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lunedì 24 giugno 2013

Sulla prova d'italiano all'esame di maturità


Ormai non ci sono dubbi: al Ministero dell’Istruzione c’è chi lavora per cancellare il tema di maturità. Del resto è noto che questo proposito è vivo da anni. Noi siamo invece più che favorevoli al tema, purché offra allo studente l’opportunità di esprimersi in piena autonomia e di dar prova delle sue capacità, su un argomento circoscritto e correlato a temi approfonditi nel corso di studi. La via infallibile per renderlo disgustoso, e alimentare la spinta a cancellarlo, è assegnare come argomenti quelli che Gentile chiamava “brevi cenni sull’Universo”. “Stato, mercato, democrazia”, “Individuo e società di massa”, “La ricerca scommette sul cervello”… Nessuno si sognerebbe non dico di dare una tesi di laurea, ma neppure una tesi di dottorato su temi del genere. Per dire qualcosa di sensato sul primo occorrerebbe conoscere una mole di contributi teorici mai visti nelle scuole, dalla contrapposizione tra pianificazione collettivista e liberismo economico, tra keynesismo e “mainstream”, al versante di teoria politica. Per il secondo tema occorrerebbe aver letto qualcosa della letteratura sui totalitarismi del ventesimo secolo. Dove? In una scuola in cui raramente si arriva a studiare la Seconda guerra mondiale? E che dire del terzo tema che apre l’immensa tematica del rapporto mente-cervello? Ma c’è una via furbesca per tenere in piedi l’approccio del tipo “brevi cenni dell’Universo” in un contesto in cui non si sa più in che secolo siano vissuti Adam Smith, Karl Popper e Hannah Arendt, ammesso che si sappia chi siano: offrire tracce molto terra terra, articoli di giornale, dietro cui lo spessore dei temi è ridotto a formulette semplificate e informazione, o è visibile solo a chi ne sa molto. Certo, i brani su “Stato, mercato e democrazia” sono densi di temi rilevanti, ma sono tanti e di complessità tale che l’unica via è cavarsela con luoghi comuni sulla crisi.
Va assai peggio su “Individuo e società di massa”. Pasolini era un letterato di valore, ma di certo non un maestro di teoria sociale, soprattutto in un brano in cui la spara grossa: «nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi». Visto che la prima parte della traccia di Bodei è in consonanza, e che le connessioni con le tracce letterarie sono esangui, c’è da chiedersi se non sia un invito a confezionare un compitino anticapitalista.
Certo, si dirà che lo studente poteva andarsene per conto suo ignorando i testi proposti. Ma, siamo seri, chi oserà farsi beffe delle tracce ministeriali? Il risultato è che lo studente – altro che autonomia e creatività – è stato messo su binari atti solo a determinare risultati preconfezionati e grotteschi.
Ciò è ancor più evidente nel tema sulla ricerca e il cervello. Qui, oltre a uno scritto di Boncinelli – che contiene l’unica asserzione di merito sul rapporto tra teorie del cervello e teorie della mente, peraltro assai discutibile – si offrono solo articoli di giornale che informano circa i progetti di simulazione informatica del cervello. Su queste basi cosa scrivere se non un panegirico del programma di Obama? In barba allo spirito critico: da Marcuse allo scientismo è l’apoteosi del conformismo.
Quanto ai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) non costituiscono un argomento se non di analisi economica, visto che l’unico tratto comune di quei paesi è l’incremento del Pil. Lo sa anche l’estensore della traccia che invita a sceglierne due a caso e dire qualcosa sulle loro vicende politiche recenti. A parte la mediocrità della proposta è roba mai vista a scuola. È un invito a navigare di soppiatto con lo smartphone?

