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martedì 27 novembre 2012

UNA BREVE REPLICA AL PREMIER MONTI CHE DICE CHE GLI INSEGNANTI SONO CONSERVATORI

«il vero problema dell’educazione sta nell’estrema difficoltà […] di realizzare anche quel minimo di conservazione, quella situazione conservatrice assolutamente indispensabile per “educare” i giovani. […] L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».
Hannah Arendt
("La crisi dell'istruzione" in Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 2001)

Premio Nobel per la pace all'Europa: l'ennesima pagliacciata



V’è chi dice che ormai è meglio non ottenere il premio Nobel per non fare una brutta figura entrando a far parte di una cattiva compagnia, soprattutto se si tratta del premio Nobel per la pace: anche gli altri Nobel sono caduti di livello ma non come quello per la pace, dopo che è stato conferito a Jimmy Carter, Yasser Arafat, Mohamed el Baradei e “a prescindere” (cioè prima che si sapesse cosa avrebbe fatto) a Barack Obama. Ma con il conferimento del premio Nobel per la pace all’Europa si è oltrepassato ogni limite: una tragica buffonata che poteva essere soltanto il frutto di un “politicamente corretto” privo di senso del ridicolo. Cosa credono (o vogliono farci credere) che sia la “pace” i signori del Comitato Nobel? “Pace” sarebbe sinonimo di assenza di qualsiasi forma di conflitto bellico? Anche in questa versione semplificata non ci siamo proprio, perché l’Europa è stata teatro, in tempi non lontani, di conflitti sanguinosi e stragi bestiali nella ex-Jugoslavia. Si risponderà che il premio Nobel è relativo ai tempi più recenti, anzi all’anno in corso. Già, ma così si trascura un piccolo fatto: e cioè che l’Europa è appena reduce da un intervento armato sulla Libia, con cui ha preso parte attiva a un conflitto volto ad abbattere la dittatura del colonnello Gheddafi. E non si venga a raccontare che si è trattato di un intervento di pace, a scopi umanitari. Per anni e anni l’Europa si è voltata dall’altra parte di fronte alle malefatte e ai delitti del dittatore libico. Anzi, egli veniva ricevuto con tutti gli onori, fino a sopportare le situazioni più umilianti. Ci si è forse dimenticati di quando venne invitato a tenere una “lectio magistralis” all’Università di Roma “La Sapienza”? Chi ebbe lo stomaco per andarla a sentire si sentì propinare come alta dottrina la tesi che la parola “democrazia” sarebbe il composto di due parole arabe che assieme vorrebbero dire “il popolo sta seduto”… Poi, quando si è profilata la possibilità di buttare giù il “rais” e la speranza di avere un regime amico con cui fare affari migliori, alcune potenze europee (la Francia in primis) si sono date a bombardare a più non posso. Missione umanitaria? E allora perché mai non si muove un dito davanti alle inaudite stragi che stanno insanguinando la Siria? Eh no, in questo caso la patata è troppo bollente ed è preferibile girare la testa dall’altra parte. Altro che sentimenti umanitari, altro che “pace”: è il trionfo del più ipocrita cinismo.
Ad ogni modo la “pace” è qualcosa di molto più ampio che non la semplice assenza di interventi armati. Sostenere che l’Europa sia un continente in pace di fronte alla crisi economico-sociale che la sta devastando più di qualsiasi altra parte del mondo sviluppato, e non soltanto di quello, è il colmo. Piuttosto, bisognerebbe dire che questa crisi sta aggravando disuguaglianze all’interno del continente che rischiano di condurre a esiti drammatici. La forbice che separa Grecia e Germania è una misura queste disuguaglianze. Qualcuno ha detto brutalmente che la Germania sta vincendo a tavolino sul terreno economico la Terza guerra mondiale: sarà esagerato, ma di certo è il sentimento che si sta diffondendo in molti paesi, e che è testimoniato dall’accoglienza a base di bandiere con la svastica che è stata riservata alla cancelliera Merkel nel corso della sua recente visita in Grecia. Questa crisi sta sgretolando la politica democratica in molti paesi, e sta aprendo la strada a movimenti estremisti, che vanno dal qualunquismo più sfrenato al recupero di tematiche di destra estrema e persino nostalgiche del nazismo.
È inevitabile che il termometro più sensibile di tale pericolosa situazione sia il riemergere dell’antisemitismo. Mentre le manifestazioni esteriori di “lotta” all’antisemitismo sono numerose e persino si moltiplicano, nei fatti la malattia si diffonde alle radici come una gramigna. La vera domanda da porsi è: di questo passo che cosa rimarrà dell’ebraismo in Europa entro un lasso tempo non lungo? Nella tripla tenaglia del politicamente corretto filopalestinese, dell’antisemitismo di estrema destra e dell’antisemitismo di marca islamista, numerose comunità europee, in particolare in Svezia e in Francia, sono sotto una pressione insostenibile e vedono crescere il fenomeno di emigrazione. Ricevo sistematicamente notizie da amici francesi sulla situazione in quel paese e sono sempre più sconfortanti. L’ultima riguarda una richiesta urgente da parte dell’Union des Étudiants Juifs di France a Twitter-Francia di trovare il modo per arginare una vera e propria valanga di tweets di carattere antisemita che dilaga sulla rete. E questo sarebbe vivere “in pace”? Almeno non si aggiunga al danno la beffa.
(Shalom, novembre 2012)

