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martedì 27 settembre 2011

Ricerca, che idea sgangherata valutare la qualità con la quantità


Circa un mese fa ci siamo occupati in questa rubrica dei criteri stabiliti dalla nuova Agenzia per la valutazione dell’università e della ricerca (Anvur) per le idoneità nazionali a professore universitario. Molte voci del mondo universitario e culturale hanno criticato vivacemente questi criteri, improntati alla più piatta valutazione quantitativa di tipo bibliometrico, oltre all’assurda idea di attribuire un punteggio triplo ai lavori pubblicati con editori “internazionali” rispetto a quelli “nazionali”, così che un libro pubblicato presso una prestigiosa casa editrice italiana varrebbe assai di più se pubblicato all’estero, magari presso una casa editrice minore di un paese marginale. Di recente, l’Anvur ha risposto alle critiche con un documento sconcertante. Se Ernesto Galli della Loggia aveva accusato l’Anvur di assurda esterofilia, l’Agenzia risponde a tono stipando inutilmente il documento di termini in inglese. Dopo aver stigmatizzato gli interventi degli «affrettati commentatori» che hanno osato parlare di “esterofilia”, si concede con degnazione che la discussione è stata accettabile in quanto evidence-based, e poi dalli con information retrieval, fractional counting, 10-14-like, outlier e via così.
Le critiche vengono liquidate con supponenza, affermando che «prese di posizione generali/generiche di segno negativo, in particolare tese a bloccare sul nascere ogni tentativo di definire indicatori quantitativi della qualità della ricerca sono state espresse solo da voci isolate» o addirittura sono sospette di «fermare un processo di cambiamento senza offrire argomenti alternativi convincenti». Ci si chiede come si può essere tanto temerari da definire la International Mathematical Union o l’Institute of Mathematical Statistics come “voci isolate” incapaci di offrire argomenti convincenti; senza rendersi conto che, di fronte a istituzioni di questa portata sono i commissari dell’Anvur a fare la figura di voci isolate di ben minore prestigio.
Ma particolarmente indicativo è il modo con cui si respingono le critiche circa la valutazione delle pubblicazioni “internazionali” o “nazionali”. Si afferma che un volume pubblicato all’estero comporta uno sforzo maggiore per l’autore rispetto a un volume in italiano. Forse, soltanto se egli ne è il traduttore, cosa che non accade quasi mai. Altrimenti, non si capisce di quali sforzi si parli. Ancor più stupefacente è la tesi secondo cui un libro pubblicato all’estero «è stato sottoposto a una competizione più ampia e severa in quanto per definizione più numerosi sono i concorrenti». Davvero? Pubblicare un libro in croato (con tutto il rispetto) comporta “per definizione” (quale definizione?) una maggiore competizione? O piuttosto non accade in molti casi che sia più facile pubblicare un libro all’estero presso qualche piccola casa editrice compiacente in qualche lingua poco frequentata con poca concorrenza? Inoltre che un libro pubblicato all’estero «raggiunga una platea» più vasta di lettori può essere vero soltanto per l’inglese o il cinese.
Sulla base di simili “argomenti” l’Anvur ripropone senza batter ciglio i suoi criteri con una sola modifica: parlando non di volumi pubblicati da casa editrice nazionale o internazionale (magari intendendo con quest’ultima una casa editrice capace di accedere ai canali internazionali), ma di volumi pubblicati in italiano o in altra lingua.
Queste sono le idee provinciali e sgangherate su cui si dovrebbe fondare la riqualificazione della ricerca e delle università italiane. Stiamo freschi, tanto per dirla in italiano.
(Tempi, 21 settembre 2011)

sabato 24 settembre 2011

Battuto il record dei 300.000 km piani

A essere sinceri già il "battage" giornalistico sull'esperimento dei neutrini era alquanto sconcertante, con un'orgia di dichiarazioni insensate sul crollo della teoria della relatività, sulla fine del principio di causalità, sulla possibilità di invertire il corso del tempo e altre amenità. Un esperimento serio, che può avere implicazioni molto serie e da affidare alla riflessione, è stato gettato in pasto alle chiacchiere più incontinenti. Ma, francamente, che ci si mettesse anche il ministero con un linguaggio da rivendicazione delle glorie italiche è un po' troppo.

