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giovedì 28 luglio 2011

BOCCIARE FA BENE AL MERITO


Dunque l’Ocse raccomanda di sopprimere le bocciature a scuola. Con quali argomenti? Il più inconsistente è quello economico, e cioè che le bocciature inciderebbero del 10% sul bilancio educativo. Con questo criterio tanto varrebbe tornare a qualche secolo fa: chi ha i mezzi paga un precettore, gli altri si arrangiano come possono. L’istruzione moderna è un investimento e non un lusso. Tuttavia, l’Ocse sostiene che il sistema delle bocciature è inefficace, produce perdita di fiducia, isolamento, ingresso ritardato nel lavoro e che la qualità dell’istruzione è migliore nei paesi in cui non si boccia, secondo le sue stime; circa le quali vi sarebbe molto da dire, visto che i modelli da imitare sono la disastrata scuola inglese e quella finlandese i cui “successi” – come mostrano numerose analisi – sono molto discutibili.
Il nodo a cui l’Ocse non da risposta è: quali strumenti restano per premiare il merito? In Italia, la soppressione degli esami di riparazione autunnali non ha conseguito l’effetto di eliminare le “ripetizioni” private, che sono diventate ora un immenso giro d’affari da far impallidire quello artigianale di un tempo. In cambio, ha tolto alla scuola uno dei principali incentivi allo studio diligente. Il mantra già diffuso, «Chi me lo fa fare di studiare, visto che tutti vengono promossi?», diventerà il primo comandamento dello studente. Se non si chiarisce quali incentivi e penalizzazioni efficaci introdurre in cambio, vuol dire soltanto che si mira a una scuola in cui il merito non vale niente.
È malinconico dover precisare un concetto evidente: offrire pari opportunità è ben diverso che garantire il successo a tutti. Il primo punto di vista è tipico di una società aperta, liberale, che riconosce che non siamo e non saremo mai tutti uguali. Non tutti possono diventare premi Nobel, ma è giusto e nobile che la società offra a tutti la possibilità di concorrere a diventarlo. Su questa base, i migliori hanno il diritto a un riconoscimento che non spetta ai peggiori. Il secondo punto di vista è tipico delle società illiberali, che conducono alla frustrazione dei migliori e all’inefficienza. Tutti vanno avanti comunque e, alla fine, ottengono un “portfolio” che inserisce in un canale sociale predeterminato. Tale visione ha al centro l’obbiettivo del “successo formativo garantito” come espressione di un demagogico egualitarismo secondo cui il successo scolastico è un “diritto”.
Non è possibile in un articolo di giornale analizzare l’intreccio di influssi culturali che sta dietro queste concezioni. Ma non va dimenticato che l’idea del successo formativo garantito ha un antecedente nell’attacco alla “scuola di classe”, “selettiva” e “repressiva”. Ricordo bene, quando ero giovane assistente, i professori “progressisti” che – distruggendo una tradizione di rigore degli studi cara alla sinistra – aprivano i verbali di fronte a una fila di studenti registrando un voto unico per tutti, e i cui epigoni di oggi permettono di copiare agli esami, fornendo essi stessi traduzioni e soluzioni.  Quella demagogia ha infettato non solo l’Italia e l’Europa. Molto tempo è passato e i sogni rivoluzionari sottostanti a quelle pratiche si sono spenti e trasformati in ideologie pedagogiche che hanno trovato asilo nella tecnocrazia. Quando un superispettore francese dichiara che una decina d’anni di “lotta militante” (testuale) basteranno a “distruggere” la scuola tradizionale, non si assiste soltanto alla fine di una figura di funzionario ligio alle direttive democraticamente stabilite, ma al riproporsi dell’ideologia totalitaria del successo garantito sotto vesti tecnocratiche e la cui essenza è il rigetto di ogni forma di meritocrazia.
A dire il vero, tale affermazione va corretta, perché se gli studenti vengono esentati da ogni controllo di merito, questo viene riservato soltanto agli insegnanti, trasformati in burocrati delle ideologie egualitarie, non più maestri ma meri esecutori delle prescrizioni tecnocratiche, meri “facilitatori” (secondo uno squallido neologismo). Non a caso il massimo astio dei fautori della scuola del successo formativo garantito è riservato alla categoria degli insegnanti, accusata di “resistere” e di arroccarsi su un’idea “vecchia” e “superata” di scuola, cui si vuole contrapporre la scuola-azienda volta alla soddisfazione dell’utente.
Con tutto il rispetto per l’Ocse, ci sembra che l’eliminazione della scuola meritocratica – un modello che ha garantito straordinari successi culturali e scientifici all’occidente, imitati in tutto il mondo – è una scelta troppo importante per essere delegata agli “esperti”. È in gioco qualcosa che coinvolge il futuro delle nostre società e che non può essere deciso con l’esibizione di statistiche e al livello di organismi tecnocratici. La vicenda in oggetto può apparire minore, ma in realtà è solo l’ultimo gradino di un declino delle strutture europee dell’istruzione che sembra inarrestabile, consegnato com’è a organismi e gruppi che si mostrano totalmente insensibili, se non sordamente ostili, alle denunce e critiche di tanti insegnanti, uomini di cultura e tanta parte dell’opinione pubblica.  

