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sabato 29 maggio 2010

L’apparecchio misura-felicità e altre ricerche autolesioniste



Non smette di piovere. Apro il giornale e apprendo che un gruppo di scienziati ha fatto una ricerca e ha concluso che il tempo cattivo mette di cattivo umore. Accidenti, non ci avevo mai pensato. Sapevo che a Napoli da un pezzo si dice: «che bella cosa ‘na iurnata ‘e sole». Ma siamo seri, quale fondamento “scientifico” ha una simile affermazione? Ora, se lo conferma la scienza finalmente possiamo crederci. Però, leggo anche che i nostri scienziati, oggettivi e prudenti, hanno aggiunto: «ma non tutti hanno le stesse reazioni». Meno male… Perché altrimenti non mi spiego come mai Gene Kelly cantava sotto la pioggia («singing in the rain»). Inoltre, un’altra brillante equipe di ricercatori statunitensi ha mostrato che quando piove si apprende di più: hanno collocato una serie di oggetti vicino alla cassa di un negozio chiedendo a chi usciva di ricordare cosa avesse visto. Nei giorni di pioggia i ricordi aumentavano. Promemoria per la pubblica istruzione: irrorare di pioggia artificiale le scuole quando c’è il sole e saremo primi nelle graduatorie Ocse-Pisa.
Mi chiedo se sia in atto una congiura (tipo demo-pluto-ecc.) per screditare la scienza. Forse da parte della stampa? Oppure c’è una quinta colonna nel mondo scientifico stesso? Ho optato per la seconda ipotesi quando ho letto che un nientemeno un Nobel, Daniel Kahneman, assieme a uno stuolo di psicologi, economisti, sociologi ed epidemiologi, ha studiato come misurare la felicità. La chiave della ricerca pare sia l’analisi delle interazioni tra cervello e sistema immunitario in cui passano segnali biochimici che modulano le risposte dell’organismo alle infezioni e allo stress. Insomma, la felicità è intesa come “star bene”. A me questa identificazione pare grottesca. Ma tant’è. Kahneman e soci hanno inventato un apparecchietto che suona a caso in diversi momenti della giornata e il soggetto che lo porta addosso, se non si è ancora stufato di sopportarlo, preme un bottone su una scala numerica per segnalare quanto “sta bene” in quell’istante. La casualità del suonare sarebbe garanzia di oggettività della “misura”. A detta di Massimo Piattelli Palmarini il risultato sarebbe “sconvolgente”. Credete di essere felici perché siete sposati con una donna o un uomo che amate? Oppure perché siete ricchi? Perché vi da gioia la vostra fede religiosa? Perché avete successo nella professione? Illusi! La scienza vi svela in modo inoppugnabile che siete felici se avete dormito bene, se non siete un pendolare, se non siete costretto a fare shopping con il partner e soprattutto quando fate una bella mangiata e bevuta con gli amici…
Un’altra equipe britannica è invece arrivata a conclusioni opposte, in quanto si sarebbe basata su una semplice raccolta delle convinzioni delle persone circa il loro sentirsi felici. Ma questo modo di procedere è ritenuto poco scientifico, in quanto poco “oggettivo”. Ti pare che se uno dice di essere felice ha qualche significato? Infine, secondo un’altra ricerca, tra i paesi più felici al mondo vi sarebbero Costa Rica (al primo posto), Vietnam (al quinto) e Cuba (al settimo)…
Viene da chiedersi. Vi sono tante questioni scientifiche cruciali aperte: l’unificazione tra relatività e meccanica quantistica, l’unificazione delle forze fondamentali, la validità della teoria delle stringhe, tanti problemi irrisolti in matematica, la validità della teoria dell’evoluzione, i modelli meteorologici che non funzionano, le teorie sul riscaldamento globale. Non hanno niente di meglio da fare questi “scienziati” se non occuparsi di queste gigantesche bufale? Ma è evidente, è in azione la quinta colonna dei “nemici della scienza”.
(Tempi, 2 giugno 2010)

domenica 23 maggio 2010

Alle ultime battute dell'interminabile percorso del regolamento per la formazione iniziale degli insegnanti


Esiste un generale consenso nel desiderare che i nostri figli possano contare su una scuola che li prepari più degnamente, una scuola che riesca a qualificarsi ai primi posti a livello internazionale. Forse però non è chiaro a tutti che, per ottenere questo, bisogna cambiare mentalità, indirizzi scolastici, obbiettivi di apprendimento. Tanto per fare qualche esempio, non possiamo pensare di andare avanti assegnando come obbiettivo l’apprendimento delle tabelline in terza elementare, quando un bambino indiano o cinese le conosce a cinque anni. Non possiamo pensare che in prima elementare la maestra dica «Aprite il libro a pagina tre, due», perché non può dire “trentadue”, in quanto nella prima non si può andare oltre il numero venti. È esperienza comune che un bambino possa apprendere a contare e avere un’idea “ordinale” dei numeri fin da tre anni. Anzi, contare quasi sempre diventa per lui una delle attività più entusiasmanti. Ma nelle scuole materne è vietato parlare di numeri. Si ciancia di baggianate come l’acquisizione della nozione di spazialità (“sopra”, “sotto”, “davanti”, “dietro”) e di temporalità (“prima”, “dopo”) ma dal leggere, scrivere e contare ci si tiene lontani come dalla peste.
Tutti sanno che quanto più si è piccoli tanto più è facile apprendere una lingua. Nelle famiglie i cui genitori sono di nazionalità diversa è sufficiente che ognuno di essi parli ai figli nella sua lingua perché questi diventino bilingui fin da tre-quattro anni. Ma se si ritarda l’insegnamento di una lingua a sette-otto anni e oltre, tutto diventa più lento e difficile. Parliamo tanto, a vanvera, di educare bambini che sappiano perfettamente l’esperanto dei nostri giorni, l’inglese, ma l’insegnamento di questa lingua inizia in modo carente e poco intensivo soltanto dalle elementari. Non sarebbe sensato che fin dalle scuole materne i bambini sentano parlare, ovviamente in termini semplici e giocosi, anche in inglese?
Invece no. Ritardiamo i processi di apprendimento in nome dell’idea che i bambini non vanno tormentati e oppressi, quando chiunque sa che un bambino è tanto più nervoso, annoiato, distratto e mentalmente labile quanto più non viene impegnato in svariate attività.
È in corso un intenso impegno nella riscrittura delle Indicazioni nazionali per la scuola, che ha avuto inizio con i Licei e che dovrà investire tutto il primo ciclo, dalla scuola materna alle scuole secondarie di primo grado. È da attendersi una forte riqualificazione dei percorsi di studio che prepari i giovani a livelli adeguati per le sfide che ci stanno di fronte, tanto più difficili a causa della crisi da cui siamo travolti. Ma tutto si tiene. Questi nuovi obbiettivi di apprendimento non serviranno a molto se non saranno gestiti da insegnanti capaci, motivati e preparati. Perciò, non soltanto la valutazione degli insegnanti ma anche i processi della loro formazione iniziale e della loro formazione in servizio sono altrettanti tasselli fondamentali di un rinnovamento e di una riqualificazione della scuola italiana.
È all’esame della Camera, per il parere finale, un regolamento per la formazione iniziale degli insegnanti che è in gestazione da tempo e sta giungendo alle fasi conclusive di approvazione. Esso contiene molte innovazioni importanti che si spera diano frutti in futuro. Tra queste una delle più delicate e difficili, che sta sollevando perplessità e dubbi, è la creazione di una laurea per la formazione dei maestri della scuola primaria dell’infanzia unificata e a ciclo unico quinquennale. Ci si chiede: ma è davvero necessario un percorso così lungo anche per le maestre delle scuole dell’infanzia? non basterebbe un percorso triennale differenziato da quello delle primarie?
Pur non tenendo conto del fatto che il parere unanime di tutte le Facoltà di Scienze della Formazione è che questa innovazione costituisca un importante e necessario progresso, se quel che abbiamo detto all’inizio ha un senso, è facile capire perché questo sia un punto decisivo. Vogliamo davvero continuare a credere, di fronte alla crisi educativa e dell’istruzione, che la scuola dell’infanzia sia un luogo dove si fanno soltanto girotondi e si cambiano pannolini? È mai pensabile che un insegnante di queste scuole debba avere soltanto un’infarinatura superficiale di materie psicopedagogiche e di tecniche di gestione dei piccoli e non anche una preparazione adeguata a introdurre i bambini alle prime attività di lettura, scrittura, e di quello che Laurent Lafforgue ha bene definito come lo sviluppo di un senso di “intimità” con i numeri? Ma per questo occorre non soltanto essere capaci di far giocare i bambini, ma aver acquisito specifiche conoscenze di cosa sia il concetto di numero, come nasca nella mente, la sua differenza con le lettere (che rappresentano un universo simbolico di ben altra natura), come si sviluppi il procedimento del contare, e saper liberare questa capacità nel bambino. E oltre alle prime introduzioni alla lettura e alla scrittura, non sarebbe male che qualche canzoncina e qualche gioco venisse fatto anche in inglese.
Esistono numerose ricerche internazionali contemporanee che confermano le intuizioni dei fondatori della scuola dell’infanzia che era ben distanti dalle attuali visioni riduttive. Chi voglia saperne di più può leggere il recente libro di Margaret Donaldson, “Come ragionano i bambini” (Springer Italia) che mostra come sia perfettamente possibile costruire prestissimo i primi significati matematici. Recenti esperienze in scuole dell’infanzia, tra cui una illustrata alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre, hanno confermato non soltanto la fattibilità di questo approccio ma anche i grandi vantaggi che ne derivano per i bambini, che si mostrano più interessati, motivati e capaci di iniziativa.
I compiti che stanno di fronte a un insegnante dell’infanzia che affronti la sfida di educare dei bambini che non diventino ritardati non sono meno gravosi e complessi di quelli che stanno di fronte a un insegnante delle elementari, e non richiedono minore preparazione e competenza. È inoltre certo che l’unificazione delle lauree non potrà che essere un motivo di soddisfazione per gli insegnanti delle scuole dell’infanzia e produrre un sentimento di maggiore considerazione del proprio ruolo. Senza dire che va anche considerato l’enorme vantaggio che può derivare da una intercambiabilità dei ruoli, che può permettere a un insegnante di passare da una scuola all’altra, creando situazioni più soddisfacenti sul piano personale, e la possibilità di trasferire esperienze da un contesto all’altro. Inoltre, diminuendo la rigidità dei ruoli si crea una possibilità di una collocazione adeguata del personale insegnante.
Per tutte queste ragioni è da augurarsi che questo punto qualificante della nuova normativa della formazione iniziale degli insegnanti resti intatto, sempre nell’ottica che “tutto si tiene” e ricordando che, se vogliamo puntare a una scuola di qualità, non possiamo creare falle in cui vadano a disperdersi gli sforzi prodotti altrove. 
(Il Giornale, 20 maggio 2010)