giovedì 22 novembre 2012

PILLOLE DEL SAPERE

Adesso sembra che la vera questione sia diventata se le "pillole del sapere" durino 3 minuti o 13. Come se, nel caso in cui fossero della durata di 13 minuti (a un costo comunque mirabolante) tutto tornasse a posto.
E quasi nessuno dice che il vero problema è un altro, che rimane intatto, indipendentemente dal fatto che le pillole durino 3, 13, o 133 minuti:
PERCHE' MAI IL MINISTERO SI METTE A SPENDERE SOLDI PER PRODURRE MATERIALE DIDATTICO? DOVE SIAMO? IN UN REGIME TOTALITARIO, IN CUI LA CULTURA SCOLASTICA E' PRODOTTA DIRETTAMENTE DALLO STATO? 
Si occupi il ministero di fare il FACILITATORE (lui sì, non gli insegnanti...) della scuola e lasci i competenti, i produttori di libri, i dirigenti scolastici, gli insegnanti, a occuparsi dei contenuti della scuola. 
E ora aggiungiamo questa considerazione:
Ci viene proposto di giudicare direttamente la qualità delle pillole del sapere con un esempio messo da Indire in rete, effettivamente di 13 minuti. Bene, per parte mia, il giudizio è questo: una cosa mediocre, fatta male e, per certi versi, ridicola. Soprattutto, un prodotto che, per realizzarlo, con una normale videocamera e qualche materiale multimediale che si fabbrica in poche ore, vale una cifra enormemente inferiore a quella di cui si parla: 40.000 euro a pillola, a quanto pare. Soprattutto, un filmato come questo – chiunque può giudicare!potrebbe fabbricarlo una scuola da sola, con una videocamera prestata da un genitore, la partecipazione di alcuni bambini e un paio di maestri e materiali fabbricati anche scaricando dalla rete. E sarebbe un'esperienza molto ma molto più utile A COSTO ZERO
Torniamo al discorso di prima: che cosa diamine ci fa il ministero a fabbricare questi prodotti a spese del contribuente e poi a costringere le scuole a usarli? Li fabbrichino gli editori, la RAI, altre televisioni private, l'Enciclopedia Italiana ecc. ecc., e poi le scuole se li comprano se vogliono i dirigenti e gli insegnanti, in piena autonomia. Altrimenti, se li fabbricano da soli, che è anche meglio.
E che senso ha questo groviglio delirante, per cui il ministero commissiona la produzione di questi prodotti all'Indire (cioè a sé stesso), il quale poi dice che sono ottimi... Ma ci facciano il piacere, come diceva il principe De Curtis.

SE NON ATTACCHI L'ASINO DOVE VUOLE IL PADRONE...