(Il Messaggero, 27 luglio 2011)


UN ULTERIORE COMMENTO:

Lo spazio mancava per un il seguente commento: «Numeri alla mano, l'organizzazione internazionale dimostra che laddove esistono molti "ripetenti" peggiorano i risultati complessivi delle classi e, in finale, anche la percentuale degli alunni che riescono a diplomarsi.» Numeri alla mano l'illustre organizzazione ha scoperto l'acqua calda e l'ombrello. Ma forse la filosofia dell'Ocse è quella del filosofo Catalano (per chi ricorda "Quelli della notte" di Arbore) da declinare qui al seguente modo: «È meglio una classe in cui tutti gli studenti sono bravi che non una classe in cui vi sono molti somari perché in tal caso la media dei risultati della seconda classe è inferiore a quella dei risultati della prima».  

lunedì 25 luglio 2011

Assurdo parlare di meritocrazia in una scuola che premia i copioni



Detesto quella forma di provincialismo che è l’esterofilia, ma apprezzo quei paesi in cui “copiare” agli esami è considerato una pratica eticamente scorretta, se non un vero e proprio reato, mentre da noi è vista quasi con simpatia. Non posso dimenticare che un presidente del Consiglio e un presidente di Confindustria si sono vantati di essere stati abilissimi a copiare. Eppure dovrebbe essere evidente a chiunque che approfittare delle prestazioni di una persona più capace – e poco importa se con il suo consenso – per ottenere una valutazione non meritata, è scorretto e, in certi casi, molto grave. In un concorso può significare rubare il posto a qualche “fesso” più capace e meritevole e quindi si tratta di un’azione immorale e di un vero e proprio reato.
Quel che è davvero curioso è che in questi tempi in Italia non si fa che parlare di “merito” e “meritocrazia”, il che – se le parole hanno ancora un senso – significa premiare i meritevoli, i più bravi e volenterosi, e farla finita con la prassi per cui tutti vanno avanti indipendentemente dalle loro capacità e prestazioni. Si mettono in piedi progetti per individuare e premiare i “migliori” insegnanti e le scuole “migliori”. Poi però si viene a sapere che la prassi di copiare durante gli esami non soltanto dilaga ma viene favorita o addirittura promossa da certi insegnanti. Mi raccontano – e la fonte è attendibile – che in un liceo importante l’insegnante (per giunta vicepreside) che sorvegliava la prova di matematica di maturità ha dato il posto in cattedra allo studente notoriamente migliore e poi, quando questi ha risolto il problema ha passato la soluzione a tutti. Nelle prove di latino, l’insegnante ha “scaricato” la traduzione da internet e l’ha trasmessa ai candidati. È da immaginare quali risultati avrebbe dato il progetto sperimentale del ministero (premiare i migliori insegnanti scelti dal preside e da due colleghi eletti)…
In questo contesto, è di una nauseante ipocrisia la proposta corrente secondo cui “non si può far nulla”, soprattutto a causa nelle nuove tecnologie, e quindi tanto vale lasciar scaricare agli studenti le risposte dalla rete e premiare quelli che sanno farlo meglio. È evidente che non è per niente difficile impedire agli studenti di scaricare i risultati dalla rete, tanto è vero che lo fanno per loro certi insegnanti e nella suddetta “proposta” si suggerisce di concentrare tutta la sorveglianza nell’evitare che i più incapaci a usare la rete copino i più abili a farlo… Ha ragione Paolo Ferratini quando osserva che ormai gli studenti traducono dal latino benissimo a casa e malissimo a scuola. Egli suggerisce allora all’insegnante di smettere di dare versioni a casa, di prendere atto della situazione e iniziare a costruire percorsi di apprendimento dai migliori siti della rete, imparando e insegnando a distinguerli dalla spazzatura. Nulla contro questa indicazione. Ma il problema di come verificare le capacità acquisite non è risolto. Una soluzione semplice sarebbe di proporre le versioni dal latino in classe e quelle dall’italiano a casa (la panoplia di brani da scegliere sarebbe infinita). E non si venga a raccontare che è impossibile controllare in classe l’uso di mezzi informatici: lo è esattamente quanto controllare che non si usino dispense o si passino bigliettini.
La verità che è non si vuole introdurre una vera meritocrazia e dilaga l’ideologia del successo formativo garantito. La paternalistica sufficienza con cui alcuni hanno considerato l’appello a non far copiare del “Gruppo di Firenze”, quasi si trattasse dell’iniziativa dei soliti onesti ingenui, ha messo in mostra uno dei peggiori difetti nazionali: la furbizia all’italiana.
(Tempi, 20 luglio 2011)