Viene da pensare che chi ha preparato questi testi non abbia mai messo piede in una scuola, non abbia figli e non abbia la più pallida idea delle conoscenze che vi si acquisiscono, che sono sempre più esili e frammentarie e che andrebbero vigorosamente riqualificate. Ma già, è proprio quel che non si vuole. L’ideologia che emerge è quella di una scuola che da un lato invita a fabbricarsi a ruota libera i propri cenni sull’Universo, dall’altro verifica le “competenze” con test e quiz. In che modo il pensiero di Cartesio abbia influenzato la visione moderna del rapporto mente-cervello non ha alcun interesse. Dite quel che vi pare sul tema e mettete una crocetta sulla risposta esatta: Renato Cartesio: filosofo e scienziato francese o amministratore delegato delle cartiere di Fabriano.

(Il Messaggero, 20 giugno 2013)

Tirocini a scuola? Importanti. Ma le basi generaliste di più


Le dichiarazioni del ministro Carrozza sull’esame di maturità e sull’orientamento degli studenti in funzione del lavoro futuro presentano aspetti interessanti e condivisibili. Troppi sono gli abbandoni scolastici e l’università è spesso un’area di parcheggio in cui i tempi di conseguimento della laurea si dilatano in modo eccessivo. È più che opportuno che le scuole superiori accompagnino la funzione di formazione con una funzione di orientamento che permetta allo studente di capire meglio sé stesso, esplicitare le proprie preferenze, individuare la direzione per sviluppare nel modo migliore le proprie potenzialità.
Sono propositi condivisibili ma perché abbiano successo occorre gestirli con equilibrio. Vi sono situazioni in cui l’orientamento verso una specializzazione definita si manifesta chiaramente, in altri casi una certa indecisione può essere persino un fatto positivo. Sono noti i casi di famosi scienziati di formazione classica e, viceversa, di persone che dal liceo scientifico sono approdate alle scienze umane: talora è il segno di un’ampiezza di interessi che sarebbe stolido soffocare nella culla. Abbiamo bisogno di persone qualificate nelle professioni tecniche, ma una società avanzata ha anche bisogno di persone dotate di basi generaliste solide tali da permettere il passaggio da un ambito a un altro e determinare quella “cross-fertilization” che è fondamentale nelle scienze di base; senza cui parlare di “società della conoscenza” è chiacchiera. Quindi, il processo di orientamento deve essere concepito in modo costruttivo, come parte integrante della formazione e non come un meccanismo di selezione standardizzato che rischia di orientare in modo troppo brutale la formazione delle capacità.
Occorre evitare una patente contraddizione: da un lato non si fa che parlare di una scuola adattata ai singoli, persino con curricula individualizzati e, dall’altro, si standardizzano sempre più le valutazioni. Va detto chiaramente: da un processo serio di orientamento i test debbono restare fuori. Ed è da augurarsi che a nessuno venga in mente una selezione di tipo psicologico-neuronale, secondo quella moda un po’ razzista per cui sarebbe già scritto nei geni se faremo il pompiere o il giornalista. Il profilo dello studente, in funzione del suo futuro, deve essere costruito in modo accurato e cauto dall’istituzione scolastica, in primo luogo dagli insegnanti. L’idea di stage e tirocini nel mondo del lavoro è una buona idea ma, come ha detto il ministro, è adatta in particolare negli istituti professionali e quando l’opera di orientamento ha raggiunto un grado di determinazione elevato, altrimenti si rischia la dispersione e altre forme di parcheggio e perdite di tempo. Purtroppo in Italia nel mondo imprenditoriale esiste una tradizione assistenzialista: speriamo che qualcuno non persegua l’idea di usare l’istruzione come sistema di formazione di addetti per le aziende a spese dello stato. Da questo punto di vista colpisce che non si parli di stage ed esperienze nei settori culturali che rappresentano il patrimonio più importante del paese. Perché non pensare a orientare giovani (con opportuni stage di formazione) verso il recupero archeologico, il restauro delle opere d’arte, la riqualificazione dei musei e dell’immenso patrimonio librario del paese? Ci si rende conto che l’Italia è uno dei pochi paesi avanzati al mondo che non ha fatto nulla per digitalizzare questo patrimonio librario? Eppure si tratta di uno straordinario bacino di ricchezza che può costituire un volano importante per il tanto agognato sviluppo.
È tristissimo vedere in quale conto vengono tenuti i nostri beni culturali, artistici e architettonici. Chi dovrebbe coltivare questi beni se non un paese come il nostro? E, non solo per sfruttarne l’enorme potenzialità economica, ma per fare di molte nostre università il polo di attrazione dei tanti studenti stranieri interessati agli studi classici, alle arti figurative e all’architettura e disposti a studiare l’italiano. L’interesse a studiare in Italia è più stimolato da simili intenti che non dal perfezionamento in alcuni settori tecno-scientifici in cui è difficile recuperare in breve tempo una posizione di primo piano. Ma, come sento raccontare da colleghi, gran parte degli studenti che vengono da noi con quegli interessi non sono di madre lingua inglese, e si dà lo spettacolo penoso di lezioni impartite in un inglese mediocre a persone che non lo sanno… Speriamo quindi che i buoni propositi del ministro Carrozza riescano a imporre una visione culturale ampia di tutto ciò che l’istruzione può dare al paese.