Dichiarazione del ministro Mariastella Gelmini
"La scoperta del Cern di Ginevra e dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare è un avvenimento scientifico di fondamentale importanza."
Rivolgo il mio plauso e le mie più sentite congratulazioni agli autori di un esperimento storico. Sono profondamente grata a tutti i ricercatori italiani che hanno contribuito a questo evento che cambierà il volto della fisica moderna.
Il superamento della velocità della luce è una vittoria epocale per la ricerca scientifica di tutto il mondo.
Alla costruzione del tunnel tra il Cern ed i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l'esperimento, l'Italia ha contribuito con uno stanziamento oggi stimabile intorno ai 45 milioni di euro.
Inoltre, oggi l'Italia sostiene il Cern con assoluta convinzione, con un contributo di oltre 80 milioni di euro l'anno e gli eventi che stiamo vivendo ci confermano che si tratta di una scelta giusta e lungimirante".
Non si tratta soltanto dell'esilarante riferimento al contributo italiano di 45 milioni di euro per costruire il «tunnel tra il Cern ed i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l'esperimento» e sul quale si sta scatenando il sarcasmo di mezzo mondo. E a proposito del quale vale l'aureo detto «l'è peso il tacon del buso». Era meglio tacere, o cavarsela dicendo che vi era stata una distrazione imperdonabile nel rileggere il comunicato, scritto da un imbecille da cacciare prontamente a pedate. Ma obiettare in modo stizzito che era evidente trattarsi dell'anello del Cern a Ginevra, è penoso. Perché, se è così, allora - come è stato detto - , il problema non è più di fisica ma di italiano. Altro che valutare scuole e insegnanti da parte di chi non controlla la grammatica, la sintassi e il senso delle parole. 
Ma anche se non ci fosse stata quella frase esilarante è tutto il comunicato che fa letteralmente pietà, e non soltanto per l'accodarsi al sensazionalismo: «evento che cambierà il volto della fisica moderna». "Cambierà", non "potrebbe cambiare"... E questo sarebbe spirito scientifico? Non guasterebbe una buona doccia fredda. 
Non soltanto. Il peggio sta in quella frase impagabile: «Il superamento della velocità della luce è una vittoria epocale per la ricerca scientifica di tutto il mondo»... Già, perché da quando Einstein aveva vinto il record dei 300.000 km piani percorsi in un secondo, ogni scienziato si batte per superare quel record mobilitando ogni particella disponibile per superare la luce. E finalmente ce l'hanno fatta con i neutrini. La velocità della luce è stata superata!... E per giunta gli allenatori erano scienziati italiani... 
Roba da film di Totò. Perché non hanno scritto nel comunicato che questa scoperta è una "pietra emiliana" per la fisica?
Lo dico da un po' che al Ministero da qualche tempo sono allo sbando. Il fatto che qualcuno là dentro abbia potuto scrivere un testo simile e che il ministro l'abbia firmato (il che non è meno grave che averlo scritto) ne costituisce la conferma più clamorosa. 

