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giovedì 31 gennaio 2013

PERSONE O "CAPITALE UMANO"?


«L’economia è un sistema sociale creato dalle persone per le persone». Qualsiasi opinione si abbia del pensiero del Nobel per l’economia statunitense Paul Krugman, è difficile non sottoscrivere questo aforisma. Eppure per molti l’economia è un mondo di transazioni tra “agenti” regolato da procedure formali che si sono create da sole e il cui fine è sé stesse, cioè di ottimizzare alcuni parametri: un fine che definisce anche il comportamento “razionale” degli “agenti”. Parlare di “persone” quando si tratta di economia è quasi un vezzo ridicolo e desueto. Si parla piuttosto di “capitale umano”. Si proclama che questa è la società della conoscenza, ma intendendo che le conoscenze e  le competenze del capitale umano sono un “valore aggiunto”, per giunta misurabile (anche se nessuno ha un’idea seria di come si possa fare). Anche il miglioramento dell’istruzione è ridotto a un parametro quantitativo: creare altro valore aggiunto.
Questo linguaggio burocratico è divenuto così stucchevole che ogni “persona” che non si consideri solo un’utilità marginale, dovrebbe offendersi nel sentirsi definire “capitale umano”.
Quanto precede non è una chiacchiera passatista ma è pertinente alla nostra situazione: elezioni da cui dipendono le sorti del paese nel mezzo di una crisi senza precedenti e in cui latita un linguaggio rivolto alle persone per dir loro quale idea di società, quali progetti positivi si vogliono perseguire, tali da suscitare il coraggio di affrontare sacrifici, inquadrando la soddisfazione dei parametri economici come sottoprodotto di questi progetti e non come loro essenza.
È poco concreto dir questo? L’autentica astrattezza è credere che un paese possa riprendersi mentre i suoi cittadini vegetano depressi e senza prospettive, affidati passivamente alle cure di chi ne sa. Si parla molto di “ripresa” e “sviluppo”, ma quale sviluppo economico può darsi se la società non è animata in profondità da forze vitali, se non crede in sé stessa, se non si muove verso fini positivi, verso sfide da vincere per un futuro migliore? Come avrebbe potuto riprendersi e realizzare il “miracolo economico” un’Italia devastata dalla seconda guerra mondiale e immersa nella cultura contadina, senza l’esplosione della voglia di fare, della creatività che caratterizzò quegli anni? Nessun piano Marshall sarebbe bastato.
Si parla continuamente di futuro, ma il futuro sono i giovani ai quali, invece di offrire progetti capaci di suscitare interesse e anche entusiasmo, si riservano epiteti come “bamboccioni”, “sfigati” o “choosy”, come se questi difetti non fossero quelli della società vuota di valori in cui li abbiamo messi. Prendiamo il caso dell’istruzione, di cui molti non vogliono parlare perché è un tema “noioso”. Le agende elettorali, nello scarso spazio che gli concedono, sono desolanti fotocopie su cui domina il mantra di un vacuo managerialismo. “I numeri da cambiare”, è intitolato uno dei più corposi documenti prodotti in materia. Quale curioso ossimoro declinare la “società della conoscenza” in termini di numeri! Qui, altro che numeri, si tratta di definire i contenuti di un’istruzione capace di formare una generazione che faccia restare il paese sulla scena mondiale. Allora si capisce che la vera questione è che ruolo pensare per il futuro del paese. Forse non vi è molto futuro in una competizione con i paesi asiatici nel produrre magliette e sarebbe meglio puntare su una cultura tecnologica avanzata che permetta di avere un ruolo nella riorganizzazione dell’ambiente, delle comunicazioni, dell’energia nei paesi emergenti. Ma, se così è, l’istruzione va pensata nei termini di qualificazioni elevate e la ricerca va pensata in grande, non riducendo le università a centri studio per la piccola e media impresa. Invece, siamo impantanati tra ricette tecnocratiche numerologiche, o che surrogano l’assenza di idee con le agende digitali, e la demagogia delle scuole come “centri civici”.
La “spending review” nella sanità e nell’istruzione ha indicato dove conduca l’assenza di progetti: a penalizzare indistintamente centri di eccellenza e realtà mediocri, perché i criteri puramente statistici sono ciechi e astratti. La sanità è un altro dei grandi temi del paese che non ha senso affrontare in termini di “razionalizzazione” e “tagli” senza una chiara idea preliminare di quale tipo di sanità vogliamo. È inaccettabile che si gabelli come scelta tecnica una modificazione della natura della sanità, introducendo surrettiziamente forme di privatizzazione senza che ciò discenda da una decisione di merito. Il che significa affrontare di petto l’idea del welfare che vogliamo avere nel futuro. E non si dica che di questa tematica si discute, perché le riflessioni in materia troppo spesso si concentrano nei due poli dell’ideologia e della tecnocrazia.
Più in generale, non si dovrebbe considerare che l’idea del paese futuro non può prescindere dal fatto che le principali risorse che l’Italia possiede sono i beni culturali e ambientali? Non sarebbe quindi prioritario, per stimolare lo “sviluppo”, formulare tanti grandi e piccoli progetti che mobilitino le persone suscitando la passione di fare qualcosa autenticamente interessante? Né è possibile dimenticare che una delle qualità caratteristiche del lavoro italiano da difendere e sviluppare è la capacità di produrre cose “belle” e artistiche, il che riconduce ancora al tema della cultura.

