Pagine

venerdì 28 ottobre 2011

IL DOTTOR IMBROGLIO

Bertillon inventò l'antropometria criminale ma inciampò ignominiosamente sul caso Dreyfus


La scheda antropometrica di Bertillon collaudata su Bertillon medesimo

Alphonse Bertillon nacque nel 1853 a Parigi da una famiglia illustre. Suo nonno Achille Guillard era lo statistico inventore della parola “demografia”. Suo padre Louis Adolphe era il medico che fondò con Broca e de Quatrefages la Scuola di Antropologia. Anche suo fratello maggiore Jacques era medico e dirigeva gli uffici statistici di Parigi. Alphonse era il gianburrasca inconcludente della famiglia: dopo un tentativo abortito di darsi alla matematica fece il servizio militare e, nel tempo libero, si fece contagiare dalla passione medico-statistica della famiglia, iscrivendosi alla facoltà di medicina. Interruppe anche questi studi ma da essi ricavò l’interesse frenetico per lo scheletro umano. In quel breve periodo non aveva fatto altro che misurare ossa e fare statistiche, per concludere che la variabilità delle parti dello scheletro è paragonabile a quella dei volti delle persone. Frattanto – siamo nel 1879 – il padre, non sapendo che mestiere far fare allo scapestrato, lo fece assumere nella prefettura di polizia parigina. Qui la scoperta di Alphonse – che siamo tutti diversi quanto alle dimensioni delle ossa – s’incontrò con un problema che affliggeva la polizia: l’individuazione dei criminali recidivi.
All’epoca era diffusa la credenza che la tendenza criminale fosse innata in un soggetto. Come ebbe a dire il celebre statistico e fondatore della “fisica sociale” Adophe Quételet, «sono sempre gli stessi individui che commettono sempre gli stessi delitti». Ma scoprire i recidivi è molto difficile: si ripresentano con nomi diversi, con documenti falsificati, con connotati cambiati quantomeno per il trascorrere del tempo. L’introduzione di poliziotti spie nelle carceri o il pagamento di compensi a chi riconosceva un recidivo non servivano a molto. Né fece strada l’idea di ricorrere al fisionotrace, un metodo per fare ritratti introdotto a fine Settecento, che consisteva nel tracciare con un pantografo il profilo di una persona proiettato su uno sfondo da una sorgente luminosa. Certo, dal 1872, l’uso da parte della prefettura parigina della fotografia aveva migliorato le cose. Ma era quasi impraticabile confrontare una per una decine di migliaia di foto con i tanti individui arrestati ogni giorno e la cui fisionomia poteva essere cambiata.
Ecco che entra tumultuosamente sulla scena Alphonse Bertillon con la sua idea che le dimensioni degli scheletri, dall’età di 20 anni, sono fisse e individuali. Con righe e compassi il giovane ammiratore di Lombroso inizia a perfezionare le sue teorie misurando gli arrestati, che se la ridono pensando di aver a che fare con un pazzo. Formula un “metodo Bertillon” che mira a identificare un individuo con sette misure (lunghezza e larghezza della testa, dell’orecchio destro, lunghezza del piede sinistro, del busto, e così via) che, in versioni più elaborate, aumentano di numero. E così, pochi mesi dopo la sua assunzione, Bertillon deposita sul tavolo del prefetto di polizia Andrieu un rapporto sul suo metodo. Andrieu pensa di aver a che fare con un demente e lo cestina brutalmente, ma poco dopo viene sostituito da un altro prefetto, Camescasse, che invece dà credito a Bertillon e gli consente di sperimentare le sue teorie. I primi risultati si vedono nel 1883, quando un numero discreto di arrestati viene riconosciuto e il numero si quintuplica l’anno seguente per crescere di anno in anno.
