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lunedì 28 marzo 2011

IL SAPERE SVUOTATO


È molto astratto, e quindi poco utile, sviluppare una contrapposizione tra scuola “pubblica” e scuola “privata” senza guardare alla sostanza degli oggetti di cui si parla. Da questo punto di vista ha ragione il ministro Gelmini a ricordare che esiste oggi un unico sistema dell’istruzione “pubblica” ripartito in un settore privato e in un settore “statale”che – non va mai dimenticato – rappresenta circa il 95% della totalità. È vano negare che, un tempo, le scuole private “parificate” erano spesso una via per cavarsela a buon mercato quando non si riusciva a superare la rigorosa selezione della scuola statale: era una via per lo più riservata ai ricchi, anche se ricordo casi di famiglie povere finite a indebitarsi con lo strozzino per far andare avanti il figlio in qualche istituto compiacente. Oggi le cose sono profondamente cambiate: l’espansione (sia pur modesta) del settore privato, con una articolazione e diversificazione della sua offerta, e i profondi cambiamenti – diciamo pure il degrado – intervenuti nella scuola statale, fanno sì che buona e cattiva qualità si trovino ovunque ed esistano scuole private eccellenti e migliori di certi cattivi istituti statali accanto ad altre che, utilizzando docenti precari e malpagati, offrono promozioni in cambio di rette salate.
Proprio per questo si pone il problema di una valutazione delle scuole e degli insegnanti, della quale in questi tempi tanto si parla e per la quale si fanno progetti mal confezionati. Tutto nasce dalla profonda mutazione intervenuta nella scuola da trent’anni a questa parte e di cui tanti di noi non si rendono conto, forse perché quando si hanno figli grandi si resta ancorati alle immagini dei tempi lontani in cui si andava a scuola. C’è chi ancora parla della scuola elementare italiana come della “migliore del mondo”, pensando alla scuola che frequentò lui o i suoi figli ormai trentenni, senza rendersi conto che la scuola “primaria” di oggi non ha più assolutamente nulla in comune con quella “mitica” anteriore alla fatidica data del 1985, in cui iniziò la metodica trasformazione – per parte mia direi, la metodica distruzione – della scuola italiana sulla base di ideologie che avevano coniugato pulsioni “progressiste” e rivoluzionarie, ormai prive di riferimenti teorici, con un costruttivismo pedagogico di derivazione anglosassone.
Basta rileggere le teorizzazioni di quei pedagogisti – consulenti influenti di ministri di sinistra e di destra, da Berlinguer a De Mauro a Moratti a Fioroni – che predicavano (e predicano!) il “relativismo postmoderno” come principio orientativo di una nuova visione della scuola capace di «scardinare la didattica e i saperi formativi tradizionali» e di produrre conseguenze «velenose» per l’«assetto istituzionale, culturale e didattico del nostro sistema di istruzione». Ci vorrebbe molto spazio per analizzare le caratteristiche di questa ideologia, e in altra sede è stato fatto. Ma basti dire che non si vede perché il relativismo nichilista che si esplica con tanta forza nell’ambito della manipolazione della vita e delle tecnoscienze biologiche, il costruttivismo che vuol prescrivere il modo ottimale di nascere, di vivere e di morire, che arriva a consigliare l’aborto come pratica meno dannosa della gravidanza, che impone la “dittatura degli esperti”, non si sia sviluppato anche su un terreno strategico come quello dell’istruzione. Come, nel primo contesto, una sinistra in crisi di orientamento si è aggrappata al costruttivismo sociale, così nel contesto dell’istruzione essa ha gettato a mare la zavorra della visione gramsciana per eleggere a nuove icone don Milani, Dewey, Piaget, Edgar Morin e tanti altri, fino alle dottrine neuroscientifiche dell’educazione. Sarebbe ingenuo credere che la diffusione di una simile ideologia non abbia pervaso ogni settore dell’istruzione, statale o privato che sia. Non vi sono stati argini teorici e neppure politici, com’è provato dal fatto che uno dei prodotti più apertamente costruttivisti è dato dalla riforma Moratti, che si è spinta fino a proporre un’educazione di stato etica e persino relazionale ed emotiva in perfetto stile zapaterista. Anche qui sarebbe lungo analizzare le ragioni dell’assenza di anticorpi culturali: a mo’ di attenuante, diciamo che non è facile rendersi conto di come anche nella cultura anglosassone si sia fatto largo un costruttivismo sociale in rotta di collisione con il liberalismo classico, di cui è espressione emblematica l’affermazione di Stuart Mill, secondo cui ciascuno è l’autentico guardiano della propria salute, sia fisica, sia mentale, sia spirituale. Oggi le società che hanno prodotto quella visione sono orientate a governare dirigisticamente ogni atto del vivere, imponendo di essere “sani”, prescrivendo cosa voglia dire “salute”, medicalizzando l’intera società. Quale abisso tra la società americana immersa in nuvole di fumo, che ci mostrano i film degli anni sessanta, e quella in cui oggi è quasi vietato fumare in casa propria…
Dicevamo che questa ideologia è spalmata ovunque e la cattiva o buona qualità della scuola si misura dall’estensione e dalla profondità della sua influenza. Perché a essa – come ha ben mostrato il recente libro di Paola Mastrocola – va imputato lo sfacelo scolastico. È uno sfacelo che va imputato al buonismo don milanista, al “rodarismo” snobistico (alle ortiche grammatica e sintassi, diceva l’aristocratico che le dominava a menadito), all’ideologia del successo formativo garantito, dello studio che non deve mai essere fatica, dell’insegnante che non deve più essere maestro ma un facilitatore “alla pari”, della scuola come “open space” in cui le attività si programmano in modo autogestito, del più ignorante aziendalismo, del metodo che strangola i contenuti in nome del dilagare di insulsi adempimenti amministrativi e burocratici. Tutto ciò può trovare sponda in una scuola statale come in una scuola privata e sarebbe sommamente ingenuo credere in un’ingenua dicotomia: la scuola statale è quella del laicismo, dell’ateismo, del relativismo etico, del darwinismo eretto a fede, della mitologia tecnoscientifica per cui l’etica e la morale sono fatti meramente neuronali, e così via; mentre la scuola privata proporrebbe valori opposti. È possibile trovare scuole cattoliche influenzate dal più spinto costruttivismo “progressista”, che si bevono come acqua fresca le teorie pedagogiche più scientiste, come quelle vecchie di Piaget o quelle recenti di Morin, o anche ispirate alle neuroscienze (e persino alla neuroteologia), e che concepiscono l’insegnante come “facilitatore”. Viceversa, sarà difficile che una scuola autenticamente ispirata alle visioni di don Giussani s’ispiri al costruttivismo, solo se si pensa alla sua radicalità nel concepire l’insegnante come “maestro” e nel proporre una visione decisamente “trasmissiva” dell’istruzione. Nel libro recentemente pubblicato “Il senso religioso”, Don Giussani citava Sant’Agostino: «Io cerco per sapere qualcosa, non per pensarla». Ma oggi c’è chi sostiene che la scuola del futuro deve basarsi sul precetto secondo cui non conta quel che si sa, ma soltanto “come” si pensa. Come se si potesse pensare senza oggetto del pensiero… qualcosa che avrebbe fatto inorridire non soltanto Sant’Agostino e don Giussani, ma anche il filosofo del metodo, Cartesio.
In conclusione, il vero problema non è la contrapposizione tra scuola statale e scuola privata. Bensì l’ideologia costruttivista che si ripropone ostinatamente come un’idra dalle mille teste e che è la vera origine della catastrofe del sistema dell’istruzione.