(Il Giornale 19 giugno 2013)

martedì 18 giugno 2013

Dialogo tra le fedi senza paure né reticenze: il caso di Ernesto Buonaiuti


Riordinando le carte di mio padre Saul ho ritrovato un vecchio dattiloscritto un po’ consunto che contiene il testo delle conferenze su “L’essenza del Cristianesimo”, pronunciate nel 1921 dal celebre sacerdote e storico modernista Ernesto Buonaiuti, nello stesso anno in cui subì la prima scomunica “a divinis”, cui seguì, pochi anni dopo, la scomunica definitiva. La prima pagina porta la dedica: «Al carissimo S. Israel queste parole di speranza e di fiducia. E. B.».
Mio padre era giunto in Italia per fare gli studi di medicina da Salonicco, la Gerusalemme balcanica, dove la sua famiglia aveva una posizione di prestigio: suo nonno era il rabbino Judah Nehama, fondatore in Oriente dell’Alliance Israélite Universelle. A Salonicco aveva frequentato il Liceo Italiano il cui preside era Alarico Buonaiuti, e questi gli diede una lettera di presentazione per il fratello Ernesto. Ne nacque un rapporto profondo e intenso, poiché il dialogo con un giovane ebreo così colto nella propria fede era particolarmente importante per un cattolico come Buonaiuti, proiettato verso il recupero delle radici originarie dell’esperienza cristiana. Mio padre fu uno dei principali collaboratori della rivista buonaiutiana Religio in cui pubblicò un saggio sulle origini della setta dei Sadducei, e mantenne un profondo rapporto con Buonaiuti fino alla morte, nel 1946. Fu un rapporto di confronto anche franco: la copia dell’autobiografia di Buonaiuti Pellegrino di Roma porta commenti a matita di mio padre talora critici. Ma Buonaiuti era una persona profondamente aperta e riflessiva, e soprattutto intellettualmente onesta. Mio padre mi raccontò che, per spiegare a Buonaiuti come fosse tutt’altro che ovvia l’immagine del cristiano “caritatevole”, gli narrò un episodio: un giorno, a Salonicco, la cameriera entrò in casa e si rivolse alla nonna dicendo: «Ho visto oggi in strada una scena che avrebbe mosso a compassione perfino il cuore di un cristiano»… Buonaiuti ne fu tanto sconvolto che – come disse a mio padre – non dormì una notte intera per il turbamento.
La morte di mio padre, nel 1981, è strettamente legata a due ricordi particolarmente cari. Il primo fu l’affetto con cui l’allora Rabbino Capo Elio Toaff si recò immediatamente a benedire il defunto: un gesto compiuto con una partecipazione indimenticabile. Il secondo fu la pubblicazione su La Stampa di un articolo del celebre pensatore storico cattolico Arturo Carlo Jemolo (anche lui stretto collaboratore di Buonaiuti), in cui evocava un episodio, per pura coincidenza perché Jemolo non sapeva nulla della morte di mio padre. Questo era il racconto: «… la domenica mattina soleva adunarsi in una casa di amici un gruppo di giovani ad ascoltare Ernesto Buonaiuti… Nel gruppo entrò poi anche, dietro preghiera del fratello di Buonaiuti, un ebreo di Salonicco, ventenne, molto simpatico e rispettoso, attaccatissimo alla fede dei suoi avi. Ascoltò con molta attenzione (ma chi mai poteva distrarsi alle lezioni di Buonaiuti?) e solo dopo qualche tempo, entrato in familiarità con i coetanei, ad uno che gli chiese le sue impressioni, rispose: «Grande maestro; una gioia ascoltare le sue lezioni; ma io ebreo ho l’impressione che voi cristiani abbiate relegato Dio Padre in soffitta». E Jemolo commentava: «Quella cruda frase mi risuona all’orecchio», e ne traeva spunto per il suo articolo su “la fede e le opere”.