giovedì 22 settembre 2011

Sarà assunto chi indovina il colore del cavallo bianco di Napoleone



Sfoglio alcuni libri di testo per le scuole medie e la realtà supera la fantasia. Nel libro di storia non c’è un brano che duri con continuità più di mezza pagina: titoletti, sintesi di poche righe, immagini, riquadro con una frase celebre, e poi – prima di passare a un altro “modulo” – domande su domande per verificare che l’accrocco di nozioni sia stato assimilato. Stessa faccenda per la geografia. Anche la matematica è ridotta a frammenti: regolette, esempi, applicazioni, mai un concetto, mai un teorema (cos’è un teorema? roba che si mangia?). E meno male che si predica contro l’insegnamento “nozionistico” della matematica… Poi, anche qui, verifiche di apprendimento a tutta birra, a base di “quesiti a risposta multipla”. Il quadratino da riempire con la crocetta è la forma dominante nei libri scolastici. E poi ci si chiede come mai i ragazzi non riescano a leggere più di mezza pagina per volta, non riescano a scrivere più di una riga per volta, non sappiano cosa sia una frase e comunichino in stile sms.
La prossima selezione per più di duemila posti di dirigenti scolastici verrà fatta con una prova preliminare a base di quiz: su 5750 domande ne verranno sorteggiate 100 cui rispondere in 100 minuti. Per superare la prova occorrerà indovinarne l’80%. I furbi le hanno già “messe in rete” e molte risultano insensate. Pare che anche per diventare ragioniere presso la Presidenza della Repubblica occorra superare un test con domande esilaranti. Ai candidati si chiede quale sia il finale dei Promessi Sposi e se l’apparato di cui il cuore è l’organo centrale sia circolatorio, digerente, locomotore o urinario. Così il Colle più alto rischia di avere un commercialista che sa come va a finire per Renzo e Lucia ma crede che si faccia pipì con il cuore. Un’altra domanda è chi abbia inventato l’alfabeto Morse e tra le risposte ovviamente c’è Morse, per cui ci si chiede come possa esistere una persona a tal punto deficiente da scegliere come risposta Darwin… Invece esiste: ed è chiaramente chi ha pensato un simile test.
Non siamo tanto faziosi da sostenere che i test Invalsi propinati nelle scuole siano altrettanto demenziali. Sono più dignitosi, ma spesso cattivi e comunque inadeguati a fornire valutazioni sensate. Quando abbiamo provato a dirlo, con esempi dettagliati, non siamo stati degnati di risposta. Si è udita la solita solfa – ripetuta come una verità di fede – secondo cui i test forniscono valutazioni “oggettive” che superano l’arbitrarietà del giudizio del docente. Abbiamo osservato che anche i test sono prodotti da “soggetti” e che la valutazione della loro qualità o difficoltà è opinabile. Si è allora affermato apoditticamente che le analisi statistiche consentono di determinare il livello di difficoltà di un test. Ebbene, per quanto rintronati dalla propaganda non lo siamo ancora al punto di sorbirci la colossale bestialità che la “difficoltà” di un concetto si possa stimare con analisi statistiche.
Viene reiterato l’annuncio che il sistema dei quiz sarà introdotto anche agli esami di maturità. Avanti così. Di questo passo, ogni libro sarà a caselle e crocette. Anche nei romanzi, per ordine del ministero, il lettore dovrà, a ogni pagina, compilare un questionario atto a valutare il grado di comprensione delle righe appena lette. La valutazione farà parte del “portfolio” teso a “certificare” quelle che i buontemponi chiamano le “competenze della vita”. Assieme a questa idea siamo pronti a proporne molte altre. Visto che siamo condannati, tanto vale contribuire alla rapida ed efficace diffusione del cretinismo di massa. Sia ben chiaro, dietro emissione di fattura.
(Tempi, 21 settembre 2011)

