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domenica 27 febbraio 2011

La svolta culturale di Cameron è già diventata politically correct

Nella precedente rubrica ho parlato del coraggioso attacco al multiculturalismo portato dal Primo Ministro britannico David Cameron e della sua promessa di promuovere un “liberalismo muscolare”. Allo stesso tempo, esprimevo il timore che fosse ormai troppo tardi per realizzare un simile intento e perplessità circa il fatto che fossero chiare le rigorose scelte politico-culturali da fare. Purtroppo, la conferma negativa è arrivata ancor prima di quanto si potesse temere.
Si annuncia una rivoluzione nel Regno Unito sul tema dei matrimoni gay. Non si tratta del riconoscimento di questo tipo di unioni, già in vigore sul modello di quanto accade in altri paesi europei. Si tratta di molto di più: il progetto di legge annunciato dal Ministro per le pari opportunità Lynne Featherston prevede che le coppie omosessuali possano sposarsi nei luoghi di culto – chiese cattoliche o anglicane, sinagoghe, moschee – e che le cerimonie possano essere officiate da sacerdoti e essere accompagnate da canti, letture di testi sacri, benedizioni. Il governo ha ceduto alle pressioni degli attivisti gay cui non basta il riconoscimento degli stessi diritti di chi si sposa con rito civile o religioso, ma vogliono potersi sposare anche nel secondo modo, finora escluso.
Lasciamo pure da parte ogni considerazione circa le implicazioni dell’abbandono della concezione del matrimonio basato su una coppia eterosessuale capace di procreare in modo naturale. Qui si sta facendo un passo in avanti gravido di conseguenze oltremodo pesanti. In primo luogo, siamo di fronte a un comportamento da stato etico che si intromette con gli scarponi chiodati nella vita delle comunità religiose, che suggerisce comportamenti e scelte in aperto conflitto con i fondamenti delle loro fedi che, in genere, non ammettono il matrimonio gay. Altro che liberalismo muscolare! Qui di muscolare c’è soltanto il totalitarismo del politicamente corretto. Il risultato di questo intervento sarà l’apertura di un conflitto con quei gruppi religiosi che compattamente non ne vorranno sapere, oppure di creare divisioni e spaccature interne tra religiosi “progressisti” e religiosi “conservatori”. Insomma, dopo tante lamentele sulle intromissioni clericali nella sfera pubblica, ecco un inedito esempio di intromissione dello stato nella sfera religiosa…
Ma questa scelta può avere una conseguenza molto più grave. Dopo che si sarà aperta la strada alla celebrazione religiosa di forme di matrimonio diverse da quella naturale, tra un uomo e una donna, chi potrà mai negare la facoltà di celebrare altre forme di matrimonio anche diverse da quelle gay, se non attentando al principio delle “pari opportunità”? È evidente di quali altre forme potrà trattarsi: in primo luogo, del matrimonio poligamico, già ampiamente praticato in molti paesi europei, ma non ancora in forma ufficiale. Se un’autorità religiosa, accettando il principio di matrimoni diversi da quello naturale, richiedesse di poter celebrare dei matrimoni poligamici e pretendesse la loro convalida civile, come farà l’ideologia politicamente corretta a dire di no senza contraddire sé stessa e il principio “sacro” delle pari opportunità? Perché mai dire di sì al matrimonio gay celebrato in chiesa e no a quello poligamico convalidato da un imam?
I lungimiranti personaggi che stanno promuovendo questa geniale iniziativa o non hanno pensato al disastroso precedente che verrà così stabilito, o ci hanno pensato e allora sono ancor più colpevoli. Comunque sia, il “liberalismo muscolare” si è già trasformato in una buffonata purtroppo tragica, come le tante che segnano l’avanzata di Eurabia.
(Tempi, 24 febbraio 2011)

sabato 26 febbraio 2011

BESTIARIO MATEMATICO n. 4bis



Nel Bestiario Matematico n. 4 avevo segnalato il malcostume di presentare la proprietà commutativa dell'addizione e della moltiplicazione come un metodo di verifica della correttezza dell'operazione eseguita.
Erano seguiti alcuni commenti increduli di lettori del blog. Qualcuno si era dichiarato irritato di queste mie censure. Un altro aveva lamentato che non indicassi i libri in cui vengono propinate queste baggianate.
Va bene, siccome continuo a imbattermi in questa che certi didatti della matematica, chiamerebbero (con terminologia che abolirei per decreto) "misconcezione", voglio indicare uno dei libri in cui viene proposta:
CODICE, Sussidiario delle Discipline, a cura della Redazione CETEM (per le primarie)
Si propone un esempio di addizione e a fianco si indica come fare la "prova" (ovvero la verifica dell'esattezza dell'operazione eseguita). La prova consiste nel calcolare la somma in ordine inverso degli addendi. Quindi sotto si enuncia la proprietà commutativa dell'addizione. Segue la proposta di una serie di addizioni da fare e a fianco la richiesta di fare la verifica, sommando in ordine inverso (si noti che se sono tre numeri si cambia soltanto l'ordine di due, e perché non tre o tutti?...).
Quindi, alla pagina seguente stessa identica storia per la moltiplicazione.
Quindi, la prova dell'esattezza del risultato è applicare la proprietà commutativa..... Si noti bene: non sono esercizi per verificare la proprietà commutativa (e poi che senso avrebbe??), ma in cui si applica la proprietà commutativa come metodo per verificare che il risultato dell'addizione è giusto...
In seguito si dice che la prova della divisione è la moltiplicazione e la prova della sottrazione è l'addizione; e questo è corretto. Allora moltiplicazione e divisione (somma e sottrazione) sono l'una l'inversa dell'altra in un senso soltanto?!...
È facile constatare quale enorme confusione mentale generi nei bambini tutto ciò. E difatti, l'ho verificato. Ma il guaio è che una confusione mentale trasmessa.
Confezionare simili ignobili pasticci può farlo soltanto chi non abbia la minima idea di che cosa sia la matematica.

sabato 19 febbraio 2011

Fallimento del multiculturalismo... ma...

