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mercoledì 29 dicembre 2010

La scuola fa schifo. E se fosse ottima?



Gli ingegneri francesi dell’Ottocento se ne intendevano di valutazioni numeriche: furono loro a inaugurare l’applicazione della matematica alle questioni sociali, economiche e gestionali, e proprio per questo erano disincantati. Affermavano che i numeri possono essere usati per neutralizzare decisioni politiche scomode e per rendere accettabili le affermazioni più contraddittorie, producendo statistiche inconsistenti «perché nulla è più elastico dei numeri». Con i numeri si può convalidare tutto e il contrario di tutto.
Abbiamo già parlato qui delle conclusioni contraddittorie che emergono dalle varie classifiche delle università e delle scuole. Si aggiungono ora i risultati Ocse-Pisa che attestano la superiorità delle scuole statali italiane su quelle private e paritarie. L’Invalsi è arrivato alla conclusione opposta… Inoltre, su queste pagine, il governatore lombardo Formigoni ha sottolineato l’ottimo risultato conseguito dalle scuole della regione nei test Ocse-Pisa, e si sa che la Lombardia ha un elevato numero di scuole private e paritarie. E allora? Oltre alla contraddizione – certamente dovuta all’uso di parametri e test differenti, il che ridicolizza ancora una volta il mito della tanto vantata “oggettività” – siamo di fronte statistiche del genere “pollo di Trilussa”, che informano sulla frazione di pollo che mangia “in media” ogni persona in un dato periodo. In realtà, qui interessa sapere esattamente quanti polli vengono mangiati da ciascuno. Altrimenti, dando retta a Ocse-Pisa, una famiglia rischia di iscrivere il figlio a occhi chiusi a una scuola statale di infima qualità, oppure, dando retta all’Invalsi, di iscriverlo a una pessima scuola paritaria.
Ne segue che l’unica cosa sensata e utile non sono queste statistiche, bensì una valutazione capillare dei singoli istituti scolastici e anche dei singoli insegnanti. Il problema è però come fare questa valutazione. Uno dei metodi suggeriti da coloro che inseguono l’“oggettività” è di far ricorso ai test. Un progetto sperimentale varato dal ministero dell’istruzione propone di valutare le scuole misurando il livello di miglioramento degli apprendimenti degli studenti mediante i test Invalsi: in parole povere, si tratta di proporre dei test all’inizio e alla fine dell’anno per constatare l’esistenza di un miglioramento. Questo metodo ha due difetti. In primo luogo, i test servono a stimare il miglioramento degli apprendimenti in ambiti molto ristretti, come l’ortografia o la grammatica, ma già in matematica non rispondono affatto allo scopo di valutare le capacità di ragionare matematicamente, di formulare e risolvere un problema, bensì non vanno oltre il dar conto dell’esattezza della risposta, che è poca cosa. Non parliamo poi di materie come la storia o la letteratura. Vi è inoltre il rischio di indurre le scuole a limitarsi alla funzione di addestramento a superare i test, riducendo gli studenti a risolutori di quiz, magari abili allo scopo specifico pur essendo autentici ignoranti e incapaci. Il secondo difetto è che i test non piovono dal cielo: sono formulati da persone con una specifica preparazione e vedute personali, talvolta persino da ditte di dubbia competenza. In definitiva, essi non danno alcuna garanzia di serietà ma servono soltanto a creare un’aria di rigore “scientifico”, nascondendo la “spazzatura” della soggettività sotto il tappeto. Si apprende poi che si terrà conto di altri indicatori come il rapporto scuola famiglia – e chi non sa che purtroppo molte famiglie di fronte a un brutto voto schiaffeggiano il professore anziché lo studente? – e che il risultato verrà valutato da un team composto da un ispettore e da due esperti indipendenti, senza dire come sarà certificata la competenza di questi “esperti”.