martedì 13 settembre 2011

L'anno scolastico al via


L’inutile nuovismo senza contenuti

Qualche anno fa, di fronte allo sfascio della scuola, si era diffusa la consapevolezza che fosse necessario riaffermare i principi del “merito” e del “rigore”. Nessun ritorno impossibile alla scuola delle bacchettate sulle dita, ma occorreva accantonare l’idea del “successo formativo garantito”, il modello di una scuola in cui non si fatica mai, in cui gli studenti sono coccolati in una campana di vetro, da cui peraltro prima o poi dovranno uscire. Non bastava più quello che Hannah Arendt definiva come il «mediocre pragmatismo secondo cui si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé», inculcando solo tecniche e non conoscenze, col rischio di dimenticare che il fondamento della libertà è proprio la conoscenza. Era necessario restituire prestigio alla funzione dell’insegnante, non come tecnico o “facilitatore” – un animatore culturale di basso profilo – ma anche qui nel senso di Arendt: come rappresentante del mondo, che ne offre l’immagine ai giovani e per questo è autorevole.
Di tutto questo insegnanti, famiglie e studenti sono consapevoli oggi più di prima. Ma il mondo dell’istruzione non appartiene solo a questi soggetti, bensì anche alla politica e all’amministrazione che si sono dimostrate più sorde e recalcitranti. Oggi, gli inconvenienti che erano frutto di un certo pedagogismo metodologico e costruttivista, si ripresentano nella forma aggravata di un altro metodologismo: quello tecnocratico.
È una strana lotta tra “vecchio” e “nuovo” talmente falsata che i due termini non corrispondono più alla realtà. Almeno il costruttivismo pedagogico, se aveva il torto di privilegiare i metodi sui contenuti, definiva i suoi principi sul piano culturale. Invece ora siamo alla mitizzazione delle tecniche. Migliorare la qualità dell’insegnamento? Con una pioggia di Wi-fi e di lavagne multimediali, anche in scuole in cui se piove dal tetto occorre disinserirle per evitare il cortocircuito. Cosa vi sia “dentro”, pare che sia irrilevante. Migliorare la qualità dei testi di matematica o di storia? Pare che non interessi parlare dei contenuti di manuali abborracciati, pieni di errori, che presentano una bizzarra matematica che frustra le capacità dei bambini. Si propongono escogitazioni tecniche: progetti di editoria digitale presentati come un toccasana, indipendentemente da quel che vi sarà messo dentro, tra cui i videogiochi, in un’orgia di modernismo che fornirebbe materia a Petrolini redivivo per aggiornare il suo Gastone.
E poi, test su test, introdotti a ogni livello scolastico, tra poco anche all’esame di maturità, che costringono l’insegnante a trascurare storia, letteratura e matematica propriamente dette per addestrare i ragazzi a superarli. Sulla stampa si moltiplicano vivaci critiche della nuova moda, con esempi clamorosi dei ridicoli quiz proposti, che spesso all’università sono commissionati a ditte private, con quale garanzia di competenza è superfluo dire. Ma le critiche crescenti scorrono come l’acqua sul vetro e si procede imperterriti col pretesto che così si garantirebbe l’oggettività del giudizio. Naturalmente non è vero. I giudizi restano soggettivi. L’importante sarebbe renderli sempre più equanimi e sviluppare la necessaria valutazione attraverso un confronto critico e continuo entro l’istituzione, in modo da produrre una crescita culturale. Sarebbe inoltre strategico mettere in opera un processo di formazione dei nuovi insegnanti improntato a rigore culturale e a una selezione meritocratica. Ma il nuovo regolamento non riesce a entrare in funzione da tre anni, sotto il tiro delle più disparate ostruzioni corporative. Anche le nuove ottime Indicazioni nazionali per i licei rischiano di essere vanificate dall’impossibilità di por mano a una radicale riforma di quelle del primo ciclo.
Infine, l’andazzo tecnocratico è ispirato da una totale e aprioristica sfiducia nelle persone, e così provoca un’ulteriore umiliazione della funzione dell’insegnante. Giorni fa, ascoltando un bellissimo discorso di accoglienza di un preside, mi sono detto che proprio questa è invece la forza e la vitalità della scuola: l’entusiasmo e l’impegno civile e culturale di tanti suoi insegnanti e dirigenti. Perché, alla fine, quando si chiudono il portone di una scuola e la porta di una classe, quel che conta davvero è il rapporto umano e culturale che si istituisce tra insegnanti e alunni, e che vince qualsiasi marchingegno burotecnocratico. È questa la solida base da cui bisogna ripartire per mantenere vive le speranze. 
(Il Messaggero, 12 settembre 2011)

