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martedì 29 maggio 2012

Il "pacchetto merito" per la scuola


Il proposito del “pacchetto merito” che dovrebbe essere approvato dal Consiglio dei Ministri – introdurre il merito nel sistema scolastico – non può che suscitare plauso. Ma chi conosca questa problematica sa che le difficoltà iniziano quando si passa dai principii all’applicazione e che si riassumono così: come e chi valuterà il merito? La questione centrale – valida per tutto il sistema dell’istruzione – è la definizione del ruolo dell’insegnante, che si lega a quella del rapporto tra autonomia delle strutture scolastiche e universitarie e centralismo ministeriale.
Si ripete che alla figura dell’insegnante va restituita dignità, premiando i meritevoli, e che l’efficienza del sistema ha bisogno di autonomia (che esiste per l’università e sulla carta anche per le scuole). Poi le cose vanno quasi sempre all’opposto, sia per l’eredità del passato, sia perché, in Italia, dietro un fragile liberalismo si riaffaccia sempre un invadente dirigismo centralistico, che si esprime nel diluvio di prescrizioni da cui è travolta la scuola e nella tendenza a rosicchiare l’autonomia universitaria mediante procedure di valutazione di un meccanicismo che lascia stupiti persino i colleghi di paesi di antica tradizione dirigista.
Il proposito del “pacchetto merito” va inquadrato nel contesto. Un aspetto importante è la situazione che si determinerà con l’approvazione (quasi completata) di una legge sull’autonomia scolastica che è una sintesi di aziendalismo e assemblearismo – un prodotto partiticamente trasversale che esprime bene il livello di crisi cui è giunta la politica in Italia.
Le scuole sarebbero trasformate in una sorta di fondazioni gestite da consigli dell’autonomia presieduti da un genitore e in cui gli insegnanti sarebbero in minoranza, essendo prevista oltre alla loro presenza paritetica con i genitori, quella di rappresentanti di «realtà» culturali, sociali, produttive, professionali e degli studenti. Di fatto, l’unica autonomia non preservata sarebbe quella degli insegnanti, cui si lascerebbe la programmazione della didattica però entro le «linee educative e culturali della scuola» da negoziare con le altre componenti, oltre che soggette alle multiformi prescrizioni ministeriali.
Ci si chiede: chi e come, in una simile struttura, sceglierà lo “studente dell’anno” (e perché poi uno soltanto?), titolare della carta “Io-merito” e di una borsa? Se saranno ancora i docenti – come si osa sperare – dovranno comunque “negoziare” le loro scelte con le altre «realtà» ed è meglio non pensare agli esiti.
Si prospetta un piano di valorizzazione del sistema scolastico che premi le scuole eccellenti. Ma come? Si parla di tener conto del numero di studenti che arrivano al diploma senza bocciature. Come recita la nota legge di Goodhart, quando una misura diventa un obbiettivo cessa di essere una buona misura e diventa un incitamento a comportamenti scorretti. In questo caso, basterà promuovere tutti per diventare “eccellenti”.
Un’altra questione cruciale è l’uso dei test. Ne dovrebbe essere introdotta una nuova tipologia universitaria: i “test diagnostici” volti a individuare se il corso scelto corrisponde alle capacità. In generale, i test dovrebbero valutare le competenze logiche e di comprensione dei testi. È difficile non preoccuparsi della tendenza a generalizzare il ricorso ai test dopo due anni di discussioni in cui sono state ignorate le critiche di merito ai test proposti dall’Invalsi, e a pretese come quella di valutare mediante quiz la comprensione o l’interpretazione di un testo letterario. Questa