(Tempi, 23 marzo 2011)

giovedì 24 marzo 2011

La banalità del libro


Ho sempre condiviso le critiche alla teoria del “banalità del male” di Hannah Arendt. Nella sua corrispondenza con Gershom Scholem, ho sempre trovato più convincente la posizione di quest’ultimo. Aggiungerei che la tesi della “banalità del male” potrebbe essere rovesciata. Uno dei più grandi enigmi del mondo è l’esistenza del male, ed è, casomai, il bene a essere ovvio e naturale, mentre il male è un’aberrazione inspiegabile. Non a caso, la teologia ebraica, in particolare quella kabbalistica, ha esplorato con la massima intensità il tema dell’esistenza del male ponendosi di fronte, con audacia estrema, alla domanda se l’origine del male non vada cercata entro lo stesso atto creativo del mondo da parte di Dio, e quindi Egli stesso non ne sia la causa. Anche per l’incomprensione di questa problematica da parte di Arendt, aveva ragione Scholem a definire la tesi della “banalità del male” come uno “slogan”, frutto di un’analisi poco profonda e persino – aggiungeva – contraddittoria con quella centrale del celebre libro di Arendt sulle origini del totalitarismo.
Ciò detto, non trovo nulla nella critica di Scholem a Arendt che assomigli neppure lontanamente alle dure accuse mosse da Deborah Lipstadt nel suo libro “The Eichmann Trial” (di cui ha parlato Il Foglio), fino al punto di imputarle di aver assolto la cultura europea della colpa di antisemitismo. Il rimprovero di Scholem a Arendt di mancare dell’Ahavat Israel, dell’amore per il popolo ebraico, non ha niente a che fare con l’accusa della Lipstadt secondo cui la Arendt considerava i sionisti colpevoli di parlare lo stesso linguaggio di Eichmann. Non soltanto Arendt si difende esplicitamente da questa accusa in una risposta a Scholem (24 luglio 1963), ma spiega il senso della sua critica a un certo sionismo, la quale ha un fondamento tutt’altro che inconsistente. Arendt riferisce di un suo dialogo con un alto esponente israeliano cui esprimeva la sua preoccupazione per l’assenza di separazione tra stato e religione in Israele. Questi rispose: «In quanto socialista evidentemente non credo in Dio, credo nel popolo ebraico». «Trovai questa dichiarazione scandalosa», osservò Arendt, aggiungendo: «Avrei potuto rispondere: la grandezza di questo popolo è venuta un giorno dal fatto che ha creduto in Dio e ha creduto in Lui in tal modo che la sua fiducia e il suo amore per Lui erano più grandi della sua paura. Ed ecco che ora questo popolo non crede altro che in sé stesso! Cosa di buono può venire da questo?».
Queste non sono accenti di un’antisemita, bensì di un’ebrea che pone un problema perfettamente sensato, anche se accanto a una tesi poco convincente, forse dannosa, ma legittima. Lo scambio, pur duro, tra Arendt e Scholem, è un confronto intellettuale ad alto livello tra due grandi intellettuali mitteleuropei e non un processo da rotocalco.
Di recente, per aver paragonato gli orrori del Gulag comunista a quelli del Lager nazista, alcuni primi della classe del filosemitismo mi hanno accusato di essere un “traditore del mio popolo”, adducendo come colpa anche il mio interesse per Husserl, che si sarebbe macchiato della colpa di aver avuto come allievo Heidegger. Le tesi della Lipstadt e l’imputazione alla Arendt di aver commerciato con Heidegger, rievocano queste strida da tricoteuses giacobine.
Nella citata lettera Arendt lamentava che la sua tesi fosse stata demolita prima ancora di leggerla dalla campagna promossa da un certo establishment ebraico israeliano e statunitense. È da augurarsi che, dopo mezzo secolo, non si ripeta lo scenario, con un certo ebraismo liberal newyorkese pronto a gettare con l’acqua sporca delle colpe europee una grande ricchezza culturale per lasciarci in mano solo la parodia puritana della ghigliottina di Robespierre.
(Il Foglio, 22 marzo 2011)

