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giovedì 28 ottobre 2010

BESTIARIO MATEMATICO N. 9


o della sistematica violazione del principio del “rasoio di Occam”

"Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem"

In matematica la violazione di questo principio si traduce in un diluvio di definizioni inutili che ingombrano la testa. E poi ci si stracciano le vesti sul nozionismo, lo studio trasmissivo, istruttivo, le “teste piene” e non ben fatte”!...

Abbiamo già parlato qui della famigerata “legge dissociativa dell’addizione”, anche se in tal caso più che di definizione inutile si tratta di una definizione insensata, diciamo pure idiota.

Un esempio di definizione inutile è quello della divisione per ripartizione e divisione per contenenza.
In realtà si tratta soltanto di procedimenti empirici per introdurre l’idea di divisione: in un caso un bambino distribuisce 15 caramelle a 5 bambini una per volta, nell’altro invece prova a dare a ciascuno 3 caramelle (oppure 2 o 4) e poi vede cosa succede.
Ovviamente è del tutto naturale procedere con simili esperienze con i bambini. Ma di qui a voler dare le definizioni matematiche di queste due divisioni come se fossero cose distinte, ne corre!...

La divisione è una soltanto ed è semplicemente stupido attribuire un nome a quello che è soltanto un modo di pensare la divisione, o anche un modo di farla.

L’aspetto comico della faccenda è che nei libri o negli appunti in rete in cui si cerca di dare queste definizioni poi si ammette candidamente che la “ripartizione” si “riconduce” alla “contenenza”. Ma pensa un po’ che scoperta…. Chi ha fatto questa pensata sarà diventato calvo… C'è chi ammette pure (bontà sua) che in fondo queste definizioni sono artificiose. Però la follìa definitoria non si arresta e mi sono imbattuto persino in tentativi di definizione matematica del concetto di “contenenza”.....

Tra le definizioni più esilaranti che ho trovato cito questa: «La divisione di contenenza può essere vista come divisione di una grandezza per una grandezza di una stessa specie, il risultato è un numero puro; la divisione di ripartizione può essere vista come divisione di una grandezza per un numero puro, il risultato è una grandezza della stessa specie.» Non sapevo che esistessero i numeri “impuri” (un’altra definizione?!...). 
Oppure, la via maestra è rifugiarsi nella teoria degli insiemi per sentenziare che «divisione per contenenza vuol dire ripartire un insieme in sottoinsiemi equipotenti». Facile, in seconda elementare, no?

E questa sarebbe la scuola aperta, delle teste ben fatte, la scuola non nozionistica?...

Mi si consenta di concludere con una battuta. Nel seminario del celebre matematico tedesco Felix Klein si svolse una conferenza (siamo a fine ottocento) per dimostrare la differenza delle razze nel pensare la matematica. Il conferenziere spiegò che il modo di ragionare dei tedeschi è intuitivo e concreto, mentre quello degli ebrei è astratto, formale e uniforme. Per esempio, a suo dire, un tedesco se deve sottrarre ¾ da / e ¼, procede sottraendo da entrambe le frazioni ¼  e poi calcola 7 – ½ = 6 ½. Invece l’ebreo riduce le frazioni a comun denominatore e poi fa la sottrazione ottenendo 26/4.
Bene – a parte il grottesco razzismo – si potrebbe definire la somma delle frazioni secondo la procedura della riduzione a comun denominatore come “addizione delle frazioni con il metodo ebraico”…. L'altra, quella che ricorre ad artifici intuitivi e ad hoc è "l'addizione delle frazioni con il metodo ariano"....