Certo, il metodo non è infallibile e quindi non è adottato ufficialmente, ma Bertillon lo perfeziona indefessamente pervenendo all’idea di una scheda che deve fornire il “ritratto parlato” del criminale: esso, oltre ai dati antropometrici significativi, conterrà la descrizione morfologica del viso, del naso, le caratteristiche dell’occhio, i segni particolari e, due tipi di foto: la foto segnaletica, presa secondo criteri standardizzati da Bertillon, e la foto metrica che rappresenta in modo esatto il luogo del delitto. Il successo arriva a Bertillon nel 1892, quando egli riesce a identificare il famoso criminale anarchico Ravachol. L’anno successivo viene istituito il Servizio d’identità giudiziaria. Frattanto l’antropometria criminale di Bertillon, divenuta ormai una disciplina, è nota e apprezzata anche all’estero. Del resto, ancor oggi, i testi sull’argomento riconoscono a Bertillon la paternità di questa branca e i suoi metodi sono chiaramente all’origine delle metodologie di identificazione ancora in uso. L’antropometria criminale diviene una branca di tutto rispetto dell’antropometria e contribuisce al successo dei suo paradigma centrale: la convinzione di poter ridurre a numero, a quantità, le caratteristiche umane. Per giunta, Bertillon ha seguito una via originale: mentre Quételet mirava soprattutto alla determinazione scientifica delle caratteristiche del tipo umano medio, Bertillon parte dal principio che siamo tutti diversi, sia pure per sfumature minime.
Anche il celebre Francis Galton rese omaggio a Bertillon in un articolo e gli scrisse consigliandogli di completare la sua scheda antropometrica con un nuovo dato da lui introdotto: le impronte digitali. In realtà l’idea rivoluzionaria era venuta a Galton leggendo un rapporto del 1860 dell’amministratore britannico di un distretto del Bengala, sir William Herschel, che aveva scoperto che in India (come in Cina) era in uso da secoli l’identificazione con le impronte digitali e sembrava funzionare a meraviglia. Di certo, l’introduzione del nuovo metodo portava un duro colpo all’antropometria criminale di Bertillon. Questi non parve affatto contento, ma si adattò a integrare le impronte digitali nella sua scheda e, fu proprio lui a identificare per la prima volta nella storia un criminale in tal modo, rilevandone le impronte su una vetrina di negozio infranta.
A questo punto la parabola di Bertillon parrebbe conclusa. Il suo metodo, sebbene soppiantato dalla dattiloscopia, è consegnato alla storia come il primo tentativo di costituire una tecnica di identificazione basata su metodi scientifici, capostipite di quel filone che giunge fino ai metodi odierni più avanzati basati sull’identificazione mediante il Dna. È un capostipite, nel bene e nel male, perché l’idea della schedatura si estese oltre il dominio della criminalità. Basti pensare al ruolo che essa ebbe nel sistema di deportazione e sterminio nazista, nell’organizzazione del Gulag e della Ceka (NKVD e successori), ma anche nei tanti sistemi di schedatura sotto il regime fascista in Italia, da quello degli immigrati interni chiamati a popolare e riscattare le paludi pontine, alla “cartella biotipologica ortogenetica individuale” di Nicola Pende.
 Ad ogni modo, dal punto di vista storico il metodo Bertillon va ricordato per l’ambizione scientifica ispiratrice, per il progetto di fondare l’antropologia su metodi quantitativi esatti, di rigore paragonabile a quelli in uso nelle scienze fisico-matematiche.