Dunque, dopo Angela Merkel è il premier britannico David Cameron a dichiarare il fallimento dell’icona sacra del multiculturalismo. «Con la dottrina del multiculturalismo – ha affermato Cameron – abbiamo incoraggiato differenti culture a vivere separatamente. Abbiamo fallito nel garantire la visione di una società unica. Abbiamo tollerato che comunità segregate potessero agire contro i nostri principi». Attaccando frontalmente l’idea base del comunitarismo, cioè che si possano costituire gruppi chiusi e autoregolamentati, Cameron ha avvertito – con esplicito riferimento alle comunità musulmane e alla sharia – che ci sarà un deciso cambiamento di orientamento nel Regno Unito, basato su un «liberalismo muscolare», sull’obbligo di tutti di aderire ai suoi valori fondanti: uguaglianza dei sessi, democrazia politica, libertà. Ha anche ammonito l’Europa a «svegliarsi» e ad «aprire gli occhi su quello che sta succedendo nei nostri paesi».
Speriamo che non sia troppo tardi e che non sia vano chiudere le porte della stalla quando ormai vi è entrato (non uscito…) un numero ingestibile di comunitaristi decisi a restare tali.

Questa era l’occasione perfetta perché si facesse sentire l’islam moderato che si sente integrato nel paese, rispettoso delle sue leggi e che non si sogna di sostituirle con la sharia. Invece, nel silenzio degli estremisti, i “moderati” (come Mohammed Shafiq della Fondazione Ramadan, Fiyaz Mughal del gruppo Faith Matters e Inayat Bunglawala del gruppo Muslims4UK) non hanno trovato di meglio che rivolgere aspre critiche a Cameron, accusato di alimentare l’isterismo e la paranoia islamofobica. Si è addirittura parlato di una congiura dei governi europei di centro-destra volta a distruggere il multiculturalismo. Se questi moderati fossero davvero impegnati, come dicono, a difendere i valori della tolleranza e della libertà e a sradicare l’estremismo, avrebbero dovuto salutare il discorso di Cameron come altamente positivo, non considerandolo come rivolto a loro. Viceversa, hanno assunto un atteggiamento a dir poco opaco, difendendo ostinatamente il multiculturalismo senza rigettare esplicitamente l’idea che possano esistere zone grigie in cui la sharia subentri alle leggi.

Speriamo quindi che non sia tardi e che esistano le condizioni per un cambiamento di rotta. E che non sia tardi per svegliare un’Europa che in fatto di principi continua a esibire un’ipocrisia e una viltà sconcertanti: quell’Europa che, dovendo deplorare le persecuzioni dei cristiani nei paesi islamici, non ha avuto neppure il coraggio di usare la parola “cristiani”.

Ci si chiede soprattutto con quali strumenti culturali il governo britannico pensi di educare i giovani ai valori liberali “muscolari” di cui parla Cameron. Perché, per riuscirvi, occorre poter fare riferimento a una cultura che trasmetta con forza e nettezza quei valori. Ma per far questo occorrerebbe arrestare lo sfacelo della scuola inglese (come di tanti altri paesi europei). Una scuola che non ha al centro la letteratura e la storia del paese non trasmette nulla. Ma in Gran Bretagna, l’opera di distruzione, assieme ai multiculturalisti, l’hanno condotta anche quegli asini che hanno posto nel mirino gli assi portanti dell’identità culturale e hanno proposto di ridurre l’insegnamento a frammenti di lingua, matematica, scienza, tecnologia, tematiche ambientali e della comunicazione, con una spolverata di “scienza” della manipolazione dei blog, Facebook, Wikipedia e Twitter. Figuriamoci quale sistema di valori “muscolare” può fondarsi su simili frammenti e sull’ignoranza delle proprie radici storiche, culturali e persino geografiche.
(Tempi, 17 febbraio 2011)

giovedì 17 febbraio 2011

BESTIARIO MATEMATICO n. 10

Quinta elementare:
Domanda: «Trovate tutti i multipli di 7 compresi tra 80 e 120».
Alcuni alunni ragionano così: 
Il più piccolo numero al di sotto di 80 che è evidentemente un multiplo di 7 è 77. Quindi, se aggiungo 7 a 77, ho ancora un multiplo di 7: è 84. Poi c'è 91 e così aggiungendo 7, ottengo tutti i multipli di 7 richiesti: 84, 91, 98, ecc.
Commento dell'insegnante: «Bravi!»   ?
NO
«Avete sbagliato!! Il primo multiplo di 7 sopra 80 è 87 (SIC!)
Poi 94 ecc. ecc.»
Naturalmente nessuno di questi è multiplo di 7...
Un bell'insegnamento, non c'è che dire... E poi dicono che è tutta colpa delle medie inferiori...

