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mercoledì 26 gennaio 2011

Riflessioni alla vigilia della Giornata della Memoria


La vigilia della Giornata della Memoria 2011 ci mette di fronte alla constatazione paradossale che il modo migliore per spiegare il passato – lo sterminio degli ebrei europei di settant’anni fa – è prendere atto delle minacce del presente. Qualsiasi cosa si pensi delle politiche dello stato di Israele, non si può non constatare che nessun altro paese al mondo – nemmeno paesi in cui avvengono fatti ben più gravi – è soggetto alla minaccia di distruzione. E si tratta di una minaccia molto concreta: migliaia e migliaia di missili circondano ormai Israele e ogni parte del suo esiguo territorio può essere colpita. Il paese si attrezza a vivere sottoterra: si scavano rifugi ovunque, dove poter vivere per mesi, ed è in costruzione il più grande ospedale sotterraneo del mondo. Questo assedio è diretto da un paese, l’Iran, che sta per dotarsi dell’arma atomica, e il cui presidente Ahmadinejad non fa passare giorno senza minacciare di estirpare Israele dalla faccia della terra; e che oltretutto è il campione del negazionismo.
Questa è la realtà che bisognerebbe illustrare nel Giorno della Memoria: spiegare come si prepari una strage di massa, un genocidio, come quello del passato. Bisognerebbe spiegare come il silenzio e la viltà possano facilitarne la realizzazione; spiegare che l’ONU invece di decretare solennemente che nessuno stato da essa riconosciuto può essere minacciato di annientamento, che la comunità internazionale non lo consentirà, tace e si guarda dal condannare le folli dichiarazioni del dittatore iraniano. Bisognerebbe raccontare che un gruppo di personalità europee, tra cui due ex-presidenti del consiglio italiani, Romano Prodi e Giuliano Amato, hanno chiesto sanzioni contro Israele, senza dire una parola sulle concrete minacce di distruzione che pesano su di esso e tantomeno condannare Ahmadinejad e il suo negazionismo del passato e del presente.
Invece di parlare di questa realtà documentabile, nella Giornata della Memoria si fanno celebrazioni spesso ritualistiche e di scarsa efficacia, visto che tutti gli indicatori attestano la crescita dell’antisemitismo. Spesso vengono proposte lezioni di storia scarsamente comprensibili per le scolaresche chiamate ad ascoltarle. Molti degli oratori non hanno alcuna idea di quale sia la consapevolezza storica degli studenti della disastrata scuola di oggi. Magari se ne escono dicendo «Dopo l’8 settembre…», senza rendersi conto che, se quella non è la data di compleanno di un amico o di un parente, per la maggior parte dei ragazzi non vuol dire nulla. Troppi non si rendono conto che termini come “la Seconda Guerra Mondiale” non dicono quasi niente ai più. In alcuni casi, le scolaresche vengono validamente preparate dai loro professori. Ma in alcuni casi la preparazione serve a inculcare la menzogna che gli ebrei stanno infliggendo ai palestinesi quel hanno sofferto loro nel passato. C’è chi coglie l’occasione per tenere comizi politici. L’anno scorso partecipai a una manifestazione in cui alcuni oratori colsero l’occasione per condannare con veemenza l’Italia come un paese da sempre razzista, fascista, infame come nessun altro al mondo, il che serviva a “spiegare” perché oggi il paese sia berlusconiano… Uscendo di là non solo mi ripromisi di non partecipare più a simili manifestazioni, ma mi chiesi quali conseguenze potevano avere quelle parole irresponsabili. Cosa passerà per la mente di un quindicenne che si sente dire che il suo paese è la sentina della terra, che i suoi genitori, nonni, parenti e amici sono stati i peggiori criminali razzisti della terra, tutti, senza esclusione alcuna? E quali conseguenze psicologiche può avere l’associazione mentale dello sterminio degli ebrei con una simile autocondanna senza appello?