mercoledì 27 ottobre 2010

Alcune parole chiare

È bene essere chiari una volta per tutte.
Non mi sogno di "infangare" alcuna categoria, tantomeno quella dei maestri o dei professori, cui peraltro appartengo. 
Al contrario, chi legge questo blog sa che ho scritto e scrivo continuamente in difesa degli insegnanti: contro l'ideologia delirante del "facilitatore", contro i progetti della scuola come "open space" in cui gli studenti lavorano a gruppi autogestiti con la consulenza del "facilitatore", contro la riduzione dell'insegnante a burocrate, contro la scemenza del «la scuola deve insegnare a come pensare e non a cosa pensare», contro la certificazione delle competenze, contro certe intenzioni di "valutazione" del docente attraverso i giudizi di famiglie e studenti ("customer satisfaction") che lo costringerebbero a promuovere tutti. Ecc. ecc. ecc.
Al contrario, ritengo che chi tiene in piedi la traballante baracca della scuole (e dell'università) sono i tanti professori competenti che si spendono senza riserve.
Ma sarebbe irresponsabile non vedere che la scuola è in crisi e che cresce l'ignoranza tra professori, maestri, studenti - e lo stesso dicasi per l'università.
Le cause di questo disastro le ho esplorate e le esploro continuamente e quindi non mi ripeterò. Se non per dire, in estrema sintesi, che sono il frutto di qualche decennio di pessime riforme, continui ope legis, la creazione di un precariato enorme, la scuola intesa come ammortizzatore sociale, pessimi "programmi", pessimi libri di testo, una disgraziata ideologia pedagogica. E un discorso un po' diverso ma analogo può farsi per l'università.
I responsabili principali? Politici e "riformatori", sindacati, pedagogisti ideologici.
Non sono per niente d'accordo col modo con cui viene portata avanti oggi la parola d'ordine della meritocrazia.
Ma il merito ci vuole, eccome. Quindi, denunciare che vi sono maestri che dicono "che io canta", che vi sono studenti che scrivono "l'aspirale", professori universitari di matematica che promuovono persino chi non sa la definizione di funzione, editori che pubblicano libri di testo indecenti, famiglie che fanno i sindacalisti dei figli, non significa "infangare" queste "categorie". Io, come docente universitario, non mi sento "infangato" se qualcuno denuncia i mali dell'università. 
Occorre guardare la realtà in faccia e le persone serie e responsabili debbono rimboccarsi le maniche anziché offendersi, perché così facendo si mettono alla difesa dei peggiori.
E, per concludere, concordo con chi dice che il ritornello sui "tagli" è una foglia di fico.
Sia chiaro, chiarissimo: a me i tagli non piacciono per niente, e penso che il sistema dell'istruzione in Italia sia maltrattato. Se l'università non verrà rifinanziata a fine anno molte sedi importanti dovranno chiudere i battenti o quantomeno essere commissariate. E questo non è né sensato né giusto. Ma sarebbe assurdo, nascondere il fatto che esistono problemi da risolvere. Sarebbe assurdo e irresponsabile pretendere di avere il denaro per poi ricominciare come prima. È fuor di dubbio che il famigerato 3+2 ha massacrato l'università, ma non sarebbe serio nascondere la colpa di molta parte del mondo universitario di aver approfittato di questa orrida riforma per implementarla in modo da moltiplicare in modo folle corsi di laurea, corsi e sedi universitarie.
Il ricorso al "benaltrismo" - ben altri sono i problemi... - è una pessima abitudine.