Eppure la vicenda di Bertillon non finì nell’onorevole declino della branca da lui fondata. Difatti, il nostro non era tipo da accontentarsi di una rispettata condizione di pensionamento. Per lui essere sempre sulla breccia era una condizione di vita. L’occasione per aprire un nuovo fronte si presentò inaspettatamente, in relazione con una delle vicende più tristemente famose nella storia della Francia tra fine Ottocento e inizio Novecento: il caso Dreyfus.
È forse superfluo ricordare come nacque questo caso. Nel settembre del 1894 i servizi segreti francesi recuperano in un cestino dell’ambasciata tedesca a Parigi un biglietto strappato indirizzato al colonnello von Schwarzkoppen che annuncia l’arrivo di documenti riservati riguardanti l’armamento e l’organizzazione dell’esercito francese. Il comandante dei servizi segreti Henry esamina il biglietto, da allora detto bordereau, e ritiene di riconoscere la calligrafia in quella del capitano ebreo Alfred Dreyfus, che viene arrestato. Di qui inizia la celebre vicenda giudiziaria che dividerà la Francia per dodici anni e che rappresenta uno dei capitoli più oscuri dell’antisemitismo europeo. Soltanto nel 1906 Dreyfus fu riabilitato e fu ammesso che l’autore del bordereau era un maggiore, Ferdinand Esterhazy, con vaste complicità nello stato maggiore. Quale fosse l’autentico atteggiamento della destra francese lo disse brutalmente da uno dei suoi massimi esponenti, Maurice Barrès con una frase rimasta celebre: «Che Dreyfus sia colpevole lo deduco non dai fatti ma dalla sua razza». E tuttavia, per tenere in piedi un processo e giustificare una condanna, ci voleva almeno una sembianza di fatti, e questi si concentravano in quel foglietto, che alla fine addirittura sparì: non ne rimase traccia.
Così vennero mobilitati gli esperti calligrafici – più di quaranta in dodici anni! – che s’impegnarono in una battaglia senza quartiere, tutti dietro lo scudo dell’“oggettività scientifica”. Nell’ottobre 1894 il prefetto Lépine incaricò Bertillon di esaminare il bordereau. L’impegno che il nostro mise nell’impresa non può essere spiegato soltanto col suo colpevolismo: per lui fu la grande occasione di estendere la criminologia scientifica alla grafologia, una disciplina che – come spiegò in un saggio del 1898 – mancava di rigore scientifico. Egli non aveva fatto i conti con un problema cruciale: e cioè che, se nell’identificazione antropometrica giocavano fattori meramente materiali, misurabili con strumenti fisici, la calligrafia è anch’essa un elemento materiale, ma dietro la quale vi sono fattori psicologici, morali. Sono questi, quindi, che si pretende misurare. Bertillon si era messo in un’impresa titanica con la sicumera di chi crede che tutto possa essere ridotto a misurazione esatta.
È interessante notare come il percorso mentale da lui seguito fosse totalmente influenzato dall’esperienza in antropometria criminale. Qui il movente era determinare parametri oggettivi capaci di svelare il recidivo camuffato. In ambito calligrafico l’idea fu analoga: determinare parametri capaci di smascherare il truffatore. Perciò le categorie fondamentali di Bertillon furono quelle della “eterofalsificazione” – la falsificazione della calligrafia di una persona compiuta da un’altra – e l’“autofalsificazione” – la falsificazione della propria calligrafia al fine di occultare la propria identità. Manco a dirlo, Dreyfus era autore di una “autoforgerie”, aveva modificato la propria calligrafia per non farsi riconoscere. Bertillon proponeva un approccio rovesciato: anziché riconoscere direttamente la calligrafia di Dreyfus, svelare l’autofalsificazione come prova della sua colpevolezza. Per far questo egli elaborò un “metodo Bertillon” che si reggeva in piedi su un bizzarro paradosso: affinché le conclusioni fossero scientifiche occorreva che l’indagato si fosse comportato scientificamente… In altri termini, occorreva che l’autofalsificazione fosse stata fatta in modo scientifico, con regole precise e assolutamente uniformi!....