mercoledì 20 luglio 2011

Ancora sul demenziale h-index


L’h-index è un parametro ideato nel 2005 da J. Hirsch della California University per misurare la qualità di un ricercatore scientifico. Esso è definito come il più grande n per cui il ricercatore ha pubblicato n lavori ognuno dei quali ha ottenuto n citazioni. Se ne parla molto in questi giorni in Italia perché la nuova Agenzia per la valutazione dell’università e della ricerca (Anvur) l’ha proposto come un criterio base per i settori “scientifici” concedendo a quelli “umanistici” metri di valutazione differenziati che stanno suscitando discussioni roventi. L’h-index ha sollevato molte critiche perché va incontro a paradossi ridicoli. Ad esempio, un ricercatore con 10 pubblicazioni e 10 citazioni ciascuna ha lo stesso h-index di uno che oltre a queste ne ha altre 90 con 9 citazioni ciascuna, oppure ne ha 10 con 100 citazioni…Ci si è allora sbizzarriti a correggerlo con il g-index (il più grande n per cui le n pubblicazioni più citate hanno un totale di almeno n citazioni al quadrato) e altri indici ancor più sofisticati. Tutti hanno controindicazioni e, in fin dei conti, l’h-indice continua ad essere il più gettonato, tanto che confrontare gli h-indici è diventato quasi un gioco di società.
Giocando con uno dei programmi di calcolo dell’h-index si possono ottenere risultati talora esilaranti, buoni per dimenticare la calura delle serata estive. I dati possono variare secondo alcune specificazioni ma di solito di pochi punti in più o in meno, in modo omogeneo. Così si può trovare in vetta il neuro scienziato Jean-Pierre Changeux con un prestigioso 97 che umilia il 78 di Einstein e il 63 di von Neumann. Certo Changeux è uno scienziato di fama, ma insomma… Ma la sorpresa si fa grande constatando che lo scopritore dei neuroni a specchio Giacomo Rizzolatti calpesta con un vigoroso 73 il matematico Andrew Wiles, che ha risolto uno dei problemi matematici più difficili di tutti i tempi, la dimostrazione del teorema di Fermat, e che è inchiodato a un 32, per condivide con un’altra celebrità matematica come Enrico Bombieri. Entrambi sfigurano di fronte a… Alberto Alesina (92) e Francesco Giavazzi (43), per non dire di Umberto Veronesi (60). Un velo pietoso va steso sugli “umanisti”: persino un decano del settore come Tullio Gregory non riesce ad andare oltre 20 e il povero Emanuele Severino arranca con 14. Quanto ai commissari Anvur, il presidente Fantoni, in quanto fisico sfigura con un 23 davanti ai suoi colleghi medici o ingegneri (tutti sopra i 30) mentre altri commissari (Kostoris, Ribolzi) non raggiungono il 10.
Cosa concluderne? Che si tratta di un’emerita buffonata? Si e no. Certamente sì, nel merito. Purtroppo no, per la logica che è sottesa e che ridisegna una gerarchia della scienza che ne stravolge l’immagine consolidata, pensandola come una piramide al vertice della quale sono economisti, medici, genetisti e tecnologi, al disotto gli scienziati “di base”, ruderi del passato, e poi il proletariato umanista da chiudere in riserva indiana.
Al solito si dirà che attaccare la bibliometria è non volere la valutazione. Sciocchezze. Personalità al vertice della ricerca hanno mostrato che la bibliometria corrompe l’etica scientifica. Per dirla con la “legge di Campbell”: «più un indicatore quantitativo sociale è usato per prendere decisioni sociali vincolanti, più è soggetto alle pressioni di corruzione da parte degli agenti coinvolti, per cui l’indicatore corromperà il fenomeno che intendeva monitorare». Come ha bene chiarito un documento del Consiglio Universitario Nazionale (CUN) occorre fissare una soglia minima (numero di lavori in un dato periodo) e poi il giudizio deve essere di merito: «in ogni caso nessun parametro quantitativo può impedire un positivo giudizio di merito a fronte di risultati di assoluto valore la cui peculiarità può essere positivamente attestata». Altrimenti finiremo col prendere sul serio che Alesina sia tre volte superiore a Wiles, al che non crede neppure l’interessato.
(Il Foglio, 19 luglio 2011)