domenica 24 ottobre 2010

La maestra sbaglia il congiuntivo ma si rifà col predicozzo civico

La maestra entra in classe e chiede il congiuntivo presente del verbo “cantare”. «Che io canti…» rispondono subito alcuni bambini. «No! – grida la maestra – si dice “che io canta, che tu canta, che egli canta”». «Ma signora maestra…» protestano alcuni. «Silenzio! È così! E mettetevelo bene in testa!... Che io canta, che tu canta, che egli canta…».
È un episodio autentico che dice molto di più dello stato della scuola elementare italiana delle statistiche Ocse-Pisa o di altri costosi sondaggi. Ma coloro che con quelle statistiche vogliono consolarsi e riproporre la solfa che la nostra scuola primaria è la migliore del mondo, se la cavano dicendo che quel che conta sono le analisi “scientifiche” – anche se basta niente per vedere quanto siano poco scientifiche – e che non si ricavano giudizi dagli episodi isolati. Isolati un accidente, per chi non viva con i paraocchi. Casomai va detto che i bambini di quella classe sono pronti per entrare nel novero degli affetti da Dsa (Disturbi specifici di apprendimento) e per fruire – a norma della nuova legge approvata con un’unanimità trasversale degna di miglior causa – di percorsi didattici semplificati, di sussidi e di orari di lavoro flessibili per i genitori.
Alcuni genitori sono inorriditi dagli exploit di quella maestra – come della sua collega che detta «oggi la maestra ci ha imparato» o di un’altra che pretende che si calcoli il perimetro di un triangolo di cui sono noti soltanto base e altezza – altri invece la difendono. Si dividono anche nel giudizio sulle attività alternative che invadono la scuola come una gramigna: alcuni favorevoli a quelle ludiche («poveri figli, studiano già tanto…»), altri che vorrebbero attività che sviluppino le loro capacità mentali e la loro cultura. Perciò questi ultimi salutano con favore il progetto di alcune uscite da scuola per rappresentazioni teatrali. Non è questa una delle vie maestre per sviluppare la fantasia e le capacità creative dei bambini? «Io ero un pirata…», spiega il bambino a chi gli chiede il tema del suo gioco. “Ero” e non “sono”, tanto è forte la propensione infantile al racconto, a collocarsi nel mondo fantastico della narrazione. Di questa tendenza naturale – che costituisce la base migliore non soltanto per sviluppare la passione per la letteratura ma anche per la storia – fa parte la straordinaria capacità che i bambini hanno di immedesimarsi nei “personaggi”. È quella capacità che gli antichi Greci chiamavano “mimesis” e che è il fondamento del teatro, e più modernamente del cinema: ma il teatro ha la virtù di essere dal vivo. E allora, evviva il programma di uscite teatrali. Pazienza per la grammatica, che almeno si appassionino al teatro, alla letteratura.
Poi arriva il programma. Povero illuso chi si aspettava una rappresentazione teatrale propriamente detta. Una compagnia di teatranti assoldati allo scopo ha preparato rappresentazioni sul tema… della formazione del senso civico e della convivenza sociale… Insomma, un predicozzo ispirato al più noioso e insulso politicamente corretto, nello spirito dell’educazione di stato volta a sviluppare quelle che sono state ineffabilmente definite come le  “competenze della vita”. Del resto, visto che si ripete tutti i giorni che le “conoscenze” non sono importanti, che non è rilevante che uno studente “sa” che esistono infiniti triangoli di base e altezza data (e quindi che è assurdo chiedere di calcolarne il perimetro) di che stupirsi? Dopo la lezione di ignoranza, tutti a teatro, ma non per assistere, che so, a una commedia di Goldoni, magari adattata per bambini, ma per sorbirsi una predica in salsa zapaterista.

Scuola inglese, il grande tonfo

Bisognerebbe che coloro che ci presentano continuamente la scuola inglese come il modello da seguire prendessero atto della situazione. Invece, fanno orecchie da mercante e ci propongono come modello per la valutazione quello inglese...  La vicenda del 3+2 e il conseguente disastro, si ripete...

mercoledì 13 ottobre 2010

LA CULTURA NON SI MISURA

Trionfano le valutazioni "oggettive", mentre il soggetto è rimosso come spazzatura sotto il tappeto