Il metodo Bertillon è talmente complicato che non ci addentreremo nella sua descrizione. Oltretutto, non fu mai codificato in modo preciso, salvo che in uno scritto anonimo di un “ex-allievo della Scuola Politecnica” (la cosiddetta “brochure verte”) che lo difendeva dalle critiche che piovevano da ogni parte. In estrema sintesi, il procedimento era il seguente: dapprima mostrare che nel bordereau esistevano anomalie di scrittura che dimostravano non trattarsi di un documento “naturale”; poi ricostruire il meccanismo di scrittura che, secondo Bertillon, era consistito nel comporre il testo su uno schema quadrettato (il “gabarit”) messo dietro la carta trasparente del bordereau secondo distanze assolutamente precise, da lui calcolate in un kutsch, una misura di 1,25 cm in uso nelle carte militari. La chiave di composizione sarebbe stata una parola contenuta in una lettera del fratello di Dreyfus, Mathieu, sequestrata a casa di Alfred: la lettera “du buvard”. Era una parola tipicamente ebraica: “intérêt”, interesse… Sullo schema di questa parola sarebbe stato costruito il bordereau con un tecnica di composizione geometrica estremamente sofisticata. Bertillon espose le sue teorie in tribunale, avvalendosi di grandi tavole grafiche, discettando di geometria e calcolo delle probabilità. Con il ricorso a quest’ultimo pretese di mostrare l’assoluta improbabilità delle anomalie presenti nel documento e quindi che si trattava di un artefatto. I giudici si fecero impressionare dalla parvenza di scientificità del metodo, mentre parte del pubblico sghignazzava pesantemente; ma era facile obiettare che costoro erano “dreyfusards” incalliti.
Nel 1904, la Corte di Cassazione, per dirimere la faccenda, si rivolse alla consulenza di tre matematici di fama, Gaston Darboux, Paul Appell e Henri Poincaré, il più grande matematico dell’epoca. Già nel 1899, Poincaré, pur tenendosi alla larga da un impegno politico diretto, aveva inviato una lettera al suo collega Paul Painlevé – che questi lesse in tribunale – in cui si dichiarava scandalizzato dalla mancanza di fondamento del metodo Bertillon e dalla possibilità che su simili basi una persona potesse essere condannata. Nel 1904 il grande scienziato s’impegnò direttamente e senza risparmio. Il rapporto di oltre cento pagine inviato alla Corte di Cassazione sviscerava metodicamente il metodo Bertillon. Era firmato dai tre, ma di fatto era stato scritto da Poincaré.
Anche qui è fuori questione entrare nei dettagli, ma merita riportare la staffilante conclusione del documento:
«Quel che abbiamo detto basta a far capire lo spirito del “metodo” di Monsieur Bertillon. Lo ha lui stesso riassunto così: “Quando si cerca, si trova sempre”. Quando si constata una coincidenza è una prova schiacciante; se manca è ancor più schiacciante, perché mostra che il redattore ha cercato di allontanare i sospetti. […] In sintesi tutti questi sistemi sono assolutamente privi di valore scientifico: 1° Perché l’applicazione del calcolo delle probabilità a queste materie non è legittima; 2° Perché la ricostituzione del bordereau è falsa; 3° Perché le regole del calcolo delle probabilità non sono state applicate correttamente. In una parola, perché gli autori hanno ragionato male su documenti falsi».