Ancor meno convincente è il metodo di valutazione proposto per i singoli docenti. Essa dovrebbe essere condotta da una commissione composta dal dirigente scolastico e da due docenti dell’istituto eletti dal collegio dei docenti. È sconcertante l’idea che coloro che debbono essere valutati eleggano i loro valutatori. Ancor di più che a presiedere tale nucleo sia il dirigente scolastico. Non dubitiamo che la maggior parte dei presidi siano persone rigorose. Ma coloro che non lo sono, e certamente esistono, e che hanno la tendenza a creare cordate e “camarille” di docenti “amici”, troveranno un’opportunità per favorirle e per penalizzare le “pecore nere” che potrebbero anche essere i docenti più validi. Senza contare che questa modalità di valutazione si incrocia con la tendenza a trasformare il preside in manager, che tende a promuovere in tutti i modi l’immagine della propria scuola, come un’azienda di biscotti promuove la qualità del proprio prodotto. Inoltre, anche qui si propone di usare come criterio di valutazione il giudizio di famiglie e studenti e persino il curriculum presentato dal docente (come dubitare che vi sarà chi avrà il coraggio di parlar male di sé?).
Ritorna la questione iniziale: come valutare? Non c’è dubbio che l’unica modalità valida sia quella delle ispezioni. Ma, sia ben chiaro, non alla maniera dell’autoreferenziale corpo di ispettori in vigore in Inghilterra che, di certo, non può vantare di aver contribuito al miglioramento della scuola inglese, il cui sfascio è ormai denunziato da ogni lato. Di recente, in una riunione di “esperti” scolastici, ho assistito a un’interminabile presentazione delle virtù del sistema inglese di valutazione. Dopo un’ora di ascolto posi una piccola domanda: «Secondo voi com’è la scuola inglese?». Coro unanime: «Fa letteralmente schifo!». E tuttavia l’elogio riprese come se nulla fosse. Così ragionano gli “esperti”: a loro interessa solo la metodologia. Peraltro, una delle ultime prove del disastro della scuola inglese è data dalla constatazione che un numero crescente di famiglie, pur di non mandare i figli in scuole in cui non si apprende nulla e regna la violenza, affittano a ore docenti qualificati in tutte le materie. I costi oscillanti tra 30-50.000 mila l’euro l’anno vengono coperti quasi completamente dai voucher che le famiglie ricevono.
Tornando alle ispezioni, l’unico sistema che appare appropriato è quello in uso in diverse università straniere: farle eseguire da commissioni composte da insegnanti provenienti da scuole di diverse città, da un ispettore ministeriale, e anche da insegnanti in pensione. La commissione ispettiva si installa in un istituto scolastico per un periodo di una decina di giorni rivoltandolo come un calzino, assistendo alle lezioni, esaminando libri di testo, registri, interrogando docenti, studenti e famiglie, e raccogliendo il suo giudizio finale in un rapporto di valutazione concernente sia l’istituto nel suo complesso che i singoli insegnanti, il quale verrà sottoposto agli Uffici scolastici regionali e al ministero. La valutazione potrà investire soltanto una quota annua degli istituti che sarà tuttavia sufficiente ad avviare un processo virtuoso. Il punto fondamentale è che la valutazione non deve essere concepita come una tecnica gestionale bensì come un processo culturale. I rapporti di valutazione saranno inevitabilmente oggetto di commenti incrociati, a differenza del sistema dei test che nasconde dietro una falsa oggettività scelte operate da soggetti incontrollati. Ma questo è altamente positivo poiché avvia nell’insieme delle scuole e nella comunità degli insegnanti un vasto processo di controllo interno alla dinamica dell’istituzione scolastica, rigoroso, indipendente e alla luce del sole, che è l’unico modo per produrre un’autentica crescita culturale e della qualità dell’insegnamento e per favorire l’emergere delle scuole e degli insegnanti migliori.