mercoledì 16 febbraio 2011

Se non ora, quando?... Mai. Giù le mani da Primo Levi


Il libro di Primo Levi “Se non ora quando?” ha come protagonista una brigata di partigiani ebrei nella Russia invasa dai nazisti. Hanno preso le armi e marciano cantando un loro inno che dice: «Siamo le pecore del ghetto, Tosate per mille anni, rassegnate all’offesa. […] Abbiamo imparato a sparare e colpiamo diritto […] Siamo i figli di Davide e gli ostinati di Massada. Ognuno di noi porta in tasca la pietra che ha frantumato la fronte di Golia. Fratelli, via dall’Europa delle tombe…». E il ritornello recita la celebre frase del rabbino Hillel (II secolo): «Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando?».
Oggi ci si mobilita e si scende in piazza con questa parola d’ordine. Per difendere i figli di Davide, che hanno imparato a sparare e difendersi, ma sono asserragliati in una nuova Masada circondata da decine di migliaia di missili, minacciata di distruzione da un dittatore esaltato, Israele insomma? E questo mentre l’Europa delle tombe vede la rinascita di un nuovo antisemitismo? Niente di tutto ciò, ci mancherebbe altro! Si scende in piazza per l’onore delle donne, per difendere la loro dignità. Allora, si tratterà di certo delle migliaia e migliaia di donne tenute in schiavitù, infibulate, lapidate se adultere, sgozzate se si sposano o solo s’innamorano di un “infedele”, picchiate a volontà dal marito-padrone? Si scende in piazza per denunciare l’abominio di duecentomila persone che vivono in regime di poligamia nella regione parigina e chissà quante già da noi? Niente di tutto ciò. Si scende in piazza per cacciare Berlusconi…
Occorrerebbe soltanto sorridere per l’impietoso parallelismo tra i partigiani di Primo Levi e i partigiani antiberlusconiani. Sarebbe da voltarsi dall’altra parte disgustati per l’immensa ipocrisia di tacere dei veri delitti che vengono perpetrati quotidianamente sulle donne e indignarsi per dei vizi privati sbirciati dal buco della serratura. Ma è intollerabile il continuo abuso del riferimento allo sterminio degli ebrei e ai suoi simboli: dagli insegnanti che sfilano con la stella gialla contro la riforma Gelmini fino adesso al “Se non ora quando?”. Trovatevi altri simboli, per cortesia, se non altro per non banalizzare la Shoah, tirandola fuori a sproposito. Fatelo almeno per motivi di opportunità: se non ora quando?
Dicono che Berlusconi abbia fatto un riferimento improprio evocando i metodi dei servizi segreti nella Germania Est. Il comunismo non esiste più – dicono – e la Stasi era agli ordini del potere, mentre oggi al potere c’è lui, Berlusconi. È indubbio. Ma, come ha notato Piero Ostellino nella manifestazione promossa da Giuliano Ferrara al Teatro del Verme di Milano, il comunismo non c’è più, ci sono i comunisti. E questo è altrettanto indubbio. Nella detta manifestazione un riferimento ricorrente è stato all’intrusione nella “vita degli altri”. Non so quanti siano consapevoli del fatto che La vita degli altri è il titolo di uno splendido film che descrive l’orrore del regime poliziesco della Germania comunista, basato sullo spionaggio della “vita degli altri”. Non molti credo, perché a forza di chiedere, ho constatato che pochi l’hanno visto, certamente molti di meno di coloro che hanno visto Il caimano. E parecchi, non appena vengono informati dell’argomento del film, evitano di vederlo: il solito film anticomunista… A distanza di più di trent’anni è la stessa reazione con cui fu accolto Arcipelago Gulag di Solgenitzin e il dissidente Amalrik fu definito su L’Unità un «fanatico dell’antisovietismo». Anche il film Il concerto, che pure è stato pluripremiato, è ignorato dall’intellettualità progressista. A proposito del film Il falsario, che narra una storia simile a quella del romanzo di Levi, si legge in una recensione in rete: «Non è forse ora che il cinema tedesco torni a guardare avanti liberandosi di quello che sta ormai diventando un senso di colpa che le nuove generazioni non possono addossarsi per l'eternità. È come se il mondo del cinema sentisse di non aver ancora battuto sul proprio petto mea culpa abbastanza convincente. Ora si corre il rischio della saturazione che può ottenere un esito uguale e opposto a quello della rimozione». Preoccupazione condivisibile. Ma se la letteratura e la filmografia del nazifascismo corre il rischio di creare un senso di saturazione, non altrettanto può dirsi di quella ancor molto esile sul comunismo. Eppure anche questo poco basta a saturare gli intellettuali antropologicamente superiori!
Perciò, dalli ad abusare dei riferimenti alla Shoah, tanto l’effetto di saturazione lo pagheranno quelli della nuova Masada e facciamola finita con l’anticomunismo. Lo ha ribadito Ezio Mauro, proclamando l’inaccettabilità dell’equiparazione tra antifascismo e anticomunismo: l’anticomunismo mai. Occorrerebbe regalargli Vita e destino di Vasilij Grossman, uno dei più grandi romanzi del Novecento, (magari in cofanetto assieme a Tutto scorre). È il libro di un patriota russo che, pur schierato con il suo popolo il quale, oppresso dai nazisti ritrova nella resistenza il senso dell’unità nazionale, alla fine deve toccare con mano le ragioni profonde dell’equivalenza totale dei due regimi.
Ma invece di prendere atto della lezione di Grossman, siamo ancora là: alla neppur segreta nostalgia del comunismo e di quel modo di sentirsi l’esercito degli antropologicamente superiori la cui missione storica era la liberazione definitiva dell’umanità. Quando si parla oggi dell’azionismo e del suo moralismo giacobino come cifra delle manifestazioni attuali, bisognerebbe ricordare che siamo di fronte al riproporsi di una relazione storica che sta in piedi da due secoli. C’è un rapporto preciso che unisce Rousseau e Robespierre da un lato, e Marx dall’altro. È un rapporto fatto di netto dissenso ma anche di un terreno comune, che è rappresentato dall’idea più nefasta della modernità, fonte primaria dei drammi che hanno distrutto l’Europa: la pretesa di ricostruire il mondo dalle radici, l’idea di raddrizzare il legno storto dell’uomo, l’idea della palingenesi globale che si è manifestata come palingenesi etica, come palingenesi sociale, oppure etnica e razziale.
Il comunismo italiano è stato molto polemico nei confronti dell’azionismo, rivolgendogli le stesse accuse un tempo rivolte al giacobinismo: una visione elitaria, aristocratica, minoritaria e poco attenta alla necessaria centralità della tematica del sociale. Poi, man mano che l’ideale della rivoluzione socialista e del rovesciamento del capitalismo, anche nelle versioni edulcorate della “terza via”, è sprofondato, per il crollo dei suoi sistemi di riferimento, è rimasto in piedi solo il riferimento alla palingenesi etica. Ne è una testimonianza evidente la formula della “politica dell’austerità” lanciata da Enrico Berlinguer nel periodo del declino, il cui carattere di triste moralismo dovrebbe mettere in guardia chi improvvidamente oggi la rivaluta. Oggi l’unica risorsa rimasta è rivestirsi dei panni sbrindellati del giacobinismo azionista. Ognuno è libero di gestire il proprio vuoto di ideali come meglio crede, anche prendendo a simbolo la ghigliottina di Robespierre, ma almeno lasciate in pace il “Se non ora quando?”.