martedì 22 marzo 2011

Nell'inferno della "tecnodidattica" la lezione si valuta con un click


Alcuni giorni fa un ricercatore universitario mi ha trasmesso un messaggio a lui inviato da una società informatica che si occupa di “tecnodidattica”, e di cui ometto il nome per non farne una questione personale, poiché da un esame sommario si può constatare che il problema è (purtroppo) generale. Nel messaggio si propone un sistema informatico per la valutazione automatica e “oggettiva” (e dalli…) del “livello di apprendimento degli studenti” direttamente in classe durante la lezione. Ecco alcuni passaggi:
«Gentilissimo professore, da tempo si parla di qualità della formazione ed in generale della qualità delle Università in Europa ed in Italia. Ciò che viene chiesto in maniera insistente è la valutazione continua dell’apprendimento del discente. In un’aula colma di studenti capire nel giro di pochi secondi se la platea ha compreso l’argomento svolto per un docente non è cosa facile. Il tutto può essere realizzato solo con l’ausilio di sistemi automatici di verifica, dove al semplice click di un telecomando, di cui ogni studente è dotato, si può verificare la comprensione dell’argomento trattato. Su questo principio si basa il funzionamento di risponditori che con la sicurezza del segnale di radio frequenza (non ad infrarossi, la cui portata è molto breve), riesce a testare il livello di apprendimento dell’aula. Durante la fruizione del test il docente non è costretto a rimanere vicino al suo PC per gestire l’avanzamento delle domande visualizzate sul proiettore, perché può far uso di una tavoletta wireless. […] In questa maniera si rende standardizzata la metodologia di verifica su ogni sede, lasciando all’utente una sicura immagine di oggettività nella fruizione del test, anche dal punto di vista formale».
Il mio corrispondente osserva che, in tal modo, si è disceso un ulteriore gradino della scala che porta all’inferno della valutazione “standard”, “oggettiva”, “esatta”.
Mi pare piuttosto che si sono discesi tutti i gradini che portano al sottoscala della cialtroneria e dell’abbrutimento culturale. Chi ha avuto un’idea simile ha un’idea dell’“apprendimento” degna di un allevamento di polli in batteria. Se si tratta di verificare che 7 per 4 fa 28, può anche andare. Ma, altra cosa è verificare il livello di comprensione dei versi della Divina Commedia: «L’amore di Colui che tutto move, per l’universo penetra e risplende, in una parte più e meno altrove». In tal caso i livelli di comprensione sono innumerevoli, da quello banalmente testuale a quelli che coinvolgono astronomia e teologia. Lo stesso dicasi per le equazioni di Maxwell, che uno può tornare ad approfondire per il resto della vita. Poiché si presume che la “verifica” avvenga cliccando una serie di test, ne consegue che l’insegnamento, per essere tecno-verificabile, deve essere standardizzato entro un sistema di formulette di fronte alle quali il peggiore nozionismo fa la figura della creatività più sfrenata.
Inutile dire, poi, quale farsa diventi una classe del genere, in cui l’insegnante spara sentenze e domande a pillole, gli studenti cliccano e lui controlla girando “liberamente” tra i banchi con il tablet in mano. Davvero un ambiente altamente “riflessivo”, adatto alla concentrazione e ai pensieri più profondi…
Non riesco a ricordare chi osservò che il mondo della tecnologia ha aspetti irresistibilmente comici. In effetti, il nostro scenario tecno-didattico è di una comicità degna di una sequenza di Hollywood Party. Pur di osservarlo dall’esterno, però. Altrimenti, ha ragione il mio corrispondente a dire che starci dentro equivale a scendere in un inferno, e neppure animato come quello di Dante. 