Merita dire qualcosa della prima critica. Nel rapporto Poincaré fa una lezione di metodologia scientifica. Ricorda che, dopo aver constatato un evento, per poter calcolare, la probabilità di una sua causa occorre conoscere quale era a priori, prima dell’evento, la probabilità di tale causa; e poi occorre sapere quale sarebbe la probabilità dell’evento constatato per ciascuna delle cause possibili. Ma – osservava Poincaré – «questa probabilità a priori in questioni come queste è formata soltanto da elementi morali, che sfuggono del tutto al calcolo». Perciò, aggiungeva, «Auguste Comte ha detto a piena ragione che l’applicazione del calcolo delle probabilità alle scienze morali è lo scandalo della matematica. Voler eliminare gli elementi morali e sostituirli con numeri, è tanto pericoloso quanto vano».
In tal modo, Poincaré mirava al cuore del progetto che stava dietro il metodo Bertillon, al di là della sua specifica inconsistenza: l’intento di matematizzare le questioni morali, di sostituire ciò che ha un carattere intrinsecamente qualitativo con numeri incapaci di rappresentarne l’essenza. Il grande scienziato coglieva l’occasione per stigmatizzare duramente come uno scandalo scientifico il progetto riduzionista di estendere al campo morale metodi soltanto adatti al campo dei fenomeni fisici.
È una vicenda dimenticata che ha risonanze di grande attualità. Ed è forse proprio per questo che continua a essere dimenticata e persino censurata da chi, ancor oggi, loda Bertillon come padre dell’antropometria scientifica, imputandogli di sfuggita e come peccato veniale l’essere intervenuto a sproposito nell’affare Dreyfus ma si guarda bene dall’esplorare a fondo la vicenda. Oggi il progetto di misurare con numeri le qualità umane è più vivo che mai e la sua ideologia è la medesima che ispirava Bertillon. In un recente documento dedicato alla critica dei metodi di valutazione bibliometrica della ricerca scientifica, alcune grandi istituzioni scientifiche (tra cui la International Mathematical Union) scrivono che la dilagante cultura dei numeri è basata sulla credenza che la valutazione di alcuni dati statistici può aiutare a conseguire decisioni corrette. Ma, aggiungono, questa credenza è fallace. Infatti, così i “decision-makers” «incapaci come sono di misurare le qualità» non fanno altro che «sostituire le qualità con numeri che possono misurare». Una frase quasi identica a quella di Poincaré, cosicché, ripensando alla vicenda Bertillon, viene da dire: de te fabula narratur. Già nella lettera del 1899 Poincaré aveva detto che l’applicazione del calcolo delle probabilità alle scienze morali era lo scandalo della matematica, «perché Laplace e Condorcet, che calcolavano bene, loro [a differenza di Bertillon, s’intende…], pervennero a risultati privi di senso comune!». Egli si riferiva ai tentativi dei grandi matematici del Settecento Laplace e Condorcet di risolvere matematicamente questioni assai simili a quella del caso Dreyfus, come la determinazione della veridicità di una testimonianza resa in tribunale. Oggi, calcolatori non migliori di Bertillon proseguono sulla stessa via “scandalosa” incuranti dell’insensatezza dei loro risultati. È l’ennesima prepotenza dell’ideologia nei confronti della ragione scientifica.
(Il Foglio, 8 ottobre 2011)