So benissimo che sollevare dubbi sulle procedure di valutazione automatica mediante test è controcorrente. So benissimo che sollevare dubbi sulla spinta tecnologica che viene dal ministero dell’istruzione è ancor più controcorrente. Ormai si straparla di “touch school”, di tablet a milioni, di mille nuove scuole ipertecnologiche, di dual books (ma dove li trovano i quattrini?).
A me non piace che di scuola non si occupi più chi sa, ma chi sa fare, cioè imprenditori, manager, venditori di prodotti. Non mi piace che si parli soltanto di tecniche e mai di contenuti. 
Trovo detestabili le iniziative di Bill Gates, il suo grottesco progetto Met di valutazione degli insegnanti, fino all’idea balzana di misurare la qualità degli insegnanti con un bracciale elettronico misuratore di attenzione messo al polso degli studenti.
Ma - ripeto - so di essere controcorrente. Il che non mi perturba più di tanto. Mi dispiace che vada così, ma non ho alcuna intenzione di “piegarmi” e magari di scrivere e dire cose in cui non credo soltanto per non essere tagliato fuori dal “giro”.
Per esempio, penso che di matematica deve occuparsi chi ne sa e non dei piazzisti della matematica inseriti in congreghe imprenditoriali che – come mi vantava un alto dirigente ministeriale che ne sa di matematica come io di nefrologia – avrebbero sviluppato applicazioni e ambienti virtuali rivoluzionari per la didattica della disciplina.
Sei mesi fa vengo contattato da iS Pearson per un’intervista sulla valutazione e sul progetto Met di Gates. La rilascio per iscritto dopo pochi giorni e poi non ne so più nulla. Ora per caso apprendo che è uscita. Si fa per dire. Infatti è spezzettata in poche affermazioni apodittiche in cui manca del tutto l’argomentazione e sono tagliate le osservazioni più pungenti. Insomma è ridotta in “pillole” (nulla a che fare con le “pillole del sapere”, perché è tutto gratis...). Sono pillole inserite a panino tra un articolo sul progetto Met di Bill Gates e alcune dichiarazioni del commissario dell’Invalsi...
Tralascio ogni commento concernente l’educazione, la correttezza, la disponibilità a un confronto alla pari, ecc. ecc.
Mi limito a mettere in rete il testo completo dell’intervista.
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  • Quali sono le principali difficoltà nel valutare il lavoro di un insegnante?

La risposta più semplice – quella che danno molti – è che il lavoro di un insegnante si valuta dai risultati e cioè limitandosi a osservare i successi  o insuccessi scolastici degli alunni. Ma questo è profondamente sbagliato perché, per dirla con la nota legge di Goodhart (o la simile legge di Campbell) quando una misura viene indicata come obbiettivo cessa di essere una buona misura perché diventa un incitamento a comportamenti scorretti. Nella fattispecie, se si indica che la valutazione dell’operato di un insegnante è misurata dai successi scolastici è quanto incitarlo a promuovere tutti, anche chi non lo merita. Né è una soluzione ovviare a questo valutando direttamente gli apprendimenti dello studente, perché questo richiede seguirlo e conoscerlo in modo approfondito, che è esattamente quel che fa (o dovrebbe fare) l’insegnante nel corso di tutto l’anno. Questo processo di valutazione complesso non può essere cortocircuitato mediante test, i quali hanno senso soltanto per la verifica di conoscenze minimali e imprescindibili di ortografia, grammatica, calcolo e poco più. Tutto il resto (che è quanto dire quasi tutto) non è valutabile mediante test e sostenere il contrario è poco serio. Analogamente, il lavoro dell’insegnante non può essere valutato con test o con qualche indicatore generico. Si tratta di una valutazione che richiede un’analisi approfondita e vasta, la quale può essere condotta soltanto con un processo di ispezioni: in sostanza, commissioni ispettive che si rechino in una scuola, per un periodo di 7-10 giorni, interrogando studenti, conversando con gli insegnanti, informandosi delle strategie seguite, dei libri adottati, ecc.   


  • Crede che sia possibile mettere a punto un metodo affidabile di giudizio che possa aiutare gli insegnanti stessi a migliorare i propri metodi?