sordità è un sintomo di preoccupante autoreferenzialità e solleva un problema generale. È noto che già gran parte dei test universitari non è formulata dai docenti ma commissionata a esterni o a “ditte” senza che si sappia come vengano scelti e che qualifica abbiano. Per interrompere questo andazzo occorrerà che i “test diagnostici” siano preparati dai docenti con procedure trasparenti, altrimenti saremo all’arbitrio e parlare di valutazione “oggettiva” sarà derisorio. Anche i docenti debbono essere valutati? Certamente. Ma è illogico che non si consideri “oggettivo” l’operato di chi almeno una volta è stato valutato, e “oggettivo” quello di chi forse non lo è mai stato o mai lo sarà, e non si sa neppure chi sia.
La questione della valutazione dei docenti ritorna sempre, ed è innegabile che la riqualificazione della professione passa per un buon sistema di valutazione. Ma è noto che sul tema siamo sempre in alto mare, essenzialmente perché non si vuol prendere atto che l’unico sistema valido è quello delle ispezioni, concepito come un processo interattivo all’interno del sistema capace di attivare il fine autentico della valutazione, ovvero un processo di crescita culturale.
Un’altra riflessione che viene in mente di fronte all’ambizioso progetto governativo è: con quali mezzi? Lo stato di sfacelo del sistema scolastico è ben noto e non è una buona carta da visita la gestione passata e presente della spesa. Piovono su scuole dalle mura pericolanti acqua e LIM (lavagne interattive multimediali), uno strumento – per chi l’ha visto all’opera – didatticamente mediocre e ormai obsoleto. Si parla continuamente di digitalizzazione delle scuole, della loro trasformazione in web communities, ma non si trova un euro per dotarle di biblioteche e di laboratori, come se la storia o la fisica si potessero “apprender-giocando” sui tablet.
Il tema del dualismo autonomia-dirigismo, della funzione dei docenti e della valutazione ci porta a qualche osservazione conclusiva sull’università. Un recente documento della Classe di Scienze Morali Storiche e Filologiche dell’Accademia dei Lincei ha espresso preoccupazione per la tendenza dell’Anvur (Agenzia per la valutazione dell’università e della ricerca) a privilegiare le pubblicazioni in inglese e su riviste (penalizzando le monografie) e a estendere l’uso dei parametri bibliometrici. Secondo l’Accademia questi sistemi (gestiti da enti privati a scopi di lucro) sviliscono la ricerca in ambito umanistico e ne danneggiano la qualità. In realtà, le critiche crescenti rivolte all’estero a questi metodi provengono da ambienti scientifici che li additano come un “attentato all’integrità scientifica”, Quindi nulla va concesso al tentativo di elevare una nuova barriera tra le “due culture”. Ma preoccupano ancor di più le voci secondo cui l’uso di tali criteri automatici verrebbe ulteriormente esteso. È da augurarsi che nessuno pensi a decretare l’ammissibilità dei commissari e dei candidati all’abilitazione nazionale a professore universitario con il criterio della “mediana” statistica e a usare la Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) in corso per calcolare numericamente tale “mediana”. La sottomissione dei concorsi a criteri estrinseci e arbitrari mutilerebbe in modo drastico l’autonomia universitaria, riducendola alla gestione dei concorsi locali, in omaggio a teorie statistiche inconsistenti e con il risultato di conseguire un degrado culturale senza precedenti.
In conclusione, grande è la confusione sotto il cielo dell’istruzione italiana, il che non è affatto una cosa eccellente, contrariamente al parere di Mao Tse Tung.
(Il Messaggero, 27 maggio 2012)