Rigirando tra le mani quei fogli e una foto di Buonaiuti, anch’essa con dedica, mi viene da pensare che tanto si parla di “dialogo” (in particolare ebraico-cristiano) quanto si è persa la capacità di un dialogo autentico: il che significa aperto e senza paura di confrontarsi, senza reticenze ma con fiducia. Mi chiedo se un indizio di questa difficoltà è dato dal modo con cui certe esperienze e personalità vengono cancellate, proprio perché troppo aperte e autentiche. Buonaiuti è stato una delle grandi personalità intellettuali nell’Italia della prima metà del Novecento. Eppure chi lo conosce oggi? Fu autore di quasi quattromila scritti, tra cui molti libri, ma questa letteratura è per lo più irreperibile. Le conferenze su “L’essenza del Cristianesimo” sono state pubblicate qualche anno fa dall’editrice Laterana: un gesto assai positivo nei confronti di uno scomunicato. Non ho ancora confrontato il testo con il dattiloscritto in mio possesso, ma non è un buon inizio che il nome dell’autore sia stato storpiato in “Bonaiuti”…
Non va dimenticato che Buonaiuti fu un fervente antifascista e uno di quei dodici docenti universitari che rifiutò di prestare il giuramento di fedeltà al regime. Ma dopo la fine della guerra fu il solo a non essere reintegrato nella cattedra in base a una capziosa interpretazione del Concordato su cui si accordarono tutte le forze politiche, a destra, al centro e anche a sinistra. Eppure Buonaiuti si era orientato sempre più verso la sinistra, anche per l’influsso di uno dei suoi più stretti allievi, il dirigente comunista Ambrogio Donini. Nonostante vada tanto di moda (e da decenni) l’idea di una convergenza tra sinistra e mondo cattolico, la figura di Buonaiuti è l’unica ad essere tenuta rigorosamente fuori da questo panorama. Si è riabilitato mezzo mondo, a partire da Galileo, ma la congiura del silenzio nei suoi confronti continua implacabile. Si possono tentare molte spiegazioni di questo fatto. Ma forse un indizio va cercato nell’acuta domanda di Alberto Cavaglion che mi risuona sempre all’orecchio: «Come mai sono sempre i modernisti a essere emarginati?».
(Shalom, maggio 2013)

