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martedì 5 giugno 2012

"Eccellentocrazia"

LA SCUOLA TECNOCRATICA: POCHI ALUNNI ECCELLENTI IN UN BRANCO DI ASINI

6 commenti:

Gianfranco Massi ha detto...

Chi si vuole premiare, la scuola come organismo educatore,i ragazzi che la frequentano, o il caso che fa entrare in quella scuola un piccolo Blaise (che forse vi si annoierebbe)?
Agli psicologi non sembra poi che premiare il piccolo Blaise sia poco motivante per tutti gli altri?
No, penso anche io come lei, professore: "il premio all’eccellenza e il premio alla mediocrità sono le due facce della stessa medaglia".

Pat Z ha detto...

Oh, finalmente qualcuno che lo dice, e che dà voce autorevolmente a un pensiero che mi frulla per la testa da parecchio tempo, confortandomi sulla bontà di alcune mie riflessioni. Perché vede, professore, dalle mie parti c'è parecchia gente che si riempie continuamente la bocca della parola "eccellenza". Eccellenza di qui, eccellenza di là, e l'albo delle eccellenze, e bisogna selezionare le eccellenze... Al punto che io, pure essendo da sempre nemica giurata del sei politico, avvertivo, come dire... un senso di insofferenza di fronte a certi discorsi, come se ci fosse in questo modo di pensare una sorta di discrasia. Lungi da me l'idea di avvilire i bravi, di non valorizzarli, di non stimolarli: questo va certamente fatto e sono la prima a dirlo. Ma non credo che la mia bravura di professore si misuri da quanto sono in grado di "pompare" il più bravo della classe (che è già bravo di suo) facendogli vincere le olimpiadi di traduzione latina. Per carità, alle olimpiadi ce lo manderò anche, e m'impegnerò a fondo per farlo andare bene, ma secondo me non è affatto questo che fa un buon professore, e nemmeno un buono studente se proprio devo dirla tutta. Io penso che la mia bravura di professore debba risiedere nella mia capacità di far crescere e valorizzare tutta la classe, di proporre stimoli e riflessioni che resteranno nella mente e nel cuore di tutti, anche quelli che magari alla fine prenderanno sei a settembre, ma saranno cresciuti e avranno veramente imparato a pensare e organizzare il loro lavoro in modo autonomo anche grazie al mio contributo. Penso che diventare dieci decimi di matematico o di grecista sia molto meno importante che diventare dieci decimi di uomo, e questo alla società dovrebbe interessare anche di più della ricerca di qualche elitaria eccellenza. Perché la vita è spesso diversa dalla scuola, e noi non possiamo sapere quale dei nostri alunni diventerà una persona completa, matura e realizzata, che è ciò che noi dovremmo davvero perseguire: magari sarà proprio quello che prendeva sei a maturare meglio, ad essere felice anche grazie a ciò che ci siamo sforzati di fare per lui, insegnandogli attraverso la matematica e il greco la responsabilità, il dovere e la profondità di pensiero. (segue)

Pat Z ha detto...

(continua)
E forse dovremmo cercare di tirare su il bravo facendogli capire che non sarà soltanto il suo arrivare sempre primo alle olimpiadi il metro su cui dovrà misurare il proprio valore come persona. Perché non sempre nella vita arriverà primo, e allora dobbiamo anche insegnargli - ancor più che a competere per essere i migliori di tutti - a non disintegrarsi il giorno che le sue certesse scolastiche dovessero incontrare qualche delusione, e a rialzarsi, a tirarsi su le maniche e a lottare ancora con il massimo impegno. Mi fanno forse più tenerezza degli altri quei ragazzi bravissimi, studiosissimi, serissimi da sempre, che a diciassett'anni si accorgono con sofferenza che gli piacerebbe avere un amico, una ragazza, farsi una risata in compagnia. Non voglio banalizzare, per carità, ma dico che noi non abbiamo per le mani macchine, ma esseri umani, e dobbiamo preoccuparci prima di tutto di aiutarli a sviluppare una personalità armoniosa, non a essere degli specialisti. Questo lo diceva Einstein, che a scuola era considerato un ritardato. Quintiliano dice che l'insegnante deve prima di tutto assumere verso gli studenti l'animo di un genitore, e ricordarsi che sta quasi "subentrando" a coloro che gli hanno affidato i loro figli perché li formi. Il che non vuole affatto dire, come molta pedagogia d'accatto sostiene, che egli debba per questo promuoverli tutti e trasformarsi in una mammoletta rammollita. Vuol dire però che chi insegna deve indirizzare ogni sua azione, anche quelle ispirate alla più grande severità, se necessaria, al fine di far crescere i suoi studenti come persone. Quindi se è vero che è importantissimo che io insegni bene il greco e il latino (e mi sforzo di farlo al massimo, e non gliene passo una se non lavorano come si deve), è anche vero che mi devo sempre ricordare che non lo faccio per allevare in vivaio qualche piccolo fenomeno da baraccone in mezzo a una massa di rifiuti umani, ma che il latino e il greco, per quanto importanti siano e per quanto fondamentale ne giudichi la conoscenza, sono un mezzo per costruire persone responsabili, preparate e felici, non un fine in se stessi. Se è vero che la cultura è quello che resta dopo che si è dimenticato tutto, l'eventuale gratificazione personale (mia e loro) se arrivano primi da qualche parte non ha niente a che vedere con la pacata consapevolezza di aver lavorato con serietà e con amore facendo qualcosa di veramente buono, che resti veramente in loro e anche in me, a lungo. Spero vivamente con questo di non sembrare una tardo-sessantottina ideologizzata e superbuonista, che è quanto di più lontano da ciò che sono e mi sforzo di essere. Per fortuna oggi vedo distinguere con chiarezza e con grande intelligenza dal suo articolo i due concetti di valorizzazione del merito (quella autentica) e ricerca spasmodica e sterile delle cosiddette "eccellenze", e la ringrazio per aver dato voce così chiara a riflessioni che in buona parte appartenevano anche a me, al mio modo di sentire e alla mia esperienza di insegnante.