È appunto il metodo delle ispezioni di cui dicevo sopra. Ovviamente si tratta di un procedimento complesso e anche costoso e quindi esso può essere svolto soltanto a campione (ispezionando, ad esempio, un 10% delle scuole ogni anno). Ma già questo può servire a mettere in moto un processo virtuoso. Le commissioni ispettive potrebbero essere formate oltre che da ispettori ministeriali, da docenti di altre scuole, da docenti in pensione, e anche da docenti universitari e dovrebbero produrre dei rapporti dettagliati e che sintetizzino il giudizio mediante “voti” assegnati alle scuole e ai singoli docenti. Vorrei sottolineare che la valutazione deve essere intesa come un processo interattivo che determini una crescita culturale della classe insegnante, e non come un mero esame. Nessuno può imporre a un docente una metodologia di insegnamento – questo sarebbe totalitarismo culturale, l’idea che qualcuno possieda la “verità” circa il “giusto” metodo d’insegnamento è rozza e aberrante – ma si può aprire un confronto sui risultati ottenuti con tale o tal’altra metodologia di insegnamento e questo può far crescere e migliorare tutti. Il metodo delle ispezioni è il sistema migliore per mettere in moto questo processo interattivo che può stimolare il miglioramento.

  • Il progetto Met rivendica una differenza rispetto a tutti gli altri metodi utilizzati finora evidenziando tre aspetti principali. In primo luogo, la vastità di dati raccolti; in secondo luogo, la varietà dei metodi di valutazione (da parte degli studenti ma anche da parte di osservatori indipendenti. I risultati degli allievi, inoltre, sono giudicati non solo attraverso test a crocette ma anche tramite domande a risposta aperta); infine, il fatto che i dati raccolti sono incrociati in modo che il contesto non influisca sulla valutazione finale. Ritiene che questi accorgimenti rappresentino una reale novità? Possono essere utili per garantire una valutazione obiettiva?

La pretesa che si possano valutare in modo “obbiettivo” la “conoscenza”, le “competenze”, il “metodo” e altre qualità intellettuali è priva di qualsiasi fondamento e costituisce una sciocchezza sesquipedale proprio dal punto di vista scientifico. Si può misurare in modo obbiettivo una lunghezza o un’intensità di corrente, non la qualità di un apprendimento. Purtroppo questa illusione è diffusa e si lascia credere che sia possibile “misurare” gli apprendimenti o le competenze con dei parametri quantitativi. In tal modo, non si ottiene alcuna oggettività, ma si sostituisce all’inevitabile arbitrarietà del giudizio soggettivo del valutatore l’arbitrarietà nella formulazione dei test, che sono comunque pensati da una persona che ha le sue visioni individuali, le sue idiosincrasie, le sue vedute, e talora anche le sue ignoranze. Il metro è un oggetto impersonale e indipendente da qualsiasi forma di soggettività, mentre qui vi sono comunque soggetti che pensano e decidono le tecniche di valutazione, scelgono i parametri, formulano i test. Non so che senso abbia la parola “osservatori indipendenti”. Indipendenti da chi e da cosa? Forse possono essere indipendenti dalle persone o dall’istituzione che valutano ma non sono indipendenti dalla propria soggettività. Vastità dei dati raccolti? Bisogna vedere quali dati. Già la scelta di quali dati raccogliere è personale e opinabile. È innegabile che le domande a risposta aperta siano meno oggettive di un quiz a risposta chiusa – che però è davvero oggettivo soltanto se valuta dati non opinabili come la conoscenza di una regola ortografica o aritmetica – ma proprio per questo aprono la strada a una varietà di giudizi da parte dei valutatori. Non credo che alcuno degli accorgimenti accennati possa servire a una valutazione”oggettiva”, per il semplice motivo che una valutazione oggettiva è impossibile. È possibile invece aspirare a una valutazione meditata, riflessiva ed equanime. Sottolineo questo termine: equanime. Vorrei inoltre notare che non mi piace affatto – e lo considero un brutto segno – che imprenditori e manager si occupino d’istruzione; che persone che non hanno mai messo piede in un’aula e spesso di dubbia cultura – le quali sarebbero magari bocciate a un’esame di qualche disciplina di base – pretendano di dettar legge su come si deve insegnare. Della scuola si deve occupare chi insegna e chi ha competenze culturali adeguate. Gli altri facciano il loro mestiere. Talora si ha l’impressione che qualcuno abbia visto nella scuola uno sterminato terreno entro cui fare affari soprattutto vendendo prodotti informatici e subordinando le scelte dell’istruzione a questi fini affaristici attraverso le procedure di valutazione. È singolare che si venga a parlare di rigore e di qualità dell’insegnamento mettendolo in mano a chi mai è stato valutato in termini di capacità di occuparsi di questi argomenti. 