Per questo, per i cattivi usi che se ne fa, per le ipocrisie sul presente e sulle reali minacce che sovrastano gli ebrei vivi, per la cattiva abitudine di fare della Giornata della Memoria una kermesse cui ogni istituzione vuol partecipare, magari con buone intenzioni, ma senza essere consapevole della dinamite che sta manipolando, sarebbe necessaria fare una grandissima attenzione al modo con cui si promuovono le iniziative e selezionarle con gran cura.
Un tema connesso e di cui si discute molto in questi giorni è la proposta di rendere la negazione della Shoah (ovvero dello sterminio nazista degli ebrei) un reato punibile per legge. A mio avviso, questa proposta è animata dalle migliori intenzioni ma è sbagliata. Essa rischia di aprire la strada a una coda di richieste analoghe e, in fin dei conti, non prive di fondamento. Perché non dovremmo considerare un reato la negazione dell’esistenza del Gulag? Eppure quante volte (anche in rispettabili convegni universitari) si sente profferire la tesi oscena che il Gulag era, alla fin fine, nient’altro che un’istituzione lavorativa? O persino cavillare sul numero di morti nel Gulag, proprio come fanno i negazionisti della Shoah? E perché non dovrebbe essere sanzionabile la negazione dello sterminio degli armeni, o la negazione del genocidio del Rwanda? Non è parimenti vergognoso negare l’esistenza di campi di lavoro forzato in Cina e gli stermini di tante minoranze (in particolare dei cristiani) in tante parti del mondo? È vergognoso come girare la testa dall’altra parte di fronte alla minaccia genocida che pende su Israele. Inoltre, l’immensa gravità della Shoah non costituisce una ragione per considerare la negazione di altri delitti come un fatto irrilevante.
È peraltro evidente il rischio di introdurre precedenti capaci di ledere la libertà di opinione. La storia non può diventare materia da dirimere nei tribunali, senza contare l’effetto controproducente che può avere il continuo dibattimento pubblico che si avrebbe delle tesi negazioniste, offrendo loro tribune insperate. Piuttosto, il soggetto che dovrebbe assumere un ruolo fondamentale in questo contesto è il mondo culturale, universitario e, più in generale, dell’istruzione. Cosa si dovrebbe pensare di un docente che insegni che Napoleone non è mai esistito o che il teorema di Pitagora è falso? In questo periodo, in cui si fa un gran parlare di valutazione, un docente del genere dovrebbe essere sanzionato nella carriera. Qui, l’incompetenza si somma all’atto moralmente abietto di negare un crimine contro l’umanità. Come può un’istituzione educativa abdicare al suo compito, e girare la testa dall’altra parte di fronte a una violazione di criteri minimi di serietà scientifica commessa con finalità indegne? Le istituzioni educative dovrebbero essere richiamate – eventualmente con la formulazione di codici deontologici – a comportamenti consoni alla loro funzione. Il resto appartiene al dibattito pubblico, in cui la verità ha la forza di affermarsi da sola, a condizione che non ne venga intralciata la diffusione con comportamenti omissivi o addirittura complici della menzogna.
(Il Giornale, 25 gennaio 2011)