(Tempi, 16 marzo 2011)

sabato 19 marzo 2011

La truffa della "discalculia"

Non ho fatto in tempo a pubblicare questo articolo che sono iniziati a piovere i soliti insulti - non argomenti, non c'è uno straccio di argomento, sono sempre le solite tiritere a suon di indimostrate e indimostrabili asserzioni - ma soltanto insulti. Tra tutti spicca quello di "negazionista". Siccome il termine è di solito usato per denotare coloro che negano l'esistenza dei campi di sterminio, delle camere a gas e dei forni crematori, questi mascalzoni godono molto a rivolgerlo a me, all'ebreo. E così dimostrano di quale pasta sono fatti. Non credano comunque così di fare tacere me e chi la pensa come me. Leggo proprio oggi un articolo di uno "specialista" sulla "discalculia" e vi trovo degli esempi così idioti, così assurdi, così insensati e truffaldini che non mancherò prossimamente di discuterli, tanto per far vedere di quali "verità" si abbeverino questi signori. Vogliono trasformare un dibattito anche aspro in una rissa, in uno scontro tra il bene e il male, perché soltanto così possono sperare di aver ragione. Hanno avuto una legge. Dovrebbero essere contenti. Invece non lo sono. Chissà perché... Sia comunque chiaro che questo post non darà stura a valanghe di insulti. Possono star tranquilli quei signori. Stavolta cestinerò qualsiasi messaggio venga da quella parte, parlino pure di censura. I teppisti meritano soltanto di essere censurati.

Quando mesi fa scrissi alcuni articoli critici ed ebbi un confronto su queste pa­gine con il dottor Massimo Molteni a proposito della legge sui Disturbi Spe­cifici di Apprendimento, sapevo di dover pagare la tassa di una valanga di insulti: un giornalista che scrisse un articolo critico simile ai miei mi ha confida­to di non aver mai ricevuto tanti insulti, maledizioni e inviti a morire in trent’an­ni di carriera. Ho pagato questa tassa perché temevo che la posta in gioco non fosse quella (giusta, sia chiaro) di prendersi cura di bambini in difficoltà (come i dislessici) dopo che la difficoltà si fosse evidenziata. Temevo che la posta in gioco fosse ottenere degli screening di massa dei bambini, per infoltire l'esercito degli psicologi scolastici, con un conseguente processo di medicalizzazione a tappeto della scuola. La cosa riguardava anche un’altra “patologia” a dir poco discutibile, la sindrome del bambino agitato, indicata con l'acronimo Adhd (Attention Deficit Hyperactivity Di­sorder). Purtroppo erano timori fondati. A distanza di pochi mesi la campagna circa la necessità di diagnosticare i casi di dislessia, disortografia, discalculia, disgrafia e quelli di Adhd s'intensifica.
Giorni fa ho avuto la ventura di ascoltare alla radio una trasmissione cui partecipava uno "specialista", in cui è stata fatta la seguente affermazione: «Vi sono in Italia 300.000 casi di Adhd ma soltanto il 3 per cento è diagnosticato. Se non si fa questa diagnosi questi bambini avranno un fu­turo difficile e non troveranno lavoro». Da non credere alle proprie orecchie. Se una diagnosi non è stata fatta come si fa a dire che vi sono 300 mila casi? Estra­polando a casaccio da 9 mila casi diagnosticati? Ci hanno preso tutti per cretini al punto di digerire un messaggio non soltanto ignorante ma condito di terrorismo psicologico: se non si fa lo screening di massa il vostro bambino tra vent'anni sarà disoccupato?
Analoga pressione si esercita al livello dei Dsa: compaiono articoli sui giornali  in cui s'insiste accanitamente sulla necessità di una diagnosi a tappeto, classe per classe. E girano le cifre più fantasiose: gli affetti da Dsa sarebbero il 3 per cen­to dei bambini, no il 4 per cento, anzi il 5 per cento, forse di più. Quando poi si esplora in quali mani dovrebbero cadere i bambini c'è da preoccuparsi. Uno di questi specialisti di "discalculia" mi ha detto candidamente che la tavola pita­gorica s'impara a memoria perché è una "sequenza di parole ordinate" (uno per uno uguale uno, uno per due uguale due, uno per tre uguale tre, eccetera). Ho tentato in tutti i modi di fargli capire che cosa sono le tabelline e che la loro ac­quisizione mnemonica è frutto di esercizi organizzati di calcolo mentale basa­ti sull'assimilazione della relazione tra addizione e moltiplicazione. Niente da fare. Non capiva. Ma perché mai la diagnosi di "discalculia" dovrebbe essere affidata a uno che sarà un rispettabile psicologo ma non capisce nulla di cosa sia la matematica e di come s'insegni? Uno di questi specialisti, messo alle strette, ha ammesso che i casi di "vera" discalculia sono praticamente inesistenti e che quasi tutti si riconducono alla dislessia. Una malattia fantasiosa (la discalculia) che serve a psicologi coadiuvati da qualche matematico in difficoltà a mettere in piedi attivi­tà fantasiose, che sarebbero innocue se non mirassero a stendere una manomorta sulla scuola. Sarebbe il caso di dire chiaro e forte che quello di cui si ha bisogno è di una medicina che curi i malati non la medicina del Grande Fratello, utile anche a chi tiene famiglia, nella nobile tradizione italiana degli ammortizzatori sociali.
(Tempi, 16 marzo 2011)