sabato 22 maggio 2010

La sopravvalutata pratica della valutazione "oggettiva"


“Valutare” è la parola d’ordine dei giorni nostri, la pratica indicata come toccasana per rimettere in sesto i disastrati sistemi dell’istruzione e della ricerca: valutare i professori, valutare le scuole, valutare le università, valutare la ricerca scientifica. È parte di un’ossessione che, come osservavo in una precedente rubrica, ha raggiunto livelli tali da prospettare persino la valutazione degli ecclesiastici… A parte questi ridicoli eccessi, in varie occasioni ho criticato la metodologia con cui viene prospettata la valutazione e cioè l’uso di metodi numerici che vengono gabellati come “oggettivi”. Queste critiche mi stanno costando una raffica di insulti all’insegna del metodo classico del linciaggio: se critichi le modalità di qualcosa significa che non la vuoi. Insomma, sarei contro la valutazione in sé, e quindi un reazionario difensore dei privilegi corporativi di chi non si vuol far controllare.
Ovviamente non è così, e nel denunciare le aberrazioni della valutazione con numeri e statistiche sono in buona compagnia. Di recente, D. N. Arnold, presidente della prestigiosa istituzione scientifica internazionale SIAM (Society for Industrial and Applied Mathematics) che pubblica quindici riviste, ha denunciato gli effetti devastanti di questi metodi. Spieghiamo rapidamente di che si tratta. Con i metodi bibliometrici si pretende di valutare “oggettivamente” le pubblicazioni scientifiche mediante il “citation index”, ovvero il numero di citazioni che hanno ricevuto in un dato periodo, e l’“impact factor” della rivista. Quest’ultimo è dato dalla frazione C/A, dove A è il numero degli articoli pubblicati dalla rivista nei due anni precedenti e C il numero delle citazioni ottenute nell’anno in corso su riviste contenute nel database della ditta privata che fa questi calcoli, la Thomson Reuters. Inutile dire che, se la rivista non è nel database della Thomson Reuters sei fuori gioco. Per farsi accreditare occorre una penosa trafila. In Europa, per le riviste di scienze umane, è stato proposto un sistema (ERIH, European Reference Index for the Humanities) talmente assurdo e punitivo che tutte le maggiori riviste di storia e cultura scientifica del mondo hanno preferito affrontare le conseguenze di non essere valutate.
Il difetto principale di un sistema che, anziché attenersi alle valutazioni di merito – al giudizio della comunità scientifica, ovvero ai pareri e alle recensioni scritte – indica obbiettivi numerici da conseguire, è che i disonesti e i mediocri individuano strategie truffaldine adatte allo scopo. Arnold ha denunciato casi inauditi. I direttori di alcune riviste si sono autopubblicati i propri lavori sulle medesime autocitandosi a raffica e facendo pubblicazioni incrociate con compiacenti colleghi direttori di altre riviste, in modo da far crescere alle stelle il numero delle citazioni. Due riviste che si sono reciprocamente autocitate hanno così ottenuto la prima posizione in termini di “impact factor”. Altre hanno ottenuto posizioni eccellenti sempre con lo stesso sistema. Il fatto gravissimo è che parecchi articoli sono risultati semplicemente plagiati, copiati di sana pianta da articoli pubblicati altrove, altri sono apparsi di infima qualità a un esame attento. Due ricercatori hanno presentato un articolo generato a caso con un programma informatico, e privo di qualsiasi senso: è stato accettato, purché pagassero 800 dollari. Insomma, gli indicatori numerici vanno alle stelle proprio dove la qualità crolla a livelli indecenti. Arnold parla di «integrità sotto attacco» e chiede la sospensione delle valutazioni bibliometriche. Un corporativo che non vuol essere valutato?

(Tempi, 20 maggio 2010)