(Il Giornale, 15 febbraio 2011)

domenica 13 febbraio 2011

EURABIA AVANZA

QUESTO E' PRENDERE UN TAXI A AMSTERDAM OGGI. E DOMANI?

sabato 12 febbraio 2011

La traversata nel deserto della superiorità antropologica

Mi raccontò il compianto Renzo Foa che, all’indomani della caduta del muro di Berlino, un alto dirigente del Pci gli disse: «Ma ti rendi conto? Adesso dovremo entrare in clandestinità, magari per trent’anni». Ecco: tutto il male nasce dall’assurda idea di dover fare una lunga traversata verso un’improbabile terra promessa. Scarpe rotte eppur bisogna andar. E allora, pur di non fare fino in fondo i conti con la storia e i fatti, dalli a cambiare nomi uno dopo l’altro e a mettersi le vesti più disparate prestate da altri. Nel migliore dei casi si sono indossate le vesti un tempo odiate dell’azionismo – come ha bene descritto Giuliano Ferrara – o del più familiare dossettismo: guarda caso i “papi stranieri” vengono tutti da lì. Nei peggiori ci si impicca al populismo di Di Pietro o, nascondendosi dietro la pelata di Saviano, si supplica il popolo a “venir via con me”. E perché mai questo calvario di clandestinità, questo vestirsi dei paramenti altrui? Per non rinunciare a due cose. La prima è poter continuare a gridare “l’anticomunismo mai”, come scrive Ezio Mauro. Perché l’equidistanza tra fascismo e comunismo sarebbe l’anticamera dell’abominevole equidistanza tra fascismo e antifascismo. Un sillogismo fasullo che si base sulla fasulla e vecchia equazione: antifascismo = comunismo.
Ricordo un convegno di storici di “sinistra” di pochi anni fa, in cui un relatore spiegò con sussiego che l’equiparazione del Lager al Gulag è inaccettabile perché «nel secondo almeno si lavorava»… Arbeit Macht Frei. Era presente il grande Victor Zaslavski che sorrideva della nostra sorpresa dicendo: «Siete dei poveri illusi: questi sono semplicemente comunisti, li riconosco a prima vista». Pur di non rinunciare al comunismo ogni sacrificio merita la pena, anche dire delle menzogne da arrossire.
La seconda cosa cui non si può rinunciare è la superiorità antropologica.  Anche quella viene da lontano e si vuole che vada lontano, a qualsiasi costo. Benedetto chi la alimenta. Mi guardo bene dal cercare giustificazioni. Non sono comunista da trent’anni e, anche se ero assai giovane, dirò come Pierluigi Battista: me ne vergogno. Ma, di certo, una delle cose che alimentavano il piacere di sentirsi comunista era il sentirsi parte di un mondo superiore. Intorno, fascisti a parte, il mondo pullulava di borghesucci ignoranti e inconsapevoli, mentre noi avevamo l’idea del futuro e la scienza per realizzarlo, la consapevolezza di dove sorgerà il sole dell’avvenire. Che bello poter frequentare salotti dove si sa che c’è la crema della cultura, il condensato dell’intelletto e della ragione: è un sentimento che ci ha distillato pochi giorni fa la direttrice de L’Unità, e che conosciamo bene. È difficile rinunciare al privilegio di sentirsi antropologicamente superiori, di poter dire: “chi non vota a sinistra o è un ladro o è un idiota”. Lo si diceva già ai tempi della Dc, tanto che nessuno aveva il coraggio di dire che la votava. E ancor oggi si ripete con compiaciuta desolazione: “Dove sta la gente che li vota?”
Quando, nel 1980, chiesi un confronto ai “compagni” circa i miei dubbi crescenti ottenni uno sdegnoso silenzio. Venne la guerra del Libano, la bara dei sindacati davanti alla Sinagoga di Roma, e scrissi un articolo che solo l’Avanti di Craxi volle pubblicare. A distanza di trent’anni, le stesse persone che mi erano state amiche per tanto tempo non soltanto non mi salutano, ma attraversano la strada se mi vedono a distanza. Peggio per loro. Il sentimento di superiorità antropologica non potrà che condurli alla rovina. Peccato che tutto il paese debba patire l’agonia di questo “scarpe rotte eppur bisogna andar”.