Non continuiamo con gli esempi perché al lettore ne verranno in mente tanti da poter riempire pagine. Forse non è troppo tardi perché in questa campagna elettorale le forze politiche riescano a suscitare l’interesse dei cittadini parlando di progetti autentici e di contenuti, anziché propinare ideologia o snocciolare cifre previsionali che, com’è noto, non hanno alcuna credibilità, soprattutto se presentate come una sorta di andamento “naturale” del processo economico. In fin dei conti, vi è bisogno non di meno ma di più politica, beninteso della politica nel senso nobile del termine.
(Il Messaggero, 30 gennaio 2013)

domenica 27 gennaio 2013

La DISTEXTIA, ultimo sintomo della deriva che ci vuole tutti disturbati


Un tempo c’era la vecchia cara dislessia. Poi, a tenerle compagnia nel mondo delle “dis,” sono giunte la disortografia, la disgrafia e la discalculìa. Il quartetto (fiancheggiato dall’Adhd, la sindrome del bambino agitato) è stato oggetto di una legge sui Dsa (disturbi specifici di apprendimento) che prevede percorsi didattici speciali e garantiti per coloro che sono stati diagnosticati Dsa dal Servizio Sanitario Nazionale (o dai convenzionati). Come si era previsto, il numero dei bambini “disturbati”, che era stato prudentemente indicato in un 3-5% (più un altro 3-5% di Adhd), sta crescendo di giorno in giorno e in alcune realtà locali ha raggiunto punte del 15%. Logopedisti un po’ straniti sono impegnati ad aiutare a fare i compiti di bambini che non sanno incolonnare bene le cifre (perché questa sarebbe discalculìa). Ma ora questa prateria estesa sì, ma confinata ai piccoli, potrebbe diventare poca cosa se assorbiremo - magari anche legislativamente e come variabile indipendente dalla spending review – la novità che viene d’oltre oceano: la distextia.
È un disturbo che si manifesta quando uno scrive un sms confuso e sconclusionato, pieno di errori e scambi di lettere. Qualche buontempone l’ha ricondotto alla condizione di una persona tanto pigra da usare a tal punto il chatspeak da diventare incomprensibile. Ma alcuni serissimi dottori statunitensi hanno ammonito che c’è poco da scherzare: la distextia è una cosa serissima. Potrebbe segnalare disturbi neurologici complessi e persino il sopraggiungere di un ictus. La teoria è corroborata dal caso di una signora bostoniana che, in visita ginecologica, inviava deliranti sms al marito, e poco dopo fu colpita da ictus. Una deduzione tipicamente “scientifica”, basata sull’intercambiabilità tra causa ed effetto.
Ma quel che più interessa sono le prospettive che si aprono con il moltiplicarsi delle “dis” e, in particolare con la distextia. Altro che quei quattro gatti di bambini delle materne e delle elementari! Qui sono in ballo milioni di utenti della telefonia cellulare. Né si vede perché la tematica della distextia non possa essere estesa agli utenti della rete, di Facebook, di Twitter, a tutti coloro che chattano o inviano post ai blog: qui di testi sconnessi, sconclusionati e pieni di errori di battitura ce n’è a iosa. E state attenti, cari utenti, perché, se passa una legge per la distextia, al primo sms o post sconnesso il corrispondente premuroso potrebbe spedirvi un’equipe medico-psicologica a casa (e il conto della cura finirà pure nel redditometro).
A questo punto, perché non cogliere l’occasione e andar oltre? Le vecchie “dis” non sono attraenti, bisogna puntare sui neologismi, tipo distextia. Per esempio, la dislalia è generica. Ma volete mettere se considerassimo la distelefonia (fissa e mobile), ovvero il parlare sconnesso e caotico al telefono? Invece della desueta distopia si potrebbe introdurre il distopismo, la tendenza a farsi immagini cupe del futuro. Così sarebbe possibile medicalizzare l’esercito dei pessimisti. Trascuro suggerimenti eccessivi, come il patologizzare la distrazione e la dissimulazione né darò retta a qualche maleducato che ha parlato di dis-senteria. Ma basta guardarsi intorno per sentire quanta gente starnutisce in modo compulsivo, disordinato e rumoroso: è la distarnutìa, un disturbo che può colpire chiunque. Le praterie del West appariranno ridicole di fronte a quelle che i “dis” possono aprire agli “esperti”.
(Il Foglio, 25 gennaio 2013)

venerdì 18 gennaio 2013

IN FRANCIA LI HANNO CACCIATI A PEDATE. E NOI?