mercoledì 13 luglio 2011

FOLLIE E MISERIE DELLA BIBLIOMETRIA

Come e perché Brad Pitt e il Rettore dell'Università Statale di Milano hanno lo stesso h-index...
Lo spiega una magistrale e divertente lettera del Professor Giampietro Gobo.
Si può scaricare nel sito: https://sites.google.com/site/gisrarticles/documenti (o cliccando il titolo)

martedì 12 luglio 2011

LA VALUTAZIONE DELLE UNIVERSITA' INIZIA COL PIEDE SBAGLIATO


Il racconto di un’esperienza personale può introdurre l’argomento meglio di molti discorsi generali. Una ventina di anni fa, nel corso di una ricerca sulla storia delle applicazioni della matematica all’economia tra fine Settecento e inizio Ottocento, mi imbattei in un personaggio, il demografo Emmanuel Duvillard de Durand, noto solo per le sue tavole di mortalità, usate per qualche tempo dalle compagnie di assicurazioni. Scopersi che aveva tentato di entrare nella prestigiosa Accademia delle Scienze di Parigi, mancando per pochissimi voti la competizione con scienziati famosi. La cosa mi intrigò, seguii la pista di archivio in archivio e, quando scopersi migliaia di pagine di suoi manoscritti inediti, si profilò la figura di uno scienziato di grande livello stroncato da potentati accademici. Riuscii a selezionare il manoscritto dell’opera più originale tra le sue ricerche. Assieme a un collega sviluppammo un complesso lavoro di trascrizione, di analisi del senso del testo, di inquadramento storico e concettuale. Alla fine, l’inedito corredato da un nostro lungo saggio, è stato pubblicato in un volume curato magistralmente dall’Institut des Études Démographiques di Parigi.
Quando, come ormai d’uso, immisi i dati della pubblicazione nel database universitario mi trovai di fronte a una difficoltà. Non si incasellava in alcun modo negli schemi predisposti. Classificarla come monografia? No, perché conteneva l’opera di un altro. Come “articolo in volume”? No, perché così spariva ogni riferimento all’inedito e al lavoro enorme che era costata la sua edizione. Restava la classifica come “curatela” (volume “a cura di”). Ma questo sviliva in modo inaccettabile il nostro lavoro. Difatti, le curatele sono valutate come pubblicazioni di terz’ordine. In fin dei conti, negli “algoritmi di valutazione” correnti, quel lavoro finiva per contare meno di un articolo di rivista, persino meno di un libretto divulgativo. Come mi fece notare un collega di lettere, questa è la sorte, per esempio, dei medievisti: scoprono un manoscritto, vi lavorano sopra per anni, pubblicano un’opera che è un condensato di grande erudizione e che, nella valutazione “numerologica”, non vale niente.
Un tempo questi problemi non si ponevano: si davano esclusivamente giudizi di merito. Oggi si capisce che, in presenza di una produzione scientifica che cresce esponenzialmente, si imponga il ricorso a metodi automatici, per compiere un primo setaccio sulla base di parametri standard, come primo passo per valutare professori e ricercatori universitari. È altresì comprensibile che si voglia sbarrare la strada a chi non pubblica da anni. Ma anche qui bisogna stare attenti: conosco il caso di uno scienziato italiano in predicato di Nobel finito in coda a una graduatoria perché non pubblicava da tre anni, a dispetto del fatto che chi lavora su grandi questioni ha bisogno di tempi lunghi. Insomma, una scrematura è accettabile se il setaccio è ragionevole e non oscura il valore effettivo della ricerca che soltanto un’analisi di merito può attestare. Purtroppo, il mito secondo cui i numeri permetterebbero di esprimere giudizi “oggettivi” e “impersonali” spinge a ridurre tutta la valutazione alla fase quantitativa. A livello internazionale si sono da tempo affermate tecniche di valutazione bibliometrica, consistenti nel conteggio del numero di citazioni di un articolo, impact factor, e altri parametri come h-index, m-index, g-index e altri in arrivo. Una letteratura sempre più copiosa e autorevole ha messo in luce le assurdità e distorsioni di queste tecniche, mostrando che esse inducono vere e proprie forme di corruzione della probità scientifica. È comprensibile che esse siano difese dalle multinazionali private che le hanno inventate, e che con esse cercano di controllare il mercato dell’editoria accademica. È incomprensibile che scienziati e uomini di cultura facciano orecchie da mercante e introducano a testa bassa metodologie al centro di una contestazione diffusa.
