ed infelice esistenza. Cara Sottosegretario Roccella, quel che voglio sottolineare è che la selezione genetica di embrioni sani è equivalente ad una terapia
avanzata che impedisce e delimina una malattia sicuramente mortale. Non tentiamo noi medici,
quotidianamente, di far vivere i nostri pazienti anche a dispetto di gravi malattie, con le più avveniristiche delle terapie? Non garantiamo noi parlamentari una sanità che assicuri salute e dignità ai cittadini? E ai loro figli che dovranno nascere? Ecco, allora, noi parlamentari applichiamoci per evitare di legiferare inutili crudeltà, condannate da tutti gli italiani, e cerchiamo di distinguerci non per impedire qualcosa, ma per fare e dare qualcosa al nostro popolo. Soprattutto se si tratta di dare e di garantire la vita.
*medico e deputato del Pdl


(pubblicati rispettivamente sul Giornale del 15 e del 16 gennaio)

venerdì 15 gennaio 2010

Razzismo italico?


Dunque, è scoppiata la prevedibile polemica sul razzismo degli italiani ed ha investito anche il terreno linguistico con il rimprovero mosso da Pierluigi Battista a Vittorio Feltri di aver usato la parola “negro”. Feltri ha prodotto diversi esempi per provare l’innocenza del ricorso a questa parola. Ad essi può essere aggiunto il più importante di tutti: l’introduzione del termine “negritudine” (dal francese “négritude”) da parte del presidente e poeta senegalese Léopold Sédar Senghor che, assieme a Aimé Césaire e altri, lo intese come simbolo e rivendicazione orgogliosa dei valori culturali dell’Africa nera. Un intellettuale certamente non reazionario come Sartre si schierò con il movimento della “negritudine” sostenendo che esso esprimeva la ricerca delle radici di una civiltà oppressa dal colonialismo. Certo, il concetto e il movimento della “negritudine” fu poi criticato e avversato da molti africani come espressione di una persistente subordinazione culturale e di un razzismo alla rovescia. Il che significa soltanto che tutto ciò è materia di una discussione che non può che essere pacifica, ragionata e aliena dalle condanne perentorie tipiche del politicamente corretto.
Chi scrive detesta il politicamente corretto e le sue follìe fondamentaliste. Ne ho visto un simbolo all’aeroporto di Francoforte, in cui sono stati allestiti piccoli cubi di vetro per fumatori, dove il malcapitato può sfogare il proprio vizio soltanto se lo espone in vetrina al pubblico ludibrio. Tuttavia, anche nelle cose peggiori può esserci qualcosa di buono e una certa prudenza nell’uso delle parole è giusta. Ritengo che il criterio discriminante sia quello del contesto oltre che, ovviamente, dell’intenzione. Ad esempio, anni fa un noto uomo politico – evitiamo il nome e le polemiche connesse – si riferì in televisione ad alcuni suoi amici che considerava dei primitivi sul piano della cultura alimentare come a dei “zulù” (con l’accento sulla “u”). In questo caso non bisogna essere antropologi per sapere che zulu designa una lingua e una cultura e per trovare orripilante l’uso di questo termine come sinonimo di primitivo, rozzo e selvaggio. Lo stesso politico, facendo ricorso all’espressione «non ho l’anello al naso», dava ragione al politicamente corretto, perché è inaccettabile identificare questa usanza – cui ricorrevano popolazioni di elevate capacità organizzative e guerriere – come un simbolo di dabbenaggine idiota.
Conta il contesto e l’intenzione, e se il politicamente corretto insegna qualcosa è a non comportarci più come quei bianchi che, con mentalità provinciale, reagivano alla presenza di una persona di colore con la stessa ilare curiosità con cui si osserva un babbuino. In fondo, il termine “negro” si pone sullo stesso piano del termine “giudeo”, su cui pesa un ripetuto uso dispregiativo. Malgrado questo uso si continua a parlare di pensiero “giudaico” o di “radici giudaico-cristiane” senza alcuna connotazione negativa, al contrario. Conta l’intenzione e il contesto. Perché, se si parla dei “giudei” per auspicare la loro morte come una liberazione per l’umanità (alla maniera di Agostino Gemelli), è un’altra faccenda, alquanto sporca. Come lo è l’uso della parola “giudeo” (ma anche “ebreo”) quando non c’entra nulla: per esempio parlando di consigliere ebreo del ministro dell’istruzione. E come lo sarebbe parlare della riforma sanitaria non del presidente Obama, ma del “nero” Obama.
Potremmo continuare con le disquisizioni, ma viene spontanea una domanda: non ci stiamo impelagando in discussioni non prive di valore ma che finiscono con l’occultare i problemi più gravi? Le parole possono essere pietre, ma i comportamenti di fatto possono essere proiettili, anzi obici. Leggiamo sulla stampa che il parroco di Rosarno ha dichiarato: «Li avete cacciati. Oggi siamo più poveri. Bisogna aiutare i fratelli che sbagliano», invitando i “farisei” a non entrare in chiesa. Ci si stracciano le vesti dicendo che il bubbone è cresciuto malgrado gli sforzi della Caritas, dei sindacati e le teglie di maccheroni confezionate da una signora caritatevole. In verità – lo dico senza reticenze – ho sempre nutrito la massima repulsione morale per la pratica della carità. Detesto quelle persone benvestite che calano la monetina e se ne vanno contente e appagate senza chiedersi se in tal modo non hanno perpetuato la schiavitù del bambino che l’ha raccolta e, in generale, la condizione miserabile dell’elemosinante. Sono convinte di aver fatto un passo verso il paradiso e ne hanno fatto uno verso l’inferno. Propinare un piatto di minestra e fornire cartoni nuovi che perpetuano il dormitorio per strada, invece di pretendere condizioni umane degne di questo nome, questo sì che è un comportamento indecente.
C’è qualcosa di profondamente sbagliato e fuorviante in certe polemiche attorno al razzismo connaturato negli italiani, che avrebbe le sue radici nel periodo iniziale dello stato unitario. Ormai è diventata una moda intollerabile e autodistruttiva imputare ogni male di questo paese all’unità. Basta guardarsi attorno e guardare alla storia degli altri principali paesi europei per rendersi conto di quanto la verità sia all’opposto: l’Italia è il paese che ha le più deboli tradizioni razziste in Europa. A Rosarno sono emersi i tentacoli della criminalità organizzata, che rappresenta la forma contemporanea dei mercanti di schiavi, e il terreno che ne alimenta la sopravvivenza, ovvero una cultura diffusa dell’illegalità. È emersa la complicità, quanto meno il volgere lo sguardo dall’altra parte di istituzioni, organizzazioni e molti cittadini che hanno preferito lavarsi (o, per meglio dire, sporcarsi) la coscienza con l’elemosina anziché prendere di petto il problema di opporsi con tutte le forze alla malavita organizzata e al moderno schiavismo. Questi sono i veri problemi, di questi bisogna parlare, su questi bisogna agire. Prendersela col ministro Maroni – che agisce in modo ineccepibile – scagliare fulmini contro un razzismo popolare di dimensioni irrilevanti, invocare il ritorno alla carità elemosinante anziché ai diritti e alla giustizia, impelagarsi in una storiografia senza capo né coda, non è razzismo, ma certamente rappresenta una scandalosa elusione dei problemi reali la quale, dopo uno sterile vociare, può soltanto aprire la strada a ricominciare tutto come prima e peggio di prima.
(Il Giornale, 13 gennaio 2010)