Giorgio Israel     (Il Giornale, 27 dicembre 2010)

Di quanta matematica abbiamo davvero bisogno?

Frase conclusiva: «Sopravviveremo probabilmente a questa evangelizzazione, grazie all'irrilevanza dell'innovazione pedagogica»

How much math do we really need?
By G.V. Ramanathan
Saturday, October 23, 2010; A15 
Twenty-seven years have passed since the publication of the report "A Nation at Risk," which warned of dire consequences if we did not reform our educational system. This report, not unlike the Sputnik scare of the 1950s, offered tremendous opportunities to universities and colleges to create and sell mathematics education programs.
Unfortunately, the marketing of math has become similar to the marketing of creams to whiten teeth, gels to grow hair and regimens to build a beautiful body.
There are three steps to this kind of aggressive marketing. The first is to convince people that white teeth, a full head of hair and a sculpted physique are essential to a good life. The second is to embarrass those who do not possess them. The third is to make people think that, since a good life is their right, they must buy these products.
So it is with math education. A lot of effort and money has been spent to make mathematics seem essential to everybody's daily life. There are even calculus textbooks showing how to calculate -- I am not making this up and in fact I taught from such a book -- the rate at which the fluid level in a martini glass will go down, assuming, of course, that one sips differentiably. Elementary math books have to be stuffed with such contrived applications; otherwise they won't be published.
You can see attempts at embarrassing the public in popular books written by mathematicians bemoaning the innumeracy of common folk and how it is supposed to be costing billions; books about how mathematicians have a more clever way of reading the newspaper than the masses; and studies purportedly showing how much dumber our kids are than those in Europe and Asia.
As for the third, even people who used to proudly proclaim their mathematical innocence do not wish to abridge the rights of their children to a good life. They now participate in family math and send the kids to math camps, convinced that the path to good citizenship is through math.
We need to ask two questions. First, how effective are these educational creams and gels? With generous government grants over the past 25 years, countless courses and conferences have been invented and books written on how to teach teachers to teach. But where is the evidence that these efforts have helped students? A 2008 review by the Education Department found that the nation is at "greater risk now" than it was in 1983, and the National Assessment of Educational Progress math scores for 17-year-olds have remained stagnant since the 1980s.
The second question is more fundamental: How much math do you really need in everyday life? Ask yourself that -- and also the next 10 people you meet, say, your plumber, your lawyer, your grocer, your mechanic, your physician or even a math teacher.
Unlike literature, history, politics and music, math has little relevance to everyday life. That courses such as "Quantitative Reasoning" improve critical thinking is an unsubstantiated myth. All the mathematics one needs in real life can be learned in early years without much fuss. Most adults have no contact with math at work, nor do they curl up with an algebra book for relaxation.
Those who do love math and science have been doing very well. Our graduate schools are the best in the world. This "nation at risk" has produced about 140 Nobel laureates since 1983 (about as many as before 1983).
As for the rest, there is no obligation to love math any more than grammar, composition, curfew or washing up after dinner. Why create a need to make it palatable to all and spend taxpayers' money on pointless endeavors without demonstrable results or accountability?
We survived the "New Math" of the 1960s. We will probably survive this math evangelism as well -- thanks to the irrelevance of pedagogical innovation.
The writer is a professor emeritus of mathematics, statistics and computer science at the University of Illinois at Chicago.

lunedì 27 dicembre 2010

Tra i banchi tutto è permesso se c’è di mezzo l’islam



Sempre più provo un sentimento di fastidio nei confronti dell’integralismo religioso, quale che sia la fede coinvolta, senza eccezione alcuna. Sono convinto che esso fornisca uno degli apporti più consistenti alla crescita dell’intolleranza e alla disgregazione della convivenza civile, creando sacche comunitarie autoreferenziali e refrattarie nei confronti di ogni regola condivisa. Un episodio emblematico in tal senso è quello accaduto in una scuola media statale di Reggello (Firenze): da oltre un anno una quindicenne assiste alle lezioni di musica con i tappi alle orecchie per volere di suo padre, un marocchino di fede islamica, che considera la musica un prodotto “impuro” della cultura degli “infedeli”. La faccenda va avanti da molto tempo: pur di non ascoltare la musica la ragazzina si assentava da scuola, per le troppe assenze fu bocciata, vi fu anche una denuncia. Niente da fare. I genitori furono irremovibili.
Tuttavia, l’aspetto più grave della vicenda non è il fatto in sé, l’ennesima manifestazione di becero integralismo neppure giustificato dai precetti coranici, ma il comportamento delle autorità scolastiche. Con l’accordo di insegnanti e genitori è stata trovata una “soluzione”: la ragazzina assiste alle lezioni di musica con i tappi alle orecchie. «La vicenda non va enfatizzata», dichiara la dirigente scolastica, chiaramente preoccupata del clamore sorto attorno alla vicenda. Ed è giusto che clamore vi sia, anzi ve n’è troppo poco. Difatti, è inaudito che un’istituzione scolastica retta dalle leggi dello stato consenta una condizione di frequenza menomata, degradante, al di fuori di qualsiasi regola decente. È estremamente grave che chi ha escogitato questa “soluzione” non si renda conto del gravissimo precedente che, in tal modo, si è creato. E se domani qualcuno si rifiutasse di studiare la Divina Commedia? Si consentirà che non la studi e che venga a scuola con i tappi nelle orecchie e una benda sugli occhi? E se qualcuno si rifiutasse di studiare ogni argomento che contenga riferimenti a religioni diverse dalla propria? Non ci vuole fantasia per immaginare la cataratta si potrebbe aprire se la “deroga” introdotta a Reggello dovesse essere confermata. Sarebbe il caso di dire chiaro e forte che l’Italia è un paese che ha una cultura consolidata nei secoli che costituisce il nerbo dell’insegnamento scolastico, il quale è governato da leggi e regole: se a qualcuno questo non piace è meglio che cerchi una dimora altrove.
Frattanto, leggiamo che a tanto lassismo fa da “pendant” il rigore di un istituto scolastico di Cardano al Campo (Varese), dove la dirigente scolastica ha severamente vietato la benedizione del prete cattolico nella scuola. Si può certamente discutere sulla modalità, in modo che la benedizione non risulti opprimente per alunni di altra fede. Ma colpisce il contrasto tra il lassismo di Reggello nei confronti dell’islam e il rigore di Cardano nei confronti del cattolicesimo. È un contrasto che si ripropone continuamente, in particolare a Natale dove si fa di tutto non soltanto per non fare presepi ma neppure alberi che non siano politicamente corretti: ora vanno di moda quelli decorati con materiali riciclati. La dirigente di Cardano ha dichiarato: «Noi ci occupiamo di istruzione e lo facciamo da scuola di stato non confessionale». Bene. Lo vada a spiegare alla sua collega di Reggello. Sarebbe opportuno che il ministero batta un pugno sul tavolo richiamando a un ricorso più responsabile dell’autonomia scolastica da parte di funzionari che danno tanto scarsa prova di senso istituzionale e del rispetto delle regole e delle leggi, soprattutto quando si tratta di islam.
(Tempi, 22 dicembre 2010)