(Il Foglio 11 febbraio 2011)  
                 

martedì 8 febbraio 2011

Al giorno d'oggi a uno che fa così gli davano il minimo di valutazione nella ricerca...

Lettera all'Editor di Physical Review (1936):

Dear Sir,
We (Mr. Rosen and I) had sent you our manuscript for publication and had not authorized you to show it to specialists before it is printed. I see no reason to address the — in any case erroneous — comments of your anonymous expert. On the basis of this incident I prefer to publish the paper elsewhere.
Respectfully,
Albert Einstein

domenica 6 febbraio 2011

Se la morale è un fatto di neuroni


Nella Monadologia Leibniz propone una confutazione della tesi che il pensiero sia generato dal cervello con la seguente metafora. Si immagini di essere ridotti alle dimensioni di un insetto piccolissimo rispetto al cervello o, equivalentemente, che il cervello sia un grandissimo locale rispetto al quale la nostra persona risulti molto piccola. Potremmo allora entrare nel cervello come in un gigantesco mulino meccanico. Potremmo esaminarne in dettaglio il funzionamento, studiarne gli ingranaggi, le ruote dentate, i movimenti. È evidente, osserva Leibniz, che per quanti sforzi si facciano non potremmo mai “vedere” un’idea, un pensiero, una sensazione. Insomma, il cervello, in quanto oggetto fisico, apparirebbe come una macchina, quanto si vuole complessa, ma i cui elementi costitutivi sono oggetti materiali e non pensieri o idee, che appartengono a una diversa sfera del reale.
Questo genere di obiezioni è stato riproposto molte volte nel pensiero filosofico. Facendo riferimento a immagini tecnologiche più avanzate rispetto a quella che vede come prototipo della macchina l’orologio, Henri Bergson ha parlato del cervello come una sorta di “ufficio telefonico centrale” che di per sé non aggiunge nulla a quel che riceve e che non ha nulla di un apparato atto a fabbricare rappresentazioni. Nel suo L’uomo neuronale, il neurobiologo Jean-Pierre Changeux ha confutato Bergson menzionando esperienze che dimostrano il parallelismo tra il movimento di un oggetto e la sua percezione mentale. Egli cita un’esperienza in cui un soggetto è posto di fronte a due oggetti che si ottengono l’uno dall’altro per rotazione e deve segnalare il momento in cui percepisce trattarsi dello stesso oggetto: si constata che il tempo necessario a tale percezione è proporzionale al tempo della rotazione. Ma questo - come analoghi esperimenti - dimostrano soltanto che nel cervello accade qualcosa che è materialmente correlato al processo percettivo, e questo nessuno si sognerebbe di negarlo. In realtà, la confutazione di Changeux, basata sul parallelismo di processi di movimento, avvalora la tesi di Bergson che il cervello sia un centro di azione motoria, che ha per funzione principale il ricevere stimoli e trasmetterli mediante processi motori. Bergson avrebbe potuto rispondere a Changeux alla maniera con cui Galileo replicò a Simplicio: «Vedete adunque quale sia la forza del vero, che mentre voi cercate di atterrarlo, i vostri medesimi assalti lo sollevano e l’avvalorano». E oltretutto qui si parla di rappresentazioni di oggetti materiali e non di idee astratte - dell’idea di sfera o dell’idea di bellezza o di Dio. L’osservazione che le rappresentazioni visive mobilitano soprattutto i neuroni dell’emisfero destro mentre le idee più astratte quelle dell’emisfero sinistro, così come le correlazioni tra attività mentali e irrorazione sanguigna stabilite dagli esperimenti di risonanza magnetica, non soltanto sono molto generiche, ma non dicono nulla circa l’origine e le modalità di fabbricazione dei pensieri.
Per quanto ci si affanni a confutare la metafora di Leibniz e quelle analoghe, il risultato è un insuccesso. Per lo più ad essa si oppone che, se fossimo ridotti alle proporzioni di minuscoli insetti, non vedremmo il cervello come un mulino meccanico ma come un sistema biologico neuronale e i pensieri apparirebbero come ciò che viene prodotto e trasmesso da neuroni e sinapsi. Insomma, vedremmo la vera sostanza fisica del mentale e la mente sparirebbe nel cervello. Ma questa non è una confutazione, bensì  l’affermazione di una credenza, una professione di fede in un’ontologia materialista.
Proviamo noi a sviluppare e rafforzare questa “confutazione” con riferimento a macchine più moderne, per convincerci meglio della sua inconsistenza. A prima vista, l’informatica contemporanea fornisce un’immagine vivida di come le idee si producano e si trasmettano mediante processi fisici. Scrivo questo articolo su un computer che codifica i miei pensieri e li incide su un oggetto materiale. Lo spedisco alla redazione del giornale. Le idee corrono come impulsi elettrici su cavi e addirittura nell’aria. È affascinante pensare che le onde elettromagnetiche trasportino nello spazio concetti astratti. Questi pervengono a un altro computer che li decodifica traducendo il “materiale” inviato in un insieme di lettere e parole che la redazione potrà leggere. Non è forse questa una rappresentazione efficace e trasparente dei processi neuronali? Certamente sì, anche se questi ultimi si svolgono con modalità diverse da quelle informatiche, perché la maggiore complessità del processo non toglie nulla al fatto che esso ha una natura strettamente