La Francia aveva un'agenzia di valutazione universitaria come l'ANVUR in Italia: l'AERES.
Il governo l'ha chiusa dicendo che andrà sostituita con un organismo completamente ridefinito, agile, semplice nel funzionamento e nelle procedure, trasparente e scientificamente legittimato.
L'AERES è stato travolto dalle proteste, dall'accusa di aver introdotto un "delirio burocratico", di comportarsi come un'agenzia di rating, di aver imposto ai docenti universitari e ai ricercatori adempimenti deliranti e che assorbono tutto il loro tempo.
L'AERES è stata accusata di trasformare i ricercatori in burocrati, in esperti di valutazione, accantonando il loro mestiere, fino a dover fare sessioni di lavoro per apprendere a eseguire gli adempimenti imposti dall'AERES. 
L'Accademia delle Scienze ne ha chiesto poche settimane fa la semplice soppressione e la sua sostituzione con strutture di valutazione dipendenti direttamente dalle università e dagli enti di ricerca.

Eppure quel che faceva l'AERES era niente rispetto a quel che ha fatto e pretende di fare l'ANVUR qui… In Francia le mediane di stato per determinare i commissari ai concorsi non ci sono e qui si profila addirittura una procedura demenziale per misurare gli apprendimenti degli studenti, e su questa base, valutare professori e università.
CUN, Accademia dei Lincei, singoli e associazioni hanno protestato, ma - a differenza di quel che accade in Francia - non se li fila nessuno.

Stiamo diventando la barzelletta mondiale. Un sistema già sfasciato e agonizzante che viene martoriato dai deliri di sette dottor Stranamore.

Quale forza politica avrà il coraggio di presentare nel proprio programma il proposito di mandare a casa l'ANVUR e creare delle strutture di valutazione con procedure ragionevoli e riportare al centro la ricerca anziché i deliri burocratici?

domenica 13 gennaio 2013

MERITOCRAZIA E DEMOCRAZIA


Dice Sylvie Goulard [autrice con Mario Monti di un libro sulla democrazia e le élite] che la democrazia è inefficiente se non è governata nell’interesse generale da élite capaci. Ovvero, è inefficiente se è governata da incapaci privi di senso dell’interesse generale. Fa venire in mente quei propositi di Catalano, il filosofo di Quelli della Notte che, dopo essersi spremuto le meningi, sentenziava: «È meglio sposare una donna ricca, bella e intelligente, che una povera, brutta e cretina». In verità, se vogliamo conservare qualche dignità alla sentenza di Goulard occorre ricordare che lei parla di «élite selezionate in base al merito». Ma allora sorge la domanda: selezionate da chi e come? E allora si capisce che qui si lascia intendere in modo pudico: selezionate da sé stesse, da chi ha merito, “meritocrazia” per l’appunto, potere del merito, che si legittima da solo. Goulard dice che, nelle sue riflessioni, ha citato Gardels ma si è riferita soprattutto alle analisi dei padri fondatori americani ed europei, agli Illuministi, insomma a quelle riflessioni che si sviluppavano nei salotti parigini di fine Settecento tra i protagonisti delle rivoluzioni americana e francese. Se avesse approfondito questa tematica avrebbe fatto ricorso a un aforisma meno catalanesco e più chiaro e brutale del suo: quello del celebre Condorcet quando disse che «una società che non è governata dai filosofi cade in mano ai ciarlatani». L’idea era vecchissima, risaliva a Platone ed è stata ampiamente criticata. Per esempio, Alexandre Koyré, nei suoi saggi su Platone ha osservato che è evidente che solo il sapere giustifica l’esercizio del potere, ma soltanto il sapere assoluto giustifica un potere