Nautilus ha detto...

A Ballarò di questo ministro m'è piaciuta solo la collaboratrice alle sue spalle, per il resto ha perfino sbagliato un congiuntivo (sarà stata l'emozione). Dopo la Gelmini pensavo di aver diritto alla riscossa.
L'idea del premio al migliore a me pare figlia del non saper che pesci prendere e allora tanto per fare "qualcosa di meritocratico" a costi contenuti ecco la trovata geniale. Che poi, essendo a mio avviso completamente inutile (anzi addirittura dannosa, in linea con quanto scrive il prof.Israel), costa anche troppo, meglio spenderli in carta igienica.
Rimane il fatto che davvero per questa scuola figlia dell'attuale società nessuno ha una ricetta.
Sentite le lagnanze sull'abbandono e la scarsità di laureati e sulle "risorse" da dedicarvi, peccato non dicendo mai in che direzione.
A mio modestissimo avviso (l'unica idea peregrina che mi viene) per evitare le classi da 30 allievi, tanto per cominciare.

Dina Moro ha detto...

In Italia la mania del populismo è dura a tramontare, e i vari ministri che si sono succeduti da quando ero adolescente hanno immancabilmente cavalcato, a seconda delle mode:

1) tiritera uno: la scuola è per tutti, tutti hanno diritto a tutto. Ovvero: tutti felici e promossi, indipendentemente da quanto imparano.

2) tiritera due: premiamo i migliori.
Leggi: facciamo emergere i pochissimi che sono sempre e comunque emersi... giusto per tacitare la coscienza e far vedere che facciamo qualcosa.

In vent'anni non ho mai visto un ministro avere il coraggio di essere concreto.

Una scuola di qualità significa: classi al massimo da 25 alunni, supporto assicurato per chi è in difficoltà e opportunità per i più brillanti. Ai più brillanti non occorrono tessere a punti, bastano occasioni culturali, contatti con esperti, soggiorni all'estero, possibilità di approfondire i propri interessi e di sviluppare le proprie idee. Tutte cose che la scuola può fornire, se messa in grado di farlo.

Scuola di qualità significa anche pretesa che questa buona qualità venga sfruttata da parte degli studenti.

Potrebbe magari significare scuole aperte (parlo di secondaria, di primo e secondo grado) anche al pomeriggio, per progetti, per ricevimento dei docenti, aule dove gli studenti possano trovarsi a studiare, approfondire, colmare lacune.

Io non sono un ministro, ma so che una scuola di qualità significa sicuramente investimenti, mentre ultimamente si parla solo di tagli.

Scuola di qualità dovrebbe anche significare edifici sicuri, mentre la maggior parte degli edifici scolastici versano in condizioni precarie.

Ultimamente alle due tiritere precedenti si è aggiunta quella dell'informatizzazione: ebooks, LIM, e così via.
Già sentita, quando nelle scuole entrarono i commodor 68 e io fui una delle prime a fare un corso di informatica a scuola, nel pomeriggio, grazie ad un mio lungimirante e preparatissimo docente.

La tecnologia è un grosso aiuto, è irrinunciabile al giorno d'oggi ma non è lei a determinare la qualità della scuola.


E, tocco finale, ora gira anche lo slogan contro delle lezioni frontali, che sono state giudicate più volte "old fashion" dal nostro attuale ministro.
Sarei parzialmente daccordo con lui: peccato che con classi di 28-30 alunni, stipati in pochi metri quadrati, e un piano orario settimanale pari o di poco superiore alle 2 ore, una didattica non frontale rappresenti un'impresa alle soglie della magia.


Se si urlassero meno slogan, si iniziasse a lavorare nel quotidiano e si ascoltassero le idee di persone competenti, non sarebbe poi così complicato risolvere il problema.
O sono troppo ottimista?

Dina Moro ha detto...

Ops, mi scuso.
Ho creato un nuovo modello: il commodor 68, fusione tra il commodor 64 e il commodor 128.

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