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lunedì 3 maggio 2010

Intervista a Avvenire


1) E’ in corso una pressione che tende a ridurre progressivamente lo spazio delle discipline umanistiche  nella scuola?

Non c’è dubbio. La materia più colpita da questa tendenza è il latino, il che avviene in un momento in cui curiosamente il latino è alla moda in un paese non “latino” come gli Stati Uniti. Ma la pressione si esercita nei confronti della storia, sempre più ridotta a brandelli privi di organicità; e nei confronti della filosofia, il che è molto grave in un continente a “vocazione filosofica” come l’Europa. Parlo di Europa perché le cose vanno ancor peggio che da noi in paesi come l’Inghilterra dove l’insegnamento della storia è visto sempre più come un orpello.

2) Come si manifesta questa strategia e quali conseguenze produce  negli studenti e soprattutto in quelli che progettano di lavorare, un giorno, nel mondo della ricerca scientifica e tecnologica?

Predicando l’inutilità delle materie umanistiche sul mercato del lavoro o con argomenti demagogici come quello secondo cui lo studio del latino agli studenti non piace: con questo argomento si potrebbe proscrivere a maggior ragione l’insegnamento della matematica. Anzi, la soluzione ideale sarebbe chiudere la scuola… Le conseguenze sono che gli studenti si formano una visione riduttiva della scienza come se il suo fine fosse esclusivamente manipolativo e non la conoscenza della natura.

3) Che tipo di scienza  emergerà da studi specialistici e puramente tecnici che  sono necessari ma non si accompagnano ad adeguate conoscenze  e riflessioni  nel campo della filosofia, dell’etica, degli “studia humanitatis” ?

Un insieme di ricette pratiche alla lunga sterili e ripetitive, incapaci di generare vera “innovazione”: ci si riempie la bocca di questa parola a vanvera. La scienza occidentale – quella che ha rivoluzionato in tre secoli il mondo ed è “la” scienza “globalizzata” – è basata su una coesistenza di conoscenze di base e di tecnologia in cui le prime hanno un ruolo motore. E le conoscenze di base sono, a loro volta, fondate su concezioni del mondo che storicamente si sono intrecciate strettamente con il pensiero filosofico e anche religioso. Alla base dello straordinario successo della scienza occidentale è stato proprio il suo rapporto con queste visioni e quelle che vengono chiamate “metafisiche influenti”. Tempo fa mi è stato richiesto un “coaching” da parte di un ingegnere di una nota casa automobilistica che desiderava un aggiornamento di storia della matematica e della scienza. Bizzarro? Una perdita di tempo? Nient’affatto. Quella persona era mossa dalla corretta esigenza di un ritorno periodico ai fondamenti concettuali senza i quali anche la tecnologia deperisce. Sono state due giornate di grandissimo interesse. Ho trovato nelle discussioni con questa persona di grande competenza la conferma di quanto ho sempre pensato: l’innovazione è impossibile senza la scienza di base. Oggi costruiamo automobili la cui concezione risale a un secolo fa (e lo stesso dicasi per i computer la cui concezione risale a sessant’anni fa). Una vera rivoluzione tecnologica non può che ripartire da idee teoriche completamente nuove e senza la scienza di base ciò è impossibile. E la scienza di base senza un rapporto profondo con le scienze umane non può che deperire. Uno dei nostri più famosi matematici, Federigo Enriques, diceva di essersi iscritto alla facoltà di matematica «per un’infezione filosofica liceale».

4) L’umanesimo è un concetto affascinante e ampio. Il movimento si propone come l’erede del pensiero greco-latino e della tradizione giudaico-cristiana. Quali rapporti ha con l’umanesimo che si studiava a scuola, affermatosi nel  XIV e XV secolo, quando avviene la scoperta dei classici antichi?