venerdì 24 dicembre 2010

Dimmi in cosa credi e ti dirò come vedi, l’ultima gag neuroscientifica


Ben tre università – Bologna, Leiden e Ben-Gurion – si sono messe assieme per una ricerca condotta su un campione di soltanto 126 persone volta a misurare “al millesimo di secondo” la prontezza con cui la fede o la laicità influenzerebbero la percezione delle immagini. Il campione era suddiviso in 7 gruppi di 18 persone: 4 gruppi olandesi (calvinisti conservatori e progressisti, atei e atei di formazione religiosa), 2 israeliani (ebrei ortodossi e laici), 2 italiani (cattolici osservanti e laici). I risultati mostrerebbero che i gruppi si sarebbero distinti per un modo di vedere le immagini radicalmente diverso e stabile. In particolare, i laici sarebbero attenti al dettaglio, mentre cattolici osservanti ed ebrei ortodossi sarebbero propensi a una visione sintetica e globale delle immagini. Si aggiunge che le religioni “individualistiche”, come il calvinismo olandese, sarebbero anch’esse attente ai dettagli, a differenza delle religioni orientate alla solidarietà sociale, come il cattolicesimo e l’ebraismo.
Pur senza conoscere i dettagli di questa ricerca, vengono spontanee alcune osservazioni. In primo luogo, l’irrilevanza statistica del campione, addirittura risibile in relazione ai singoli gruppi. Come può essere considerato rappresentativo e significativo rispetto alle attitudini visive un campione di 18 persone? Per rendere irrilevanti gli innumerevoli altri fattori – culturali, fisici, ecc. – che possono influenzare il risultato occorrerebbero campioni di ben altra dimensione e ben miscelati. Ma colpisce soprattutto la leggerezza con cui vengono manipolate le caratterizzazioni culturali. Ammesso che si possa dire che il cattolicesimo e l’ebraismo, e non il calvinismo, siano orientati alla solidarietà sociale, ciò è assai poco credibile per le loro versioni ortodosse. Gli ortodossi sono tendenti al comunitarismo e a un senso di solidarietà ristretto al gruppo e scarsamente interessato (se non ostile) a ciò che accade fuori. È bizzarro considerare un simile atteggiamento come senso di solidarietà sociale in senso proprio. Quando poi i vari fattori culturali vengono associati ai processi visivi si cade nel grottesco. Se c’è qualcuno che può considerarsi attento ai dettagli questi è l’ebreo ortodosso, che passa la giornata a spaccare il capello in quattro per non contravvenire ai 613 precetti. Che una simile ossessione del particolare sia associata a una visione fisica sintetica e globale, è un problema e non una spiegazione di alcunché. E cosa dice il fatto che calvinisti “individualisti” e laici sarebbero entrambi attenti ai particolari: forse il laicismo è di per sé individualista?
Delle due l’una: o i solerti ricercatori hanno scoperto l’assenza di qualsiasi correlazione dotata di senso, oppure hanno usato le categorie culturali (laicismo, religiosità, visione sintetica e globale, individualismo) senza alcuna attenzione per il loro significato. Questa è, con ogni probabilità, la spiegazione. L’unico senso di queste stravaganti “ricerche” è mirare alla dissoluzione dei fattori culturali in fattori di carattere fisico. Insomma è il solito ossessivo materialismo neuromaniaco.
Di fronte allo spettacolo di una scienza che va a arenarsi su queste spiagge non si riesce neanche a ridere. Ma neppure a piangere. Pensando al fatto che una seria e profonda ricerca culturale e antropologica non sarebbe mai stata finanziata, si è assaliti soltanto da un’uggiosa malinconia.
(Il Foglio, 23 dicembre 2010)