Alcune riflessioni

È vero - come ha notato qualcuno - che ho deciso di por fine a questo tipo di "dialogo". Esso ha messo in luce due aspetti tra i peggiori di internet - un mezzo cui comunque non rinuncio, ma non per piegarmi alle cattive tentazioni cui induce. Alludo alla perdita di inibizioni per cui si ritiene di poter trattare in modo sbrigativo e persino villano persone con cui non si oserebbe farlo "de visu"; e la tendenza a sentenziare su questioni cruciali e che magari sono oggetto di riflessione secolare, tacciando pure di cretino chi non si adegua. A questo si è aggiunta un'emotività fuori misura che ha spinto molti a rovesciare quintali di insulti, "ignorante", "sciocco", "negazionista".
Chi fa così non si rende conto di cosa se ne pensa in giro, fuori dal circuito informatico in cui si vive un consenso che illusoriamente fa credere di essere il mondo intero. Tanti dei messaggi che ho ricevuto, mostrati a tanta gente, hanno suscitato incredulità, stupore.
È curioso che Daniele Zanoni si chieda se le sue parole mi sono "servite" perché un blog dovrebbe servire a "riflettere un po', senza pretendere di insegnare nulla". Dovrebbero, a quanto pare, servire soltanto a me, perché a lui tale riflessione non abbisogna. Ripete allegramente che le tabelline sono "sequenze ordinate di parole", senza farsi sfiorare dal dubbio. Forse arrossirebbe sentendo i commenti dei colleghi matematici cui ho raccontato a mo' di aneddoto questa trovata. Non importa che sia un laureato in fisica. Abbiamo tutti da imparare, appunto. Ma lui, no. Dice che i suoi problemi sono stati diagnosticati da un pedagogista che sarebbe "la persona più adatta"… E davvero viene da piangere piuttosto che da ridere, soprattutto sentendo che la conclusione è stata: origine neurobiologica.
L'altra sera ero assieme a un nutrito gruppo di medici, tra cui anche un neuropsichiatra infantile di fama e abbiamo parlato a lungo di queste cose. Il parere unanimemente coincideva col mio. Il fatto è che la "medicalizzazione" non è un processo indotto e patrocinato dai medici, quanto da un "demi monde" scientifico, quello degli psicologi, psicologi cognitivisti, pedagogisti speciali, ecc. Tutta gente che si picca di sapere di scienza e discetta di risonanza magnetica e di genetica e ne ha (o forse piuttosto ne trasmette) un'immagine più degna dell'alchimia medioevale che della scienza. Nessun medico, neuropsichiatra o anche neurologo serio da credito a implicazioni rozze e superficiali tra caratteristiche cerebrali dubbie e di interpretazione quanto mai discutibile e processi mentali, e loro anomalie o disturbi. 
In quell'incontro, raccontavo alcuni degli argomenti e delle esperienze riportate e il commento immediato era: "Ma questa è nient'altro che dislessia!…".
Infatti, questo è quel che io ho ricavato da questi (un po' isterici) scambi: la conferma di qualcosa di cui ero convinto. Ovvero che l'unica cosa seria in tutta questa faccenda è la dislessia, anche se non trovo credibile la cifra di tre milioni e mezzo di dislessici messa in giro da chi vuol costruire su questo un sistema di potere.
Quando si esamina ogni caso, si vede che alla fine l'unica sostanza rimane la dislessia. Se uno riduce i numeri a parole e i calcoli a sequenze di parole, un disturbo in queste sequenze o l'incapacità di riconoscere i simboli numerici, il confonderli, ecc. è dislessia e basta.  Altri casi sono riconducibili a cause di natura diversa, incluso il cattivo o ritardato insegnamento, problemi familiari, ambientali, ecc. I casi realmente patologici non dislessici, portano alla vera e propria disabilità.
Quel che è allucinante è l'idea di gonfiare la dislessia ponendola al centro di una rosa di disturbi che non hanno alcuna autonomia concettuale - in parole povere sono di esistenza indimostrabile in quanto qualcosa di distinto dalla dislessia - come la discalculia, la disortografia e la disgrafia. E basti osservare che c'è chi inventa altre malattie, come la disgnosia e la disprassia (non hanno fatto in tempo a metterle in DDL) per capire qual è l'andazzo e l'intento. Mi chiedo come mai a nessuno sia venuto in mente di parlare di "dismusicalia" o "disarmonia", eppure è pieno di "campane" in giro, gente che non ha il minimo senso del ritmo e dell'intonazione. Anche su questo avrei moltissimo da dire, essendo un quasi diplomato di musica, ma siccome nessuno ci ha pensato non vorrei far venire cattive idee in giro…..
Mi si è rimproverato di essere stato sprezzante e polemico. Ma, se esiste ancora il rigore scientifico, come si fa a rispettare chi ha scritto quel DDL, usando una terminologia che nessuno scienziato serio potrebbe usare. Concetti contraddittori tra di loro, frasi senza senso come "elaborazione dei numeri" (ma che vuol dire? capisco che lo possa usare una persona comune, ma nessuno che abbia una minima idea di cosa sia la matematica userebbe un linguaggio simile da ignoranti). Non ho insultato nessuna persona, ma se non criticassi quel che ritengo sbagliato e ignorante che senso avrebbe il mio mestiere. E, dato che non ho insultato personalmente nessuno, chi si è risentito ha la coda di paglia: bastava elegantemente dire «con quelle espressioni ridicole e ignoranti non c'entro, con questi eccessi di medicalizzazione neppure, ma penso che, ecc. ecc.».
Perciò, mi spiace, ma non trovo decente il comportamento di chi mi ha preso "personalmente" per il bavero credendo di potermi intimidire, quello di chi ha cercato di convincere il ministro a mettermi la museruola non rendendosi conto che io sono una persona libera, quello di chi ha pensato di fare la stessa cosa lanciando insulti di ogni genere, e facendo appelli contro il "negazionista" pubblicati persino su un giornale. In anni lontani, ho avuto ben altre esperienze e non soltanto sono vaccinato alle "contestazioni" ma so che non ci si deve fare intimidire.
Perciò, come si può pensare che possa accettare un "dialogo" di questo tipo che oscilla tra gli insulti, il pontificare supponente su questioni complesse come fossi l'unico ignorante e deficiente da rieducare e l'accusa di essere persona insensibile e cattiva.
Su queste basi la richiesta di venire a confrontarmi con associazioni o gruppi è semplicemente ridicola. Dovrei venire io, il reprobo, di fronte alla folla calmante e al tribunale giudicante degli scienziati per apprendere e essere rieducato? La rivoluzione culturale cinese è roba di tempi lontani. 
Ho invece il massimo rispetto per le famiglie e i genitori coinvolti in queste vicende, che vedo spesso abbandonati nei flutti, vittime di molte cose: la crisi della scuola, l'imperio di specialisti che si sono costruiti una sfera separata tra scuola e medicina e che espandono irresponsabilmente il numero dei "disturbati", la tendenza a risolvere le cose in termini di "movimenti", "appelli", "leggi", "contestazioni".
Credo soprattutto nei rapporti tra le persone e queste vicende sono tutte questioni personali. È sbagliato anche scientificamente parlando illudersi di affrontare queste faccende con metodi omogenei e standard. Senza contare che vorrei sapere quanti di questi casi sono stati risolti e quanti piuttosto sono stati lasciati semplicemente con il marchio della "diversità".
Rispetto molto persone come "Mammatoni" di cui mi dispiace di non riportare il lunghissimo messaggio. Per due motivi. Primo perché non intendo proseguire questo sterile "dibattito" (il che non vuol dire che non continuerò a occuparmi di queste faccende). Secondo, perché un messaggio come quello meriterebbe un colloquio personale e non un confronto pubblico. Non è mio mestiere affrontare questo genere di problemi, anche se alcuni ritengo di avere le competenze e l'esperienza giusta. Ma è come con il medico. È assurda l'idea di un medico che propini le soluzioni standard per tutti. Ogni caso fa storia a sé. Questa è almeno la mia idea, anche della medicina, e fortunatamente molti la pensano come me. 
Per il resto, nessuno mi toglierà il diritto di dire quello che penso, dato che ritengo aver accumulato in qualche decennio conoscenze in tema di metodologia scientifica.