La questione di Dio oggi: il Dio della fede e il Dio dei filosofi

Sul discorso di Ratisbona

Intervento a “I grandi discorsi di Benedetto XVI”
Palazzo Apostolico Lateranense
20 gennaio 2011

Posto che, indubbiamente, il tema del discorso di Benedetto XVI all’Università di Ratisbona aveva come centro il tema della convivenza - o direi piuttosto della necessaria convivenza e coerenza - tra religione e ragione nella società contemporanea, a me sembra che la tesi che esso suggerisce sia declinata in due sensi strettamente legati tra di loro.
Il primo è che la diffusione della fede mediante la violenza, ovvero in forme coercitive, sia contro la ragione e in contrasto con la natura di Dio e dell’anima. O potremmo dire, per sottolineare la coerenza di cui si diceva, contro la natura di Dio e dell’anima in quanto contro la ragione e viceversa.
Il secondo è che l’uso della ragione non è antitetico alla fede religiosa, non la contraddice o la confuta, in quanto per avere fede religiosa non bisogna uscire dal pensiero razionale; e, viceversa, l’adesione dal pensiero razionale non preclude la fede religiosa.
Ne derivano conseguenze teoriche e pratiche che sono strettamente interconnesse.
Il discorso di Ratisbona ha al centro una una serie di considerazioni generali sul problema della trascendenza divina e sui rischi connessi all’estremizzazione di questa trascendenza che pure è una caratteristica fondante della religiosità monoteista classica. Non c’è dubbio che - come ha osservato il grande studioso della Kabbalah ebraica Gershom Scholem - l’ingresso delle religioni monoteiste ha significato una rottura dello scenario monista dell’età mitica in cui la natura era il teatro della relazione tra l’uomo e gli dèi, creando un abisso tra Dio, Essere infinito e trascendente e l’Uomo, creatura finita. È altresì indubbio che, in varie forme, il pensiero religioso ha tentato di colmare questo abisso, non soltanto con la voce della preghiera, ma anche cercando di ricostruire il legame tra il pensiero umano e la volontà divina, non accontentandosi di uno scenario dominato da una volontà divina assoluta e incomprensibile dalla ragione umana, di cui l’uomo potrebbe soltanto contemplare passivamente il creato. Ove prevalesse una simile visione - e cioè la separazione venisse dichiarata assoluta, l’abisso insuperabile in qualsiasi modo e la volontà divina assolutamente arbitraria e priva di qualsiasi contatto con la razionalità umana - ne deriverebbero tre conseguenze:
1)  La prima, che ricordo con le parole stesse del discorso di Ratisbona, è che «Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria». Sarebbe un «Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene». Persino la morale diverrebbe un mistero e di fatto ne verrebbe distrutto qualsiasi valore normativo e pratico per l’uomo.
2)  La seconda conseguenza riguarda i testi rivelati. Essi non possono essere concepiti come oggetto di studio esegetico, di comprensione umana, in quanto la ragione umana non ha nulla da dire circa la parola divina. I testi sacri sono scritti direttamente con il “dito di Dio”, sono una lettera testuale “conferita” piuttosto che un messaggio “rivelato” da Dio agli uomini, e che essi hanno scritto ed esposto con parole umane e pertanto contenenti una “mediazione”. Il testo sacro è “la” parola divina. Esso va accolto nella sua assoluta letteralità, senza alcuna possibilità di interpretazione, ovvero senza la mediazione della ragione umana. L’esegesi in questa ottica semplicemente non ha luogo di esistere, è impensabile, se non addirittura dissacrante. Il testo sacro si legge e si apprende, non si commenta e non si interpreta.