domenica 27 maggio 2012

Buttiamo giù Villa Adriana e fabbrichiamo una Adriana Land


Non si sottolinea abbastanza che la riduzione di Villa Adriana a dependance di una discarica, sarebbe stato solo l’atto finale di un processo di distruzione di un complesso che generosamente l’Unesco ha dichiarato bene dell’umanità nel 1999: generosamente, perché ha chiuso un occhio sullo scandaloso stato di degrado della riserva archeologica. Dopo anni sono tornato di recente a Villa Adriana e i vecchi ricordi hanno cozzato così brutalmente con la realtà presente da farmi fuggire con una stretta al cuore. Dovunque zone pericolanti abbandonate da tempo, accessi vietati, il teatro marittimo quasi inaccessibile, un panorama di sfacelo. Dicono che il numero dei visitatori sia diminuito. Credo bene: vi porterei i miei figli spesso ma piuttosto che offrire loro una simile immagine del loro paese meglio tenerli alla larga. Come se non bastasse, per visitare questo “bene dell’umanità” bastano quattro soldi: una famiglia – tra sconti ed esenzioni – può entrare con qualche euro, mentre all’estero ti fanno pagare fior di quattrini per vedere niente. Piovono tasse e balzelli da ogni lato, ma di finanziare la conservazione e il ripristino dei beni culturali aumentando le tariffe d’ingresso non se ne parla.
Da decenni tutti i governi si sono mostrati insensibili in tema di cultura. Non ha fatto eccezione il centro-destra che ha confuso l’istruzione con la scuola delle tre “i” (internet, inglese e impresa). Chi credeva che con il governo dei professori le cose cambiassero, ha constatato che siamo caduti dalla padella nella brace. Il presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali Andrea Carandini si è dimesso, considerando la faccenda di Villa Adriana la goccia che ha fatto traboccare un vaso pieno di sorpresa e delusione per «la mancanza di una politica del governo verso la cultura». L’atteggiamento della politica nei confronti dei beni culturali mi fa pensare a quel professore universitario che, quando difendevo l’opportunità di preservare un fondo librario ricordando che un analogo fondo ben meno consistente era stato messo sotto vetro in un’università americana, osservò: «Purtroppo la legge dello stato ci impedisce di gettare tutto nella spazzatura».
Sarà overdose di beni culturali, un certo cinismo, o l’idea sbagliatissima che i quattrini si trovano in altro modo, ma troppa gente pensa che di muri e libri antichi, dipinti e statue ne abbiamo troppi e che tanto vale lasciarli al loro destino.
Mentre scavi archeologici e biblioteche languiscono nel degrado, o vengono depredati, i quattrini per iniziative pseudo-culturali si trovano. Penso all’attenzione spasmodica del nostro ministro dell’Istruzione per la digitalizzazione della scuola. Si dirà: cosa c’entra l’istruzione con la cultura? C’entra, eccome. In entrambi i campi si manifesta la stessa mentalità: disinteresse per ciò che è “vecchio” e sa di “cultura” e “conservazione”, interesse esclusivo per ciò che è “nuovo” e “moderno”. In una scuola dagli edifici degradati al limite dell’accettabile, con poche biblioteche e laboratori che spesso fanno pena, soggetta a tagli non soltanto materiali ma culturali, rappresentati da un trentennio di innovazioni didattiche bislacche che hanno trattato i contenuti disciplinari come carne per salsicce, l’unica mobilitazione di risorse pare si trovi una digitalizzazione massiccia. Non costa nulla? È poco credibile che le migliaia di lavagne interattive multimediali, di scarso o nullo valore didattico, siano a costo zero. È invece credibile che la digitalizzazione massiccia della scuola costituisca un gigantesco giro d’affari che spiega l’interesse spasmodico delle ditte informatiche per l’istruzione.
Se è così sarebbe preferibile che l’affare non venga contrabbandato con discorsi teorici sconclusionati. Del vendere un fumo che non corrisponde all’arrosto è tipico esempio il convegno del Pd sui “nativi digitali” che si apre a Roma proponendo nientemeno che «Un nuovo alfabeto per l’Italia». È una miscela di “spazi aperti” per «imparare giocando», di conversazioni + tag cloud live, di “ascolto e twitto”, di interventi di politici e del ministro e di lezioni magistrali (ma la nuova didattica non doveva abolire l’odiata lezione ex-cathedra?).
Per queste cose soltanto nasce entusiasmo e ci si mobilita. E allora viene in mente una proposta. Buttiamo giù Villa Adriana e fabbrichiamo altrove una AdrianaLand con autoscontro acquatico istruttivo nel Canopo e spazi interattivi aperti nel Teatro acquatico per ricerche digitali di gruppo. Così si coglierebbero due piccioni con una fava: creare spazi di gioco-istruzione che permettano finalmente di uscire dalle mura delle classi, decrepite come quelle della vecchia Villa Adriana, e collocarvi direttamente la discarica senza dover passare sopra la condotta dell’Acqua Marcia. 
(Il Foglio, 26 maggio 2012)