Apprendiamo dal Foglio (6 ottobre) che per gli “stati generali della cultura italiana” del 15 e 16 ottobre Guido Martinotti e Walter Santagata hanno preparato un discorso sul metodo: come misurare la cultura, e perché. Nel libro “La comunicazione della salute” (Cortina), Domenico De Masi sostiene che, nell’odierna società della comunicazione, quest’ultima «esce dal mondo del pressappoco per entrare nell’universo della precisione scientifica». È uno sviluppo che porta a una gestione scientifica della vita dell’uomo e della sua salute, dalla nascita alla morte. Per la verità, lo storico della scienza Alexandre Koyré, che aveva intitolato a quel modo uno dei suoi saggi più celebri, si rivolterebbe nella tomba all’idea che la precisione dalla sfera del mondo fisico possa entrare in quella del mondo della vita.
Misurare, misurare, misurare. Ormai è un’ossessione. Non si tratta più soltanto di misurare spazi, tempi, correnti elettriche, campi magnetici, ma di misurare salute, intelligenza, cultura, sentimenti, insomma ogni “qualità” esistente.
A dire il vero, uno scienziato degno di questo nome non può che inorridire sentendo parlare di misurazione della cultura o dell’intelligenza. È possibile misurare se esiste un’unità di misura dell’ente in questione. Un secolo fa, il grande scienziato Henri Poincaré e il fondatore della microeconomia Léon Walras scambiarono lettere di importanza cruciale sul tema della misurabilità dell’utilità, ovvero di quella funzione che mira a rappresentare quantitativamente le preferenze di un agente economico. Convennero che l’utilità non è misurabile. Si può dire – osservava Poincaré – che una soddisfazione è più grande di un’altra, perché preferisco l’una all’altra, ma non che una soddisfazione è due volte più grande di un’altra. Questo non vuol dire che una grandezza non misurabile sia esclusa da ogni speculazione matematica. Per esempio la temperatura (prima dell’avvento della termodinamica) era una grandezza non misurabile, definita arbitrariamente con la dilatazione del mercurio. E comunque, «se è possibile dire che la soddisfazione che prova un individuo è maggiore in tale circostanza o in tal altra, non è possibile confrontare le soddisfazioni provate da due individui differenti».
La questione dovrebbe essere chiusa. Come disse Poincaré, l’uso della matematica nelle questioni “morali” è lo scandalo della scienza. Le grandezze per cui non può darsi un’unità di misura riconosciuta universalmente possono essere manipolate numericamente ma non sono misurabili. Per esempio, quando attribuisco un voto al compito di uno studente non misuro un bel nulla: non faccio altro che usare numeri per rappresentare in modo sintetico il mio giudizio soggettivo che mai potrà essere “oggettivo” come lo è invece misurare la lunghezza di un tavolo con un metro. Posso al più tentare di essere “equanime”.
Ma è proprio la soggettività che disturba coloro che sono ossessionati dall’idea che tutto ciò che esiste al mondo debba essere ridotto a valutazioni oggettive. La loro ambizione è di ricondurre tutto a numeri indiscutibili. E così, prima ancora di aver dimostrato che ciò sia possibile e persino che abbia senso, danno per scontato che ogni aspetto della vita degli uomini possa essere misurato e “valutato oggettivamente”, per poterlo gestire in modo “scientifico”. Valutazione degli studenti, degli insegnanti e della ricerca scientifica, rappresentazione delle capacità individuali con strutture neuronali, gestione delle aziende, della salute delle persone, delle loro caratteristiche fin dalla nascita: tutto potrà e dovrà essere regolato in base a regole scientifiche altrettanto certe e determinate di quelle che governano il moto degli astri. In questa apoteosi panmisuratoria un posto speciale spetta oggi alla “valutazione oggettiva”, libera dal dannato inquinamento della soggettività e del giudizio “arbitrario”.