materiale, fisico-chimica. Ma è possibile dire che tale processo “produce” e “trasporta” concetti? Qui dobbiamo fermarci. Forse può apparire evidente che li trasporti, ma la questione è più complessa, perché il trasporto richiede un’operazione decisiva: la traduzione delle parole in un codice che consenta la trasmissione materiale e che dovrà essere in possesso di chi le riceve affinché siano per lui intellegibili. Questo codice è disponibile sia per chi invia sia per chi riceve il messaggio, perché è così che nei fatti è stato progettato il processo informatico. Ma qual è il codice con cui tradurre i processi neuronali? Nessuno ha la minima idea di come si possa tradurre una reazione fisico-chimica o una trasmissione elettrica in un linguaggio che esprima l’“idea”. In fin dei conti, non esiste neppure una vaga idea di come ciò possa farsi. Se davvero fossimo in presenza di pensieri in codice bisognerebbe interpellare “chi” - Dio o il caso? - ha creato il sistema di traduzione delle idee astratte in processi neuronali, così come ha fatto l’uomo per i processi informatici; o scoprirne il segreto. Sarebbe un compito impossibile perché presupporrebbe quello che neppure in fisica si sa fare, e cioè descrivere in modo esatto il comportamento di ogni singola particella del cervello.
Ma ancora qui siamo agli aspetti meramente esteriori della questione, al processo di “trasmissione”. Se si passa alla questione della “produzione” dei concetti la faccenda si complica. Qui entra in gioco l’esistenza della persona che ha scritto l’articolo (e di chi lo legge). Senza l’autore dell’articolo e le “idee” che egli ha “pensato” non c’è assolutamente nulla. Ma tali idee e il loro senso sono assolutamente indipendenti e antecedenti al processo della loro trasmissione ed elaborazione materiale nello spazio. Nel modello informatico considerato non c’è produzione di alcuna idea. Esattamente come nel mulino di Leibniz, è impossibile scorgervi alcuna idea, a meno che non ci si collochi “fuori” e cioè nel mondo di chi quelle idee ha prodotto.
Insomma, siamo ridotti all’antica teoria dell’homunculus. Per concepire un cervello che pensa occorre immaginare un altro soggetto ad esso interno che sia l’autore dei pensieri che il cervello si limita a manipolare e trasmettere. Se si mira a una spiegazione puramente materiale il processo regredisce all’infinito. Ecco perché, come ebbe a dire Paul Ricoeur - nel libro-dialogo con Changeux La natura e la regola - la formula «il cervello pensa» è insostenibile e assomiglia a un ossimoro. Changeux, per quanto materialista, fu costretto ad ammettere: «Evito di impiegare simili formule».
Ma allora siamo costretti ad ammettere che, per quanti progressi si siano fatti nella conoscenza di ciò che accade nel cervello quando pensiamo - e sono progressi grandi, importanti e benvenuti - quanto alla dimostrazione della tesi metafisica circa il carattere materiale del pensiero siamo al punto di partenza. E vi è ogni motivo per ritenere che vi si resti per sempre. Difatti, è irragionevole pretendere che dalla scienza si possano ricavare teoremi metafisici, nella fattispecie la verità del materialismo. È meglio accettare la realtà come si offre nella sua evidenza. E l’evidenza della mente non è minore di quella della materia. Per dirla con Bergson: «L’esistenza di cui siamo più certi e che conosciamo meglio è incontestabilmente la nostra, perché di tutti gli altri oggetti abbiamo nozioni esteriori e superficiali, mentre percepiamo noi stessi interiormente, profondamente». Meglio sarebbe quindi accettare e sviluppare, nella loro ricchezza, le riflessioni delle scienze umane, rispetto a ciò che di modestissimo offrono i tentativi di dissolverle in capitoli delle neuroscienze, aggiungendo il prefisso “neuro”: neuro-filosofia, neuro-etica, neuro-economia, neuro-estetica, neuro-teologia.
Occorrerebbe essere consapevoli che qui si gioca una delle poste più cruciali nel confronto con il relativismo e il nichilismo dilaganti. Difatti, cosa resta del valore oggettivo e universale della morale in una neuro-morale che la riduce a una particolare conformazione cerebrale? Nulla. I principi morali o etici sarebbero mero prodotto dell’evoluzione e, come tali, soggetti al processo evolutivo, o addirittura manipolabili dall’uomo nelle forme che egli stesso riterrà più opportune. Se l’idea di un Dio trascendente fosse prodotto di conformazioni neuronali, essa sarebbe un evento casuale e addirittura sopprimibile, come peraltro sostengono alcuni neuroscienziati. Naturalmente se ciò fosse vero, e dimostrato come tale, vi sarebbe poco da dire. Ma non lo è, lungi da ciò, si tratta di tesi inconsistenti. Pertanto accettarle è soltanto la manifestazione di una dannosa soggezione nei confronti di uno scientismo che agisce come cavallo di Troia del nichilismo. Tantomeno bisogna farsi intimidire dalle veementi accuse di un certo pensiero postmoderno nei confronti dell’“essenzialismo” della cultura occidentale, accusata di avere introdotto, con la difesa dei valori “assoluti”, forme di “razzismo” e di discriminazione. Anche questa soggezione è da dismettere, perché nessun errore può cancellare il fatto che la cultura cosiddetta “essenzialista” ha posto le basi morali di una società basata sul rispetto della persona.