In Italia arriviamo per ultimi nella valutazione istituzionale della ricerca e dobbiamo definire i requisiti minimi nelle idoneità nazionali per diventare professore universitario, come previsto dalla nuova legge di riforma. Dovrebbe essere l’occasione per procedere con i piedi di piombo. È quel che ha fatto il Consiglio Universitario Nazionale (Cun) in un documento molto apprezzabile che, pur con qualche squilibrio tra i vari settori, avanza proposte argomentate con serietà culturale. Invece, l’Agenzia per la valutazione dell’università e della ricerca (Anvur) di recente istituzione ha prodotto un documento di sconcertante modestia. Esso alza una barriera tra settori scientifici e umanistici. Ai primi riserva la più piatta ortodossia bibliometrica, senza tenere in alcun conto le forti critiche che provengono proprio da questi settori. Per le scienze umane, trattate come una “riserva indiana”, si avanzano proposte imbarazzanti. Per esempio, si introduce l’assurda categoria degli editori internazionali e nazionali: una monografia pubblicata presso i primi vale tre volte una monografia pubblicata presso i secondi. Cos’è un editore internazionale? Se trattasi di una multinazionale dell’editoria, ve ne sono poche e non tutte prestigiose. Altrimenti anche le case editrici accademiche americane più prestigiose sono “nazionali”. In realtà la domanda è retorica: sappiamo bene che, in conformità a un consolidato provincialismo all’italiana, “internazionale” vuol dire “estero”, e “nazionale” “italiano”. Per cui, un libro pubblicato presso un’infima casa editrice estera vale assai di più (secondo l’Anvur 3 volte) di un libro pubblicato da un prestigioso editore italiano. Potrà accadere che un libro pubblicato presso un ottimo editore “nazionale” passi dalla quotazione 1 alla quotazione 3 se si riuscirà a farlo tradurre da un editore “internazionale”, sia pure di infimo livello.
Nella prolusione all’anno accademico dell’Università di Bologna, il professor Tommaso Ruggeri, per sottolineare i rischi della bibliometria ricordò la vicenda del matematico italiano Ennio De Giorgi – uno dei massimi matematici del Novecento – che, nel 1957, risolse prima e meglio di John Nash (il celebre “Beautiful Mind”) il difficilissimo 19° problema di Hilbert. Il suo lavoro fu pubblicato nelle Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino, in italiano come tutti i lavori di De Giorgi. Un professore del Courant Institute di New York, nel segnalare il lavoro di De Giorgi, definì le Memorie – ovvero la rivista in cui pubblicava Lagrange, uno dei più grandi matematici di tutti i tempi – come «la rivista più oscura che si possa immaginare». Erano gli inizi della barbarie culturale. Oggi, la dittatura dei parametri bibliometrici spazzerebbe via De Giorgi nella valutazione dei requisiti minimi per diventare professore associato, senza neanche leggere il suo lavoro, che da solo dovrebbe bastare a diventare ordinario ed emerito.
Se questa è la via con cui si vuole affermare il rigore, la serietà e riqualificare la ricerca scientifica, allora c’è da preoccuparsi seriamente: soprattutto per i giovani, non di certo per i più anziani come lo scrivente. I giovani rischiano di conoscere un’università dominata da automatismi burocratici, in cui è ignota l’idea di cosa sia un contenuto scientifico e culturale. E non si venga a dire che sollevare questi problemi significa rifiutare la valutazione: quando ci si illude che le normative possano affermare l’etica della ricerca si decreta la fine di ogni autentica valutazione meritocratica.
(Il Messaggero, 10 luglio 2011)