Quei rapporti sono legati all’idea della “dignità dell’uomo” la quale, a sua volta, dipende dal principio che l’uomo è libero. Pico della Mirandola – esponente di una visione mirante a riconciliare il razionalismo greco con lo spiritualismo ebraico e cristiano – ammonisce l’uomo: «Potrai degenerare in forme inferiori come quelle delle bestie o, rigenerato, avvicinarti alle forme superiori, che sono divine». Perciò la libertà non implica di per sé un esito benefico: dipende da come si decide di usarla. L’umanesimo rigetta radicalmente il naturalismo, l’idea che tutto si riduce a natura, che altro non è che una forma di materialismo. È un ammonimento di estrema attualità contro le pretese di certa tecnoscienza di voler rifare l’uomo sulla base di manipolazioni genetiche.

5) Perché Galileo, Pascal e Cartesio non si chiedevano a quale delle “due culture” – scientifica o umanistica – appartenessero? Quale idea della conoscenza  li ispirava?

Perché, pur secondo punti di vista assai diversi, perseguivano una visione complessiva del processo conoscitivo di cui la scienza della natura era soltanto un aspetto e non la totalità. Perché erano tanto “scienziati” quanto “filosofi”. Non c’è dubbio che alcuni germi della divaricazione successiva tra scienze naturali e scienze umani sono già presenti, soprattutto in Galileo, ma la corrente dominante della scienza almeno fino al prevalere del positivismo è dominata da una visione “integrale” della conoscenza.

6) Oggi lo scienziato, anche senza volerlo, rischia di rappresentare una scienza anti-umanistica  o addirittura “anti-umana”. Secondo lei, come è possibile riscoprire il valore “umano” della ricerca scientifica, basato sull’educazione integrale della persona?

Facendo ricerca e insegnamento in storia della matematica e della scienza mi trovo in una posizione privilegiata (o piuttosto sfortunata…) per assistere al disprezzo con cui troppi colleghi guardano alle discipline di frontiera e le penalizzano in ogni modo, mostrando una rozzezza che avrebbe fatto inorridire qualsiasi scienziato di qualche decennio fa soltanto. Talvolta vengo assalito dalla tentazione di andare in pensione… Tuttavia, bisogna essere ottimisti. L’atteggiamento degli studenti mostra che, in fin dei conti, soltanto la prospettiva umanistica (storica, filosofica) permette di dare una ragione e una motivazione per fare scienza; e che le mere motivazioni tecniche, professionali o economiche lasciano con un vuoto interiore drammatico. Perciò, anche se attraversiamo un periodo alquanto buio – in cui impazza la dittatura degli “esperti” – i semi della cultura prima o poi germoglieranno, come è avvenuto in altre fasi storiche regressive. La dittatura degli “esperti” è destinata a perdere perché ha una profonda debolezza: non crede negli uomini ma soltanto nelle proprie tecniche.

(29 aprile 2010; raccolta da L. Dell'Aglio)

17 commenti:

Luigi Sammartino ha detto...

Ho letto questo post/intervista con estremo piacere. Devo dire che in questa fase storica di decadenza e di neo-analfabetismo, ci sono per fortuna persone come lei che hanno il coraggio di contrapporsi in maniera così spinta a questo processo di vera e propria degenerazione socio-culturale.

Certo, su alcune cose io la penso ancora in maniera un po' diversa dalla sua. In particolare sul ruolo di responsabilizzazione che, secondo lei, le famiglie dovrebbero avere lungo il percorso scolastico.

Ciò però non incrina in alcun modo la mia sincera ammirazione per l'impegno che dedica e per la lotta che fa contro un processo rimbecillimento collettivo che Dio solo sa dove ci porterà. E devo dire che dopo una giornata di duro lavoro, è davvero bello leggere un post come questo.

Gianfranco Massi ha detto...

Il mio atteggiamento verso il presente e,soprattutto, il futuro del nostro Paese oscilla continuamente tra la speranza di un risveglio dei valori tradizionali più profondi - che considero eterni - e la disperazione che ormai le luci sono spente e l' umanità cerca di soffocare nello stordimento del piacere. Chi ascolta più la parola biblica? O si apre allo studio del millenario cammino del pensiero umano? O si emoziona nella lettura dei poeti?
Poi vedo attorno a me tanta diversità di interessi della gente:non tutti vanno a riempire le piazze dello stordimento psichedelico - come appare dal frastuono assordante -, vanno anche a fiumane a visitare i santuari o alle celebrazioni liturgiche.
Insomma, la speranza si riaccende.

gabriele ha detto...