mercoledì 23 maggio 2012

STRAPOTERE TECNICO


Il commento più diffuso di fronte alla nomina di Enrico Bondi – risanatore per eccellenza delle imprese in crisi – a commissario alla revisione della spesa pubblica è stato: il governo dei tecnici si affida a un tecnico, il tecnico dei tecnici che, non potendo fare tutto da solo, si avvarrà di tecnici (i tecnici del tecnico dei tecnici). La battuta fa ridere ma non coglie la sostanza. Bondi è persona di grande competenza ed esperienza nell’ambito dell’impresa, non ha mai sfiorato tematiche politiche. Affidandogli la scelta dei settori in cui tagliare la spesa pubblica si è lanciato un segnale preciso: il paese va visto come un’azienda e i tagli vanno decisi fuori da ogni considerazione politica. Pertanto, poiché il Presidente del Consiglio e i suoi ministri, volenti o nolenti, hanno un ruolo politico, la questione è rimessa a un tecnico assolutamente puro. Così le forze politiche sono avvisate: è inutile proporre considerazioni politiche o sociali perché i tagli si faranno secondo criteri puramente tecnici.
Che una simile scelta funzioni è da vedere, e anzi i primi segnali indicano che difficilmente funzionerà. Ma è interessante l’ideologia che la sottende, e che non è un semplice trucco per mettere a tacere la “pretesa” di decidere quali tagli fare in base a considerazioni sociali, di equità, di rilancio della crescita al fine di stimolare l’occupazione, e quant’altro. È, a sua volta, una precisa scelta politica. Difatti, la tecnocrazia non è mera visione “scientifica”, “oggettiva” della gestione del paese. È un’ideologia basata sull’assunto che il paese è un’“azienda”, l’“azienda Italia”, con tutto il contorno delle formule connesse, come il chiamare “capitale umano” le persone concrete, come se fossero qualcosa di analogo a una pressa o a un telaio, salvo il dettaglio marginale che, anziché essere fatti di metallo o di plastica, sono fatti di carne, ossa e sangue e, en passant, pensano, studiano e lavorano con una mente, hanno sentimenti, aspirazioni e moventi.
Questa ideologia implica che i “valori”, la qualità umana delle persone, i progetti immateriali che ispirano il loro agire, non contano assolutamente niente: contano soltanto i parametri quantitativi che definiscono le caratteristiche economiche del paese. In verità, anche il considerare un’azienda in termini puramente economicistici è riduttivo e persino aberrante. Se è esistito ed è vivo e vegeto il socialismo (come dimostrano le elezioni francesi) e persino il comunismo (come dimostrano le elezioni greche), è per la pretesa di ignorare che i lavoratori sono persone, soggetti umani, e non macchine che possono essere accantonate secondo le convenienze. Tuttavia, la finalità principale, la ragione di esistenza di un’impresa è la produzione e quindi un’impresa in perdita è un non senso. Ma il fine di una società, di una nazione non è la mera produzione di merci, bensì qualcosa di molto più ricco e complesso che è velleitario descrivere con poche parole: diciamo che ne è un aspetto essenziale la condivisione di una comune civiltà. Senza questo aspetto una società è destinata a conflitti devastanti e alla rapida disgregazione. Nell’ideologia dei tecnocrati non c’è posto per i “valori”, per una visione umanistica, che anzi essi guardano con sarcastico sprezzo, come superstizioni del passato. Per questo la visione tecnocratica ed economicistica è un’ideologia che non ha nulla di oggettivo: essa è il risvolto del relativismo più radicale, della riduzione di ogni principio etico e morale a questioni puramente quantitative.
L’ideologia tecnocratica – che guarda al benessere dei bilanci e nel cui mondo non c’è posto per gli uomini – è egemone in Europa, sostenuta dal paese più forte, la Germania, che tramite essa mira a garantire gli standard della propria economia. Essa è andata al potere in paesi politicamente deboli come l’Italia e la Grecia e ha provocato reazioni istituzionali in paesi ancora politicamente strutturati come la Francia e la Spagna. L’ideologia tecnocratico-relativista è miope perché s’illude che le finalità delle persone possano essere ridotte alle regole di bilancio – il che non vuol dire (sia ben chiaro!) che i bilanci non debbano essere tendenzialmente pareggiati, ma che la via per arrivarci dovrebbe passare per scelte politiche e sociali ragionevoli, sostenibili e non riducibili a tecniche aziendali. Il risultato di tale miopia è sotto gli occhi di tutti: la rinascita del socialismo in Francia, e l’esplosione delle forze protestatarie e anti-sistema nei paesi politicamente deboli. La politica in Grecia ha innumerevoli colpe, ma nessun paese può essere trattato come una colonia da mettere in riga con la forza, pena il riemergere impetuoso degli estremismi, comunismo e fascismo. I partiti italiani, esibendo la propria incapacità di governare e di proporre linee di condotta autonome hanno aperto la strada alla tecnocrazia e ai suoi compagni di strada obbligati: l’estremismo e il qualunquismo. Purtroppo estremismo e qualunquismo incanalano la sacrosanta aspirazione alla qualità della vita nella protesta, ovvero verso un’ulteriore distruzione di qualsiasi pensiero forte, dei valori che motivano le iniziative su cui si fonda una società coesa. Anche da una guerra si può uscire bene e l’Italia lo dimostrò. Ma occorre una spinta etica, occorre solidarietà sociale, il desiderio di fare qualcosa di positivo, di migliorare, il che non vuol dire soltanto produrre di più, ma anche, e soprattutto, crescere culturalmente e moralmente.
Le forze politiche che hanno governato il nostro paese dovrebbero cospargersi il capo di cenere per quanto non hanno saputo fare e per quanto hanno fatto (e continuano a fare!) per spianare la strada alla tecnocrazia e stimolare rigurgiti di socialcomunismo e di fascismo. Mi limito a un esempio in un ambito che conosco meglio. La presente legislatura era iniziata con buoni propositi sul terreno dell’istruzione, con l’intento di ridare spazio alla cultura, a quei contenuti dell’insegnamento che sono la sostanza della nostra civiltà, di restituire dignità alla funzione dell’insegnante come rappresentante della società e garante della formazione di giovani italiani preparati e liberi, liberi in quanto istruiti. Per far questo occorreva sottrarre l’istruzione alla mano morta del prepotere sindacale. Il risultato è disastroso. Oggi l’istruzione è sotto due mani morte: sindacati e Confindustria. L’ultimo prodotto dell’inciucio tra un centrodestra e un centrosinistra in crisi è una legge sull’autonomia delle scuole che le pone sotto l’egida di consigli di amministrazione in cui gli insegnanti sono ridotti a comparse in minoranza di fronte a genitori, studenti e “realtà” sociali, produttive, professionali e dei servizi. Insomma, una sintesi aberrante tra l’ideologia aziendalista e il vecchio assemblearismo di sessantottina memoria; un’epitome della tecnocrazia e dell’ideologia collettivista, il cui inevitabile fallimento può lasciare aperta la strada soltanto allo sbocco devastante del ribellismo.
(TEMPI, maggio 2012)