privo di legittimazione democratica. Una società che fosse governata da uomini assolutamente saggi, e quindi dotati di una scienza capace di estendersi alla comprensione degli individui sarebbe più felice di una società governata dalla legge, che non si applica mai in modo perfetto ai casi individuali. Ma «una scienza siffatta non esiste. Il politico ideale dovrebbe essere un saggio, anzi un dio. Se fosse un uomo, e si ponesse al disopra della legge, sarebbe assolutamente un tiranno». Chi prese alla lettere l’aforisma di Condorcet fu Napoleone che stabilì la propria tirannia al disopra della legge – ovvero creando lui stesso la legge – e vantando la sua onniscienza: come amava ricordare compiaciuto, era anche membro dell’Accademia delle Scienze...
In realtà, Condorcet non era così semplicista e il suo aforisma rappresenta, in parte, una caduta sfortunata, perché tutto il pensiero dell’epoca è concentrato attorno al principio chiaramente espresso da Sieyès: «tutto è rappresentanza nell’ordine sociale». Il vero problema, la vera ossessione dell’epoca è come determinare le procedure ottimali con cui “rappresentare” adeguatamente e fedelmente la volontà popolare. In altri termini, è il problema delle elezioni e delle loro modalità, che è uno degli aspetti fondamentali della democrazia. Per cui, in fin dei conti, l’unico modo per selezionare i più capaci, i più “meritevoli” di governare la società è di determinare un sistema che rifletta nel modo più fedele la volontà popolare. I “padri fondatori”  fecero ogni sforzo in tale direzione, mobilitando persino il pensiero matematico, con la famosa “mathématique sociale” di Condorcet. Quando oggi dibattiamo attorno al sistema elettorale migliore, non facciamo altro che sviluppare un filone di pensiero che risale a quel periodo. 
Tornare alle analisi dei padri fondatori della democrazia ha senso se non se ne dissolve la complessità e la ricchezza, proponendo una versione un po’ ipocrita dell’aforisma di Condorcet, cioè senza avere il coraggio di dirla tutta, parlando di “selezione in base al merito” senza affrontare il problema centrale di come si deve operare questa selezione. Se l’idea è quella che la selezione la facciano i meritevoli stessi, allora l’unico modo di sfuggire al circolo vizioso è di dire, sinceramente e brutalmente, che il potere se lo prende la corporazione che si autodefinisce come insieme dei “saggi”, o “competenti” (come si dice oggi). Alla faccia della democrazia: difatti, quel che si sta dicendo è che la democrazia è efficiente se non è tale, se è un altra cosa, se è “meritocrazia” per l’appunto (che vuol dire “potere dei meritevoli” e non il premio del merito, come sarebbe più saggio e “democratico” perseguire). Ma la ricerca di un sistema efficiente che mette da parte il problema della rappresentanza è una banalità: proprio i “padri fondatori” avevano dimostrato che i sistemi più efficienti sono quelli in cui non sono rispettati requisiti come l’assenza di un potere dittatoriale. 
In realtà, questa maniera di buttare alle ortiche il problema della rappresentanza e della democrazia è il portato di un pensiero tecnocratico e manageriale che è all’opera tutti i giorni, nella pretesa di demandare le decisioni a organismi “tecnici” e “competenti”, con risultati spesso desolanti, ma sottratti a contestazione, perché gli organismi di “valutazione” sono fuori controllo, in quanto competenti per definizione. Ma allora si abbia il coraggio di dire chiaro e tondo quel che si vuole, invece di mascherarlo con elaborazioni teoriche catalanesche.
(Il Foglio, 10 gennaio 2013)