Sarebbe lungo spiegare da dove nasca tutto questo. Molto sinteticamente, la problematica originaria nacque nel settore militare e si sviluppò durante la Seconda Guerra Mondiale. Per esempio, si osservò che le capacità di un pilota da combattimento possono essere stimate con parametri numerici, come il rapporto tra il numero degli obbiettivi colpiti rispetto a quelli assegnati. Nelle forze armate britanniche e statunitensi si introdussero sistemi di punteggio (“assessment”) per valutare le “performance.” Queste metodologie furono riprese negli anni cinquanta dallo psicologo americano David McClelland che elaborò una “teoria delle competenze” al cui centro era una metodologia di assessment che presto si diffuse in ambito aziendale. L’obbiettivo era di rendere “scientifica” la valutazione dei dipendenti ai fini dell’assunzione, degli avanzamenti di carriera, dei premi, dei licenziamenti, ecc. Peraltro il modello di McClelland si rivelò subito di difficile uso, soprattutto perché non si riusciva a definire in modo standard il colloquio di valutazione. Ciononostante, attraverso una serie di correzioni il modello si diffuse sempre di più nelle aziende, investendo anche la problematica delle decisioni di gestione al fine di renderne predicibili gli esiti in modo esatto. Una svolta cruciale avvenne con l’avvento dell’informatica che sembrò poter rendere applicabile su grande scala il modello di competenze. Da tempo ormai è una prassi obbligata nelle aziende definire una tipologia di competenze relative ai vari settori di attività e sviluppare processi di valutazione che richiedono ogni anno un impegno massiccio che spesso sottrae ingenti forze alle attività produttive.
Tutto ciò ha prodotto qualcosa che corrisponde alle intenzioni? Da più parti si ammette che non è così. La valutazione aziendale sta diventando sempre più un rito tanto ingombrante quanto inefficiente. La ragione è semplice. La definizione precisa dei vari livelli di competenza si sta rivelando impossibile: basta vedere le tabelle con cui varie aziende definiscono le tipologie per rendersi conto della genericità, vaghezza e arbitrarietà di tali definizioni. La deprecata soggettività è sempre lì, appena nascosta, come la spazzatura sotto il tappeto. Essa si ripropone in modo imbarazzante nelle interpretazioni locali e talora del tutto personali del modello di competenze. Inoltre, sia la tipologia che le interpretazioni sono costruite spesso a tavolino e hanno uno scarso rapporto con la realtà che non soltanto non riescono a imprigionare ma di cui forniscono una parodia.
Però la baracca resiste per motivi ideologici – il mito della misurazione oggettiva – per motivi pratici – è la foglia di fico per giustificare “scientificamente” i licenziamenti – e infine perché si è costituita una corporazione di “valutatori” di professione che difende la propria ragione di esistenza a qualsiasi costo. Non soltanto: l’ideologia delle competenze ha espugnato il fortino della ricerca scientifica e dell’istruzione, proponendosi come sostituto “oggettivo” delle valutazioni di merito delle pubblicazioni scientifiche, e delle valutazioni soggettive dei professori, le cui prestazioni, a loro volta, dovrebbero essere valutate con metodi “esatti”. Per queste ultime il criterio dovrebbe essere quello del giudizio del dirigente scolastico “manager”, sommato con la stima numerica della “customer satisfaction”, ovvero del grado di soddisfazione  degli “utenti”: famiglie e studenti. All’obbiezione che con questi criteri la via maestra per cavarsela è promuovere tutti, si fanno orecchie da mercante; così come viene ignorata l’osservazione che la deprecata soggettività è stata rimossa come la spazzatura sotto il tappeto, ovvero trasferita al giudizio soggettivo dell’“utente” e del dirigente.
Le pubblicazioni scientifiche, a loro volta, non dovrebbero più essere valutate dai colleghi mediante giudizi di merito (“peer review”), bensì mediante i metodi bibliometrici “oggettivi”, fondati sul conteggio del numero di citazioni ottenute. Uno dei parametri chiave è l’Impact Factor della rivista su cui è pubblicato l’articolo: l’IF di una rivista nell’anno N è il rapporto tra il numero di citazioni rilevate in quell’anno di articoli pubblicati nei due anni precedenti diviso per il numero totale degli articoli pubblicati negli stessi anni sulla rivista. Si noti che questa metodologia non è stata né ideata né implementata dalla comunità scientifica bensì da una ditta privata l’ISI (Institute of Scientific Information) fondata nel 1960 da Eugene Garfield e oggi parte della Thomson Reuters Co. Questa azienda, con il suo database, si propone esplicitamente di guidare anche la politica degli acquisti librari e, di fatto, stronca tutte le riviste non anglofone e che non soddisfano i criteri da essa imposti i quali, oltretutto, soffocano nella culla l’emergere di nuovi settori della ricerca. Negli ultimi anni si sta manifestando una rivolta della comunità scientifica contro un andazzo