(L’Osservatore Romano, 3 febbraio 2011)

venerdì 4 febbraio 2011

Se la "scienza" vuol ridurre il genio a una malattia


Ormai non passa giorno senza che salti fuori qualche ricerca “scientifica” che meriterebbe al più di essere pubblicata a fumetti. Ora si fa avanti il progettista del “coscienziometro”, pur confessando di non sapere cosa sia la coscienza e come si possa misurare. Poi c’è la ricerca che determina il modo in cui la fede e l’ateismo influenzano la percezione delle immagini. Altri annunciano che il perfezionamento degli occhiali 3D permetterà di trasferire la nostra vita nel mondo virtuale. Un’altra ricerca però avverte che il 40% di coloro che usano quegli occhiali escono dal cinema col mal di testa. Ci si chiede: che senso ha procurarsi un mal di testa nel mondo virtuale invece di toglierselo con una passeggiata al sole e al vento del mondo 3D reale? Domande da retrogradi. C’è poi il mondo di chi spiega che i nati in dicembre avranno una vita di insuccessi o studia come la nascita in luna piena influenzi la vita professionale: un vasto campo di ricerche di cui varrà la pena parlare per le sue implicazioni nella sfera dell’istruzione.
L’ultima segnalazione riguarda una ricerca di un gruppo di scienziati spagnoli, Manuel Vazquez Caruncho e Francisco Branas Fernandez del Complexo Hospitalario Xeral-Calde di Lugo. In un articolo pubblicato sulla rivista Medical Humanities spiegano di aver fatto una “scoperta”, attraverso l’analisi di documenti d’epoca. È noto che il grande musicista Fryderyk Chopin aveva la tendenza a sognare a occhi aperti mentre suonava il pianoforte. La sua amante George Sand definiva questi stati come «la manifestazione di un genio pieno di sentimenti e di espressione». Niente affatto. Erano soltanto gli accessi di una forma di epilessia del lobo temporale. Ed ecco liquidate centinaia di pagine sullo stile di Chopin, sulla sua estetica musicale romantica: era mera patologia cerebrale.
Questo genere di riduzionismo non è nuovo. Anni fa si era detto che la scienza era in procinto di spiegare che il sentimento di trascendenza e la religiosità mistica sono forme epilettiche. Insomma, Galileo, Newton, Keplero, e tanti altri erano grandi scienziati che però avevano un difetto cerebrale. Ora la nuova disciplina della “neuroteologia” avrebbe individuato le conformazioni neuronali responsabili del senso di trascendenza. La discussione verte sulla questione se si tratti di qualcosa destinato a sparire da sé nel processo evolutivo o se il progresso delle neuroscienze permetterà di eliminarlo con un intervento esterno.
Emerge un programma interessante per la sociologia della scienza: indagare le cause per cui tanti ricercatori, invece di occuparsi di questioni scientifiche serie, impegnano tempo, energie e fondi pubblici e privati per “studiare” simili bestialità. Ma è evidente la motivazione ossessiva di tutte queste “ricerche”: tentare di dimostrare in qualsiasi modo che non esistono processi mentali, che non esistono pensieri o sentimenti, anzi, che non esiste cultura di alcun tipo, bensì soltanto processi cerebrali, e che molte delle costruzioni culturali che consideriamo reali da secoli – letteratura, musica, arti figurative, filosofia e, in particolare, la religione – sono soltanto frutto di configurazioni neuronali, in molti casi patologiche. Il romanticismo musicale, la filosofia di Platone, la religiosità di Galileo, sono soltanto malattie.
Del resto, il discorso non è nuovo e con la scienza non ha niente a che fare, è pura e semplice ideologia: si vanta come un grande progresso il fatto che la tecnoscienza abbia rivolto la sua attenzione all’uomo, non considerandolo come qualcosa di particolare e specifico, ma come un oggetto da studiare con i metodi delle scienze naturali, come se fosse una pietra o una pianta. La “naturalizzazione” dell’uomo fa sparire tutta la sua cultura e con essa anche la morale, l’etica, produce un totale svuotamento di senso. Non soltanto la religione, ma anche il “mondo morale dentro di noi” di cui parlava Kant sono spazzati via. Non esistono “principi” o comandamenti morali, ma soltanto credenze passeggere che non sono neppure costrutti culturali, ma mere conformazioni cerebrali contingenti.
È evidente che questo scientismo d’accatto – perché i suoi prodotti sono di una miseria tale da offendere la sola menzione della scienza – porta acqua al mulino di quelle ideologie che vogliono fare a pezzi l’odiato “essenzialismo” della cultura occidentale, la sua pretesa di aver stabilito, sia pure attraverso grandi difficoltà, contraddizioni e anche tragedie, i capisaldi morali di società basate sul rispetto della persona.
Naturalmente si dirà che non è così, che chi cerca di ricondurre a una spiegazione “razionale” e “scientifica” i processi mentali e culturali e i fondamenti della morale o del senso di trascendenza, ingaggia una nobile lotta contro i miti e le credenze irrazionali e offre a tutta l’umanità una via per liberarsi da questi fantasmi. Già. Peccato che più s’insiste in questa direzione e più cresce la quota dell’umanità che non ne vuol sapere e che guarda alla tecnica in modo meramente strumentale senza per questo rinunciare alle proprie credenze, ai propri miti e alla propria religione. Raramente si è visto un periodo nella storia dell’umanità di tanto ampia diffusione delle religioni e del misticismo, in particolare nelle forme fondamentaliste più estreme (inclusa quella del fondamentalismo scientista…). Siamo di fronte a un’epidemia di forme epilettiche? O forse il farmaco non funziona? Un divulgatore scientifico molto popolare nel popolo viola ha dichiarato di recente che «per capire il mondo e per cambiarlo si potrebbe fare a meno della letteratura, non della matematica. Nell’antichità c’è stata molta matematica prima ancora dei grandi poemi: la letteratura è una riflessione, quindi è posteriore». A parte la sciocchezza – matematica e scrittura sono nate insieme e i miti poetici certamente prima, nelle forme orali – ha senso privarsi della dimensione razionale che offre la letteratura e, aggiungo, la riflessione filosofica, la sensibilità artistica, la religione? Non sarà che il fondamentalismo dilaga proprio perché la dimensione della razionalità scientista da sola è impotente a fronteggiare questo fenomeno, se addirittura non lo alimenta?
Dicevamo che sembra che il farmaco non funzioni. Ma sembra invece che funzioni proprio qui in occidente, con la conseguenza di fare a pezzi l’idea che possano esistere solidi principi morali su cui basare la convivenza. Le tradizioni ebraica e cristiana hanno combattuto per affermare l’idea che alcuni principi, come «non uccidere» o «ama il tuo prossimo come te stesso», sono basilari, non negoziabili e debbono costituire il fondamento della società. E, malgrado tutto, qualche risultato l’hanno ottenuto, visto che i paesi occidentali sono quelli in cui tanta gente preme per venire a vivere. Ma ora non è più soltanto un fondamentalismo relativista a predicare che quei principi sono opzioni che valgono quanto la poligamia o il taglio della mano: se ne offre la “dimostrazione” (fasulla) riducendoli a processi neuronali, per giunta patologici, in quanto frutto del trascendentalismo religioso.
Si dice da più parti che il multiculturalismo è un fallimento. Bisognerebbe aggiungere che anche lo scientismo d'accatto di cui abbiamo parlato è un fallimento. Eppure entrambi continuano a imperversare come espressione di quel male che lo storico François Furet ha definito l' "odio di sé" dell'Occidente.