sabato 12 gennaio 2013

VIA UN SASSO DALLE SCARPE: ANCHE LE FORMICHE...


Leggo oggi sul Corriere della Sera una colonna dal titolo: “Barca elogia il Cavaliere “Io comunista ma lui mi volle”.
Fabrizio Barca – si legge nell’articolo – racconta che Berlusconi gli chiese se era vero che lui fosse comunista e lui rispose «di sì, che era una malattia di famiglia incurabile». E, a sua volta, Barca «non nasconde il suo elogio e, in qualche modo, la sua sincera stima per il Cavaliere. Lo fa durante “La Zanzara” su Radio 24. Il merito di Silvio Berlusconi? Lo vedo nella sua attività di imprenditore, l’ho raccontato spesso all’estero. […] Si è costruito da solo, anche in politica. Altri erano stati massacrati dalle piccole cerchie. Questa cosa la sinistra non l’ha capita per anni». «Molti - aggiunge Barca – mi rimproverarono [per aver collaborato} con l’allora presidente del Consiglio e con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Ma un funzionario deve lavorare a prescindere dal colore del governo».
Non fa una piega.
Ma allora mi permetto – anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano – di togliermi un sasso dalle scarpe.
Quando mi fu chiesto dal ministro Gelmini di contribuire a formulare un nuovo processo di formazione degli insegnanti, siccome mi pareva – e parve a tanti – che vi erano buone prospettive, decisi che valeva la pena di farlo per il bene di tutti.
Chissà perché – sarà perché non sono comunista, se fossi un ebreo vittimista (come mi definisce il “matematico impertinente”) direi che sarà per questo, non lo so – ma sta di fatto che mi sono beccato ben più dei “rimproveri” di cui parla Barca, pur trattandosi di una collaborazione occasionale, che conclusi senza peli sulla lingua quando vidi come andavano le cose. 
Mi sono preso quintalate di insulti in rete, persino sms sul cellulare privato che mi accusavano di mettere le famiglie sul lastrico (chiamai quel signore e gli chiesi se non si vergognava di dire quelle cose non sapendo nulla di me e, alla fine, si vergognò dicendo che era stato aizzato). E poi minacce al “puparo della Gelmini”, l “ebreo” che era il vero regista dietro le quinte della sua riforma, l’analogo di Marco Biagi per l’istruzione, una bella allusione che rese necessario rivolgersi alla Digos.
Poi venne l’ineffabile Odifreddi, con i suoi reiterati attacchi al “fascista”, fino alla sua grottesca restituzione del premio Peano per non figurare accanto a un “fondamentalista sionista” che aveva la colpa suprema di aver collaborato col ministro Gelmini.
Ancora adesso sono oggetto di pesanti attenzioni e ricevo messaggi sgradevoli che partono dall’asserto: “lei, che, com’è noto, è il vero autore della infame riforma Gelmini”... E, quando sono intervenuto su Roars – tra l’altro attaccando la politica dell’istruzione del passato governo, nonché di quello attuale, che è in perfetta continuità – c’è stato chi è intervenuto per dire che non si doveva dare spazio all’infame e permettergli di rifarsi una “verginità”.
Sta di fatto che il ministero pullula di “comunisti” messi là dalla Gelmini e che nessuno critica.
Sarà perché pago il prezzo di aver detto sempre quel che pensavo delle dissennate politiche condotte in modo trasversale da tutti i ministri dell’istruzione da Berlinguer in poi?
Comunque, concordo in toto con Fabrizio Barca: speriamo che la sinistra certe cose le abbia capite una buona volta, soprattutto ora che pare stia per tornare al governo. Se poi invertirà anche la rotta di quelle politiche dissennate non si potrà che applaudire.