che, come ha osservato il presidente della prestigiosa Society for Applied Mathematics, sta distruggendo l’integrità scientifica: difatti, una volta indicato l’obbiettivo da conseguire, le riviste e i singoli conseguono performance spettacolari semplicemente citandosi a vicenda, anche se gli articoli sono mediocri o addirittura copiati: al contenuto non bada nessuno. Come ha osservato un rapporto della International Mathematical Union e dell’Institute of Mathematical Statistics (le massime autorità mondiali in tema di numeri), si sta sviluppando una “cultura nei numeri” con cui «i decision-makers, incapaci di misurare la qualità la sostituiscono con numeri che possono misurare»: è questo il modo specifico con cui la “spazzatura” della soggettività viene nascosta sotto il tappeto. Come osserva il rapporto, il concetto di citazione non è per niente oggettivo: casomai sarebbe necessaria una sociologia della citazione. Inoltre, il rapporto denuncia gli esiti pazzeschi dell’uso di parametri come l’h-indice – il più grande n per cui uno scienziato ha pubblicato n articoli con n citazioni – che equiparano una persona che ha pubblicato 10 lavori con 10 citazioni e una che, oltre a questi, ne ha pubblicati altri 90 con 9 citazioni ciascuno…
Non meno imbarazzante è la valutazione “oggettiva” degli apprendimenti scolastici. Poiché si è stati costretti ad ammettere che la conoscenza non è misurabile – ma pare che Martinotti e Santagata abbiano sfidato anche questa evidenza – si è pensato di distinguere tra “conoscenza” e “competenza”, mutuando quest’ultimo concetto dal contesto aziendale e lasciando credere che esso sia, a differenza del primo, misurabile. Per dar senso a questa operazione occorreva stabilire che la competenza (intesa, grosso modo, come la capacità di applicare autonomamente le nozioni apprese) è molto più importante della conoscenza. Allo scopo, si è sviluppata una campagna accanita contro l’insegnamento tradizionale accusato di nozionismo, di “trasmissività” ex-cathedra, di reprimere la creatività dello studente. Inutile dire che si è trattato e si tratta di un grande imbroglio, perché è facile dimostrare che anche nella pedagogia di un secolo fa (e diciamo pure da Socrate in poi) era chiarissima l’idea che un buon insegnamento è quello che permette all’allievo di camminare con le proprie gambe, mentre l’altro è semplicemente un cattivo insegnamento. Ma tant’è: ormai la dicotomia conoscenze-competenze è stata esasperata in modo folle a discapito del primo termine. Il colmo è che, pur di difendersi dalla situazione insostenibile che si è così prodotta, è invalsa l’abitudine di accusare chi vuole introdurre una visione meno manichea di essere responsabile della dicotomia stessa…
La chiave per rendere oggettiva la valutazione era la tesi secondo cui le competenze sono misurabili mediante i test. Ma questa tesi è insostenibile per il semplice fatto che non esiste una definizione accettata di competenza di uno studente. Anzi, ne sono state prodotte a centinaia, da quelle “deboli” – come la precedente – a quelle “forti” che includono capacità relazionali e persino affettive. Chi si occupa in modo serio di questi problemi ammette che le definizioni “forti” non si prestano ad alcuna misurazione e che, tutt’al più, con quelle “deboli” si può stimare qualcosa con i test. Ma gli altri proseguono imperterriti vendendo fumo e proponendo il modo specifico per nascondere la “spazzatura” della soggettività sotto il tappeto: far credere che esista una definizione univoca di competenza e che i test ne costituiscano l’unità di misura, anche se è ovvio che la preparazione dei test viene fatta da soggetti con le loro idee, la loro cultura (o incultura) e le loro idiosincrasie. La “certificazione delle competenze” introdotta di recente nelle scuole italiane è l’ultimo capitolo di questa triste saga dell’arbitrio gabellato come oggettività: per convincersene basta leggere uno qualsiasi di questi schemi di certificazione.
Tutto ciò significa che non si può “valutare”? Nient’affatto. Il più grande ricatto consiste nel far credere che chi critica questi metodi sia contro la valutazione. In un prossimo capitolo potremmo spiegare cosa si può fare di serio. Per ora concludiamo sottolineando che non quattro scalmanati ma autorità scientifiche di primo piano denunciano un andazzo che rischia di lasciare sul terreno la ricerca scientifica, l’istruzione e, in definitiva, la cultura.