mercoledì 19 maggio 2010

La salute totalitaria


Si sente dire tante volte la frase che «chi non conosce la storia passata è condannato a riviverla» da averne quasi la nausea. Quantomeno proviamo a conoscerla questa storia passata. Ecco alcune reminiscenze che potranno forse suscitare riflessioni attuali.
Negli anni trenta, sull’onda crescente della passione mussoliniana per il tema del miglioramento della “razza italica” un’attenzione particolare si accentrò sugli immigrati, per lo più veneti, che avevano popolato le paludi pontine bonificate.  Era la grande occasione – si disse – per sperimentare un miglioramento scientificamente guidato di un gruppo umano che poteva diventare il modello di una nuova razza italica rigenerata. Il mondo scientifico – biologi, antropologi, demografi – si lanciò compatto nell’impresa e si parlò di un «grande laboratorio di biologia umana» che doveva basarsi su un censimento, un’indagine delle caratteristiche somatiche e demografiche degli immigrati. Fu la sagra delle schedature volta a formare un grande archivio delle famiglie. Vi fu il “foglio antropografico” dell’antropologo Sergio Sergi, consistente in un cartoncino contenente (sono parole sue), «brevi note anamnestiche e morfofisiologiche del soggetto, alcuni dati antropometrici e antropografici, tra cui il gruppo sanguigno, le impronte digitali, la fotografia», corredato di una piccola busta, incollata al cartoncino, contenente un campione di capelli. Vi fu la scheda antropometrica o costituzionalista di Corrado Gini, per raccogliere dati sulla costituzione somatica dei genitori. Poi una scheda che descriveva le abitudini alimentari. E, infine, la scheda biotipologica di Nicola Pende, volta a registrare (anche qui sono parole sue) «tutte le caratteristiche somatiche e psichiche, buone e cattive del soggetto, e le sue tendenze ereditarie, e la sua particolare maniera di reagire e di adattarsi all’ambiente cosmico ed all’ambiente sociale e la sua produttività ed i suoi valori, che io classifico in: resistenza vitale generale, attitudini specifiche al lavoro manuale od intellettuale, attitudini specifiche nell’ambito muscolare in genere, valore economico, valore riproduttivo per la specie, valore sociale» Insomma, «la scheda della personalità completa in azione». Tutto il mondo della scienza addosso ai poveri contadini veneti immigrati…
In verità, Pende era il più lungimirante, perché la sua schedatura biotipologica mirava a tutto il paese, altro che Bonifica pontina. Essa era concepita come il «registro indispensabile per lo Stato Fascista, perché esso possa in ogni momento conoscere lo stato del bilancio della sua più grande e solida ricchezza, il capitale umano nazionale». E Pende la descriveva così: «La cartella deve contenere l’accertamento completo della personalità psico-fisica normale e sub-morbosa o pre-morbosa, cioé il documento personale del biotipo individuale a scopo di ortogenesi. Tale cartella deve diventare il fondamento dell’allevamento nazionale dell’infante, del fanciullo, dell’adolescente fino all'età adulta; sarà insomma il vero serio documento individuale di identificazione, di salute e di valutazione di un cittadino che, come il cittadino del Regime Fascista, deve essere veramente una cellula produttiva ingranata armonicamente e consensualmente nel complesso cellulare unitario dello Stato Mussoliniano».
A parte la retorica fascista finale, la scheda di Pende, nel linguaggio contemporaneo, è un “portfolio”? Ma, si dirà, il “portfolio” odierno è un documento che attesta le prestazioni scolastiche del soggetto e non le sue caratteristiche psico-fisiche. In verità, i solerti scienziati fascisti avevano pensato anche a questo. Per esempio, il clinico Banissoni aveva pensato di istituire un libretto personale scolastico “ai fini della valutazione individuale negli impieghi e nel lavoro”. Era un “portfolio” a metà tra la valutazione delle competenze delle abilità (nella terminologia euroburocratica odierna) e la valutazione della personalità psico-fisica. Difatti, Banissoni sosteneva energicamente che la medicina dovesse mettere piede nella scuola – autentico vivaio della nazione – per contribuire in prima linea alla formazione di una generazione sana e forte. Per far questo occorreva che la medicina cambiasse volto e non si occupasse soltanto di malati, ovvero di limitarsi a soccorrere quello che egli chiamava sprezzantemente «l’individualismo egocentrico del malato e del sofferente». Occorreva che si occupasse dei sani, che investisse «le masse di popolo» per preparare generazioni sempre più sane ed efficienti. Una medicina del genere doveva ampliare i suoi interessi all’igiene del corpo e della psiche: non a caso si predicava la necessità di un incremento esponenziale delle cattedre universitarie e scolastiche di psicologia. In particolare, era necessaria una schedatura di massa nelle scuole che doveva raggiungere in pochi anni la cifra vertiginosa di 8-10 milioni di schede.
Fermiamoci qui. Si dirà: cosa c’entrano i “portfolio” con le schedature di un regime totalitario? cosa c’entra la medicina fascista “ortogenetica” con l’encomiabile desiderio di soccorrere i disabili? Nulla, apparentemente. Il fascismo aveva un’attenzione particolare per i soggetti “sani” e mirava a individuare i soggetti “difettosi”, nelle intenzioni peggiori per isolarli, nelle migliori per “bonificarli”. L’obbiettivo era eugenetico: migliorare la qualità della razza. E per questo servivano le schedature di massa e l’allargamento della concezione della medicina.
Oggi siamo tutti buoni e la nostra principale cura sono i malati. Anzi, siamo talmente buoni che, per aver cura di quante più persone sia possibile, allarghiamo il concetto di malattia a quello di disturbo. Così, ai disabili propriamente detti si aggiungono i dislessici, stimati in tre milioni e mezzo, di cui i bambini, aggiungendovi i Dsa (Disturbi specifici di apprendimento), rappresentano il 5% della popolazione infantile. A questi vanno aggiunti i bambini Ahdh (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, sindrome del bambino agitato) per raggiungere cifre apocalittiche. In realtà, siamo ancora più buoni perché, non volendo considerarli malati, li definiamo “diversi” (i disabili sono diversamente abili), al pari degli immigrati, degli omossessuali e degli ebrei. E poiché la “diversità”, se riferita a una “normalità”, è una cosa brutta, occorre dire che siamo tutti “diversi”. In un gioco di specchi vertiginoso la diversità e la malattia diventano normalità e la normalità diventa diversità o malattia. Naturalmente servono specialisti: di qui l’esigenza di avere sempre più psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, cognitivisti, sociologi, ecc. Dove opereranno costoro? Nel Servizio Sanitario Nazionale, non più ristretto alla misera, piatta, individualistica funzione di curare le malattie, bensì investito del compito globale e sociale di promuovere il benessere e la felicità della popolazione. Questo stato maggiore del benessere viene caricato di tante funzioni – come l’accertamento dello stress negli uffici, mediante stressometro, prescritto per legge, o la diagnosi di Dsa e Ahdh – che non deve soltanto crescere di numero ma avere gli adeguati strumenti di conoscenza. Di qui l’insistente richiesta di “screening” di massa per accertare i vari stati di diversità da registrare scrupolosamente. Così, per esempio, se uno si becca la diagnosi di Dsa se la porta a vita e viene identificato come tale anche quando si presenta quarantenne a un colloquio di lavoro.
Censimenti di massa e allargamento del concetto di medicina. Ricorda qualcosa? Vi è qualcosa che sa di totalitario in questa medicalizzazione della società? Per carità, è soltanto “bontà”. Anche Nicola Pende era animato dalle migliori intenzioni quando perseguiva la “bonifica umana razionale”. Di certo, siamo agli antipodi dal motto liberale di John Stuart Mill: «Ciascuno è l’unico autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale».
(Il Foglio, 15 maggio 2010)

Teppismo

L'ultima di cui sono stato informato è che sono stato definito in rete, con cospicuo numero di firme, un "negazionista" della dislessia.
A parte il fatto che ognuno può constatare, semplicemente leggendo quel che ho scritto, che non ho mai contestato l'esistenza della dislessia, ma ho fatto un ben diverso discorso, colpisce l'inaudito ricorso all'epiteto "negazionista", di cui chiunque sa bene il senso e l'uso comune. Chiaramente scelto ad arte rivolgendosi a me, col cognome che porto. Per sputare in faccia a chi è davvero vittima del negazionismo, quello autentico, che proclama che gli ebrei, tra cui metà della mia famiglia, non hanno mai subito alcuno sterminio.
L'ebreo "negazionista"...
E questa è gente che ha anche il coraggio di chiedere di discutere e si propone come riflessiva e piena di buoni sentimenti?
Mi auguro che esistano ancora persone perbene capaci di tenersi alla larga da questo schifo.

lunedì 17 maggio 2010

Il culto della metodologia didattica ha reso intollerante pure Berlinguer

Condivido poco dell’azione riformatrice dell’ex-ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer. Con l’eccezione del tentativo di valutare gli insegnanti, ritengo che i suoi interventi sull’università (soprattutto la famigerata laurea 3 + 2) e sulla scuola abbiano prodotto soprattutto disastri. Ma Berlinguer è persona squisita, che sa discutere civilmente e alimentare un confronto costruttivo. L’ho verificato sulla questione della diffusione dei laboratori nelle scuole. La Commissione ministeriale per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica da lui presieduta produsse un documento che si scagliava violentemente contro il fatto che «in Italia la scienza è oggetto di apprendimento scolastico, cartaceo, nozionistico, deduttivistico». Il documento suscitò molte polemiche, tra cui una critica puntuale del matematico Enrico Giusti che criticò l’uso denigratorio del termine “scolastico” (come se l’apprendimento non si facesse comunque a scuola) e la proposizione di un’immagine empiristica della scienza che nulla ha a che fare con la ricchezza e complessità dei suoi approcci. Ma non è qui la sede né vi sarebbe lo spazio per entrare nel dettaglio di queste polemiche.
Quel che voglio rilevare è che nel dibattito che ne è seguito, e nel corso del quale ho avuto parecchi scambi diretti con Luigi Berlinguer, le posizioni si sono smussate, ed egli stesso ha ammesso che quel documento era eccessivamente radicale. Si è trovato un terreno di accordo, sia pure parziale, sull’idea che il laboratorio è uno strumento essenziale nell’apprendimento delle materie scientifiche, ma che il lavoro in laboratorio deve consistere in un continuo confronto tra teoria e pratica, che non si entra in laboratorio per pasticciare a caso, ma con un bagaglio preventivo di conoscenze teoriche; se non altro perché, nel procedere storico della scienza, le scoperte sono avvenute sempre sulla base di ipotesi concettuali e mai per manipolazioni a caso. Ho trovato molto positivo (e raro) che si potesse discutere pacatamente cercando convergenze, perché di questo, e non di liti, ha bisogno la nostra scuola.
Tanto più sono rimasto stupito leggendo una recente intervista di Berlinguer in cui, dopo aver patrocinato il passaggio dal linguaggio verbale a quello multimediale, alla domanda del perché ancora la scuola si basi sul linguaggio verbale, ha risposto: «Perché si vuole ammazzare la scuola, quelli che vogliono questo hanno il monopolio, sono dei “gentiliani”, che vanno cacciati spietatamente!!», con due punti esclamativi.
Ecco, questo è pessimo, oltre che curioso da parte di chi non ho mai visto far uso se non del linguaggio verbale. Per tre decenni la scuola italiana è stata in preda di persone che hanno imposto (altro che egemonia “gentiliana”!) ideologie di stato basate sul primato della metodologia e il discredito delle discipline. Prima, sotto il periodo berlingueriano, si è avuta l’ideologia delle nuove tecnologie come “grimaldello per scardinare i saperi tradizionali” e “avvelenare” l’assetto istituzionale della scuola tradizionale. Poi è venuta l’era dell’insegnamento “olistico”. Infine, quella della complessità e delle “teste ben fatte” alla Edgar Morin. È giunto il momento di rovesciare questa tendenza infernale. Le uniche prescrizioni devono riguardare la serietà dei contenuti disciplinari. Per il resto, basta con le imposizioni ideologiche. Ognuno insegni come meglio crede, con piena libertà metodologica, alla maniera moriniana o gentiliana che sia, verbalmente o con mezzi multimediali e poi sia valutato sui risultati. Non si deve neppure parlare di “cacciare” qualcuno per le proprie idee. Questo è un modo di pensare degno di un regime totalitario.