martedì 8 gennaio 2013

Meno retorica o la ricerca scientifica non ha futuro


È facile dire che, per far ripartire il paese, occorre rilanciare il sistema dell’istruzione e della ricerca scientifica. Purtroppo le agende elettorali non vanno molto oltre il proclama retorico, soprattutto in tema di ricerca scientifica. Proviamo a enunciare alcuni punti fermi suggeriti anche da recenti esperienze.
È invalsa l’abitudine di confondere la “ricerca” con l’“innovazione tecnologica”. È una confusione grave che svaluta il ruolo della ricerca di base e viene alimentata con il luogo comune degli scienziati che devono rendersi utili scendendo dalla “torre d’avorio”. Ci si può chiudere in una “torre d’avorio” anche confinandosi in visioni praticone, dimenticando che la rivoluzione tecnologica che ha cambiato il volto del mondo è il frutto di una visione che ha conferito un ruolo trainante al pensiero scientifico teorico. Come disse il Nobel Albert Szent-Gyorgyi (uno scienziato assai “concreto”, cui dobbiamo la vitamina C), «scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel pensare ciò che nessuno ha pensato». Senza scienza di base non si va da nessuna parte. I recenti esperimenti sui neutrini avevano senso e portata perché avevano come sfondo la teoria della relatività e il modello standard. Purtroppo pulpiti autorevoli si concedono il vezzo di discriminare le ricerche con il criterio “a che serve?”. Chi pensi di considerare la ricerca di base come un inutile orpello prospetta un declino del paese a mero utilizzatore delle scoperte altrui. La ricerca di base va sostenuta senza pretendere ricadute tecnologiche immediate.
È necessario pensare alla formazione di persone capaci di stabilire un rapporto diretto con le aziende e che completino la preparazione universitaria con stage aziendali. Ma sarebbe irresponsabile pensare che questo possa esaurire la formazione dei ricercatori scientifici. Purtroppo si sente parlare di un’università interamente funzionalizzata alle esigenze delle imprese del territorio, una sorta di superliceo per la formazione di quadri aziendali. Qualcuno crede davvero che le grandi università statunitensi vivano in dipendenza delle imprese del territorio? Oltretutto, in una condizione italiana che vede la prevalenza della piccola e media impresa un simile indirizzo rischia di confinare la ricerca scientifica a tematiche marginali.
Viene quindi la questione dei finanziamenti. Su questo occorre essere chiari: se si vuole una ricerca scientifica degna di un paese avanzato occorre spendere e molto. Non è qui che occorre tagliare. Invece, alcune “agende” elettorali seguono una linea da “botte piena e moglie ubriaca”: lasciano intendere che si dovrà tagliare ancora e parlano di rilancio della ricerca scientifica. Veniamo da un ennesimo taglio alle università che potrebbe costringerne diverse a chiudere bottega. Forse qualcuno s’illude che la ricerca possa reggersi su qualche punta isolata, con un CNR ridotto a ectoplasma? Inoltre, non è serio far credere che gli investimenti nella ricerca possano essere incrementati solo sul fronte privato e rafforzando il legame tra imprese e università: negli USA i finanziamenti federali per la ricerca, per quanto siano stati ridotti negli ultimi anni, hanno livelli imponenti a noi sconosciuti.
Certo, si dice giustamente che finora i quattrini sono stati spesi male e che occorre valutare le università e i centri di ricerca. Figuriamoci se non si può essere d’accordo su questo, nei giorni in cui è mancata una grande scienziata italiana, Rita Levi Montalcini, che ha conseguito le sue scoperte all’estero perché in Italia si preferì ridare credito anziché alla scuola del suo maestro, il grande Giuseppe Levi, a un mediocre personaggio che aveva il solo “merito” di esser stato protagonista del razzismo di stato fascista. Si valuti quindi, ma il sistema di valutazione deve essere sensato e deve premiare il merito. Invece, siamo nel pieno di un’esperienza disastrosa promossa dall’Anvur (Agenzia di valutazione dell’università e della ricerca). Nel corso dell’approvazione della riforma universitaria le forze politiche avevano promesso: niente valutazioni dirigiste a monte, bensì valutazioni a valle. Agite liberamente e sarete valutati ex post, e quindi premiati o sanzionati in base ai risultati. Inoltre, niente burocrazia: la valutazione deve svolgersi come un severo confronto tra competenti e non affidato a enti sottratti a ogni controllo. È accaduto il contrario. Un gruppo ristretto di persone di nomina politica ha deciso come valutare a priori chi poteva far parte delle commissioni di concorso e chi poteva concorrere, con parametri statistici così poco credibili da dover essere cambiati continuamente in corso d’opera e aver prodotto umilianti ingiustizie, tali da determinare ricorsi giudiziari. Come ha osservato Sabino Cassese, non solo l’Anvur ha ucciso la valutazione, confondendola con una strampalata misurazione e burocratizzandola, ma ha ucciso sé stessa consegnando l’ultima parola ai giudici amministrativi. La “bibliometria di stato” introdotta in Italia non ha uguali nel mondo, è stata criticata all’estero e persino derisa. Ma né queste critiche né quelle avanzate da autorevoli istituzioni italiane sono state prese in considerazione, a riprova che il sistema della ricerca è sotto l’egida di un dirigismo tecnocratico privo di sensibilità culturale e democratica.
Vi è infine un aspetto psicologico tutt’altro che secondario. Da anni il mondo della ricerca e dell’università è depresso da continue “bastonate” sproporzionate rispetto agli errori e alle colpe. Quando l’Anvur ha informato che solo il 5% dei professori universitari non ha pubblicato negli ultimi anni, qualcuno ha strepitato che non deve esistere neanche un nullafacente, sognando mondi perfetti che non esistono, a cominciare dal proprio. Nella ricerca e nell’università esistono tante forze valide. Sarebbe un errore irreparabile, invece di restituire a questo mondo il senso di un ruolo culturale e sociale, continuare a “bastonarlo” con tagli, valutazioni sconsiderate, prescrizioni burocratiche, dirigismi soffocanti e occhiuta sfiducia. Cosa di buono può venire da tutto questo?
(Il Messaggero, 4 gennaio 2013)