domenica 10 luglio 2011

DUE BREVI COMMENTI

Prima osservazione. Leggo che i dirigenti dell’Invalsi da qualche tempo ripropongono tutti una frase del celebre Francesco De Sanctis: «Per me la garanzia di una buona scuola è un buon direttore». Nulla da eccepire, è un’affermazione convincente. Allora ci si chiede perché non s’inizia a fare una valutazione approfondita dei dirigenti scolastici e, dopo averne accertato la qualità, si concede soltanto ai migliori – non solo ai più competenti e capaci di coordinamento, ma anche equilibrati nel giudizio – di valutare i loro insegnanti. Invece qui si sta procedendo a rovescio: si affida la valutazione degli insegnanti ai dirigenti scolastici, “a prescindere”. Se i dirigenti Invalsi frequentassero un po’ la logica eviterebbero di citare la frase di De Sanctis, ovvero di dare un gran colpo di zappa sui piedi del Ministero. A meno che non sia questo quel che vogliono…
Seconda osservazione. Leggo che il direttore dell’Invalsi Dino Cristanini ha sostenuto in un convegno che per verificare le conoscenze sono sufficienti i test, per verificare le competenze servono strumenti più sofisticati e indici meno standardizzati. C’è da restare basiti. Tutti gli “specialisti” in materia sostengono che le conoscenze non sono misurabili e, per questo non si procede a stimarle, mentre le competenze sono misurabili e i test ne sono la misura. Potrei citare non so quanti testi in tal senso (indipendentemente da quel che penso di queste affermazioni, e il lettore di questo blog lo sa). All’Invalsi hanno fatto una scoperta che rivoluziona le concezioni della valutazione? Debbono vedersela con le autorià del settore. D’altra parte, si vede che non leggono i test che loro stessi “somministrano”. Quelli di matematica non sono basati in buona sostanza su alcuna conoscenza matematica, bensì si tratta soltanto di problemi di “matematica del cittadino” che, nella maggior parte dei casi, non richiedono alcuna conoscenza specifica. Del resto, che le conoscenze si possano verificare con i test è un’affermazione che non merita commenti. Si può, tutt'al più - come ho detto e ripetuto - verificare il possesso di nozioni base, estremamente elementari, di conoscenza, in grammatica, nelle tabelline o consimili nozioni. Ma misurare una conoscenza nel senso pieno della parola è insensato. Come è insensato pensare di misurare la "competenza". Beninteso, io da questa scolastica delle conoscenze vs. conoscenze mi tengo scrupolosamente alla larga.