(Tempi, 19 maggio 2010)

domenica 16 maggio 2010

Una precisazione a proposito di polemiche su DSA e AHDH

Ho scritto due articoli sull’argomento (sul Giornale e sul Foglio, scaricabili sul mio sito “Articoli”) e ieri un altro sul Foglio in cui parlo dei rischi della “medicalizzazione” di massa.
Ne è nata una polemica a tratti violenta su cui occorre dire qualcosa nel contenuto ma soprattutto nella forma.
La mia posizione è stata falsata. Ha reagito la Società Italiana Dislessia sebbene io non abbia messo in discussione l’esistenza di questo disturbo. Ho asserito – e ripeto – che la definizione di DSA è scientificamente inconsistente, mette assieme cose incongrue e che le altre tre componenti (discalculia, disgrafia e disortografia) sono evanescenti. Per esempio, molti (anche neuropsichiatri) ammettono che la discalculia in senso stretto – definita nel DDL come difficoltà nei meccanismi di calcolo e nell’elaborazione dei numeri (quest’ultima terminologia fumosa è da persona che non sa cosa sia la matematica) – è quasi introvabile; dicono che esista in senso lato, come difficoltà nella lettoscrittura dei numeri. Ciò dimostra che chi si occupa di queste cose è spesso un perfetto ignorante: difatti non sa quale differenza abissale intercorre tra numeri e i loro segni e le lettere.
La seconda sindrome, quella nella lettoscrittura dei numeri, è assimilabile alla dislessia e basta. La difficoltà di calcolo è quasi sempre indotta da cattivo insegnamento e dai programmi tardigradi e frustranti della scuola. In definitiva, questo solo esempio basta a capire che lasciare in mano a persone che non hanno idea di che cosa siano i numeri e cosa sia il calcolo mentale (il che richiede una cultura specifica) la diagnosi di questo disturbo praticamente inventato, è altamente irresponsabile. Che la scuola funzioni male, che le tabelline non si insegnino fin da piccoli, e che certi insegnanti scarichino il problema non è buon motivo per “risolverlo” in questo modo, perché questo non responsabilizza la scuola, al contrario la deresponsabilizza e appiccica addosso al bambino un marchio di disabilità che rischia di portarsi appresso tutta la vita e che nella maggior parte dei casi non merita affatto.
Ma di tutto questo si può parlare se si è civili.
Ora, chi mi conosce un poco sa che spesso sono anche molto polemico, ma sempre nei confronti delle idee, mai facendo attacchi personali insultanti, ovvero ricorrendo a epiteti anziché alla confutazione anche dura delle opinioni altrui.
Invece, non soltanto mi sono visto trattare da ignorante in neuroscienze da chi magari è uno psicologo cognitivo e di quella materia non ne sa più di me, forse meno, snocciolando con supponenza asserzioni a dir poco prive di fondamento mentre mi  accusava di dire “sciocchezze”. Sono stati rivolti appelli contro di me personalmente al Ministro. Mi sono state segnalate espressioni violente in certi blog con appelli a mobilitarsi per esprimere rabbia e per difendere il DDL, mostrando così che quella è l’unica cosa che interessa. Come se una tematica delicata come questa avesse bisogno di mobilitazioni urlate di stile sessantottino, di odio e di veleni.
Anche sul fronte della “malattia inventata” del “bambino agitato”, l’AHDH, sono stato preso di petto come agente di Scientology e ogni qualvolta ho citato persone autorevoli che condividevano le mie idee si è risposto che erano agenti o plagiati di Scientology. Immagino che anche il primario dott. Bobbio, autore del libro “Il malato immaginato”, che dice le stesse cose sull’AHDH, sia un agente di Scientology.
Ricorrere all’insulto, alla mobilitazione e all’allusione a una torbida “congiura” non è certo il modo per rispondere a una legittima tesi: e cioè che non vi siano basi scientifiche nella definizione di questi disturbi.
Dopo tutto questo assalto all’arma bianca arriva però l’invito al “confronto pubblico”, alla discussione con le povere famiglie offese (di quelle tormentate dal marchio di “diverso” che si rifiutano di far apporre ai loro bambini nessuno parla, non sono degne di esistere).
Che sfrontatezza. Che metodi indecenti.
Prima parte una scarica di manganellate e di olio di ricino per “ammorbidire” l’interlocutore e poi si invita al “dialogo”.
È da immaginare che dialogo potrà mai essere.
Sono sempre disponibile a discutere, ma non sono fesso, e neppure mi faccio intimidire dalle "contestazioni", su questo è meglio che cada ogni illusione.
Con certa gente il dialogo è chiuso a priori.

venerdì 14 maggio 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 6

ovvero qualche piccolo esempio di come si creano delle persone incapaci di calcolare ("discalculici"?), disabili in matematica e che comunque giustamente finiscono con l'odiarla

Scuola materna
Bambino: Maestra, Luca dice che 2 più 3 fa 5, io dico che fa 6. Chi ha ragione?
Maestra: Non dovete parlare di numeri!!
All'uscita dalla scuola:
Maestra al genitore: La avverto che il suo bambino parla sempre di numeri. Non si deve parlare di numeri prima della prima elementare. Assolutamente. È controproducente. In questa fase noi dobbiamo introdurre i bambini soltanto agli indicatori topologici, "davanti", "dietro", "sopra", "sotto", in modo che acquisiscano il senso della spazialità, assieme a quello della temporalità. Ma niente numeri, mi raccomando, nemmeno a casa!



Prima elementare
Maestra: Aprite il libro a pagina tre, due.
Perché la maestra dice «tre, due» e non «trentadue»? Perchè in prima elementare non si possono conoscere i numeri oltre il 20!......



Terza elementare
Bambino: Maestra, è questa l'altezza di un trapezio?
Maestra: Ancora non dovete sapere cos'è l'altezza.



Quarta elementare
Maestra: L'area del trapezio si calcola moltiplicando la metà della somma delle basi per il lato del trapezio (sic).
Si potrebbe "nobilitare" questa castroneria dicendo che così facevano gli antichi egizi... si noti che il trapezio è dato implicitamente come isoscele.



Quarta elementare
Maestra: Calcolate l'area di questo triangolo (assegna base e lato in cm dando per implicito che il triangolo è isoscele: il calcolo è impossibile a meno che non si conosca il teorema di Pitagora). Ricordate che l'area si esprime in centimetri (non in centimetri quadrati! Del resto di misure piane non ha mai parlato...).

Tutti questi esempi derivano da testimonianze dirette di varie classi di più scuole comprovate dal contenuto dei quaderni.





domenica 9 maggio 2010

UN LIBRO DA LEGGERE E DIFFONDERE

Ventitré anni. Francese. Un debole, sembra, per le belle donne. E poi ebreo. Anzi no, non “e poi” ebreo: prima di tutto ebreo («Sono Ilan Halimi. Sono il figlio di Halimi Didier e di Halimi Ruth. Sono ebreo»). E come tale selezionato per la soluzione finale, adescato, rapito, sequestrato, bestialmente torturato per oltre tre settimane e infine, ancora vivo, bruciato (“Ilan era ebreo, doveva finire in fumo”).

Ora il libro scritto dalla madre di Ilan per ricordarne la sconvolgente vicenda è disponibile anche in italiano, nella traduzione di Barbara Mella, Elena Lattes e Marcello Hassan; con interventi di Bernard-Henri Lévy, Pierluigi Battista e Giulio Meotti. Un libro da leggere e diffondere, affinché uno dei più efferati episodi di antisemitismo dei nostri tempi sia conosciuto e ricordato.

Ruth Halimi – Émilie Frèche, 24 giorni La verità sulla morte di Ilan Halimi, Belforte





venerdì 7 maggio 2010

Firma l'appello "Con Israele, con la ragione"

Cari amici,
nei giorni scorsi, un gruppo di intellettuali francesi ebrei ha promosso un appello (JCall - "Appello alla ragione"), che è sostanzialmente un invito a Israele ad arrendersi. L'appello di JCall fa parte della grande ondata di delegittimazione dello Stato d'Israele e della sua politica. Noi abbiamo risposto con la forza della vere ragioni, le ragioni di Israele, e vogliamo che il numero e la qualità dei nostri firmatari dimostrino che esiste un grande movimento d'opinione che difende Israele, in Europa e nel mondo. Questo che segue è il nostro appello "Con Israele, con la ragione", che vi prego di firmare e di diffondere il più possibile tramite i vostri contatti (il testo è in italiano e in inglese e sta per essere tradotto in francese), per raggiugere quanto prima il nostro obiettivo.