domenica 4 settembre 2011

Negazionismi e unicità della Shoah


Alain Finkielkraut aveva previsto già una trentina di anni fa le conseguenze dell'introduzione del termine “genocidio”, coniato nel 1944 per distinguere lo sterminio degli ebrei dagli altri crimini contro l'umanità: il formarsi di un codazzo di aspiranti allo stesso privilegio; il dilagare dei "confronti" tesi a dimostrare il diritto ad ottenerlo e quindi tesi a sminuire la gravità del genocidio degli ebrei. Come osservò Finkielkraut, «dalle donne agli occitani, ogni minoranza oppressa proclamò il suo genocidio. Come se, senza di ciò, cessasse di essere interessante». E l’elenco continua ad allungarsi: non si è visto, a Roma l'anno scorso, un corteo di insegnanti sfilare con la stella gialla appuntata sul petto, proponendo il proprio genocidio?… A seguito del celebre film di Claude Lanzmann, i termini olocausto e genocidio (degli ebrei) furono sostituiti nell’uso con la parola ebraica Shoah (catastrofe). Una scelta del tutto normale: non è altrettanto accettabile denominare sinteticamente Gulag lo sterminio di milioni di cittadini sovietici da parte del regime comunista? Il problema è che il termine Shoah è stato associato al rafforzamento dell'idea già contenuta nel termine "genocidio": l’assoluta unicità di questo evento, la sua incomparabilità con qualsiasi altro crimine della storia, fino a farne un evento metastorico e a suscitare persino una metafisica e una teologia della Shoah.
Chi scrive ha ripetutamente criticato come infondata e rischiosa la collocazione della Shoah al di fuori della storia. Per esempio, il rifiuto di stabilire qualsiasi relazione tra Lager e Gulag è assurdo. La relazione è stata evidenziata in modo magistrale sul piano romanzesco da Vasilij Grossman. Sul piano storico essa risale alla folle ambizione di entrambe le dittature di rigenerare la società dalle fondamenta: l'una mediante l'igiene sociale, l'altra mediante l'igiene razziale, come osservò Victor Zaslavski. Paradossalmente, il mito dell'unicità della Shoah è servito ai postcomunisti per derubricare i crimini di Stalin a qualcosa di non tanto grave e moderatamente efferato. Naturalmente questo è frutto di cattiva coscienza. Così come è la cattiva coscienza che spinge ogni giorno qualcuno a sminuire la gravità della Shoah stabilendo confronti deliranti anziché relazioni magari discutibili ma ragionevoli, mescolandola con gli eventi più disparati. È la cattiva coscienza di un'Europa che non ha mai fatto davvero i conti con i propri totalitarismi.
Leggo l'intervista di Günther Grass e trovo che molte delle sue affermazioni sono discutibili sul piano storico e qualcuna anche sul piano morale. Ma non mi sento di fare scandalo sulla frase che, invece, più ha destato scandalo: «Non dico questo per diminuire la gravità del crimine contro gli ebrei, ma l'Olocausto non è stato l'unico crimine». Non mi sento di fare scandalo perché questa frase esprime un concetto persino ovvio. È una frase di cui non vi sarebbe stato bisogno se non si fosse avuta l'idea avventata di collocare la Shoah sul piedistallo metastorico e metafisico dell’unicità. Per il resto, Grass si è espresso in modo discutibile ma aperto e onesto. Efferato e losco è invece l'atto di quel funzionario francese che ha interdetto mediante una circolare l'uso della parola Shoah nelle scuole.
Mi ha colpito il riferimento di Grass al fatto che metà della Germania sia stata abbandonata al comunismo. Di questo oggi non si parla. Così, la Spagna zapaterista mette alla gogna i crimini del franchismo mentre stende una cortina su quelli non meno atroci compiuti dai comunisti spagnoli delle varie tendenze. L'Europa che non ha fatto i conti con tutti i totalitarismi del Novecento è la stessa che genera il nuovo antisemitismo, sotto forma di antisionismo e di odio per Israele e che, allo scopo, non si fa scrupolo di usare il negazionismo. Per contrastarla il mito dell'unicità della Shoah non serve. Al contrario. Al posto della circolare francese, occorrerebbe una circolare europea che prescriva in tutte le scuole la lettura di "Vita e destino" di Vasilij Grossman.
(Il Giornale, 2 settembre 2011)