giovedì 17 marzo 2011

venerdì 11 marzo 2011

Lo scandalo delle università inglesi (e le valutazioni fasulle)

Il fatto che i pesanti tagli ai fondi di dotazione ordinaria conferiti dallo stato mettano in serie difficoltà economiche le università italiane è un segnale assai positivo circa la loro condizione etica. Non è una battuta di cattivo gusto. Dal 2006 i governi britannici non hanno fatto altro che tagliare i fondi pubblici delle università, eppure queste non hanno mostrato alcun segno di difficoltà, al contrario. Difatti, secondo recenti stime, in una decina di anni su di esse sarebbero piovuti quasi 250 milioni di sterline tutti provenienti da governi dittatoriali, o quantomeno assai poco democratici, del mondo islamico. Il fatto che mezza Europa, e diciamo pure mezzo Occidente, sia stato comprato da quei governi, è una voce che circola da tempo tra scrollate di spalle. La crisi libica sta rendendo più difficili le scrollate, ora che viene fuori che quasi tutte le principali imprese occidentali – Chevron, Honeywell, Pfizer, Glaxo, Shell, Vodafone, Alcatel, Bnp-Paribas, Unicredit, Siemens, e via elencando – hanno pesanti partecipazioni libiche; figuriamoci quale sarà il panorama completo delle partecipazioni di altri paesi non propriamente democratici. I condizionamenti politici ed economici determinati da tali partecipazioni sono materia da approfondire. Di certo, sarà sempre più difficile deridere come una fantasia da film di James Bond la formula “Eurabia” coniata da Bat Ye’or; casomai si tratterà di vedere se, tra non molto bisognerà parlare di “Usabia”.
Di certo, lo scandalo della London School of Economics (LSE), che rischia di estendersi ad altre università inglesi, getta una luce sinistra sulle finalità di queste “donazioni” e sui condizionamenti ideologici e politici che esse hanno prodotto. Non si tratta tanto del fatto che la celebre LSE abbia regalato un diploma di dottorato per una tesi copiata a uno dei figli di Gheddafi dopo la donazione di un milione e mezzo di sterline; e neppure soltanto del fatto, ancor più grave, di aver accettato più di due milioni di sterline per formare 400 funzionari del regime libico. Si tratta di capire fino a che punto l’università abbia accettato quattrini da molti altri governi tirannici e corrotti, in considerazione di atti sospetti come l’intitolazione di un teatro della LSE all’ex-presidente degli Emirati arabi uniti. Da questo punto di vista, le dimissioni del direttore della LSE, Howard Davies, per la vicenda del figlio di Gheddafi, potrebbe essere un modo per concentrare l’attenzione su un episodio minore rispetto allo scandalo molto più vasto di aver svenduto una parte consistente del patrimonio universitario britannico a forze che predicano l’odio contro l’Occidente e in particolare contro Israele. Fino a che livello si siano spinti questa svendita e l’inquinamento ideologico è il punto da verificare. Di certo, quei quattrini non sono stati regalati in cambio di niente, visto il proliferare di centri islamici dediti a campagne di odio e il fatto che le università inglesi sono diventate i centri mondiali più attivi in quella oscena iniziativa che è il boicottaggio scientifico di Israele – qualcosa che non si è mai visto, neppure ai tempi dello stalinismo, quando, piuttosto si sosteneva giustamente che l’intensificazione dei legami scientifici e culturali è uno dei mezzi più efficaci per esportare la democrazia.
Oggi tutto il panorama andrebbe esplorato a fondo per capire fino a che punto il fiume di denaro giunto dagli ambienti del fondamentalismo islamico o dei regimi tirannici sia servito a creare centri di “studio”, in particolare sul terzo mondo, sull’islam, sul Medio oriente, e sui “diritti umani”, visti secondo l’ottica di quel politicamente corretto che ha trovato normale che la Commissione per il diritti umani dell’Onu fosse egemonizzata da paesi come la Libia, il Sudan e l’Iran. Oggi Gheddafi è diventato il reietto internazionale, ma ieri nessuno si scandalizzava per la presenza libica in quella commissione e, ancor oggi, poche voci in occidente si pronunciano sui delitti del regime iraniano; mentre il nuovo ministro degli interni francese ha mostrato la sua carta da visita intessendo le lodi della “moderazione” dei Fratelli Musulmani… È da anni che si constata che il sistema accademico britannico è la punta di lancia di un politicamente corretto suicida. Ora sappiamo che dietro quella ideologia diffusa e quelle campagne c’è stato un fiume di denaro e l’unica speranza è che la botola che si è scoperchiata non venga richiusa.