Condivido l'approccio "umanistico" alla scienza, ma non credo che per difenderlo sia necessario il latino.
Secondo me in Italia esiste, al contrario, un eccessivo interesse per le discipline umanistiche, almeno sulla carta. Nella pratica, però, i problemi sono due:
1) vengono insegnate malissimo, come se fossero solo tecnica, dati. Inoltre per una materia come la filosofia, ad esempio, servirebbe un approccio molto più dialettico: pochi filosofi, ma inseriti in un dibattito.
2) sono troppe e appunto per questo diventano sterili. Comprendere la filosofia richiede una certa sensibilità, la quale necessita di tempo per formarsi. Come nello studio di una lingua, è necessaria una full-immersion. Bisogna sacrificare una materia; francamente, tra storia, filosofia e latino, quest'ultima è sicuramente la meno importante.

Myosotis ha detto...

"L’umanesimo rigetta radicalmente il naturalismo, l’idea che tutto si riduce a natura, che altro non è che una forma di materialismo." Chiaro. Non crede, però, che un po' di confusione sia nata a metà del Seicento con lo spinoziano "Deus sive natura"?
(A margine, mi permetta una postilla pedante. Quasi sempre si nomina Pico della Mirandola come una persona, mentre in realtà si tratta di un cognome, portato da almeno tre persone citate nella Treccani. Il più famoso, il filosofo, si chiamava Giovanni).

Papik.f ha detto...

Molto bella la riflessione che "solo la prospettiva umanistica (storica, filosofica) permette di dare una ragione e una motivazione per fare scienza". Per quanto riguarda il latino, personalmente ritengo che questa materia sia la meno importante se si considera l'insegnamento soprattutto come trasmissione di contenuti. Ma se si guarda allo sviluppo delle potenzialità di ragionamento e organizzazione del pensiero da parte dell'allievo credo sia, invece, tra le più importanti. Si parla tanto di "apprendere ad apprendere": ecco, io credo che il latino serva (sia sempre servito, da quando lo si studia come lingua morta) proprio a questo.

Anonimo ha detto...

Purtroppo, come era facilmente prevedibile, l'opzione di "scienze applicate" concessa, perlomeno qui nel Veneto, a tutti i licei scientifici ha ottenuto un discreto successo. Forse l'obbiettivo del ministero era quello di salvare le sperimentazioni nate senza il latino, ma il risultato, a mio avviso, sarà la progressiva eliminazione, invece, del liceo scientifico di stampo più umanistico. Nella mia scuola l'approvazione è venuta soprattutto dai colleghi di matematica, che hanno dimostrato una sensibilità molto diversa da quella che lei manifesta, e anche (e questo stento a capirlo..) da alcuni colleghi di filosofia e di lettere. Ovviamente, da parte mia, condivido pienamente la sua posizione. Cordiali saluti.

Nautilus ha detto...

Sig. Papik, proprio per la ragione che dice lei (scarsissimi contenuti, grande valore invece per l’educazione al ragionamento) il latino andrebbe fatto seriamente, sennò non serve a nulla. E' in grado la scuola attuale di garantire questa serietà? Ho l’impressione di no e allora forse è meglio rinunciarvi che trascinare ancora un' inutile agonia, per la materia e per i ragazzi che debbono studiarla. D’altra parte tutto il mondo studia la matematica e le scienze e il latino no ma se la cava lo stesso, anzi le classifiche internazionali ci dicono molto meglio di noi.

Lucio ha detto...

L'dea che il latino serva per imparare a ragionare mi e' sempre parsa una bufala colossale. Gli amici che vengono dal classico mi dicono la stessa cosa per il greco (non che sia una bufala, intendo, ma che serva per ragionare). In realta', qualunque disciplina, scientifica o umanistica, se fatta bene insegna a ragionare. E' un ruolo cui possono aspirare "in tanti". Il punto e' che lo studio del latino, cosi' come l'ho fatto io e come lo stanno facendo adesso, toglie un sacco di tempo ad altre cose, ad esempio una seconda lingua o approfondimenti su altre discipline (matmatica, fisica, filosofia, storia eyc.).
Sempre cordialmente,
Lucio Demeio

vanni ha detto...