domenica 20 maggio 2012

Un piccolo episodio che suggerisce una piccola riflessione sui test Invalsi


Testimonianza raccolta da amici. Una maestra elementare spiega che ANTICAMENTE per andare a capo, si interrompeva al seguente modo: dal-l'acqua. Ma ora, nella MODERNITA' si può invece andare a capo dopo l'apostrofo, ovvero dall'-acqua… Ah, "nous les modernes" direbbe Finkielkraut…
Questo piccolo episodio suggerisce una piccola riflessione sull'Invalsi. Se i signori di questo ente, invece di impancarsi a "somministrare" (termine che ricorda l'olio di fegato di merluzzo) test pretenziosi sull'interpretazione dei testi letterari o di geometria, si limitassero modestamente, ma più efficacemente, a verificare le capacità (si dice competenze?) ortografiche, grammaticali, sintattiche e di elementare calcolo numerico dei bambini - e diciamo pure dei ragazzi! - non renderebbero davvero un gran servizio alla scuola? Non sarebbe questo il modo più efficace di verificare i "livelli di apprendimento" e anche di "valutare" l'efficacia dell'insegnamento? (non dirò impartito o somministrato, perché l'ex-cathedra appartiene di diritto soltanto a pedagogisti e valutatori).
Credo di aver dato prova di difendere a spada tratta la funzione dell'insegnante, naturalmente di quelli bravi, non di quelli che si nascondono dietro l'ideologia delle competenze per smantellare l'-
ortografia.
E invece di fare qualcosa che serva per una valutazione vera e utile tocca sorbire, oltre ai test di interpretazione letteraria somministrati dall'-
Invalsi, anche le sparate retoriche sulla valutazione oggettiva e ora addirittura dotti articoli di analisi statistica dei dirigenti dell'-
ente.