Oggi è il prestigio della LSE a essere crollato in modo drammatico e il confronto con i tempi in cui da essa uscirono 16 premi Nobel e personalità del livello di Karl Popper è impietoso. Sotto questo profilo conviene spendere qualche parola sulla credibilità delle classifiche internazionali che collocano le università inglesi nelle prime posizioni a livello mondiale. Per esempio, nell’accreditato QS World University Ranking del 2010, quattro università inglesi si trovano ai primi dieci posti e, sebbene la LSE figuri all’ottantesimo nella classifica generale, essa occupa il quarto posto, dopo Harvard, Oxford e Cambridge nella classifica delle università specializzate in scienze umane e sociali. È una posizione assai poco credibile per un’università che regala al figlio di un dittatore un dottorato per una tesi copiata in cambio di denaro, si acconcia ad addestrare funzionari di uno stato dittatoriale, mentre il suo direttore accetta l’incarico di consulente finanziario di quel governo e un suo teatro viene intitolato a un satrapo. In una recente intervista, l’ingegner Roger Abravanel, fautore delle valutazioni “oggettive” e autore del progetto “merito e qualità” per il nostro ministero dell’istruzione, ha affermato che le università israeliane sono eccellenti, ma di essere molto «irritato» nei confronti degli israeliani «perché sono pessimi nel marketing», il che ha come conseguenza che le loro università non siano menzionate fra le migliori del mondo. Singolare contraddizione. Se le valutazioni sono “oggettive” le università israeliane stanno bene dove stanno e nessun marketing dovrebbe influenzare la loro posizione in classifica. Se invece è una questione di marketing – ovvero di sapersi vendere – allora non c’è da stupirsi che, con l’antisionismo in circolazione, le università israeliane siano svalutate e quelle inglesi spicchino in vetta. Ma se è una questione di sapersi vendere – come sospettiamo e conferma la vicenda di LSE e delle università britanniche – allora sono queste valutazioni “oggettive” che meritano di finire nel cestino della carta straccia.
(Il Giornale, 8 marzo 2011)