C’è un nemico che nessuno vuole vedere ma continua a uccidere. Ecco le sue vittime

 (Tempi, 14 gennaio 2010)


Tutti dovrebbero leggere il recente libro di Giulio Meotti: Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri d’Israele (Lindau). Mi sono reso conto che era indispensabile che lo leggessi anch’io, che pure non dovrei essere di quelli che sottovalutano il nuovo antisemitismo. Ma, leggendolo, mi sono reso conto che di questo nuovo antisemitismo parliamo troppo al futuro, come se fosse un pericolo, una minaccia, e non qualcosa con cui stiamo già convivendo, talmente attuale e incombente da farti rabbrividire al ricordo di come fu considerata con leggerezza una situazione analoga un’ottantina di anni. Perché, se questa è l’Europa della Giornata della Memoria, della condanna dell’antisemitismo «con animo pietistico, fino a rendere indigeribile l’Olocausto» (per dirla con Meotti), è anche l’Europa in cui la Francia deve nominare un prefetto per la lotta contro l’antisemitismo in quanto nei primi mesi del 2009 gli atti contro gli ebrei sono raddoppiati rispetto allo stesso periodo del 2008: ben 794, fra cui 123 azioni violente vere e proprie. È un clima ben rappresentato dalla recente profanazione: l’asportazione della scritta “Arbeit Macht Frei” che sovrasta l’ingresso al lager di Auschwitz e ne costituisce un simbolo pregnante. «L’antisemitismo è un veleno della nostra Repubblica», ha dichiarato il ministro degli interni francese. Ma non si è chiesto cosa alimenti questo veleno e se le politiche europee di commemorazioni, proclami, prefetti e pietismi esclusivamente rivolti al passato non siano uno svuotare col cucchiaino un serbatoio alimentato poderosamente dal «veleno antisionista, dall’odio per Israele, accettato e propagato a piene mani». La critica – in principio legittima – per le politiche di Israele si tramuta in Europa in una condanna senza appello, in una condanna metafisica, che stona in modo stridente con il voltarsi dall’altra parte di fronte ad atti efferati compiuti da tanti altri governi nel mondo al cui confronto il comportamento di Israele è un modello di correttezza.
«Israele può essere minacciato esistenzialmente perché non esiste nelle carte geografiche su cui studiano generazioni di arabi e di iraniani, può essere messo in stato d’assedio perché la sua storia è negata in Europa. Negata come vicenda umana fatta di emigrazione, di guerre contro il rifiuto arabo, di lotta per l’indipendenza sotto il mandato britannico. Negata come diritto sancito dalle Nazioni Unite. Negata nella dignità delle sue vittime». Ed è appunto una storia di vittime quella che racconta il libro di Meotti. È una storia che inizia nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco e non si è più arrestata lasciando sul terreno migliaia e migliaia di morti e che non è conosciuta neanche superficialmente, perché viene rubricata sotto la questione palestinese anziché sotto la voce “antisemitismo”, cui propriamente appartiene. Tutto è mascherato dalla tendenziosa distinzione fra questione ebraica e questione israeliana: una distinzione che i carnefici si guardano bene dal fare. In un’epoca in cui tutti si dichiarano laici, razionalisti, in cui il diavolo è stato dichiarato morto assieme a Dio, l’unico Male assoluto del mondo rimasto è Israele. Come scrive nell’introduzione al libro Robert Redeker – il Salman Rushdie francese, clandestino in patria perché condannato dagli islamisti – «il solo fatto di pronunciare il nome di Israele fa perdere la ragione a molte persone». Per molti, soprattutto per una certa sinistra, Israele è il «sostituto laico di Satana». Il libro di Meotti getta luce sul nuovo martirio già in corso e sulla esplosione di irrazionalità che lo giustifica e che preferiamo non vedere.