lunedì 24 ottobre 2011

LA GROTTESCA VICENDA DELLA FORMAZIONE INSEGNANTI

Intervista di Paolo Ferrario, Avvenire, 22 ottobre 2011, p. 11.



«A questo punto, credo che sia difficile che i tirocini possano partire quest’anno. Forse se ne riparlerà il prossi­mo. Ma il timore è che si stia lavorando per affossarli definiti­vamente».
Dalle parole di Giorgio Israel traspare tutta la delusione di chi ha messo tempo e fatica in un progetto che, forse, non partirà mai. Chiamato a luglio 2008 dal ministro Gelmini a presiedere il "Gruppo di lavoro per la for­mazione del personale docen­te", il professor Israel –ordina­rio di Matematica alla Sapien­za di Roma può essere consi­derato il “padre del Tfa”, il Tirocinio formativo attivo che, al­meno nelle intenzioni di chi l’ha pensato, doveva servire ad abilitare una nuova generazio­ne di insegnanti per le scuole superiori. E invece rischia di fa­re la fine di tanti altri progetti, nati sotto i migliori auspici e poi finiti ad ammuffire in qualche cassetto.
«L’impressione è proprio questa» – sbotta Israel –. Altrimenti, non si spiegherebbe lo strano silen­zio del ministero che, prima ha fatto fretta al nostro Gruppo di lavoro (che in tre mesi ha pre­sentato il Regolamento per la formazione degli insegnanti), poi ha pressato le università (costrette a tempo record a pre­sentare le proposte formative) e adesso tace da tre settimane.  Intanto il tempo passa e ormai temo davvero sia troppo tardi per partire con i Tfa quest’anno. Anche andando velocissimi, per portare a termine tutti gli a­dempimenti necessari si arriverebbe comunque a gennaio». Le parole di lsrael suonano co­me una sorta di pietra tombale sulle migliaia di giovani laureati (60mila soltan­to negli ultimi quattro anni), che sognano la carriera di inse­gnante ma, senza i tirocini abi­litanti, non possono nemmeno compiere il primo passo verso la cattedra. Eppure le premesse c'erano tut­te. Dopo una massiccia cam­pagna che, in una sola settima­na, è arrivata raccogliere più di 14mila adesioni all’Appello per i giovani, promosso appunto per sollecitare il mini­stero ad aprire percorsi forma­tivi per aspiranti docenti, il Miur ha chiesto alle Università di di­chiarare la disponibilità di of­ferta formativa effettiva. Le pre­visioni erano di attivare circa l3 mila posti per Tfa, ma dagli a­tenei è arrivata la disponibilità di 26.364 posti: 7.239 per le  scuole medie e 19.125 per le superiori. «Questi dati sono stati comunicati il 7 ottobre ricostruisce il professor Israel ma da allora dal ministero tutto tace. Forse si pensava (o, peggio: si sperava), che le università non rispondessero o lo facessero senza troppo entusiasmo. Invece, così non è stato. Anzi, gli atenei hanno dimostrato di prendere molto sul serio la proposta del ministero e, in alcune univer­sità, ci sono già commissioni al lavoro in vista dell'attivazione del Tfa. Ma se il ministero con­tinua a non assumersi le proprie responsabilità, in buona sostanza a non far nulla, la pro­spettiva di un affossamento dei tirocini è molto reale. E per la scuola italiana sarebbe una ve­ra catastrofe».
Se i Tfa non dovessero partire, continua Israel, «la nostra scuo­la sarà condannata a diventare sempre più vecchia», con il ri­schio di una «grave frattura tra generazioni diverse di inse­gnanti».
«Sarebbe un vero disastro ­conclude Israel – e una catastrofe culturale, perché la.conoscenza deve essere trasmessa da generazione in genera­zione e la trasmissione dell' sperienza è fondamentale per l’istruzione di un popolo».
Adesso, come hanno denun­ciato, a inizio settembre, i pro­motori dell'Appello per i giova­ni, la prospettiva è che, «per al­meno quindici anni prosegue Israel nessun giovane potrà diventare insegnante e nella scuola si continuerà a immet­tere precari, dopo i 67 mila as­sunti quest’anno in forza di un accordo tra Miur e sindacati. E i giovani, che non hanno nes­sun sindacato che li difende, sa­ranno ancora costretti a met­tersi in coda per un posto che, forse, non vedranno mai».