mercoledì 2 marzo 2011

RECENSIONE dell'ultimo libro di Paola Mastrocola

A me, che negli ultimi anni ho dedicato non poco tempo a dare un modesto contributo a rimettere in sesto il disastrato baraccone della scuola, la lettura del libro di Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo (Guanda), ha provocato un profondo disagio. Quando si constata l’immensa inerzia del sistema, l’ostinazione con cui le forze che ne hanno prodotto lo sfacelo contrastano ogni miglioramento, annidate come sono in ogni angolo e aggrappate come sono a ricette ispirate all’ideologia pedagogica più prescrittiva e burocratica che si possa immaginare – ebbene, di fronte a questo scenario viene da pensare che abbia ragione Paola Mastrocola nel suo radicale pessimismo che la conduce a dire che non c’è niente da fare e che è meglio pensare a una scuola riservata a chi ha voglia di studiare lasciando gli altri liberi di non farlo.
Sul tema delle prospettive e di cosa si possa fare tornerò, ma intanto va detto che questo è un libro importante, scritto benissimo – una lezione di letteratura, tanto per restare in tema – di grande efficacia descrittiva e intriso dell’emozione di chi vede dissolversi un mondo che è la ragione di vita di ogni buon insegnante. È un libro che tutti dovrebbero leggere, per meditare sull’immagine che propone di una scuola ridotta a luogo di socializzazione in cui l’ultima delle incombenze è studiare e acquisire cultura, e sull’analisi delle responsabilità dello disastro.
A proposito di queste responsabilità, onore alla chiarezza, senza peli sulla lingua, con cui Paola Mastrocola le denuncia. Inizia col “donmilanismo” e il suo populismo ipocrita che, disprezzando la cultura, propone una scuola che «lascia le persone come sono» e «penalizza i più deboli»: «bassezza comune, mezzo gaudio». Poi viene il “rodarismo” che, con il richiamo demagogico alla creatività ha decretato che è una noia lo studio della grammatica, della storia, della letteratura, cioè proprio degli strumenti della creatività e che Rodari, ovviamente, possedeva. Segue il pedagogismo “democratico” dei Berlinguer e dei De Mauro, con l’idea della scuola appiattita sulla “media minima”. Ma è soprattutto coraggioso aver affondato il coltello nella piaga della “didattica delle competenze” e della mediocre visione burocratico-mercatista dell’istruzione che domina nei corridoi comunitari e che è riassunta nelle otto competenze chiave del Trattato di Lisbona. Questa visione risponde solo alla preoccupazione di definire criteri di competenze valutabili in sede comunitaria: allo scopo le culture nazionali sono un intralcio. Quindi, via nel cestino letterature nazionali, storia, filosofia, e tutto ciò che fa della scienza non un mero tecnicismo ma un’impresa culturale. Tutto questo s’impone con la forza delle circolari amministrative – che hanno dettato anche da noi l’introduzione della grottesca “certificazione delle competenze” – e porta alla ribalta un ceto di persone che non hanno mai insegnato, che non hanno cultura né sono tenute a rendere conto delle loro conoscenze, ma che sono “specialisti” dell’istruzione, dediti per la vita a tale dubbia disciplina; oppure sono funzionari ministeriali che hanno il coraggio di invocare una «lotta militante» per distruggere le conoscenze a favore delle competenze. Ne è un prototipo l’ineffabile Monsieur Thélot, cui il libro dedica uno dei suoi più divertenti capitoli, che ha avuto un ruolo importante nel massacro della scuola francese denunciato da tanti insegnanti come l’eroico maestro Marc Le Bris.
Paola Mastrocola si chiede se l’invasamento collettivo sulle meraviglie informatiche che dovrebbero cambiare il volto di una scuola “vecchia” per rispondere alle esigenze dei “nativi digitali” non sia un inganno per handicappare i giovani ed estirpare definitivamente lo studio dalla scuola. È indubbio che, dopo aver letto le tante pagine dedicate all’ambiente scolastico, al modo con cui i ragazzi vivono, ci si chiede se questa faccenda dei nativi digitali non sia una colossale balla inventata da chi vuol informatizzare la scuola per un misto di ideologia e di interessi. Di questi nativi digitali Mastrocola descrive la vita, i colori e le fogge dell’abbigliamento, persino gli odori e la fisicità, con cui peraltro entra a contatto chiunque salga su una metropolitana all’uscita da scuola. Altro che asetticità digitale… La corporeità si prende sempre il ruolo di protagonista e assoggetta a sé qualsiasi ritrovato tecnico. È il vuoto di senso che contraddistingue oggi la scuola che causa il rifugiarsi nello smanettamento informatico e nell’ossessione chattante. Presentare queste ultime come caratteristiche intrinseche di una generazione è un rovesciamento truffaldino per perpetrare l’inganno di cui parla Mastrocola, e così svuotare ulteriormente di senso l’istruzione. Ma chiunque abbia provato a educare un bambino alla lettura, facendogli capire il senso della vita che trasmette questa attività, sa che questo è perfettamente possibile, ieri come oggi. Diciamo piuttosto che c’è chi non lo vuole.
Venendo alla proposta di Mastrocola, la capisco come un modo per sottolineare la gravità della situazione. Dopo anni di demagogia del “successo formativo garantito”, che ha posto alla scuola l’impossibile compito di rendere tutti uguali, si è ottenuto il contrario: quella che nel ’68 veniva chiamata “scuola di classe”… Chi ha una famiglia capace di sorreggerlo e trasmettergli cultura se la cava (anche sul piano del lavoro!), gli altri finiscono ignoranti e per giunta disoccupati. Vogliamo istituzionalizzare questo stato di cose? Non credo che Paola Mastrocola lo voglia. Oltretutto, sarebbe una battaglia contro i mulini a vento perché a questo si opporrebbero anche le forze che hanno condotto la scuola in questo stato e che la vogliono di massa, o per ideologia o perché vogliono ridurla a macchina di produzione di forza lavoro immediatamente impiegabile: non capiscono che in una società avanzata questo significa sicuro declino, ma poco importa. Non credo soprattutto che sia giusto perché non possiamo tornare indietro rispetto ai principi che hanno ispirato l’idea dell’istruzione pubblica due secoli fa. Nelle sue memorie sull’istruzione pubblica di fine Settecento il marchese di Condorcet spiegava perché «la società deve al popolo un’istruzione pubblica». «Avremmo dichiarato invano – osservava – che gli uomini hanno tutti gli stessi diritti. E dava una sonora lezione agli egualitaristi: «È impossibile che un’istruzione anche uguale non accresca la superiorità di coloro che la natura ha favorito di una migliore costituzione. Ma, per mantenere l’uguaglianza dei diritti, è sufficiente che questa superiorità non comporti una dipendenza reale e che ciascuno sia sufficientemente istruito per esercitare da solo i diritti che la legge gli garantisce senza sottoporsi ciecamente alla ragione altrui». I burocrati europei e i pedagogisti democratici credono di aver scoperto chissà cosa parlando delle “competenze del cittadino”. Ecco come Condorcet spiegava quella che oggi viene pomposamente chiamata la “matematica del cittadino”: «Ad esempio chi non sa scrivere e ignora l’aritmetica, dipende realmente dall’uomo più istruito, al quale deve costantemente ricorrere. Ma l’uomo che conosce le regole dell’aritmetica necessarie negli usi della vita non dipende dallo scienziato che possiede al massimo grado il genio delle scienze matematiche». Perciò i pedagogisti “democratici” hanno scoperto l’acqua calda, servendola però in una salsa indigesta fatta di egualitarismo e di costruttivismo che rende il composto quanto di meno democratico si possa immaginare.
Cosa fare concretamente è questione aperta, ma a me pare indubbio che alla scuola di massa non si possa rinunciare e altrettanto indubbio che non si può smettere di condurre una battaglia culturale per contrastare l’ideologia distruttiva del costruttivismo. Proprio a questa battaglia il libro di Paola Mastrocola ha dato un contributo importante.
(Il Giornale, 2 marzo 2011)