  • E' innegabile che alcuni professori svolgano il loro lavoro in modo piu' efficace rispetto ai loro colleghi. Crede che sarebbe possibile adottare delle misure nell'interesse degli studenti per far si' che i professori capaci e appassionati prevalgano (almeno numericamente) sugli altri?

È innegabile. Ed è altrettanto innegabile – almeno secondo me – che occorra premiare il merito a tutti i livelli. Ma tra l’affermazione di principio e la realizzazione c’è di mezzo il mare e gli insuccessi dei tanti tentativi di valutazione “oggettiva” mostrano che la cosa è tutt’altro che semplice. Occorre partire dal principio che, se si vuole migliorare la qualità dell’insegnamento e far prevalere gli insegnanti migliori, la via non è quella di umiliare la funzione dell’insegnante mettendo la valutazione in mano a burocrati, funzionari, “esperti” di dubbia competenza o addirittura imprenditori e manager. Occorre promuovere un grande processo di “autovalutazione” mediante procedure ispettive che, mettendo a confronto gli insegnanti, faccia emergere le scuole migliori e le personalità più capaci. È un processo complesso e lungo, da sviluppare con pazienza e con metodo, ma la cultura si alimenta con la cultura, non trattandola come un sistema di produzione di merci di cui occorre valutare la qualità, come se si trattasse di valutare una produzione di pomodori pelati sulla base di una serie di parametri quantitativi. Spesso non funziona bene neppure nel caso della produzione di merci, figuriamoci nel caso dei “prodotti” dell’intelletto.

Giorgio Israel

domenica 18 novembre 2012

CONVEGNO

V° CONVEGNO DEL COMITATO ETICO PER LE ATTIVITA' BIOMEDICHE "CARLO ROMANO"
CLINICA E TECNOLOGIA NELLA MEDICINA CONTEMPORANEA
APOLO - Aula Magna "G. Salvatore" della Facoltà di Medicina e Chirurgia - Università degli Studi di Napoli Federico II - Via G. Pansini, 5
G. Israel – Lezione magistrale su "Etica e tecnologia nella pratica medica"
ore 10.20 - 11.00 di mercoledì 21 novembre 2012

giovedì 15 novembre 2012

Come si suol dire volgarmente... l'avevo detto...

L'avevo detto più volte che questa faccenda della pioggia di digitalizzazione della scuola in un periodo in cui non si fa che tagliare era una cosa a dir poco discutibile. Per esempio, l'avevo detto qui. A qualcuno è sembrato che fosse soltanto espressione di una mente retrograda e di un "laudator temporis acti". Ma non ho mai capito perché mai si protesti tanto per i tagli e nessuno trovi pazzesco (e sospetto) che i quattrini si trovino per una cosa sola: LIM, progetti di digitalizzazione, e consimili.
E allora guardatevi questo. E guardate bene i volti di quei dirigenti.
Non dico altro, perché vi sarebbe molto ma molto da dire. Ma provo un gran soddisfazione nel vedere che finalmente inizia a scoperchiarsi quella pentola da cui sono usciti i deliranti progetti di valutazione degli insegnanti, il concorso per dirigenti scolastici (e la connessa batteria di test), i tentativi di affossare il TFA e poi le deliranti batterie di test per i TFA; e da cui stanno per uscire le batterie di test per il concorso per insegnanti.