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L’aggressione a Israele dei firmatari del documento Jcall è ispirata da una visione miope della storia del conflitto arabo-israeliano, da una mancanza di percezione chiara del pericolo che Israele corre oggi di fronte a un grande attacco fisico e morale. E’ addirittura incredibile che personaggi intelligenti e colti come Alain Finkelkraut e Bernard-Henri Levy, invece di occuparsi dell’Iran che ben presto terrà tutto il mondo nel raggio della minaccia della sua bomba atomica, bamboleggino con l’idea che Benjamin Netanyahu sia il vero ostacolo alla pace, che l’impedimento essenziale per giungere a una risoluzione del conflitto sia un ipotetico, riprovevole atteggiamento israeliano. Sembra che gli intellettuali firmatari ignorino la realtà e inoltre che se ne infischino del contributo che il loro documento darà e sta già dando al movimento di delegittimazione senza precedenti che minaccia concretamente la vita di Israele.
Voler spingere Israele a concessioni territoriali senza contraccambio significa semplicemente consegnarsi nelle mani del nemico senza nessuna garanzia: lo sgombero di Gaza, compiuto senza trattativa, ha portato risultati disastrosi, il territorio lasciato dagli abitanti di Gush Katif è diventato un’unica rampa di lancio per missili e terroristi; la trattativa di Ehud Barak, intesa a cedere a Arafat praticamente tutto quello che chiedeva, portò semplicemente all’orrore della seconda Intifada, con i suoi duemila morti uccisi da attentati suicidi. Lo sgombero della fascia meridionale del Libano nel 2000 ha rafforzato gli Hezbollah, li ha riempiti di missili, ha condotto alla guerra del 2006.
Alain Finkelkraut, Bernard-Henri Levy e i loro amici sostengono di preoccuparsi per il futuro e la sicurezza d’Israele, ma di fatto ignorano l’elemento basilare che ha impedito ai processi di pace di andare in porto, ovvero il rifiuto arabo e palestinese di riconoscere l’esistenza stessa dello Stato d’Israele come dato permanente nell’area. Basterebbe che ogni mattina leggessero la stampa palestinese e araba e se ne renderebbero conto. Nessuna concessione territoriale di quelle che gli intellettuali francesi sembrano desiderare con tanta energia può garantire la pace, ma solo una rivoluzione culturale nel mondo arabo. E nessuno la chiede, nemmeno Obama che invece preme solo su Israele. E’ divenuta la moda di questo tempo.
L’attacco a Netanyahu che si legge nell’appello di Jcall è volto a destrutturare la sua coalizione di destra. Ma la realtà è che non è mai contato nulla che un governo israeliano fosse di destra o di sinistra: i Palestinesi hanno sempre comunque rifiutato ogni proposta di pace.
Ma che Israele diventi ancora più piccolo non servirà a niente finché Abu Mazen non rinuncerà a intitolare le piazze al nome dell’arciterrorista Yehiya Ayash, finché il mondo palestinese non smetterà di distribuire caramelle quando viene ucciso un ragazzo ebreo in qualche ristorante, finché non accetterà la richiesta davvero minimalista di Netanyahu di riconoscere che lo Stato di Israele è lo Stato del popolo ebraico.
Sembrano ignorare questo dato evidente anche gli intellettuali israeliani che hanno firmato un documento addirittura contro il premio Nobel Elie Wiesel che ha scritto una nobilissima lettera in sostegno di Gerusalemme come patria morale e storica del popolo ebraico.
E’ una triste epidemia perbenista, con la quale probabilmente si pensa di fornire un po’ d’ossigeno ai movimenti pacifisti che in questi anni non ha saputo altro che fallire ripetutamente sullo scoglio della cultura dell’odio islamista e contribuire alla diffamazione di Israele. Ma non si arriverà a nessun processo di pace (e le generose offerte di Olmert rifiutate da Abu Mazen ne fanno fede) finché una larga parte del mondo non smetterà di sperare che la distruzione di Israele sia dietro l’angolo, sulla scia della nuova eccitazione islamista dell’Iran e dei suoi amici Siria, Hezbollah, Hamas tutti sempre più armati di armi letali, e non solamente di vane parole, come i firmatari dell’”appello alla ragione”. Ma anche le parole possono uccidere e distruggere.
Non ci sfugge, di fronte a una così evidente ignoranza della politica della mano tesa di Netanyahu con il discorso di Bar Ilan e il congelamento di dieci mesi degli insediamenti, lo sblocco di molti check point e la promozione di importanti misure per agevolare l’economia palestinese, che sia presente nel “documento Finkelkraut” un traino obamista, un perbenismo da salotto buono cui spesso gli intellettuali non sanno dire no. Esso mette i nemici di Israele, e sono più di sempre e più agguerriti, nella condizione di delegittimare e attaccare lo Stato ebraico, dicendo: “Anche molti ebrei sono dalla nostra parte”. Se questo era lo scopo dei firmatari, lo hanno raggiunto.

Fiamma Nirenstein (giornalista e deputato), Giuliano Ferrara (direttore de Il Foglio), Paolo Mieli (presidente Rcs Libri, ex direttore del Corriere della Sera), Angelo Pezzana (giornalista, informazionecorretta.com e Libero), Ugo Volli (semiologo, Università di Torino), Shmuel Trigano (professore, Universités à Paris X-Nanterre), Giorgio Israel (Università La Sapienza), Giulio Meotti (giornalista, Il Foglio), Gianni Vernetti (deputato, ex Sottosegretario agli Esteri), Susanna Nirenstein (giornalista), Peppino Caldarola (giornalista), Alain Elkann (scrittore, consigliere Ministero Beni Culturali), Carlo Panella (giornalista, Il Foglio), Emanuele Ottolenghi (Senior Fellow, Foundation for the Defense of Democracies), Daniele Scalise (giornalista), Giancarlo Loquenzi (Direttore, l’Occidentale), Edoardo Tabasso (professore, Università di Firenze), Leonardo Tirabassi (presidente Circolo dei Liberi Firenze, Fondazione Magna Carta), Giacomo Kahn (Direttore mensile Shalom), Magdi Allam (parlamentare europeo), Luigi Compagna (senatore), David Cassuto (ex vicesindaco di Gerusalemme), Riccardo Pacifici (presidente Comunità Ebraica di Roma), Anita Friedman (Associazione Appuntamento a Gerusalemme), Leone Paserman (presidente della fondazione Museo della Shoah di Roma), Massimo Polledri (deputato), Enrico Pianetta (deputato, Presidente Associazione parlamentare di amicizia Italia-Israele), Alessandro Pagano (deputato), Renato Farina (deputato), Marco Zacchera (deputato), gennaro malgieri (deputato), Dore Gold (President, Jerusalem Center for Public Affairs, former Ambassador of Israel to the UN), Norman Podhoretz (Writer, Editor-at-Large, Commentary Magazine), Michael Ledeen (Freedom Scholar, Foundation for Defense of Democracies), Barbara Ledeen (senior advisor, The Israel Project), Phyllis Chesler (Emerita Professor of Psychology and Women's Studies, City University of New York), Nina Rosenwald (Editor-in-Chief, www.hudson-ny.org), Harold Rhode (esperto di Medioriente, ex Pentagono) Caroline Glick (editorialista, Jerusalem Post), Rafael Bardaji (Foreign Policy director, FAES Foundation), Raffaele Sassun (Presidente Keren Kayemeth LeIsrael Italia), Max Singer (a founder and Senior Fellow, Hudson Institute), George and Annabelle Weidenfeld (President, Institute for Strategic Dialogue), Anna Borioni, (associazione Appuntamento a Gerusalemme), Efraim Inbar (Director, Begin-Sadat Center for Strategic Studies), Zvi Mazel (former Ambassador of Israel to Egypt and Sweden), George Jochnowitz

http://www.petitiononline.com/israel48/petition-sign.html

lunedì 3 maggio 2010

Intervista a Avvenire


1) E’ in corso una pressione che tende a ridurre progressivamente lo spazio delle discipline umanistiche  nella scuola?

Non c’è dubbio. La materia più colpita da questa tendenza è il latino, il che avviene in un momento in cui curiosamente il latino è alla moda in un paese non “latino” come gli Stati Uniti. Ma la pressione si esercita nei confronti della storia, sempre più ridotta a brandelli privi di organicità; e nei confronti della filosofia, il che è molto grave in un continente a “vocazione filosofica” come l’Europa. Parlo di Europa perché le cose vanno ancor peggio che da noi in paesi come l’Inghilterra dove l’insegnamento della storia è visto sempre più come un orpello.