venerdì 21 ottobre 2011

NON COPIARE... RIDI SE TI COPIANO...

Ricordate Angelo Fortunato Formiggini, l'editore e patriota ebreo che, all'indomani della promulgazione delle leggi razziali fasciste, si suicidò gettandosi dalla torre della Ghirlandina di Modena? Il suo suicidio venne così finemente commentato dal segretario del Partito Nazionale Fascista, Achille Starace: «È morto proprio come un ebreo: si è buttato da una torre per risparmiare un colpo di pistola».
Ecco una sua foto in cui ci offre una perla riguardo al «copiare».
Un tema molto caldo nell'Italia di oggi...
Dedicato a tutti i "copiatori" e a tutti coloro che favoriscono e giustificano la "nobile" arte del copiare.



mercoledì 19 ottobre 2011

Com'è vecchio il nuovo dei super-indignati Hessel e Morin


Due quasi centenari avanzano una proposta di “rigenerazione” dell’Europa, destinata a “spandersi sull’intero pianeta”. Si tratta di Stéphane Hessel (classe 1917) e Edgar Morin (classe 1921), profeti degli “indignati” di tutto il mondo, che hanno da tempo collaudato la filosofia dell’indignazione sul più grande “scandalo” mondiale: Israele.
Il copyright dell’indignazione appartiene a Hessel che lanciò la parola d’ordine col libello “Indignez-vous” che il 20 ottobre compie un anno di successi. Tali da suscitare la gelosia di Morin che, provocato nei suoi mai sopiti istinti rivoluzionari, rispose con il libello “La voie”, così presentato dall’editore Fayard: “Hessel provoca un sussulto, Morin indica la strada”. Poi i due hanno compreso che farsi la concorrenza era stolto e si sono alleati per un nuovo libello a due mani: “Il cammino della speranza”. È un percorso politico di “salute pubblica” di fronte allo sfascio del neoliberismo, è l’annuncio di una nuova speranza, che richiede l’“insurrezione delle coscienze”.
Alla fine di molte chiacchiere la ricetta riporta agli anni verdi dei proponenti: rigenerarsi alle quattro sorgenti della sinistra: la fonte libertaria, la fonte socialista (volta al miglioramento della società), la fonte comunista (la fraternità comunitaria), e la fonte ecologica che ricollega gli uomini alla Madre-Terra e al Sole, “fonte di tutte le energie viventi”. Insomma, il sorgere di un nuovo esercito rivoluzionario ha risvegliato nei cuori dei due vecchi militanti la nostalgia sessantottina e il rude canto dell’Internazionale è sgorgato spontaneo dalle loro labbra, ma temperato da una visione non violenta, libertaria ed ecologica.
La mente fine che ha suggerito il passaggio dall’arma della critica alla critica delle armi, è quella di Morin, che da decenni, nella cucina delle sue fumose e inconsistenti teorie sulla complessità e l’olismo persegue la ricostruzione del materialismo scientifico sulle macerie dei marxismi. È noto il motto di Morin, “meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”, ripreso da Montaigne, che lo indirizzava contro gli “idiots savants” ma, poveretto, non si sognava di pensarlo alla Morin, ovvero come una versione pedagogica light della palingenesi marxiana: svuotare le teste per rifarle “bene” secondo i dettami dell’avanguardia rivoluzionaria intellettuale. Dietro questo pifferaio sono andati in tanti, da chi si è fatto abbindolare a chi aveva capito benissimo il senso delle sue proposte, come certi professori passati dall’esaltazione della scienza materialista sovietica all’aziendalismo educativo, o certi sessantottini inutilmente incanutiti che sostengono (a ragione) che quelle ricette possono avvelenare l’odiata cultura borghese. Ci cascò persino il cattolico ministro Fioroni che, nel 2007, invitò Morin a spiegare in una lezione magistrale come rifare le teste dei giovani italiani: con una scuola che “insegni a vivere” secondo le teorie (pensate un po’) di Rousseau…
Un altro illustre novantenne della sinistra, Pietro Ingrao, ha opposto al saggio di Hessel il suo “Indignarsi non basta”, dichiarando “Sono e resto persuaso che l’azione armata del nemico costringa a rispondere con le armi”. Oggi che l’indignazione è tracimata nella violenza qualcuno potrebbe tentare di mettere in imbarazzo l’ingenuo Ingrao. Invece Hessel se l’è cavata brillantemente trincerandosi dietro la non violenza. Infatti la ricetta perdente è quella di Ingrao, sebbene la merce sia la stessa, ma Hessel e Morin la vendono bene, confezionata dentro una carta luccicante di falso libertarismo. Il fatto che tante persone si lascino abbindolare da questi lustrini, o lo facciano per l’impenitente attaccamento alla palingenesi rivoluzionaria, dà ragione a Erdogan: «Guardate com’è ridotta l’Europa…».
(Il Foglio, 18 ottobre 2011)