Il Foglio, 13 ottobre 2010, p. II.

Strani strateghi cattolici


In un recente articolo sul Corriere della Sera Dario Antiseri contesta vivacemente la tesi di Giuseppe De Rita secondo cui il popolo cattolico non riuscirebbe a esprimersi nella dialettica socio-politica per mancanza di "livelli intermedi" capaci di condensarne la forza e finalizzarla allo sviluppo del paese. No – dice Antiseri – la colpa è dei "generali" – di cui fa un lungo elenco comprendente lo stesso De Rita – che «disertano», abbandonando la truppa «numerosa e motivata» alla dispersione nelle varie forze politiche; mentre lo spazio lasciato vuoto viene occupato dai detestabili "atei devoti".
Chi scrive non è né ateo né devoto ad alcuna autorità terrena. Ma, non essendo cattolico, prova imbarazzo a impicciarsi dei problemi altrui. L'imbarazzo è però superato dal fatto che una fenomenologia analoga si presenta nel pur esiguo ambiente della sua appartenenza religiosa.
Francamente, la tesi di Antiseri fa acqua da tutte le parti. Per costituire un valido stato maggiore di un esercito, i generali non possono dividersi al punto che uno proponga di avanzare verso occidente, l'altro verso oriente, l'altro di star fermi, e così via. Lo stesso Antiseri – a buon diritto un "generale" – la vede in modo radicalmente diverso dal suo capo di stato maggiore: mentre questi ammonisce continuamente contro il relativismo, per Antiseri il relativismo è l'essenza sia del pensiero razionale che del cristianesimo. E allora come la mettiamo? Ne risulta nient'altro che la realtà di fatto: una situazione in cui i generali non necessariamente "disertano", ma indirizzano la "truppa" in direzioni diverse, talora radicalmente diverse. Su troppe questioni il terreno comune è quasi inesistente. Persino sulle questioni di bioetica esistono posizioni differenti, e anzi contrapposte: mentre taluni sono nettamente contrari alle manipolazioni genetiche, per altri occorre aprirsi ad ogni prospettiva offerta dalla scienza. Mi è capitato di dover difendere proprio nel contesto di dibattiti con esponenti cattolici – e persino ecclesiastici! – le ragioni di una visione spiritualistica contro una stupefacente apertura non soltanto alle neuroscienze, ma addirittura alle neurofilosofie materialistiche.
Gli esempi sono innumerevoli. Il campo dell'educazione e dell'istruzione vede una spaccatura verticale nel mondo cattolico tra chi è legato a una visione personalistica del rapporto tra maestro e allievo, difende la trasmissione dei valori e delle conoscenze, e chi invece si "apre" totalmente a una visione ispirata da tecnicismi pedagogico-didattici di stampo scientista. Potremmo continuare con le divergenze sul tema del rapporto tra identità cristiana e identità occidentale, sui problemi dell'integrazione degli immigrati, circa i quali è falsa l'immagine in bianco e nero di un popolo cattolico unito nel denunciare i «fetori razzisti» che verrebbero da chi non accetta un approccio in termini di accoglienza incondizionata. Poi c'è il tema dei rapporti con l'islam e anche quello dei rapporti con l'ebraismo e con Israele.
Come dicevo, divisioni del genere sono presenti anche nel mondo ebraico. Nessuna simpatia per la caserma: è bene che le religioni europee tradizionali consentano ampia libertà di veduta. Ma qui si esagera. Forse, per capire la ragione di certe debolezze, bisognerebbe chiedersi cosa abbiano a che fare con un'autentica spiritualità religiosa l'accettazione delle manipolazioni genetiche, l'apertura nei confronti delle neurofilosofie, la riduzione del sentimento di trascendenza a predisposizione genetica, o la concezione dell'educazione come tecnologia psicopedagogica.
(Tempi, 6 ottobre 2010)