«Il bordello è l'unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto» (Indro Montanelli)

Non sarà un dirigente “manager” a liberarci dai somari in cattedra



La dirigente di una scuola secondaria decide di punire in blocco gli studenti della sua scuola per il danneggiamento vandalico di un estintore imponendo un rimborso collettivo. Uno studente modello (9 di media) si rifiuta di pagare la sua quota in quanto non si ritiene colpevole di alcunché. La dirigente propone al consiglio di classe di assegnargli un 6 in condotta. Una insegnante vota contro e si vede punita dalla dirigente con 10 giorni di sospensione senza retribuzione. È un fatto – riportato ampiamente dalla stampa – che testimonia la cronica incapacità di trovare nella scuola il giusto equilibrio tra gestione democratica “dal basso” e gestione autoritaria. Si tratta forse del riflesso di una carenza italiana di cultura autenticamente democratica dopo che per qualche decennio sono prevalse culture totalitarie? Lasciamo pure aperta la domanda. Ma, di certo, le follie populistiche della scuola del successo formativo garantito in cui sono garantiti i diritti ma non i doveri – la scuola della “customer satisfaction”, in ginocchio davanti all’“utente” – non si correggono conferendo un potere consolare incontrollato ai dirigenti scolastici “manager” sul modello fallimentare delle ASL. Questa mancanza di senso dell’equilibrio si è espressa anche nella sperimentazione della valutazione del merito dei docenti in cui il potere di decidere chi siano gli insegnanti migliori di un istituto scolastico è stato conferito a una commissione composta dal dirigente e da due docenti “eletti” dai loro colleghi. Magari in questa particolare sperimentazione le cose saranno andate in modo corretto, ma è alla portata di chiunque capire che una scuola in cui un dirigente ha una mentalità autocratica e si è creato una propria consorteria – per i più svariati motivi, da quelli personali a quelli politici, ideologici, ecc. – la medesima consorteria può autopremiarsi penalizzando gli sgraditi, che magari sono i migliori.
Ecco un altro episodio, tra i tanti che si potrebbero raccontare. Un insegnante si distingue per la sua incapacità di tenere l’ordine in classe e per la sua ignoranza. Le sue castronerie – del genere «oggi vi imparo» – si sprecano e sono anche documentate. Un gruppo di genitori stufi protesta per iscritto con il dirigente. Ma l’insegnante è molto amico del dirigente e anche di altri genitori – cui fa comodo che i loro cocchi facciano quel che più garba loro e che abbiano pochissimi compiti a casa – con cui intrattiene rapporti personali, per esempio andando a farsi ogni tanto una pizza con loro. Così parte un contrappello in difesa dell’insegnante e contro le famiglie che hanno protestato. Il dirigente si schiera con l’insegnante e i genitori suoi amici e, per gli altri, l’unica alternativa è tentare di cambiar scuola. L’esito è così riassumibile: «Ve lo imparo io che succede a protestare contro il mio insegnante».
È chiaro che non esistono sistemi perfetti ma bisogna proprio andarsi a scegliere un sistema che presenta controindicazioni tanto plateali? Se poi si definisce un simile metodo come “oggettivo” si sconfina nell’incoscienza. È elementare capire che il minimo di garanzia di ottenere una valutazione seria è affidarla a un giudizio esterno e indipendente.
 Ora, la premiazione dei migliori scelti a quel modo – in una trentina di scuole faticosamente pescate dopo una raffica di rifiuti - viene sbandierata come un successo. Mi dispiace, ma non sono d’accordo. Non esistono ragioni al mondo, di alcun tipo, che possano indurre a condividere scelte che confliggono con il più elementare buon senso e che possono avere implicazioni pratiche distruttive.
(Tempi, 13 luglio 2011)