2) Come si manifesta questa strategia e quali conseguenze produce  negli studenti e soprattutto in quelli che progettano di lavorare, un giorno, nel mondo della ricerca scientifica e tecnologica?

Predicando l’inutilità delle materie umanistiche sul mercato del lavoro o con argomenti demagogici come quello secondo cui lo studio del latino agli studenti non piace: con questo argomento si potrebbe proscrivere a maggior ragione l’insegnamento della matematica. Anzi, la soluzione ideale sarebbe chiudere la scuola… Le conseguenze sono che gli studenti si formano una visione riduttiva della scienza come se il suo fine fosse esclusivamente manipolativo e non la conoscenza della natura.

3) Che tipo di scienza  emergerà da studi specialistici e puramente tecnici che  sono necessari ma non si accompagnano ad adeguate conoscenze  e riflessioni  nel campo della filosofia, dell’etica, degli “studia humanitatis” ?

Un insieme di ricette pratiche alla lunga sterili e ripetitive, incapaci di generare vera “innovazione”: ci si riempie la bocca di questa parola a vanvera. La scienza occidentale – quella che ha rivoluzionato in tre secoli il mondo ed è “la” scienza “globalizzata” – è basata su una coesistenza di conoscenze di base e di tecnologia in cui le prime hanno un ruolo motore. E le conoscenze di base sono, a loro volta, fondate su concezioni del mondo che storicamente si sono intrecciate strettamente con il pensiero filosofico e anche religioso. Alla base dello straordinario successo della scienza occidentale è stato proprio il suo rapporto con queste visioni e quelle che vengono chiamate “metafisiche influenti”. Tempo fa mi è stato richiesto un “coaching” da parte di un ingegnere di una nota casa automobilistica che desiderava un aggiornamento di storia della matematica e della scienza. Bizzarro? Una perdita di tempo? Nient’affatto. Quella persona era mossa dalla corretta esigenza di un ritorno periodico ai fondamenti concettuali senza i quali anche la tecnologia deperisce. Sono state due giornate di grandissimo interesse. Ho trovato nelle discussioni con questa persona di grande competenza la conferma di quanto ho sempre pensato: l’innovazione è impossibile senza la scienza di base. Oggi costruiamo automobili la cui concezione risale a un secolo fa (e lo stesso dicasi per i computer la cui concezione risale a sessant’anni fa). Una vera rivoluzione tecnologica non può che ripartire da idee teoriche completamente nuove e senza la scienza di base ciò è impossibile. E la scienza di base senza un rapporto profondo con le scienze umane non può che deperire. Uno dei nostri più famosi matematici, Federigo Enriques, diceva di essersi iscritto alla facoltà di matematica «per un’infezione filosofica liceale».

4) L’umanesimo è un concetto affascinante e ampio. Il movimento si propone come l’erede del pensiero greco-latino e della tradizione giudaico-cristiana. Quali rapporti ha con l’umanesimo che si studiava a scuola, affermatosi nel  XIV e XV secolo, quando avviene la scoperta dei classici antichi?

Quei rapporti sono legati all’idea della “dignità dell’uomo” la quale, a sua volta, dipende dal principio che l’uomo è libero. Pico della Mirandola – esponente di una visione mirante a riconciliare il razionalismo greco con lo spiritualismo ebraico e cristiano – ammonisce l’uomo: «Potrai degenerare in forme inferiori come quelle delle bestie o, rigenerato, avvicinarti alle forme superiori, che sono divine». Perciò la libertà non implica di per sé un esito benefico: dipende da come si decide di usarla. L’umanesimo rigetta radicalmente il naturalismo, l’idea che tutto si riduce a natura, che altro non è che una forma di materialismo. È un ammonimento di estrema attualità contro le pretese di certa tecnoscienza di voler rifare l’uomo sulla base di manipolazioni genetiche.

5) Perché Galileo, Pascal e Cartesio non si chiedevano a quale delle “due culture” – scientifica o umanistica – appartenessero? Quale idea della conoscenza  li ispirava?

Perché, pur secondo punti di vista assai diversi, perseguivano una visione complessiva del processo conoscitivo di cui la scienza della natura era soltanto un aspetto e non la totalità. Perché erano tanto “scienziati” quanto “filosofi”. Non c’è dubbio che alcuni germi della divaricazione successiva tra scienze naturali e scienze umani sono già presenti, soprattutto in Galileo, ma la corrente dominante della scienza almeno fino al prevalere del positivismo è dominata da una visione “integrale” della conoscenza.

6) Oggi lo scienziato, anche senza volerlo, rischia di rappresentare una scienza anti-umanistica  o addirittura “anti-umana”. Secondo lei, come è possibile riscoprire il valore “umano” della ricerca scientifica, basato sull’educazione integrale della persona?

Facendo ricerca e insegnamento in storia della matematica e della scienza mi trovo in una posizione privilegiata (o piuttosto sfortunata…) per assistere al disprezzo con cui troppi colleghi guardano alle discipline di frontiera e le penalizzano in ogni modo, mostrando una rozzezza che avrebbe fatto inorridire qualsiasi scienziato di qualche decennio fa soltanto. Talvolta vengo assalito dalla tentazione di andare in pensione… Tuttavia, bisogna essere ottimisti. L’atteggiamento degli studenti mostra che, in fin dei conti, soltanto la prospettiva umanistica (storica, filosofica) permette di dare una ragione e una motivazione per fare scienza; e che le mere motivazioni tecniche, professionali o economiche lasciano con un vuoto interiore drammatico. Perciò, anche se attraversiamo un periodo alquanto buio – in cui impazza la dittatura degli “esperti” – i semi della cultura prima o poi germoglieranno, come è avvenuto in altre fasi storiche regressive. La dittatura degli “esperti” è destinata a perdere perché ha una profonda debolezza: non crede negli uomini ma soltanto nelle proprie tecniche.

(29 aprile 2010; raccolta da L. Dell'Aglio)

sabato 1 maggio 2010

Presto anche i preti avranno il loro istituto di valutazione

Che la “valutazione” sia di moda ai giorni nostri lo sapevo da un pezzo e da un pezzo la cosa comincia a darmi la nausea, soprattutto perché assume la forma di quella che Nicoletta Tiliacos, sul Foglio, ha chiamato “la dittatura degli esperti”. Chi valuterà una scuola o degli insegnanti? Altri insegnanti? Per carità! Lo faranno degli “esperti” dell’istruzione in base ai metodi della loro scienza “docimologica”, i quali, manco a dirlo, sono al di sopra di qualsiasi valutazione. E quale sarà la migliore valutazione degli apprendimenti degli studenti? È presto detto. Quella fatta dagli istituti di valutazione: l’insegnante dovrà limitarsi a fare da stimolatore del processo di apprendimento. Anche le prestazioni dei medici, delle cliniche e degli ospedali vanno sottratte al giudizio dei competenti del settore, ovvero i medici stessi: nella pretesa di rendere i giudizi oggettivi, essi vanno demandati a specialisti di valutazione che magari non hanno la minima idea di cosa sia un diabete però rifilano una serie di test e di procedure alla fine del quale emettono la loro “scientifica” sentenza.
Naturalmente queste procedure si basano su tecniche numeriche, su algoritmi matematici. Come ha ben detto lo psichiatra Vittorino Andreoli, la diffusione di queste procedure è legata al fallimento dei tanti sistemi messi in opera per valutare il merito: «Quando l’educazione da elitaria che era, si è aperta alla società di massa, ha cominciato a non funzionare più. Per questo abbiamo finito per introdurre il sistema anglosassone, soprattutto americano (forse è un’altra forma di colonizzazione): noi partivamo dai valori, loro calcolano a punti, fanno esami con i test che poi vengono valutati dai computer».
Però, da tutte le parti piovono critiche e confutazioni. Il fallimento di questi metodi è sempre più plateale, il naufragio della metrologia applicata a tutto è sempre più evidente. Ma pare che l’onda sia comunque inarrestabile. Probabilmente perché è il modo più facile di cavarsela da un problema troppo difficile, e poi scarica da ogni responsabilità: l’hanno detto i numeri, l’ha detto l’esperto, chi se ne importa di sapere chi è, ha un diploma di esperto e tanto basta.
Bene. Tutte queste cose le sapevo. C’era però un approdo che con tutta la fantasia non ero riuscito ad immaginare e me l’ha rivelato Tempi: la valutazione oggettiva e indipendente della Chiesa!... Tempi ci ha informato che i liberal americani (e i loro cloni nostrani) propongono una riforma “democratica” della Chiesa al primo punto della quale figurano: «regolari audit da parte di enti indipendenti (sic!) relativamente alle politiche e alle procedure di diocesi ed altri enti ecclesiastici per la prevenzione degli abusi ecc., attività di relazione con le vittime, compresi sostegno spirituale, pastorale e relativo alla salute mentale, programmi di screening per seminaristi, sacerdoti e vescovi, ecc.».
Si apre una nuova prateria per “esperti indipendenti” di valutazione, per le attività di “sostegno” – finora limitate al contesto scolastico – per psicologi, assistenti sociali. Amici di Tempi, forse è il caso di prendere l’iniziativa per primi, altrimenti ci sarà qualcun altro che lo farà e dalla dittatura degli esperti non ci si salva. Perché non costituiamo un’azienda, che so io qualcosa del tipo IVASPE (Istituto per la Valutazione e il Sostegno da Pedofilia Ecclesiale)? Prepariamo formulari, test, quiz, procedure di screening e assistenza psicorelazionale. Oltretutto c’è da cavarci un pacco di quattrini.
Meglio riderci sopra. Non so se questa ondata venga dalle coste statunitensi, ma certo è un autentico tsunami di cretinismo.
(Tempi, 28 aprile 2010)