3)  La terza conseguenza è che una scienza come conoscenza non è possibile. Come potremmo difatti pretendere di poter ricavare delle leggi naturali - così come le ha concepite la scienza moderna, ovvero delle leggi che governano l’ordine del cosmo - se Dio avesse riservato a sé l’arbitrio totale di mutare questo ordine a suo piacimento, in qualsiasi modo e in qualsiasi momento? La scienza moderna è basata sulla convinzione nella permanenza dell’ordine naturale e su quella che un grande matematico, Henri Poincaré, ha chiamato la convinzione nella “permanenza” delle leggi del pensiero. Se queste convinzioni non avessero alcun fondamento una scienza sarebbe semplicemente impossibile. Sarebbe possibile soltanto un sapere pratico, contingente, poggiato sulla sabbia e che potrebbe crollare in qualsiasi momento. La scienza sarebbe interessante soltanto in quanto portatrice di conseguenze utili, di realizzazioni tecniche.
È ben noto come il discorso di Ratisbona abbia sollevato un’ondata di violentissime polemiche. Esso è stato visto come una critica della religione musulmana in quanto dominata da una visione di trascendentalismo assoluto del tipo sopra descritto, con tutte le conseguenze appena illustrate. In realtà, la critica era molto più ampia e riguardava anche tendenze sviluppatesi nel mondo cristiano e tendenti a rompere il rapporto con lo spirito greco, tendenze che portavano all’idea che di Dio possiamo conoscere soltanto la “voluntas ordinata” e non possiamo esplorare l’imperscrutabile ragione. Pertanto, il discorso di Ratisbona va visto piuttosto come un’esortazione a valorizzare al massimo quella sintesi tra spirito greco e lo spirito delle religioni monoteistiche, che è apparso e appare soprattutto oggi offuscato, sia per responsabilità dell’integralismo religioso, sia del positivismo.
Se la religione classica tutto sommato propendeva per una visione contemplativa - è indubbio che l’ebraismo biblico ha un atteggiamento tutto sommato passivo nei confronti del dispiegarsi della volontà divina di cui si limita ad ammirare le straordinarie creazioni - l’ebraismo medioevale, soprattutto con il suo massimo rappresentante, Mosé Maimonide, mostra fino a qual punto è giunta la sintesi tra pensiero greco e religiosità monoteista. È giunta al punto che Maimonide afferma che la chiave del racconto della Genesi - il cosiddetto Ma’aseh Bereshit - è stata persa dalla tradizione, ma che questa chiave ci viene restituita dalla Fisica di Aristotele. Logica e Fisica - afferma con estrema audacia Maimonide - permettono di decrittare la Bibbia e di scoprire che la Genesi e Aristotele dicono la stessa cosa. Allo stesso modo, il Racconto del Carro - Ma’aseh Merkabà - ovvero la visione mistica del carro divino da parte del profeta Ezechiele, è in perfetta armonia con la Metafisica di Aristotele. Questo razionalismo è talmente forte che, anche nella reazione antiaristotelica della mistica kabbalistica esso non viene abbandonato e diventa una chiave essenziale dell’esegesi biblica. Anzi, la rinuncia all’esegesi viene condannata. «Coloro che si occupano del senso ovvio della Torah dormono di un sonno profondo», ammonisce Moshe Hayim Luzzatto e lo Zohar definisce questo senso ovvio la mera «paglia» della Torah.
Del resto è noto come Maimonide, San Tommaso d’Aquino e Averroé costituiscano la triade razionalista della teologia delle tre grandi religioni monoteiste, ispirata a uno stretto rapporto con il razionalismo greco. E proprio ad Averroé dobbiamo un’affermazione relativa al nostro terzo punto, e cioè che «niente prova la saggezza divina meglio dell’ordine del cosmo. L’ordine del cosmo può essere provato dalla ragione. Negare la causalità è negare la saggezza divina […] e colui che nega la causalità nega e disconosce la scienza e la conoscenza». Sono parole scritte in risposta all’Autodistruzione dei filosofi di Al Ghazali che, al contrario, sosteneva che «il cosmo è volontario. È creazione permanente di Dio e non obbedisce ad alcuna norma. […] la natura è al servizio dell’Onnipotente: essa non agisce in modo autonomo, ma è utilizzata al servizio del suo creatore. […] le scienze matematiche sono alla base delle altre scienze, dai cui vizi lo studioso rischia di rimanere contagiato. Sono pochi coloro che se ne occupano senza sottrarsi al pericolo di perdere la fede».