domenica 12 dicembre 2010

Il sistema dell'istruzione, le classifiche inattendibili e i test tossici



Secondo le ultime analisi Ocse-Pisa le posizioni della scuola italiana nelle classifiche internazionali sarebbero migliorate. Le considerazioni che vorrei sviluppare si riassumono così: questi dati, come tutte le analisi basate su test, hanno scarsa attendibilità oggettiva e quindi vanno presi con le pinze; inoltre, anche a prenderli per buoni, sono il risultato di una ripresa di rigore disciplinare in direzione opposta agli intenti di chi vorrebbe ridurre la scuola italiana a un sistema aziendale basato sui test e che, con sfrontatezza, tenta in questi giorni di intestarsi questo miglioramento.
Su queste pagine ci siamo già occupati della scarsa attendibilità di test e graduatorie e della necessità di valutare a fondo i sistemi dell’istruzione sulla base dei contenuti dell’insegnamento. Ciò vale anche per l’università e per il sistema della ricerca. Inizierò di qui con qualche esempio.
Di recente, su “Sette”, due giovani italiani che lavorano negli USA e sono diventati personaggi importanti nella Microsoft hanno lamentato l’inesistenza in Italia del sistema meritocratico americano aggiungendo però: «l’Italia vanta un livello di istruzione altissimo, lontano anni luce da quello che si trova qui… a volte durante certe conversazioni si finisce con l’essere imbarazzati per loro». Nel dibattito convulso e fazioso di questi giorni è un luogo comune parlare dell’università italiana come se fosse la sentina del mondo. Al contrario, si esaltano gli USA come se fossero l’Eldorado, come se in quel paese non esistessero le cordate accademiche, non esistessero restrizioni di bilancio, ignorando che grandi università americane hanno persino tagliato gli stipendi. Chi si straccia le vesti sul precariato e aspira al posto fisso non dice che nelle università statunitensi puoi essere cacciato su due piedi anche dopo anni di insegnamento.
Le cattive posizioni delle università italiane nelle classifiche internazionali, dipendono da una quantità di parametri che hanno poco a che fare con la ricerca e la didattica. Basta cambiarli di poco per modificare le graduatorie in modo sorprendente. Non a caso le università migliori sono quelle dei paesi che dettano la scelta dei parametri. Qualche esempio. Nel QS World University Rankings, la Sapienza di Roma è passata in un solo anno dalla posizione 205 alla 190: è bastato aver cura di alcuni aspetti organizzativi, come l’efficienza nella registrazione degli esami. Ma sebbene in posizione modesta, la Sapienza precede università prestigiose come la Technische Universität di Berlino e la Sorbonne parigina (al posto 229). Se poi si guarda a certi settori come le scienze fisico-matematiche e naturali, la Sapienza supera la celebre École Polytechnique di Parigi, la University of California di San Diego, la Humboldt Universität o il Technion di Israele. Mentre è assurdo che l’università di Parigi 6 – uno dei centri migliori al mondo per le scienze – non compaia da nessuna parte. Per altro verso, l’università Bocconi figura al penultimo posto nella graduatoria delle università in scienze e sociali e management, e l’università confindustriale Luiss è introvabile. Forse questo ha infastidito qualcuno. Così il network Vision di laureati italiani con esperienze estere ha redatto una classifica italiana scegliendo parametri diversi e alquanto bizzarri: numero di studenti stranieri sul totale degli iscritti, numero di fuori sede, numero di citazioni non tratte dai consueti database bensì da Google Scholar (considerato, chissà perché, più “semplice” e “trasparente”). Risultato del 2009: i primi tre posti vanno al Politecnico di Milano, all’Università Bocconi e al Politecnico di Torino, seguiti (manco a dirlo, visto quel parametro) dalla Università per Stranieri di Perugia… Un ulteriore aggiustamento ha portato, nel 2010, la Bocconi al primo posto, la Luiss dal decimo al sesto, declassando la Statale di Milano dal quinto al tredicesimo posto…  Mentre nella classifica QS la Sapienza surclassa il Politecnico di Milano (295-esimo) e quello di Torino (451-esimo) nella classifica Vision scende al posto 22. Quale attendibilità ha questa sarabanda di cifre?