Ancora sulla medicalizzazione della scuola


Il celebre matematico settecentesco Leonhard Euler conosceva a memoria l’intera Eneide ed era capace, pur divenuto cieco, di calcolare a mente uno sviluppo in serie fino al settimo termine dettando il risultato a un assistente: per chi non conosce la matematica significa fare un mare di calcoli difficili, ritenendo a memoria un numero enorme di risultati parziali. Al confronto, il miglior matematico vivente farebbe la figura di un “discalculico”. La “discalculia” è definita come un disturbo che si manifesta come “difficoltà negli automatismi del calcolo e dell’elaborazione dei numeri”. Se confronto la calligrafia dei miei figli con quella di mio padre constato un crollo di qualità tale da considerarli come affetti da “disgrafia”, la “difficoltà di realizzazione grafica”. Per non dire della “disortografia”.
A pensarci bene, non c’è da stupirsi. Secoli fa il calcolo mentale e l’arte della memoria erano considerati una virtù da coltivare intensamente. Oggi facciamo persino il conto della spesa sulla calcolatrice del cellulare e imparare le tabelline è opzionale. Diciamo, per carità di patria, che usiamo le nostre facoltà mentali in modo diverso. Perciò circola una legione di discalculici, tra cui coloro che non amano i numeri. Per quanto riguarda poi lo scrivere, sarebbe strano stupirsi che siano in aumento esponenziale i “disgrafici”, visto che insegnare a tenere correttamente una penna in mano e a maneggiarla secondo regole efficaci è considerato repressivo e reazionario: vorrei segnalare, al riguardo, le lucide riflessioni di Angelo Panebianco sulla mania nostrana di apprezzare non ciò che è ragionevole ma ciò che è “moderno”. Quanto alla crescita dello stuolo dei “disortografici” c’è chi pretende che sia dovuta a “difficoltà nei processi linguistici di transcodifica”; ma bisognerebbe chiedersi se, anche qui, non intervenga il fatto che stimolare la capacità di tradurre correttamente in testo scritto le parole pensate è ormai considerato una fisima reazionaria.
Sta di fatto che, invece di esplorare ragioni come quelle accennate, ci si è orientati da tempo verso l’approccio “curativo”, raggruppando i detti disturbi, assieme alla classica dislessia, sotto l’acronimo DSA, Disturbi specifici di apprendimento. Il DSA sta per essere riconosciuto da una legge nazionale come... malattia? Per carità. Il DSA – si dice – si manifesta in soggetti con capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali. Insomma, è una sindrome in stato di normalità ma che dà problemi. Ma allora tanto varrebbe introdurre acronimi, definizioni e leggi che definiscano o curino la pigrizia, l’obesità, la logorrea, la miopia, la petulanza, la distrazione e via dicendo. Ma nella legge c’è la contraddizione: si dice difatti che la diagnosi di DSA viene effettuata dagli specialisti del Servizio Sanitario Nazionale, ovvero medici, psichiatri e psicologi. E poiché il Servizio Sanitario Nazionale cura le malattie, rispunta surrettiziamente la definizione del DSA come patologia. E che sia una patologia è confermata dal fatto che la discalculia non viene diagnosticata dall’insegnante di matematica, o la disortrografia da quello d’italiano, bensì da medici, psicologi e psichiatri.
È il gioco delle tre carte: da un lato, si nega trattarsi di una malattia – sarebbe arduo definire tale un insieme di “sintomi” generici e disparati – ma al contempo la si considera tale riducendo a trattamento sanitario un problema che anziché DSA può essere piuttosto DSI, come ha fatto rilevare un preside con quarant’anni di esperienza, ovvero Disturbi Specifici di Insegnamento. Il gioco delle tre carte è abile perché, se provi a lamentare la tendenza alla medicalizzazione, ti si risponde che non è vero, in quanto nessuno ha parlato di patologie, e che comunque il problema sarà affrontato con metodi psico-pedagogici. Ma allora, perché un passaggio diagnostico di tipo sanitario? Perché, a dispetto dell’affermazione che il DSA non è dovuto a patologie neurologiche, ci si è ingegnati a trovarne le cause materiali – malnutrizione alla nascita, effetto dei vaccini, mancanza di omega 3 e altre amenità – che stranamente non lascerebbero tracce materiali. Per risolvere la questione sono intervenuti i soliti neuromani, quelli che fanno la risonanza magnetica persino ai salmoni morti, che hanno cercato le “diversità” strutturali dei DSA nel cervello. I risultati sono incerti, qualcuno parla di “anomalie” della corteccia, altri di “zone” del sistema visivo, altri dei neuroni a specchio. Su tutto grava l’assurdità di un metodo che pretende di stabilire correlazioni, per giunta basate su statistiche rozze, tra le mappe di funzioni elementari e comportamenti umani estremamente complessi, correlazioni mai stabilite in modo accettabile.
Si noti che mentre alcuni psichiatri sostenitori dell’esistenza del DSA, ma prudenti, stimano in 0,1% i bambini affetti, i fautori della legge parlano di un 3-5% da cui deriverebbero conseguenze imponenti visto che la legge prevede riduzioni di impegno scolastico e orari flessibili per i genitori. Se a una simile cifra si aggiunge quella dei bambini affetti dall’altra “malattia”, l’AHDH, Attention Deficit Hyperactivity Disorder, la sindrome del bambino agitato, il numero di minori con problemi raggiunge percentuali da capogiro, di che pensare a una degenerazione della specie umana. L’esistenza dell’ADHD fu decretata a maggioranza, nel 1980, dall’Associazione degli psichiatri americani e “poi” ci si è ingegnati a dimostrare la verità di tale delibera. Anche qui, dopo aver ipotizzato anomalie cerebrali di ogni tipo, sono scesi in campo i neuromani, per individuare con risonanza magnetica (e al solito modo fasullo) diversità cerebrali che dimostrerebbero l’esistenza della patologia. Ma quel che è specialmente grave nel caso dell’AHDH è che dagli USA – dove si è arrivati alla cifra da capogiro di 17 milioni di diagnosi – si è diffusa una medicina, il Ritalin, che è nient’altro che un sedativo: è facile intuire quanto possa essere pericoloso somministrare sedativi a un bambino in crescita.
Ma tant’è. Tanti abbiamo visto per decenni, ne “Il pellegrino” di Charlie Chaplin, un bambino iperagitato che picchia tutti, combina guai, incolla la carta moschicida sulla faccia della gente, mentre la madre tenta di calmarlo con inadeguate moine. L’abbiamo visto come paradigma della maleducazione, nel senso stretto del termine. È finita: l’educazione è un processo in via di sparizione, quantomeno nel senso di un rapporto tra persone. Esiste soltanto la diagnosi e la terapia delle anomalie di individui-monadi. Tutto è ridotto a processi biologici. Siamo un aggregato di “diversità” da trattare in termini sanitari, da conformare a criteri di normalità definiti secondo criteri “scientifici”, si fa per dire. La società è vista come una gigantesca clinica che ha come “mission” la modellazione degli individui su quei criteri. La solita ideologia scientista invade ogni aspetto della vita personale: si va dal progetto di confezionare un individuo perfetto fin dalla nascita, alla subordinazione della scuola al sistema sanitario, allo stressometro negli uffici, e via delirando; tutto sotto la dittatura sempre più soffocante degli “esperti”, psicologi, psichiatri, neurologi, misuratori delle qualità.
(Il Foglio, 28 aprile 2010)