domenica 11 novembre 2012

SENZA SBOCCHI



Giuliano Ferrara ha individuato l’esito delle elezioni americane nella perdita di coesione dell’ondata liberista reaganiana e nella sostituzione della “Right Nation” con una “right coalition” dal tratto aggressivo; e quindi in un cambiamento molto più profondo della sconfitta del candidato Romney. Propongo di interpretare questa analisi al seguente modo: l’arroccamento senza progetto si traduce in mero conservatorismo e il conservatorismo è inevitabilmente perdente. Difesa del valore della persona e della famiglia, fiducia nella libera impresa, difesa della democrazia nel senso proposto dalla cultura politica dell’Occidente, sono tanti aspetti che non possono essere difesi in trincea, bensì soltanto come parte di un progetto per la società volto al futuro. La crisi del 1929 provocò un consistente riflusso verso il socialismo e il marxismo: nacque persino una corrente di studi tendente a reinterpretare la microeconomia come metodo per implementare dei sistemi di pianificazione. Perché mai dovremmo stupirci che la crisi in cui viviamo – persistente e senza che si veda chiaramente il modo di uscirne – non orienti verso altri modelli, magari quelli vecchi, in assenza di meglio? Identificare, sic et simpliciter, il modello che ha condotto a questa situazione come il sistema ideale per creare lavoro e impresa, escludendo drasticamente la sola idea di qualsiasi revisione, di qualsiasi ripensamento, significa una cosa soltanto: spianare la strada al socialismo, anche nelle sue forme più vecchie e assistenzialiste. È un progetto vecchio malgrado la veste di politicamente corretto – diritti civili, matrimonio e adozioni gay, procreazione ammessa in ogni forma, aborto libero, eutanasia, ecc. Ma la bandiera della tutela sociale è di gran lunga più rassicurante, e la parola “progresso” è più presentabile. Vallo a raccontare che il mercato è un indicatore oggettivo di quanto un sistema economico è virtuoso. Non è per niente ovvio, non ne esiste alcuna dimostrazione teorica possibile, non è credibile soprattutto nell’attuale versione in cui l’economia finanziaria conta enormemente più dell’economia produttiva. Se ci si limita a rivendicare questo principio come verità di fede la gente va a vedere “Margin Call” e, uscita dal cinema, vota Obama. E i più colti andranno a rileggere Marx, come sta avvenendo sempre più da qualche tempo a questa parte. Lo stesso discorso vale per l’impatto della tecnologia sulla vita di oggi, che si tratti degli interventi sulla vita umana o del suo impatto sull’istruzione e la cultura. La mera contrapposizione è insensata e perdente. Occorre definire un progetto che ponga al centro la questione antropologica, la centralità e la dignità della persona e poi articolarlo con proposte precise per ogni ambito. Ma il richiamo al mero individualismo non basta più. Qualcuno non si è accorto che il liberalismo di Stuart Mill non abita più su questa terra. Anche i sistemi “liberisti” occidentali sono contaminati da forme di dirigismo tecnocratico talora soffocanti e il politicamente corretto ha ucciso il detto che «ciascuno e l’autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale sia spirituale»; e non l’ha ucciso soltanto a “sinistra”, perché il costruttivismo sociale è diffuso a tutte le latitudini. Ma se si vuol difendere il principio di Stuart Mill, com’è legittimo, bisogna pur farlo misurare con il contesto dei tempi, e non limitarsi ad alzare una bandiera.
È istruttivo rivolgere lo sguardo al nostro piccolo contesto italiano. Quantomeno negli Stati Uniti esiste una forte tradizione liberale, fino ad ora ben più forte di quella “liberal”, anche se sempre più debole e frastornata. Da noi non esisteva nulla del genere e sembrava essere compito del nuovo centro destra creare una corrente modernamente liberale misurandola con le sfide dei tempi e i problemi nazionali. Invece si è oscillato tra il nulla – l’assenza totale di qualsiasi progetto in qualsiasi campo – e forme di conservatorismo un po’ ammuffito, alla ricerca di un mondo cattolico tradizionalista sempre più evanescente cui aggrapparsi. Di che stupirsi allora se, all’improvviso, ci giriamo intorno e c’è un deserto in cui il già ministro degli esteri Frattini plaude alla vittoria di Obama? Dall’altra parte c’è una sinistra che oscilla tra la tentazione di buttarsi nel modernismo della rottamazione e il sicuro porto dei vecchi ideali socialisti, il quale non potrà non essere l’approdo finale di tutte le inevitabili e, in fondo, comprensibili paure. Così, di fronte a simili alternative, è giocoforza che in tanti maturi l’idea di lasciare tutto in mano al consiglio di facoltà, ovvero alla tecnocrazia. Con tanti saluti alla democrazia e con la rinuncia a lettere la testa su questa crisi interminabile, confidando nello stellone del dirigismo di mercato. Dimenticando che, se non sono eterni né il comunismo (figuriamoci) né il socialismo, non è neppure inossidabile il mito del mercato regolatore della società.
(Il Foglio, 9 novembre 2012)

lunedì 5 novembre 2012

Motion presented and approved by the ESHS Genaral Assembly


The Assembly of the European Society for the History of Science that meets in Athens on November 3rd, 2012 on the occasion of its 5th International Conference, considers inappropriate the use of the bibliometric criterion introduced in Italy for evaluation of historians of mathematics which excludes critical editions, books, contributions in volumes for such evaluations.
The Assembly adheres to the document  "Pro Veritate" presented by historians of science from twenty different nations.