martedì 1 marzo 2011

IN DIFESA DELLA SCUOLA PUBBLICA


Vogliamo spiegare perché l’attacco rivolto da Silvio Berlusconi alla scuola pubblica sia stato un grave errore.
In primo luogo, come trascurare il fatto che la scuola pubblica rappresenta la quasi totalità del sistema dell’istruzione? Anche se il sistema privato si sviluppasse rapidamente, qualsiasi governo dovrà misurarsi col sistema pubblico per chissà quanto tempo ancora. L’Italia non può mettere in mora la scuola (come l’università) statale, da cui dipende quasi tutta la formazione, senza autosospendersi a tempo indeterminato dal novero delle nazioni avanzate. Attaccare la scuola pubblica in quanto tale è come prendersela con carabinieri e polizia.
Peraltro, è stato il governo, nella persona del ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini, a promuovere il tentativo di migliorare la scuola pubblica attraverso una serie di provvedimenti e non di demolirla, come ha sostenuto parte dell’opposizione, che trova paradossalmente conferma alle sue tesi nelle parole di Berlusconi. Chi, come noi, si è impegnato a fondo nella riforma della formazione degli insegnanti e nella stesura delle nuove Indicazioni nazionali per i licei, lo ha fatto con convinzione profonda e nell’intento di migliorare il sistema pubblico dell’istruzione. È deprimente pensare di aver fatto un inutile intervento su un corpo condannato. Nel nostro lavoro, abbiamo trovato conferma di quel che sapevamo, e cioè che la scuola italiana è ancora piena di energie vitali, di entusiasmi, di cultura, di capacità, che sono un lievito che può permetterle di risollevarsi. Non è vero che «gli insegnanti della scuola pubblica inculcano agli studenti valori diversi da quelli delle famiglie». In un contesto tanto vasto e complesso vi è di tutto: vi è chi inculca valori distruttivi ma anche chi inculca valori migliori di quelli su cui vivono certe famiglie. È un tragico errore lanciare il messaggio che “gli” insegnanti e la scuola meritino solo di essere rottamati. È sbagliato, ingiusto e autodistruttivo, perché umilia energie positive consegnandole a posizioni meramente protestatarie. Oltretutto non crediamo che un attacco alla scuola pubblica in quanto tale interessi i fautori del sistema privato – salvo il sacrosanto richiamo alla parità scolastica – né i fautori della scuola religiosa. Non dimentichiamo che il mondo cattolico vede nella scuola pubblica un luogo decisivo per vincere la sfida educativa.
Occorrerebbe piuttosto fare un discorso critico su ciò che nel passato trentennio ha massacrato la scuola pubblica: le responsabilità di quelle forze politiche che l’hanno trasformata in un ammortizzatore sociale, la mano morta dei sindacati che hanno preteso di farne una proprietà esclusiva, il predominio di un pedagogismo costruttivista che l’ha usata spregiudicatamente come terreno di sperimentazione delle sue sgangherate dottrine. Sono mali che si sono perpetuati in modo bipartisan e che per il terzo aspetto hanno afflitto anche le scuole private. L’azione governativa in questi ultimi anni ha per la prima volta positivamente iniziato a correggere questi mali. È un’opera di lunga lena che non andrebbe abbandonata. Invece, ci preoccupa, e molto, una caduta di tensione che vede il riemergere del costruttivismo pedagogico, anche nelle forme di una visione aziendalistica della scuola insensibile ai valori della conoscenza e che predica insensatamente che non conta quel che si conosce ma soltanto il metodo. Non è da sorprendersi che le forze che hanno degradato una delle migliori scuole del mondo tornino alla controffensiva, ma il messaggio che la scuola pubblica è da buttar via può suscitare una reazione difensiva dietro la quale può mascherarsi il riemergere di quelle forze distruttive.
Non è bene lanciare messaggi che provocano delusione e scoraggiamento in chi si è battuto e si batte per salvare il sistema italiano dell’istruzione.

Sergio Belardinelli
Giorgio Israel

(Il Foglio, 1 marzo 2011)