È innegabile che il mondo islamico non abbia scelto Averroé contro Ghazali, bensì abbia scelto Ghazali contro Averroé, la cui figura non è mai stata rivalutata. È proprio nella condanna mai revocata di Averroé che risiede la rottura nella storia dell’islam con la fondazione della scienza moderna, la sua autoesclusione dagli sviluppi della modernità, cui pure l’islam aveva contribuito in modo tanto decisivo proprio con la trasmissione della cultura greca. Questo è un fatto indiscutibile e ben noto agli storici, e non può essere fonte di offesa rilevarlo. Al contrario, rilevarlo, anche indicando in modo pacifico e amichevole i rischi che comportano determinate scelte, è un contributo alla crescita di tutti, nell’ottica di una concezione del dialogo che mi pare caratteristica del pensiero di Benedetto XVI, ovvero tanto aperto quanto non sincretistico. È una concezione che richiama una bella frase del filosofo Emmanuel Levinas: «Non si tratta di pensare insieme, io e l’altro, ma di essere in faccia».
La chiarezza e l’onestà intellettuale induce altresì a non nascondere che la crescita della rivoluzione scientifica è stata contrassegnata da grandi conflitti con le autorità religiose, che spesso ebbero risvolti anche drammatici. Non vi fu soltanto il caso Galileo, ma anche le minacce che indussero Descartes a non pubblicare Le Monde, la persecuzione subita in ambito protestante da Copernico, le difficoltà che indussero Newton a nascondere il suo monoteismo antitrinitario, la condanna di Spinoza da parte della comunità ebraica di Amsterdam, e molte altre analoghe vicende. Tuttavia, non è certamente sminuirne la gravità affermare che quasi tutte queste vicende sono state drammatiche in quanto hanno rappresentato una manifestazione di intolleranza, ma non hanno mai messo in discussione l’idea della coerenza tra fede e ragione, né hanno arrestato in cammino della scienza e della filosofia. Si confrontavano tra di loro modi differenti di vedere il rapporto tra religione e ragione, anche diverse metodolologie scientifiche o di uso della ragione. Non fu deplorevole che a Galileo fosse stato opposto un diverso punto di vista, quanto che la contesa fosse stata risolta con la forza. D’altra parte, come ha osservato lo storico della scienza, Amos Funkenstein, tutti i grandi protagonisti della rivoluzione scientifica, da Galileo a Descartes, da Keplero a Newton, erano dei “teologi laici”, per cui le questioni in gioco gravitavano sempre attorno al rapporto tra scienza e teologia.
Che la rivoluzione scientifica e gli sviluppi filosofici ad essa connessi siano stati un grande e ulteriore passo sulla via della sintesi tra pensiero religioso monoteista e pensiero greco si vede dal fatto che il primo ha iniettato nel secondo l’idea dell’infinito che era rimasta preclusa o quantomeno confinata al pensiero greco, il quale era molto diffidente nei suoi confronti. Questo è stato visto molto bene da un grande filosofo contemporaneo, Edmund Husserl, che definisce la grande impresa della conoscenza europea che prende forma dal Cinquecento, come una scienza onnicomprensiva, una «scienza della totalità dell’essere» che «persegue nientemeno che lo scopo di riunire scientificamente, nell’unità di un sistema teoretico tutte le questioni ragionevoli attraverso una metodica apoditticamente evidente e attraverso un progresso infinito ma razionale di ricerca». Husserl aggiunge significativamente che tra i tanti problemi che si pone questa filosofia razionale v’è quello di Dio «che contiene evidentemente il problema della ragione “assoluta” in quanto fonte teleologica di qualsiasi ragione nel mondo, del “senso” del mondo.». Così come sono problemi razionali - egli aggiunge - «il problema dell’immortalità” e il «problema