sabato 5 gennaio 2013

IPSE DIXIT

Il ministro Profumo si candida con Monti:
«Tutti i corpi tendono verso il loro luogo naturale» (Aristotele)

mercoledì 2 gennaio 2013

Rita Levi Montalcini, o del perché l’Italia sciupò il primato nella biologia


Pochi mesi dopo la storica fabbricazione di un clone di pecora, il biologo inglese Jonathan Slack annunciò di aver creato in laboratorio solo alcune parti di una rana programmando geneticamente la crescita dell’embrione. Si prospettò allora la possibilità di fabbricare “esseri” umani dotati di tutti gli organi salvo il cervello e il sistema nervoso centrale, e quindi utilizzabili come “materiale” per trapianti, evitando le obiezioni etiche e i divieti giuridici. Queste suggestioni sono oggi quasi dimenticate, ma allora, nell’onda dell’entusiasmo per il successo della clonazione, tra le non molte voci che si levarono a condannare quello che il bioeticista inglese Andrew Linzey definì fascismo scientifico, vi fu quella di Rita Levi Montalcini che parlò senza mezzi termini di “ricerche ripugnanti”. È un episodio, tra molti analoghi, che va ricordato perché Rita Levi Montalcini non si associò mai al coro di chi considera “oscurantista” qualsiasi obiezione a qualsiasi sviluppo della ricerca, e non esitò a criticare sviluppi che riteneva incompatibili con i principi di un’etica umanistica. Questa visione, che si legava alla sua passione per la cultura in generale – e che la spinse tra il 1989 e il 1995 a impegnarsi nella presidenza dell’Enciclopedia Italiana “Treccani” – la accomuna agli scienziati classici che consideravano la scienza soprattutto un’impresa di conoscenza al servizio della dignità dell’uomo.
Non è probabilmente un caso se la scoperta che la rese famosa e le valse il premio Nobel per la medicina, non si inquadra in una genetica riduzionista ed anzi ha mostrato che la formazione del sistema nervoso e del cervello non sono strettamente riconducibili a un programma genetico. Quando Rita Levi Montalcini scoperse una sostanza che determinava la crescita rapidissima in vitro delle cellule nervose dei gangli simpatici, non si arrestò alla constatazione di questo effetto particolare ma puntò a scoprire i meccanismi che determinano lo sviluppo di tutto il sistema nervoso. Con la tipica tenacia di chi è mosso soprattutto da un intento di conoscenza complessiva, riuscì a generalizzare la scoperta di quella sostanza, il “fattore di crescita nervosa”, NGF. Dopo le sue ricerche, come ha scritto Alberto Oliverio, “oggi non si guarda più al sistema nervoso come a una struttura rigidamente predeterminata ma come a una struttura plastica, segnata dall’individualità”. 
Le caratteristiche scientifiche, culturali ed etiche della personalità di Rita Levi Montalcini si spiegano anche con la scuola da cui provenne. Sotto questo profilo, la sua vicenda è anche il paradigma del perché e come l’Italia ha perso l’occasione di essere una potenza mondiale della biologia. Suo maestro fu Giuseppe Levi, un professore di anatomia umana che all’università di Torino aveva un centro di ricerche di analisi istologica e citologica di rilievo mondiale, finanziato anche dalla Fondazione Rockefeller. Levi sviluppò a un gran livello di raffinatezza la tecnica della cultura in vitro, perfezionando i metodi di microdissezione, con un’attenzione speciale per lo studio dei meccanismi di crescita cellulare. Ebbe molti allievi, tra cui spiccano tre nomi, tre Nobel, che rappresentano il gotha della biologia del Novecento: Salvatore Luria, Renato Dulbecco e, appunto, Rita Levi Montalcini; Tutti e tre profondamente devoti al loro maestro e alla sua memoria. Va anche detto che Levi, come altri scienziati italiani  manifestò un’apertura inedita all’epoca per il ruolo delle donne nella ricerca scientifica.
Quando le leggi razziali fasciste espulsero gli ebrei dalle università italiane, il gruppo di ricerca di Giuseppe Levi fu distrutto: egli stesso era già in una posizione difficile per il suo antifascismo militante. Levi e la sua allieva Levi Montalcini emigrarono in Belgio, dove continuarono a lavorare fino all’invasione nazista. Dulbecco e Luria emigrarono negli USA, quest’ultimo definitivamente, assumendo il nome di Salvador E. Luria. Dopo anni drammatici - durante i quali Giuseppe Levi vagò nella clandestinità - alla fine della guerra il maestro e l’allieva ripresero la collaborazione a Torino: allestirono un laboratorio di fortuna nella casa di quest’ultima per studiare lo sviluppo del sistema nervoso degli embrioni di pollo. Nel 1947, il Consiglio Nazionale delle Ricerche affidò a Levi un centro di ricerche istologiche, ma Rita Levi Montalcini si trasferì negli USA dove proseguì le sue ricerche pervenendo alle scoperte che la resero famosa. Fu quindi dall’altra parte dell’Atlantico che il seme gettato dalla scuola di Giuseppe Levi germinò. 
Per capire quel che accade di qua, basti ricordare un episodio significativo. Subito dopo la guerra, Giuseppe Levi venne designato come futuro direttore dell’Istituto Nazionale di Biologia, fino a quel momento diretto da Sabato Visco, uno dei promotori del razzismo di stato. In una lettera, Levi accettò la nomina pur preoccupato per lo stato caotico dell’istituzione cui era stata condotta da “persona nulla scientificamente e moralmente poco raccomandabile... uno degli esponenti dell’Ovra universitaria”. Levi non fu mai nominato a quella carica ma solo alla direzione dell’Istituto di cui si è detto. Invece, Visco fu prima epurato, poi assolto e reintegrato con tutti gli onori. Nel 1952, il CNR, dovendo scegliere tra le richieste di finanziamento di Levi e Visco, attribuì all’Istituto di Levi una dotazione molto modesta e una alquanto lauta a Visco consentendogli di rimettere in sesto le sue deformi creature “scientifiche”.
Per questo, oggi, con la morte di Rita Levi Montalcini lamentiamo non soltanto la perdita di una grande scienziata e persona di cultura, ma anche il disastro con cui, il fascismo prima e poi un’amnistia sconsiderata – che fece volare gli stracci del fascismo riciclandone i più influenti e peggiori arnesi, i “redenti”, per dirla con Mirella Serri – compromisero in modo drammatico una posizione di primato dell’Italia nella scienza.
(Il Foglio, 2 gennaio 2013)