sabato 2 ottobre 2010

Ciarrapico va cacciato dal Pdl e censurato in Senato


Qualche commento relativamente alle reazioni a questo articolo. Naturalmente non mi aspetto e non mi aspettavo che Ciarrapico venisse cacciato. Neppure che venisse fatta una mozione di censura, simile alla mozione di sfiducia nei confronti di Bossi, che lo ha costretto a chiedere scusa. Non sono così ingenuo...
Piuttosto, ho trovato indicative certe reazioni a questo articolo testimoniate dai commenti inviati dai lettori de Il Giornale, di tenore analogo a quelli letti in altri siti, per esempio in quello del Corriere della Sera.
Un numero alto, troppo alto, di commenti dà ragione in toto a Ciarrapico, o quantomeno lo assolve in quanto la sua vera intenzione era di attaccare Fini, e gli ebrei debbono piantarla di mettersi in mezzo per proporre il loro solito "chiagni e fotti".
A parte il fatto che io sulla questione dell'antisemitismo non "chiagno" mai, casomai mi arrabbio, tantomeno "fotto", la domanda semplice semplice è: se Ciarrapico voleva accusare Fini di essere un traditore che bisogno c'era di mettere di mezzo la kippah? Tanto valeva che accennasse a un'ordinazione di cravatte rosa tutte uguali, del tipo di quelle che porta Fini... 
Ma a questa domanda non si risponde, anzi si continua a imprecare contro gli ebrei che si sono "messi di mezzo", quando non c'entrano niente....
Questo, tanto per restare a Napoli, si chiama "cornuto e mazziato": prima tiri in ballo qualcuno come cornuto (in questo caso prototipo di traditore) e poi se quello protesta lo prendi a mazzate perché "chiagne e fotte".
E, come se non bastasse, ci si mette il Presidente del Consiglio con barzellette indecenti sugli ebrei... E nessuno dimentichi quando Prodi parlò dell'organo circonciso di De Benedetti e le battutacce di D'Alema.
Che belle correnti d'aria...
Arrivederci il 7 ottobre, con le persone oneste, Perché, come scrive il Foglio «l'odio per lo stato ebraico è il riflesso della nostra cultura che non ha più voglia di sopravvivere». «L'Occidente che rantola...»

Va bene che ormai siamo abituati a un livello del discorso politico da suburra. L’uno parla di “romani porci”, l’altro invita un ministro a “non rompere i coglioni agli insegnanti”, l’altro ancora usa un linguaggio da trivio contro il Presidente del Consiglio, ma con il senatore del Pdl Ciarrapico si è passato ogni limite. Le agenzie riferiscono che questo signore ha pronunciato in Senato queste frasi: «Fini ha fatto sapere che presto fonderà un nuovo partito. Spero che abbia già ordinato le kippah, perché è di questo che si tratta. Chi ha tradito una volta, tradisce sempre».
Ci possiamo chiedere a cosa abbia inteso alludere. Al fatto che Fini si mise in testa la kippah per visitare lo Yad Vashem, il mausoleo dello sterminio degli ebrei d’Europa? E questo, per Ciarrapico sarebbe un “tradimento”? Tradimento di che? Del negazionismo, dell’antisemitismo, del “nobile” passato delle leggi razziali fasciste? Se questo è il tradimento che questo signore rimprovera, da un lato ha reso un onore a Fini e, dall’altro, ha messo in luce nel modo più chiaro quali pensieri osceni alberghino nella sua mente. Ma forse è peggio di così. Perché l’unica altra possibile interpretazione è che egli alluda al nuovo partito di Fini come un’opera degli ebrei, il frutto di una congiura pluto-demo-giudaico-massonica. “Di questo si tratta”, ha detto. Il partito di Fini è una questione di kippah.
Non ritengo utili altri commenti, perché mi rivolgo alle persone oneste. Gli altri, quelli che si voltano dall’altra parte appartengono a quella melma razzista e antisemita irrecuperabile che questo ineffabile senatore è riuscito a smuovere dal fondo in cui brulica. Basta navigare su internet per leggere commenti del tipo: «ha detto quel che altri non hanno il coraggio di dire». E molto di peggio.
La frase di Ciarrapico, nella sua voluta ambiguità che somma le due interpretazioni, è un’offesa atroce nei confronti sia degli ebrei morti che degli ebrei vivi. A pochi giorni di distanza dalla manifestazione che si terrà a Roma il 7 ottobre “Per Israele, per la verità”, questo signore ha voluto dare una testimonianza vivida di come scorra potentemente il nuovo odio contro gli ebrei. A quella manifestazione parteciperanno persone oneste di tutti gli schieramenti politici. È da augurarsi che gli esponenti del Pdl possano parteciparvi con l’onore di aver messo alla porta un simile personaggio. Non basta dire che quelle frasi sono inaccettabili o prendere le distanze, né basterebbero scuse tardive che peraltro mentre scriviamo non sono ancora arrivate. In certi casi, le distanze vanno prese fino in fondo, senza mezzi termini. Non avere il coraggio di pagare il prezzo politico del levarsi di torno certi personaggi ha come conseguenza di pagare un prezzo molto più alto sul piano morale. 

(Il Giornale, 1 ottobre 2010)