Una difesa passionale e a corna basse della mia vecchia e obsoleta Scuola.
Come dice il prof. Demeio, giustificare lo studio del latino perché guida al ragionamento ed insegna ad esprimersi non convince: mi sembra insomma uno svilimento. Si tratta certamente di effetti collaterali seppure imponenti, benefici e fecondi. Lo studio del latino - come quello del greco (quest'ultimo non compreso nei miei studi, me ne dispiace, ma eccomi qui: sopravvivo bene) oppure, per vellicare il prof. Israel, come quello dell'ebraico - ha un valore di per sé, si tratta di un prodotto del pensiero; poi per noi Italiani si lega alle radici.
Altrimenti ricadiamo nel solito: che cosa “serve” di più? Una domanda questa che fatta così mi pare troppo limitativa, direi anzi tendenziosa nel prefigurare e pianificare (impoverire?) una visione del mondo stabilendone realtà e futuro. Stiamo pensando quanti ingegneri ci serviranno? quanti medici? quanti operai? quante badanti? quanti attori? quanti cantanti? Una bella organizzazione sociale, chissà se un po' ingessata.
L'impostazione generale della Scuola nella società è impresa da far tremare i polsi. Ricordiamo le tre “i” ?
Utilità e basi culturali... ad esempio, già ce ne freghiamo quasi al 100% di Beethoven, Verdi e Mahler: che ci sarà mai successo? Scelte drastiche e spietate, quindi: tagliamo la ginnastica dovunque, basta con Omero, figuriamoci con Virgilio! (per Dante sentiamo prima dal prof. Cofrancesco). Via Cicerone e Orazio dallo scientifico, ma anche meno Leopardi e - per me - soprattutto meno Manzoni; al classico andiamoci piano con Gauss Leibniz e Newton. Scuole tecnico-scientifiche e meno intellettuali della Magna Grecia (beh... questo magari sì).
Qui invece non gioco: con la mente esuberante e vivida che hanno, i bambini a scuola a 5 anni. La famiglia risparmia pure un anno di asilo.
Ai miei tempi il latino si studiava duramente già dalle medie. Quanti accidenti ho tirato con i miei amici contro il latino, ma non solo contro il latino. Penso che considerazioni di scarsa utilità, a posteriori, si possano riversare più o meno su ogni materia o almeno sullo spazio ad essa dedicato. Banalizzando: perché studiare la storia (lo studio della storia antica da qualche parte viene infatti attualmente messo in discussione, o mi sbaglio?) se farai il commercialista; ma perché studiare San Tomaso se farai l'ingegnere minerario; ma perché la teoria di Wegener e la capitale del Canada se farai il docimologo? È un problema da nulla di impostazione generale della Scuola e di equilibrio.
Insomma: a sessant'anni supersuonati mi sono comprato il Meridiano Mondadori di Giulio Cesare e ora mi entusiasmo e mi rassereno (come si cambia nel tempo!): “Gallia est omnis divisa...”. Finalmente: il latino come consolatio senectutis... e memoria iuventutis.

Papik.f ha detto...