della libertà». E non è certamente un caso che sia stato Husserl a criticare con tanta forza analitica la “decapitazione” della ragione compiuta dal positivismo, la razionalità “ridotta” da esso proposta, con un linguaggio che contiene molte assonanze con quello di Ratisbona e di altri discorsi di Benedetto XVI. Non è un caso, anche perché pochi filosofi come lui hanno percepito il valore del concetto di ragione che si è espresso nella civiltà europea e pochi come lui hanno amaramente ammonito contro il rischio che ne venisse smarrito il senso, un rischio che oggi è di fronte a noi come un fatto reale.
Ma qui è necessario sviluppare alcune considerazioni sul terzo punto, quello che riguarda il rapporto tra ragione scientifica e religione. L’affermazione teologica più forte della coerenza tra religione e scienza sta nella tesi di Galileo che il mondo è matematico, anzi che il mondo è stato strutturato da Dio in forma matematica, per cui la scoperta della leggi, espresse in forma matematica, che governano la natura, comporrebbe l’armonia tra razionalità oggettiva posta da Dio a base della creazione e la nostra ragione soggettiva. Questa formula galileiana è affascinante ma ritengo che sia elusiva e anzi che da essa derivino molte delle difficoltà che hanno condotto all’attuale riduzione positivistica della ragione. Difatti, come dimostra lo stesso sviluppo storico della scienza, l’ipotesi che il mondo è matematico è soltanto un’ipotesi di un genere molto particolare, in quanto assolutamente inverificabile. Essa è in realtà un’ipotesi metafisica che per sorreggersi ha bisogno di verifiche continue, ma mai definitive: per dirla in modo semplice, essa può nutrirsi soltanto del suo successo, mai può aspirare a una verifica definitiva. Il corso degli eventi ha piuttosto dimostrato che in tanti ambiti essa appare smentita o quantomeno appare molto dubbia.
La conseguenza più pericolosa di tale ipotesi è di aver generato l’idea che non soltanto il mondo fisico, ma ogni aspetto del mondo sia matematico. Come si dice nel discorso di Ratisbona, è ormai comune ritenere che «soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità», per cui «ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio, e così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di avvicinarsi al canone della scientificità». Ma questo sviluppo è profondamente negativo non soltanto per la scienza, in quanto l’efficacia del matematismo nelle scienze umane è lungi dall’essere evidente. Esso è anche fonte di riduzione del razionalismo al riduzionismo positivistico e quindi è la fonte diretta della «limitazione autodecretata della ragione».  In realtà qui il matematismo è soltanto rappresentativo di una tendenza alla dittatura del riduzionismo. Quando si tende - come accade oggi - a cancellare ogni forma di conoscenza che non sia segnata dal prefisso “neuro” - e si parla di neuro-economia, di neuro-etica, di neuro-filosofia e persino di neuro-teologia - è facile intendere le conseguenze. Chi ingenuamente vede una conferma della religione nella pretesa scoperta di strutture neuronali che spiegherebbero l’emergere nel cervello del sentimento di trascendenza e quindi - come si dice - mostrerebbero “l’esistenza di Dio nel cervello”, non si avvede che mettere Dio alla mercé di una conformazione cerebrale - che esiste in alcuni individui e in altri no, che può degenerare nel processo evolutivo o essere soppressa con interventi umani - significa semplicemente distruggerlo.
Non ci difenderemo validamente dal relativismo se non affermando che la razionalità che si esprime nella soggettività umana è irriducibile ai canoni ristretti dell’oggettivismo scientifico di tipo fisico-matematico o dello scientismo riduzionista e materialista. “Razionalità ampia” significa ricercare un’idea dell’oggettività più ampia di quella suggerita da quei canoni, entro i quali non c’è spazio per l’idea di Dio.