(Il Giornale, 2 febbraio 2011)



martedì 1 febbraio 2011

Se si possa ancora andar fieri della «gloriosa storia» del PCI


Figurarsi se potrei considerare un reietto chiunque sia stato comunista. Presi la mia prima tessera della Federazione Giovanile Comunista quando ero sedicenne, durante un comizio di Togliatti. Riportava sul disegno di un’impalcatura una frase di Maiakovskij: «milioni di spalle unite che innalzano al cielo la costruzione del comunismo». In verità ero assai intimidito e la prima esperienza fu traumatica: la sezione cui appartenevo fu sciolta per trotskismo… Nella riunione di scioglimento il funzionario inviato dal Partito – un piccolo burocrate pallido in abito “Facis” – sembrava dovesse soccombere di fronte alla forza intellettuale del gruppo dirigente della sezione. Quando si levò a parlare cambiò tutto: ruggiva come un leone, la sua mediocre figura era trasfigurata dall’essere portatrice della volontà del Partito, faceva paura. Restai nel Partito molti anni ancora, ma mai mi liberai dal timore reverenziale che ispirava quella macchina da guerra. È complesso spiegare le ragioni per cui milioni di persone oneste e in buona fede ne abbiano fatto parte, ma la più ovvia è che si era convinti di lavorare per una causa giusta che mirava al bene dell’umanità. Quel che faceva considerare secondari o trascurabili la mancanza di democrazia – del Partito e del comunismo internazionale – e gli innumerevoli delitti di cui era disseminata l’opera di “costruzione verso il cielo”, era il carattere totalizzante e assoluto con cui veniva concepita la “causa”. Non si trattava di migliorare qualche aspetto della società ma nientemeno che di rifarla completamente. Il discorso è complesso e non può essere sviluppato in una rubrica, ma è innegabile che la calamita che ha attratto milioni di persone in buona fede su una via che rendeva complici di una catena infinita di orrori era il carattere “palingenetico” dell’impresa, il fascino che emana dall’intento di “rifare tutto” in modo giusto e perfetto. È un discorso che vale per ogni forma di totalitarismo: il fascino dell’idea efferata della palingenesi, particolarmente attraente per le menti totalizzanti dei più giovani.
È giusto quindi sforzarsi di comprendere. Però ormai questa storia e i suoi orrori sono noti e documentati e piuttosto lascia attoniti che qualcuno pensi di fare una mostra apologetica e persino agiografica della storia del Partito Comunista Italiano, come quella promossa a Roma. Quale persona sensata può trovare oggi tanto interessante contemplare il servizio di tazze da caffè di Palmiro Togliatti, “il Migliore”, ma anche un “orco” – come l’ha definito Giuliano Ferrara – che solleva casomai il problema di come l’intelligenza possa coniugarsi con il male? A qualcuno verrebbe in mente di esporre le tazze di Mussolini? No di certo, ma quelle di Togliatti, sì. C’è chi trova normale visitare con devozione i cimeli di una storia su cui c’è poco da esaltarsi, soprattutto se la si è vissuta in prima persona. Non colpisce non soltanto la persistente impunità concessa al comunismo, per cui appare normale a un vecchio dirigente parlare di una «storia enorme, grandiosa» ignorando come un dettaglio irrilevante i crimini del comunismo (perché nella mostra non vi sono foto dei gulag?) e le complicità del PCI in essi. Colpisce il fatto che non si è trattato soltanto una patetica riunione di reduci, del genere di quella rappresentata nel film “Il concerto”. La mostra ha visto la presenza commossa di tante personalità che sono ancora protagoniste della politica italiana di oggi e che sono state accolte al grido di «è bello rivedere assieme tanti compagni». E c’è qualche fesso che dice che non ha più senso parlare oggi del comunismo (o del postcomunismo).
(Tempi, 2 febbraio 2011)