mercoledì 6 luglio 2011

Altre follie del determinismo genetico


Più volte ho avanzato l’ipotesi – che trova sempre ulteriori conferme – dell’esistenza di un’associazione dall’acronimo AIDS – la quale condivide con la nota malattia oltre al nome soltanto la nocività – che sta per Associazione Internazionale per il Discredito della Scienza. È dedita a propalare le “scoperte” più demenziali: che Chopin era romantico perché epilettico, che gli Impressionisti dipingevano in quel modo perché avevano la cataratta, che dopo sette anni le coppie entrano in crisi e quindi è una scelta “scientificamente” fondata divorziare preventivamente per evitare inutili liti; e così via. Un ricercatore francese ha “dimostrato” che il rendimento scolastico dipende dall’epoca di nascita e, in particolare, che i nati in dicembre vanno male a scuola per cui bisognerebbe alzare tutti i loro voti secondo un coefficiente standard. Ora un rapporto della Confindustria spagnola (Confederación Española de Organizaciones Empresariales, CEOE) sostiene che i fattori ereditari sono determinanti nel rendimento scolastico. Non si spiega perché. Ci si limita a dire che non meglio precisati “lavori”, che hanno posto a confronto i livelli educativi dei genitori e dei figli, avrebbero condotto alla conclusione che il fattore socioeconomico conta molto meno di quello genetico. Anzi, ci si azzarda addirittura a una stima quantitativa: il fattore genetico-ereditario conta più del doppio di quello socioeconomico... Come si misurino questi rapporti è un mistero che pare vada accettato come una verità di fede. È persino imbarazzante dover ricordare che nessuna persona seria può pretendere di affermare che esista un rapporto di causa-effetto tra fattori genetici e facoltà mentali. Il determinismo biologico che sottende affermazioni del genere non soltanto non ha nulla a che fare con la scienza, ma neppure con il più elementare buon senso. Pertanto, propalare simili sciocchezze significa soltanto trastullarsi irresponsabilmente con il razzismo.
Gli autori di questa bravata sono il sociologo Juan Carlos Rodriguez e un professore dell’Università Complutense di Madrid, l'analista sociopolitico Víctor Pérez-Díaz, noto in Italia perché anni fa alcuni ambienti politici nostrani lo assunsero come un’icona nel cielo della teoria politica. Il suo libro “La lezione spagnola” fu presentato come il manuale di riferimento del modello spagnolo che l'Italia, manco a dirlo, avrebbe dovuto copiare per salvarsi. Sarebbe interessante riparlarne oggi alla luce dei recenti sviluppi della crisi economica in Spagna.
La CEOE ha commissionato a Perez-Diaz la parte del rapporto sulle “riforme necessarie per potenziare la crescita dell’economia spagnola”. Trattandosi quindi di un documento istituzionale, la domanda inquietante che si pone è: che uso farà la CEOE di questo risultato? Difatti, il determinismo biologico che esso propone lascia poco spazio al “recupero” culturale di coloro che fin dalla nascita sono condannati all’insuccesso scolastico. Alla CEOE resta quindi soltanto la scelta di chiedere che i bambini vengano sottoposti all’inizio della carriera scolastica a un test genetico. I dotati potranno andare avanti, i predestinati asini saranno condannati ai mestieri più umili. In tal modo, verrà garantito il potenziamento della crescita dell’economia attraverso la selezione di una razza superiore.
Questa si che è una “lezione spagnola” che vale anche per noi. In primo luogo, invita a guardare con sempre maggiore diffidenza l’AIDS. In secondo luogo, vale come ammonimento a farla finita con la medicalizzazione dell'istruzione. Infine, serve a ricordare a vari soggetti un po’ troppo intraprendenti in tema di istruzione e cultura – tra cui imprenditori, manager, sociologi ecc. – l’aureo detto latino "sutor ne ultra crepidam", calzolaio non andare oltre le tue scarpe.
(Il Giornale, 5 luglio 2011)