Queste sono alcune delle riflessioni che mi ha suggerito la rilettura del discorso di Ratisbona.
                                                                                                                                                                                      Giorgio Israel

giovedì 20 gennaio 2011

L'ultima sulla guerra santa? È colpa di ebrei e cristiani

Il Grande imam della moschea di Al Azhar, Ahmed Al Tayyeb, dopo aver ammonito che l’appello del Papa Benedetto XVI in difesa dei cristiani poteva «creare malintesi», allo scopo di dissipare i medesimi e «ristabilire i ponti della fiducia» ha proposto al Papa di inviare un messaggio di pace ai musulmani. Una richiesta invero singolare – visto che l’attentato di Alessandria era diretto contro i cristiani – che il rappresentante delle vittime rivolga un messaggio di pace ai musulmani, come se essi fossero gli aggrediti. Se esiste ancora la logica il messaggio di pace doveva inviarlo l’imam Al Tayyeb. Non risulta che il Papa abbia aderito a questa richiesta. Ci ha pensato però qualcun altro al suo posto, e si tratta di una personalità cattolica del calibro di Vittorio Messori. In un articolo sul Corriere della Sera e in vari interventi sul suo nuovo giornale informatico, egli si è sbracciato in varie ricostruzioni storiche con il classico sistema di comporre notizie parzialmente vere in un quadro tendenzioso; il tutto allo scopo di spiegare che l’islam, dovunque è arrivato non è mai stato “cattivo”, non ha mai avuto un atteggiamento invadente, oppressivo o imperiale, ma è stato, per così dire, costretto alla conquista dalla dabbenaggine, dall’incapacità, dai conflitti interni e persino dai misfatti dei conquistati, in particolare dei cristiani. Quindi, siccome tutto è sempre andato nel migliore dei modi nel migliore dei mondi possibili, salvo qualche sbavatura marginale, Messori si è chiesto desolato: «Sino a tempi recenti la convivenza, cementata da tanti secoli, non è mai stata messa seriamente in discussione. Che è avvenuto, dunque, da qualche tempo?». E la risposta l’ha trovata in un battibaleno: la colpa è degli ebrei e del sionismo. Difatti, «tutti i governi di tutte le nazioni islamiche sono sotto lo tsunami che ha avuto come detonatore l'intrusione violenta del sionismo che è giunto a porre la sua capitale a Gerusalemme, città santa per i credenti, quasi alla pari della Mecca».
Si prova quasi vergogna a dover ricordare che Gerusalemme è la prima città santa per gli ebrei, e una delle prime due per i cristiani mentre nel Corano non è neppure menzionata. Ma questo pare non conti. La santità di Gerusalemme vale soltanto per i musulmani, non per gli ebrei e – si noti – neppure per i cristiani. Viene da ridere pensando al Messori che anni fa bacchettava Giovanni Paolo II, colpevole di chiedere troppe scuse a destra e a manca per le colpe storiche del cristianesimo, e che ora parla dell’occupazione islamica della Spagna medioevale come di una “liberazione”, rimprovera gli eccessi antimusulmani delle repubbliche marinare e cancella il diritto degli ebrei a considerare Gerusalemme città santa. Ma più che ridere nasce un sentimento di pena di fronte all’immagine di un signore che supplica il coccodrillo di mangiarlo per ultimo. E, oltretutto, lo fa mentre il coccodrillo gli sta mangiando un piede.
Forse Messori si illude che una via per sfangarla sia di offrire gli ebrei come agnello sacrificale in pasto all’islam – si badi, gli ebrei, non soltanto il sionismo, perché la questione di Gerusalemme è religiosa, a detta dello stesso Messori. È da augurarsi che il mondo cristiano, e cattolico in particolare, non lo segua su una simile via. Oltre ad essere una scelta moralmente riprovevole sarebbe anche inefficace. Con simili demonizzazioni si farà di certo molto male agli ebrei e si attizzerà un antisemitismo sempre più virulento, ma alla fine il conto verrà pagato da tutti e sarà un conto salato, come insegna la storia (quella autentica, non i fumetti di Messori).
(Tempi, 20 gennaio 2011)

giovedì 13 gennaio 2011

Ecco l’immortalità in formato 3D, promessa neuroscientifica per gonzi


L’inventore e saggista americano Raymond Kurzweil è autore di innumerevoli predizioni sul futuro, tra cui quella che presto vinceremo la morte. Fautore di una religione prometeica, egli considera necessario spazzare via la religione tradizionale colpevole di razionalizzare la morte e di rallentare così il progresso. Una delle sue più recenti previsioni è che entro vent’anni sarà possibile fare una copia elettronica del contenuto della propria mente: ricordi, pensieri, processi mentali, tutto potrà essere copiato su qualcosa come un hard disk o un pendrive in modo da disporre di un back-up del proprio cervello continuamente aggiornabile.