domenica 16 ottobre 2011

L'INVITO AL CONFORMISMO DIETRO I TEST PER LA SELEZIONE DEI PRESIDI


È necessario trarre un primo bilancio della selezione preliminare mediante test per il concorso a dirigente scolastico. Ricordiamo la pesante procedura escogitata: i candidati dovevano studiare una “batteria” di circa 5700 domande con 4 risposte, di cui una esatta; perciò memorizzare tra quasi 23.000 risposte quelle esatte per individuarle in 100 minuti tra le 100 domande sorteggiate per la prova.
Hanno fatto scalpore le sciatterie e gli errori madornali contenuti nella “batteria”, che hanno costretto il ministero a scartare un migliaio di domande. Tuttavia, si è parlato poco di altri aspetti ben più sconcertanti. In primo luogo, delle assurdità logiche e persino della comicità di certi quesiti. La risposta esatta alla domanda su come deve essere l’ambiente scolastico era: «pulito, accogliente e sicuro». Tra le risposte sbagliate v’era: «pulito, salubre, accogliente e sicuro». Questo perché l’aggettivo “salubre” non appare nella Carta dei servizi scolastici. Ogni commento è superfluo. Alla domanda su cosa caratterizzi una “valutazione oggettiva”, la risposta esatta era “pubblica e trasparente”. Di conseguenza, anche una valutazione arbitraria e magari folle è oggettiva purché enunciata in modo pubblico e trasparente. E si potrebbe continuare con esempi dello stesso tenore.
Ma nella “batteria” vi era di molto peggio: una quantità rilevante di domande concettuali per le quali nessuno ha il diritto di imporre la risposta “giusta”. Con che diritto si da una risposta univoca alla domanda: «quale definizione di cultura tra le seguenti è maggiormente condivisa all’interno delle scienze sociali»? Perché per diventare preside si deve aderire alla definizione ministeriale di comportamento prosociale o di subcultura? O credere che la «visione di sviluppo di un’istituzione scolastica» è «l’aspirazione verso un futuro immaginato, una descrizione vivida…» anziché «una dettagliata definizione di piani, progetti e azioni»? Perché deve essere obbligatorio essere cultore delle opere di uno psicologo specialista dei disturbi specifici di apprendimento?
Tutta la parte pedagogica è un trionfo del politicamente corretto, del costruttivismo più conformista, della pretesa che i presidi siano cloni che pensano tutti allo stesso modo, conoscono le stesse teorie e aderiscono alle verità ministeriali. Anche nelle 100 domande selezionate per la prova si è preteso che i candidati conoscessero la definizione della società dell’informazione di Manuel Castells, la “filosofia per bambini” di Matthew Lipman, la visione di Stuart Hall delle dinamiche di rapporto tra un testo e i suoi lettori, che dicessero che la coesione di un gruppo è resa possibile dalla consapevolezza che il conflitto è fisiologico, e dessero una certa definizione di processo decisionale. Poi, dovevano anche sapere che «per cambiare le dimensioni della carta su cui stampare un foglio di calcolo si deve [sic] modificare le dimensioni della carta dal layout di pagina»…
Ma l’aspetto farsesco non deve distrarre da quello più grave: la pretesa di indottrinamento ideologico, il brutale invito al conformismo: se vuoi diventare preside deve pensare come dettiamo noi, non hai il diritto di essere una persona intelligente e preparatissima che ha idee autonome circa il significato della cultura, non hai il diritto di non condividere (e persino ignorare) le teorie di Lipman, Stuart Hall, Castells o altre opinabili tesi di metodologia pedagogica. Diciamolo chiaramente: questa non è roba da paese democratico, questa è roba di stile sovietico o da Minculpop. Le stesse cucine ministeriali in cui vengono confezionati questi piatti ammoniscono quotidianamente che deve essere superata la lezione ex-cathedra, la didattica “impositiva”, che occorre passare dalla scuola dell’insegnamento alla scuola dell’apprendimento, e poi si riservano il potere di indottrinamento più impositivo ed ex-cathedra che si possa immaginare. Chi scrive ha sempre difeso la scuola statale, ma una simile inaudita esplosione di statalismo totalitario è il peggior servizio che si possa farle.
Non si può dire che il ministro Gelmini condivida concezioni stataliste e la stampa ha dato conto della sua reazione severa alla cattiva gestione della vicenda. Tuttavia, per chiudere la questione il ministero ha scelto uno stile coerente con quello di tutta l’operazione. Sono stati messi in rete i nomi dell’ottantina di “esperti” autori di domande e risposte. È un modo di procedere che sa di gogna e di scarico delle responsabilità. Difatti, è incredibile che tutti gli ottanta abbiano lo stesso grado di responsabilità, e ancor meno che tra di loro si sia prodotta per incanto una totale omogeneità ideologica. La questione non può essere chiusa così. Restano senza risposta le domande su chi abbia ideato una simile procedura, chi e come l’abbia gestita e ne abbia condotto le varie fasi, chi debba rendere conto dell’accaduto. Sarebbe inaccettabile che, mentre si parla da mane a sera di valutazione e di premiare il merito, mentre si vuol giudicare l’attitudine gestionale dei futuri presidi, l’accountability valga soltanto per loro, mentre i progettisti di una siffatta miscela di incompetenza e di prepotenza ideologica non debbano rispondere del loro operato.
(Il Messaggero, 15 ottobre 2011)