giovedì 10 maggio 2012

PUNITI GLI INSEGNANTI CHE INSEGNANO


Il Periódico di Andorra informa che una docente della Scuola spagnola dell’infanzia del Principato è stata cacciata per aver insegnato a leggere e a far di conto ai suoi alunni. L’imputazione a suo carico è che bambini di 4 e 5 anni sappiano già leggere, fare somme e sottrazioni e stiano perfino apprendendo a scrivere (il che in India e in molti paesi asiatici è un obbligo). I genitori dei bambini hanno fatto ricorso all’ambasciata spagnola sostenendo che in Spagna sono richiesti minimi educativi ma non è definito alcun massimo. Un ispettore ha respinto il ricorso, confermando la cacciata dell’insegnante. Le si è generosamente concesso di completare il corso di quest’anno a condizione di abbassare il livello dell’insegnamento…
Sarebbe un grave errore accantonare questa vicenda come un episodio folkloristico. Essa è la logica conseguenza di un andazzo che va avanti da anni in gran parte dell’occidente e che mira a trasformare la scuola in una “comunità di apprendimento-intrattenimento” in cui gli insegnanti sono ridotti a “facilitatori”, a fornitori di un servizio di supporto nel quadro di un variegato complesso di attività in cui l’insegnamento disciplinare è l’ultimo degli obbiettivi (se pure lo è) e in cui il primo degli obbiettivi è lo svago e attenersi a standard minimi senza stancare.
Non a caso si è aperta da noi la discussione se diminuire o sopprimere i compiti a casa, sull’onda di un’iniziativa di genitori francesi che, stressati dallo stress dei figli, hanno proclamato che i compiti “fanno male” e impediscono le “attività alternative”. Questo dibattito ha messo in luce la schizofrenia di proclamare come valore assoluto l’“autonomia” scolastica e poi voler definire per decreto se e quanti compiti vanno dati, sottraendo all’insegnante un aspetto importante della sua libertà educativa. Ma questo è niente a fronte dei discorsi surreali sull’insegnamento “capovolto”: niente spiegazioni in classe, si studia a casa con videoregistrazioni e su internet (meglio se in gruppo) e poi a scuola l’insegnante si limita a facilitare l’applicazione delle conoscenze trasformandole in “competenze”. È la scuola vista come “web community” in cui tutto viene costruito “dal basso” con materiali e metodi “accattivanti”. Sembra che da noi tutto ciò piaccia molto al ministro Profumo. Il ministro Fornero si lamenta che i nostri giovani non sappiano leggere, scrivere e far di conto: farebbe bene a rivolgersi al collega di governo. Nell’orgia della trasformazione della scuola del sapere in quella del “saper fare”, dell’insegnante nel senso di Hannah Arendt – «che si qualifica per conoscere il mondo e istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità» – non resta nulla. Certo, gli insegnanti non sono tutti santi e impeccabili. Ma non si ripete di volerli sempre più qualificare, esaltare la loro funzione, restituirle dignità? Il modo corretto per farlo sarebbe di trasformarli in dipendenti di terz’ordine doppiamente subordinati al dirigismo ministeriale e alle idiosincrasie dell’“utente”?
È proprio quel che propone la legge sull’autogoverno delle istituzioni scolastiche recentemente approvata dalla commissione istruzione della Camera. Essa è centrata sull’idea di trasformare le scuole in istituzioni “autonome” e legate al territorio, come se questo fosse di per sé un toccasana. Ma l’unica autonomia che questa legge non garantisce, o piuttosto annulla, è quella degli insegnanti. La scuola sarebbe gestita da un consiglio dell’autonomia presieduto da un genitore – scelta bizzarra visto che la componente genitoriale è la più transeunte di tutte. Il consiglio prevede una presenza paritetica di genitori e insegnanti, con l’aggiunta di rappresentanti di «realtà» culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi nonché degli studenti (per le scuole superiori) e quindi mette i docenti in minoranza. Alla funzione docente si riserva la «piena libertà» di programmare e attuare l’attività didattica, ma di fatto la si toglie, subordinandola da un lato alle direttive ministeriali (alle indicazioni, agli standard nazionali, alla certificazione delle competenze e alle innumerevoli prescrizioni) e dall’altro a interessi particolari, in quanto deve attenersi «alle linee educative e culturali della scuola» da negoziare con genitori, studenti e le famose “realtà”.
 Se già la scuola è ridotta a un emporio di attività frammentate è facile immaginare a cosa verrebbe ridotta da questa legge trasversale, frutto di due debolezze politiche che, sorreggendosi a vicenda come due zoppi, hanno realizzato il capolavoro di accoppiare una visione aziendalista con una demagogia assembleare, in salsa di costruttivismo. Se questi sono i capolavori che riescono a partorire le forze politiche allora non c’è da stupirsi se il paese è in mano alla tecnocrazia e al ribellismo protestatario.

(Il Giornale, 9 maggio 2012)