Naturalmente tutto dipende da cosa s’intende per “contenuto” della mente e per “processo mentale”, ma queste sono finezze da perditempo. Tutti i maggiori biologi, da Gerald Edelman a Jean-Pierre Changeux, hanno escluso che il cervello possa essere assimilato a un calcolatore. L’idea che funzioni come un software operante su un sistema di dati è buona per un romanzo di fantascienza, ma non ha alcuna base. Ma tanto tra vent’anni chi se ne ricorda più? Per il momento l’annuncio fa scalpore.

In mezzo a un bombardamento di previsioni sulla prossima fine del libro si fa strada anche quella della prossima morte del cinema e della fotografia nell’arcaica versione bidimensionale. Si dice che il perfezionamento degli occhiali 3D porterà in tempi brevissimi alla loro diffusione di massa. I “fantascienziati” annunciano che tra breve non vivremo più nella stantìa realtà effettiva, bensì nella realtà virtuale. A noi individui arcaici, indegni di un backup del cervello, riesce difficile capire perché mai la diffusione della visione trimensionale debba indurre a una simile scelta. Sarebbe come dire che avendo acquisito la capacità di simulare la terza dimensione nelle rappresentazioni bidimensionali, getteremo nella spazzatura non solo tutta l’arte del passato, ma anche la natura. Ma vuoi mettere un tridimensionale ricostruito virtualmente rispetto al tridimensionale offerto gratuitamente dalla vita naturale?

È interessante notare che lo sguardo di questi grandi pensatori, le cui profezie ci assalgono da ogni lato con la discrezione di un’orda di mosconi impazziti, non riesce ad andare oltre la punta del naso su cui poggiano le loro lenti 3D. Non si chiedono come mai, quanto più si parla di immortalità a portata di mano, di medicina scientifica che cura da ogni male, tanto più pullulano gruppi che propugnano il ritorno alla natura incontaminata, all’alimentazione e alle cure naturali e la cosiddetta “razionalità” fatica tanto ad affermarsi. In linea generale, in un mondo che dovrebbe essere dominato dalla ragione scientifica e dalla tecnologia, dilagano le credenze irrazionali e anche la politica non si rassegna a piegarsi alle ricette scientifiche ma è dominata da pulsioni elementari fino alle forme più fanatiche. Anzi, diciamola tutta: la vera sfida che abbiamo di fronte è se il mondo dovrà piegarsi ai diktat della guerra santa e della sharia. Colpa della religione? Diciamo che è colpa del fondamentalismo, e che la malattia è aggravata dalla diffusione di un falso razionalismo, in realtà una forma di misticismo del progresso tecnoscientifico degno di una setta fanatica. Tra uno che vuole surgelare il proprio corpo e scaricare su un pendrive i propri pensieri perché è convinto che presto potrà essere resuscitato, un pazzoide che propugna il trasferimento della vita nella realtà virtuale con gli occhiali 3D sul naso e i talebani distruttori delle grandi statue di Buddha in Afghanistan vi sono più punti di contatto di quanto non appaia a prima vista.

(Il Foglio, 12 gennaio 2011)

venerdì 7 gennaio 2011

A proposito delle valutazioni "oggettive" basate sul giudizio di famiglie e studenti (di oggi)

Una vignetta di un anno fa dalla Francia.
Se l'ho già proposta me ne scuso. 
Purtroppo torna di attualità, visto che c'è chi fa orecchie da mercante.




  «Cosa sono questi voti?»
Il reclamo minaccioso è lo stesso. Cambia il destinatario....

Una piccola postilla: mi informano che su alcuni siti e giornali sono identificato come uno degli autori del progetto sperimentale di valutazione degli insegnanti e come uno di coloro che più "fedelmente" si occuperà di implementarlo e monitorarlo. La faccia di bronzo di certa gente, o piuttosto il loro fanatismo ideologico, non conosce limiti. Non basta esprimersi liberamente. Si deve essere catalogati per forza nell'esercito dei nemici o degli amici. È proprio il fatto che qualcuno possa pensare liberamente che per questa gente è un evento insopportabile e da cancellare.