La stessa situazione si presenta per la scuola. Leggiamo sui giornali tante statistiche elaborate a partire da test. La serietà di queste analisi non è in discussione. Ma se i dati su cui sono state sviluppate non fossero attendibili esse si ridurrebbero a un semplice esercizio. Insomma, quel che conta è il contenuto dei test proposti. Di questi non si parla mai, non si sa chi li ha preparati né con quale competenza. Ne ho esaminati alcuni e mi si sono rizzati i capelli. Per non dir altro, erano disomogenei in termini di difficoltà. Quali risultati “oggettivi” possono mai ottenersi su simili basi?
Quanto alle statistiche internazionali mi limito a un esempio. Nei commenti si da per scontato che la scuola finlandese sia una delle migliori del mondo. Ma non è tutto oro quel che riluce. Studi recenti hanno messo in discussione quella immagine. Per quanto riguarda la matematica, è chiaro che la Finlandia primeggia in quanto i test Pisa stimano i successi nella matematica pratica ma – come è stato ammesso da autorevoli personalità finlandesi – se valutassero la capacità di intendere i concetti matematici, la Finlandia finirebbe agli ultimi posti. Si insegna una matematica definita da uno specialista come un “soggetto educativo” privo di relazioni con la matematica propriamente detta. Il simbolo “=” è stato soppresso e sostituito con V, che sta per Vastaus, ovvero “risposta”. Ma identificare “=” con “risposta” significa che uno studente non sa più cosa sia un’equazione. Un recente articolo spiega che, se entrate in una macelleria finlandese e chiedete ¾ di chilo di carne, non sarete capiti: dovete dire 750 grammi, perché i numeri sono insegnati soltanto in forma intera o decimale, in quanto digitabile sul calcolatore. Ciò vuol dire che non si sa più cosa sia una frazione e questo è un autentico disastro concettuale.
D’altra parte, nei sondaggi Pisa trionfano anche paesi come la Cina, la Corea o Singapore le cui scuole sono diversissime: ipertradizionaliste, improntate a disciplina, rigore e amore per la conoscenza, in cui l’ossessione per i test è sconosciuta e i bambini usano i pallottolieri, altro che “nativi digitali”. Come mai? Per il semplice motivo che la capacità di risolvere i test “pratici” Ocse-Pisa è un sottoprodotto secondario di una preparazione completa sul piano concettuale e in cui il calcolo mentale la fa da padrone. Uno studente cinese sa risolvere quei problemini ma sa e sa fare anche molto di più. È forse un caso che ormai più della metà dei dottori di ricerca negli USA siano di provenienza asiatica?
Negli ultimi anni in Italia è stata fatta un’iniezione di rigore in un senso più “cinese” che “finlandese”: questa è l’unica spiegazione possibile del piccolo miglioramento che i sondaggi attestano. Ma è indubbio che se, dopo qualche decennio di disastri realizzati dal pedagogismo costruttivista “progressista” – e che non a caso si è stracciato le vesti per le politiche seguite nell’ultimo biennio – esso dovesse cercare una rivincita ripresentandosi sulla scena nelle vesti della tecnocrazia aziendalista, cascheremmo dalla padella nella brace. Difatti, si finirebbe per non parlare più nemmeno alla lontana di conoscenza. L’obbiettivo sarebbe di trasformare la scuola in una macchina volta al successo nei test e in cui l’unica attività sarebbe addestrarsi a superarli. È il miserando “teaching to the test” che ormai è messo in discussione nei paesi in cui è stato implementato. Ma, si sa, noi in Italia raccattiamo le “innovazioni” quando ormai altrove iniziano ad essere accantonate come cibi guasti.
(Il Giornale, 11 dicembre 2010)