Dopo aver precisato che non ho mai parlato del latino come materia che insegna a esprimersi, riporto i ricordi di Corrado Alvaro sulla sua esperienza di studio dai Gesuiti (in epoca pregentiliana):
"Quel poco di greco e di latino appreso a quella scuola, mi bastò, posso dire, fino agli anni dell’università. L’insegnamento era l’opposto di quello che si pratica oggi: non tendeva a formare già nella scuola giovani infarinati di cultura generale, con una somma di notizie più o meno imprecise e senza esperienza. Al contrario, se ne usciva privi di nozioni generali ma abbastanza forniti di una: ed era il metodo per accostarsi alla cultura. Si trattava di un esercizio paziente e ostinato intorno a fatti grammaticali, sintattici, logici, assai simile allo studio del pianoforte, un esercizio della memoria e non dei riassunti, senza una sola preoccupazione estetica, senza cioè quel vago dire «bello bello» che formò poi la preparazione dominante delle scuole italiane. Mi pare fosse importante per quell’insegnamento mettere nella mente dell’alunno la misura stessa della bellezza antica, e quindi la sua moralità. La fantasia della prima età compiva poi da se l’operazione di creare un’aura intorno a un brano latino o greco mandati a mente. Negli anni seguenti, quei brani ritornati alla memoria si sarebbero arricchiti di sempre nuovi sensi, secondo la cultura e l’esperienza che si acquistava a mano a mano. Era la scuola umanistica nella sua pratica tradizionale, per gente che alla cultura, si presumeva, si sarebbe dedicata, per cui avrebbe avuto tempo, senza un tornaconto e un utile immediati. La chiave della cultura per una classe dirigente sicura del suo avvicendamento e della sua successione".
Se poi sia più importante la scuola come palestra mentale della scuola come trasmissione di contenuti; se il latino e il greco siano adeguati quali attrezzi primari di questa palestra mentale; su questo non si può discutere qui, perché occuperemmo decine e decine di post. Personalmente, a differenza del prof. Demeio, ne sono convinto. D'altra parte, è pur vero che l'insegnamento spesso non è all'altezza; ma su una simile base temo che dovremmo sopprimere anche altre materie.

Caroli ha detto...

Si descrive la migliore strada per l'islamizzazione della società.

Lucio ha detto...

Bhe', veramente non ho detto che il latino non vada insegnato. Sono io stesso molto dibattuto su questa questione. Quello che intendevo e' che ci devono essere altre ragioni per insegnarlo, non semplicemente quella del "serve per imparare a ragionare". Chi crede cosi' fortemente nella necessita' di trasmettere le radici culturali sara' sicuramente propenso al suo mantenimento. Chi crede che la trasmissione delle radici culturali sia meno importante rispetto alla conoscenza delle culture di altri popoli, tende a dargli meno importanza.
Un'osservazione: il latino veniva e viene studiato solo nei licei. Non ho mai pensato che i colleghi o gli studenti con cui mi trovo a che fare e che provengono da altre scuole siano meno preparati, meno formati o che altro.
Lucio Demeio

Papik.f ha detto...

Sull'ultima affermazione del prof. Demeio sono del tutto d'accordo, io intendevo semplicemente riferirmi alla logica interna della formazione umanistica nella convinzione che abbia una sua validità anche oggi, non certo affermare che sia l'unico modello di formazione possibile. Tra l'altro, e per fortuna, nessuno si forma esclusivamente attraverso la scuola.

Unknown ha detto...

Molte grazie a Paprik per il brano di Alvaro.. Secondo me serve anche come spunto di riflessione per le sue osservazioni sulla scuola di "oggi", cioè quella coeva all'autore. Sembrano scritte nel 2010. Non è che forse, io per prima, si tende un po' troppo alla laudatio temporis acti?

Papik.f ha detto...

Preciso, perché mi ero dimenticato di dirlo, che il brano di Alvaro è del 1954 ed è tratto da un articolo sul Corriere della Aera (purtroppo ignoro la data esatta).

Marco Pizzi ha detto...

Il latino non e' solo "palestra della mente", il latino apre un patrimonio letterario inestimabile. Ma questo si puo' capire soltanto con una certa assidua frequenza dei grandi scrittori del passato. Non bastano certo i ricordi scolastici, che purtuttavia costituiscono un punto di partenza, e sarebbe un depauperamento enorme per noi europei togliere l'insegnamento di questa disciplina. Qualcuno potrebbe obiettare: "I classici si possono leggere in traduzione". Si', ma prima di tutto serve che qualcuno li traduca, e poi sapersi confrontare col testo a fronte rimane un fatto importantissimo, sia per accertarsi che la traduzione sia fatta bene (cosa non scontata), sia perche' anche la migliore delle traduzioni non arrivera' mai al livello dell'originale, soprattutto nella poesia, rimanendo sempre necessariamente "un surrogato" come diceva Schopenhauer.
Marco Pizzi

Caroli ha detto...

Si perde sempre il senso a leggere qualsiasi cosa in una lingua diversa da quella in cui l'opera è scritta. Ciò vale anche per la grande produzione letteraria latina.

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