L'istruzione per un paese che cambia


Un collega statunitense mi scrive lamentando i tagli sulle università pubbliche che non risparmiano istituzioni famose come Berkeley. Si direbbe “mal comune, mezzo gaudio” ma – nota il collega – quel sistema regge perché in buona parte privato e sostenuto da alte rette. In un sistema quasi totalmente statale come il nostro, tagliare significa chiudere. L’Italia è l’unico, tra i paesi a istruzione statale, che persegua una simile linea. Si dice che i tagli si riassorbono abolendo gli sperperi, ma per farlo occorre fare scelte di merito. Questo non è stato mai fatto e, anzi, l’attuale “spending review” ricorre a parametri statistici più irragionevoli dei tagli lineari.
Pertanto, è giusto dire che il sistema va sostenuto pretendendo rigore ed efficienza. Nei programmi elettorali, tutte le parti politiche esaltano la centralità dell’istruzione per far ripartire il paese. L’agenda Monti parla di accrescere gli investimenti, ridare dignità alla funzione insegnante, rivalutare studio e ricerca. Troppo spesso il documento enuncia obbiettivi su cui non si può non convenire senza dire come conseguirli. Il passato offre un panorama opposto: il governo Monti ha tagliato fondi spietatamente, ha ostacolato la formazione dei giovani insegnanti, ha promosso il reclutamento con un mortificante concorsone a base di test da scuola guida, spesso formulati in dispregio della logica, ha promosso un sistema unico al mondo di valutazione universitaria (Anvur) basato sulla bibliometria di stato. Inoltre, ha rafforzato il dirigismo ministeriale, effetto bizzarro da parte di un governo liberale. L’agenda parla di rafforzare un sistema di valutazione basato su Invalsi e Indire (si ricordino le “pillole del sapere”) e di proseguire il progetto avviato dall’Anvur, e quanto agli investimenti allude solo a quelli privati. È quindi da temere che il disegno sia di affamare un sistema statale in cui non si crede più, salvandone una piccola parte e confidando nell’espansione del settore privato. Un paese avanzato che si conceda una pausa di decenni, vivacchiando con poche università statali e un paio di università private commerciali (in parte sostenute dallo stato) in attesa che nasca un sistema di tipo anglosassone, ha il declino assicurato.
A fronte di questa proposta ambigua e avventurosa, l’unico programma organico per l’istruzione è quello del partito che ha il più vasto consenso nel mondo dell’istruzione, il Pd. La proposta del Pdl, almeno per ora, è introvabile, e ciò non stupisce. Difatti, il Pdl, dopo aver ondeggiato tra lo slogan della “scuola delle tre i” e il richiamo al rigore e alla qualità, si è affidato passivamente alla dirigenza ministeriale e ai disegni confindustriali miranti – anche questo un caso unico al mondo – a smagrire il sistema dell’istruzione per ridurlo alla mera funzione di formazione di addetti per le imprese (a spese dello stato).
Il programma del Pd è vasto e propone di rifinanziare sostanziosamente scuola e università, opponendosi ai progetti di creare un sistema universitario elitario; propone di ridare dignità alla funzione insegnante, di migliorare la qualità del sistema attraverso un efficace sistema di valutazione. Molte voci a sinistra manifestano insofferenza per l’approccio tecnocratico, per la mania dei test e delle valutazioni automatiche e il disagio che dilaga nel mondo dell’istruzione condurrà a una crescita di consenso per le proposte del Pd. Sorgono però dubbi circa la loro capacità di superare errori del passato. Il vecchio modello di gestione dell’istruzione della sinistra si fondava sulla cogestione tra dirigenza ministeriale e sindacati che risolveva i problemi aggravando la spesa pubblica con scarsa attenzione alla qualità. Affinché questo modello non si riproponga occorre rinunziare per sempre al dirigismo, comunque declinato, che si tratti del Ministero o di nuovi “enti”. La valutazione – per avere senso e non essere mortificante – deve essere un processo interattivo interno all’istituzione e non governato insindacabilmente da enti “esterni” che diverrebbero – come l’esperienza dell’Anvur insegna – mostruosi centauri: per metà statalismo dirigista, in quanto deputati a un controllo globale, per metà privatismo, in quanto autonomi e non valutabili. Il rischio è che una tradizionale propensione statalista della sinistra si “modernizzi” con progetti conformi a quelli confindustriali.
Una contraddizione analoga si nota sui contenuti. Si parla di rivalutare la funzione insegnante e poi si dice che il docente non deve più essere “erogatore di conoscenze” ma “sollecitatore dell’apprendimento”. Ma quando mai un buon docente è stato “erogatore dell’apprendimento”? Casomai lo sono i docenti “sollecitatori” (o “facilitatori”) costretti a trasmettere in modo avvilente le direttive metodologiche del pedagogismo di stato. È poi contraddittorio attaccare aspramente l’ultimo ministero e riproporne alcune proposte (pessime) come quella di estendere la funzione della scuola a “centro civico”, “presidio pedagogico” del territorio, cedendo alla vecchia tentazione di mettere le brache al mondo. L’idea di creare un’istituzione preposta alle ricerche didattiche ed educative è inquietante e mortificante della libertà metodologica dell’insegnante: queste cose vanno fatte “nel” mondo dell’istruzione e non “al di sopra” di esso.
Tanto più la crisi è grave tanto più si sente la mancanza di programmi semplici e realistici: rifinanziare l’istruzione in una cornice di efficienza, reclutare conciliando l’apertura ai giovani con i diritti acquisiti su basi verificabili, valutare la qualità senza ricorrere a parametri mortificanti, riqualificare l’insegnamento partendo dai contenuti giunti a livelli troppo bassi, risanare le strutture prima di sperperare nel digitale.  
Al momento, siamo ancora nella strettoia tra una tecnocrazia che affama il cavallo in nome di miti liberisti, e tentazioni palingenetiche di rifare la società attraverso l’istruzione vista come demiurgo sociale. 

(Il Mattino, 31 dicembre 2012)