mercoledì 8 dicembre 2010

Barenboim, la Walkiria e la Palestina


 Daniel Barenboim è uno dei più grandi musicisti viventi. Le sue interpretazioni come direttore d’orchestra sono contrassegnate da quel particolare stile romantico di impronta furtwängleriana capace di scavare in profondità estenuante gli adagi e di imprimere un ritmo dionisiaco agli allegri. In un recente intervento sulla musica di Wagner – pubblicato dal Corriere della Sera col titolo “Wagner, Israele e i palestinesi” – egli ha mostrato anche di essere un musicista profondamente colto. La sua analisi della musica di Wagner mette in luce gli strati più profondi della tecnica espressiva del musicista – spesso complessa, mai “complicata”, osserva con una formula penetrante – e permette di comprenderne la straordinaria grandezza.
Barenboim inquadra storicamente in modo convincente la figura di Wagner e prende di petto la questione spinosa del suo antisemitismo che lo spinse persino a scrivere un odioso libello dal titolo «Il giudaismo nella musica». Non ho simpatia per la tendenza (oltretutto controproducente) a cercare l’antisemitismo ovunque, anche dove non c’è o è presente in dosi minime. Ma nel caso di Wagner è difficile trovare attenuanti, né Barenboim lo fa. Ricorda un commento di Wagner alla moglie Cosima in cui affermava che, se avesse dovuto riscrivere degli ebrei, avrebbe detto di non avere nulla contro di loro: «è solo che ci sono piombati addosso, tra noi tedeschi, troppo in fretta e non eravamo ancora pronti ad assorbirli»; ma non minimizza le «posizioni antisemitiche estreme» di Wagner, che definì la razza ebraica nemica di ciò che vi è di più nobile nella razza umana. Appare convincente nel sostenere che la musica di Wagner non è in alcun modo un veicolo del suo antisemitismo e che l’appropriazione di Wagner da parte dei nazisti fu un abuso, come denunciò anche il compositore ebreo Ernest Bloch.
Ciò conduce a una questione cruciale. Ha senso proscrivere assieme alle manifestazioni di antisemitismo di una personalità di genio la sua opera in quanto intrinsecamente indistinguibile da tali manifestazioni? Dobbiamo rinunciare alla filosofia di Kant o ai romanzi di Thomas Mann? Dobbiamo liquidare assieme a “La Questione ebraica” di Marx anche Il Capitale? Occorre proscrivere assieme all’antisemitismo di Voltaire anche la sua opera storiografica?
Non voler vedere la complessità e le sfumature della realtà conduce alle condanne totali da “tricoteuses” giacobine. Quindi, se il male e il bene si intersecano e ciò favorisce il riproporsi di pregiudizi razzisti, possiamo seguire Barenboim quando invita gli ebrei israeliani a comprendere i palestinesi e le loro rivendicazioni. Ma qui ci fermiamo, perché il suo invito alla comprensione reciproca non si attiene all’equilibrio richiesto.
Barenboim parla dell’antisemitismo che ha afflitto l’esistenza degli ebrei per secoli. Ma dimentica che l’intellettuale americano-palestinese Edward Said, suo grande amico e collaboratore, sosteneva che gli ebrei non avevano alcun diritto a considerarsi vittime dell’antisemitismo, ma anzi che erano la quintessenza dell’antisemitismo. Oggi il messaggio di Said si ripropone nelle parole di Mahmoud Zahar, leader di Hamas, secondo cui gli ebrei non sono mai stati vittime: «sono stati espulsi per secoli dai paesi europei per la loro implicazione nell’assassinio di imperatori e dirigenti e per la loro tendenza a seminare rancore e discordia nel mondo»; anzi, sono «i primi antisemiti». Ma le rampogne di Barenboim si rivolgono a una parte sola. Quando egli rammenta agli israeliani di aver occupato una terra non vuota, non dice che quella terra fu per secoli l’oggetto del desiderio di generazioni di ebrei. Un artista come lui, il poeta medioevale Yehuda Ha-Levi volle finire i suoi giorni a Gerusalemme e fu trafitto dalla lancia di un saraceno davanti al Muro del pianto. Che dire allora di chi, come il vice ministro per l’informazione del “moderato” Abu Mazen, sostiene che il Muro del pianto è solo il sostegno del terrapieno delle moschee ed è proprietà islamica? La negazione di ogni rapporto tra l’ebraismo e la Palestina può creare comprensione? Cosa di buono può nascere dalla pretesa di azzerare la storia? E dalla richiesta ad una parte soltanto di azzerare la storia?
Sì, questa vicenda rafforza la convinzione che l’animo umano ha facce molteplici e contraddittorie che la mentalità della “tricoteuse” giacobina non lascia comprendere. Per questo, siamo ansiosi di ascoltare l’interpretazione della Walkiria di Barenboim, certi che sarà un grande dono, certi che, anche se l’artista non trasferisce nel contesto della questione israelo-palestinese la stessa limpidezza di giudizio di cui da prova altrove, ciò non interferirà né oggettivamente né soggettivamente con la qualità della sua arte.
(Il Foglio, 7 dicembre 2010 - questa versione è quella integrale non ridotta)