venerdì 2 novembre 2012

Intelligenza e cioccolata: la scienza ammazzata dalle correlazioni


Due fattori stanno ammazzando la scienza contemporanea: il concetto di correlazione e la pretesa di quantificare tutto. La correlazione è l’esistenza di una connessione quantitativa tra due fenomeni che può significare che l’uno influenza l’altro. Si dice che l’aspirina sia nata così. Qualcuno notò una concomitanza tra i reumatismi e l’umidità. Ne dedusse l’ipotesi che la seconda determini i primi, almeno in certa misura. Ma in quel “può” e in quel “in certa misura” si annida la coda del diavolo. La tentazione di stabilire un rapporto di causa-effetto è enorme perché è nella psicologia umana aspirare alla certezza. Pare che, con quell’idea in testa, sia venuto in mente che una pianta che prospera nell’acqua è il salice. La corteccia del salice venne ridotta in polvere e risultò essere un toccasana contro i dolori reumatici: conteneva la salicina, precursore naturale dell’acido acetilsalicilico. Naturalmente era una botta di fortuna: esistono molte piante acquatiche prive di effetti antireumatici e nessuno oggi stabilirebbe uno stretto rapporto di causa-effetto tra umidità e reumatismi. Fu una botta di fortuna, in barba a qualsiasi rigore scientifico. Difatti, nella maggior parte dei casi l’uso sconsiderato di correlazioni come se fossero rapporti di causa-effetto conduce a conclusioni insensate e anche pericolose: come quella di consigliare la mastectomia a giovani donne che hanno un rischio genetico che “può” condurre al tumore alla mammella. L’altro fattore nefasto di cui si diceva è la mitologia dei numeri: una relazione è seria e “scientifica” se è espressa in numeri, mentre le parole stanno a zero. Mettete assieme la mitologia dei numeri e l’abuso delle correlazioni e ne può uscire di tutto, anche roba da barzelletta di stile demenziale gabbata come “scienza”.
L’ultimo esempio viene addirittura dalla Columbia University, dove un ricercatore ha prodotto un lavoro i cui meccanismi concettuali sono assai interessanti. Il dottor Franz Messerli è partito dalla constatazione che il cioccolato, come gli alimenti contenenti flavonoidi, fa bene alle cellule cerebrali; la quale gli ha suggerito la seguente congettura: chi mangia più cioccolato è più intelligente. Senonché qui si ha da un lato una variabile quantitativa (consumo di cioccolato), dall’altro una facoltà di difficile misurazione come l’intelligenza. Certo, si potrebbe tentare con i test di quoziente intellettivo (ammesso e non concesso che siano una cosa seria), ma ci vorrebbe un’enorme massa di dati, molto tempo, e chissà. È più semplice dare per scontata la seguente correlazione, come se fosse una legge scientifica: quanto più una nazione è composta di gente intelligente tanto più riceve premi Nobel. Lasciamo al lettore i facili sarcasmi. Ciò posto, il gioco era facile: analizzare la correlazione tra consumi nazionali di cioccolata e numero di premi Nobel. Ne sono uscite fuori interessanti “conferme”: Svizzera e Germania sono paesi di superintelligenti, gli Stati Uniti a mezza strada, l’Italia in posizione mediocre, Giappone e Cina una massa di cretini. Pare che si apra un panorama di nuove “ricerche”. Occorre risolvere il “paradosso svedese”: la Svezia ha molti premi Nobel pur consumando poco cioccolato. Un’ipotesi è che i cervelli svedesi siano capaci di beneficiare delle virtù del cioccolato molto più degli altri popoli.
Il tutto ha meritato la pubblicazione nientemeno che sul prestigioso “New England Journal of Medicine”. Tenuto conto dell’elevato impact factor di questa rivista, la nuova normativa di valutazione quantitativa da poco introdotta in Italia avrebbe premiato il detto “scienziato” con l’abilitazione a professore ordinario. Purtroppo un simile genio è sbocciato negli USA, dove si consuma più cioccolato che da noi. Possiamo però consolarci col fatto che nessuno come noi è capace di trasformare le correlazioni in leggi deterministiche, fino a mandare in galera chi non prevede i terremoti.