mercoledì 1 dicembre 2010

Là dove c’era l’università ora c’è un ufficio studi parastatale



 Può avere implicazioni molto rilevanti la determinazione dell'Autorità di vigilanza sui contratti e lavori pubblici che consente alle università di partecipare alle gare per l'affidamento dei progetti pubblici. Una nuova prateria si stende di fronte agli atenei. Ma questa prospettiva innesca polemiche virulente e minacce di ricorrere in sede europea. Il presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri, Gianni Rolando, protesta: «È inaccettabile che un settore composto da migliaia di professionisti, debba fare i conti con la concorrenza delle università che invece dovrebbero accentrare tutti i loro sforzi verso la formazione». È indubbio che, in una situazione di crisi, la concorrenza dell'università mette in grave difficoltà coloro che tradizionalmente concorrono alle gare pubbliche, come ingegneri, architetti, geologi. È una concorrenza pesante perché le università possono svolgere queste attività nelle loro sedi, senza spendere un centesimo per affitti, energia e l'accesso alle banche dati, a differenza dei privati. D'altra parte, questa porta spalancata alle università rappresenta una sorta di bocchetta di ossigeno in una situazione di drammatica carenza di fondi: allo stato dei fatti, se non vi sarà rifinanziamento da parte del governo, il taglio dei fondi di dotazione ordinaria per il 2011 equivale a chiudere tutti gli atenei, anche i più virtuosi, e quindi è da attendersi che ci si getterà a capofitto nella nuova opportunità.
Questa vicenda è molto significativa perché permette di capire che sono nel giusto coloro che denunciano la tendenza a trasformare l'università in qualcosa di diverso rispetto alla funzione istituzionale che essa ha in qualsiasi parte del mondo: dal ruolo di alta formazione a quello di ufficio studi e di consulenza per le aziende sul territorio. Se si tagliano eccessivamente i fondi e si costringono le università a cercare quattrini in attività esterne, in particolare di consulenza, l'attenzione per la formazione si attenua e si verifica quel che denuncia Rolando: una «distrazione dell'università dalla sua missione». Non si capisce – egli prosegue «perché un docente, pagato per svolgere attività didattica, dovrebbe distogliere la sua attenzione per dedicarsi alle gare». Invece si capisce benissimo, e il perché lo ha spiegato il direttore generale della Luiss, l'università di Confindustria, Pier Luigi Celli, dicendo che bisogna «togliere la governance totale dell'università all'accademia. E aprirla alle imprese, alle istituzioni, alla società civile».
Si chiede qualcosa che non esiste neppure nelle università statunitensi private, dove i docenti conservano un ruolo determinante nella governance. E quantomeno là i privati pagano. Qui, invece, secondo il tipico modello dell'industria assistita italiana, si vuole la botte piena e la moglie ubriaca: un'università che fa lavoro di consulenza a bassi costi per le aziende le quali, oltre a spendere meno, non contribuiscono con un centesimo e, per giunta, si accaparrano il controllo totale. Insomma, è l'università come ufficio studi e consulenze confindustriale. Non è la via per costruire istituzioni prestigiose: le più grandi università del mondo non sono certamente famose perché fanno consulenza sul territorio. Ma di che stupirsi? Per capire cosa produca questo modello basta cercare la posizione della Luiss nelle classifiche internazionali delle università (in quelle internazionali, non in quelle nazionali addomesticate). È semplicemente introvabile.
Questa è la filosofia del capitalismo italiano: spremere la mucca statale per ottenere il massimo vantaggio possibile in tempi minimi, a costo di farla schiattare.

(Tempi, 1 dicembre 2010)