domenica 9 giugno 2013

Il merito perduto in un quiz


Così, dopo il pasticcio dei “bonus” che premiano il demerito, il nuovo ministro ha dovuto rimediare un altro pasticcio: quello della sovrapposizione tra esami di maturità e test di ammissione alle facoltà universitarie a numero chiuso. E ha dovuto farlo rinviando i test a settembre. La scelta ragionevole è stata accolta dai più con favore, con la motivazione sacrosanta che i test intralciavano in modo inaccettabile la preparazione della maturità. È da attendersi che il decreto di prossima emanazione aggiusti anche la faccenda dei “bonus”.
Tuttavia, a questo punto, è inevitabile una considerazione generale. Dopo una sequenza di pessime prove o veri e propri fallimenti, di cui è persino difficile stendere l’elenco, s’impone di affrontare il tema della valutazione e della verifica del merito in modo globale e secondo un disegno coerente. I guai non vengono soltanto dal fatto che negli anni si è accumulata una congerie di provvedimenti parziali, un bricolage riformatore sconclusionato che poteva produrre soltanto disastri. I guai derivano anche dal fatto che tale bricolage non risponde ad alcun disegno organico di come premiare il merito – malgrado tutti straparlino di “meritocrazia” – bensì è la risultante di una serie di idee diverse e persino contrastanti proposte da soggetti spesso in conflitto tra loro. C’è chi spinge per l’abolizione del valore legale del titolo di studio o dell’esame di maturità, chi per una linea privatistica; chi, al contrario, per un rafforzamento statalista; chi vuole riqualificare la funzione dell’insegnante come valutatore; chi lo vuole mero “facilitatore”, trasferendo la valutazione a sistemi esterni, che per alcuni sono strutture tecniche autonome, per altri assoggettate allo stretto controllo ministeriale. In questo bailamme – in cui molti enunciano gli stessi obbiettivi pensandoli attuati in modo diametralmente opposto – l’unico risultato è l’affondamento del sistema dell’istruzione.
È assai apprezzabile che il sottosegretario Rossi Doria si sia dichiarato nettamente contrario all’introduzione del teaching to the test e quindi all’uso dei test Invalsi nell’esame di terza media. Ma spero ci si renda conto che ormai il teaching to the test è diventato una disgraziata realtà nella scuola italiana e buona parte dei buoi sono usciti dalla stalla. Questo lo sanno tanti insegnanti e tante famiglie che assistono impotenti alla sospensione della didattica ordinaria per l’addestramento ai quiz. Se si vuol compiere una scelta che ormai trova opposizioni crescenti nei paesi che l’hanno fatta, ci si assuma almeno la relativa responsabilità alla luce del sole. È inaccettabile che questo avvenga surrettiziamente o come sottoprodotto dello stato confusionale di cui sopra.
È giunto il momento che ci si assuma la responsabilità di scegliere un indirizzo chiaro e trasparente, rispondente a una precisa idea d’istruzione e di valutazione, con il prezzo inevitabile di scontentare qualcuno. Noi questa idea d’istruzione e di valutazione l’abbiamo e la stiamo difendendo a chiare lettere da tempo. Essa si basa sull’idea che, nella tanto proclamata “società della conoscenza”, un paese che non voglia sprofondare nell’arretratezza deve preparare i propri giovani a un alto livello, quale che sia la natura dei percorsi di formazione (classico, scientifico, tecnico, professionale). Non è coerente con l’obbiettivo di premio della qualità sentirsi da dire da un figlio che detesta la letteratura perché ormai per lui si identifica con antologie di miserando livello in cui, dopo brani di poche righe, si “somministrano” quiz a crocette sul senso del testo; o sentirsi dire che detesta la matematica perché viene proposta come una miscela di “leggi” e “regole” da mandare a memoria, di problemini senza senso, seguiti dalle solite “verifiche” a quiz. Non è coerente con le chiacchiere sul merito promuovere una didattica che conviene ai peggiori insegnanti, quelli che vegetano dietro quiz e domandine, esentati dal produrre un autentico impegno intellettuale ed educativo. A noi piace un’idea di scuola in cui l’insegnante assuma una funzione centrale al prezzo di una seria valutazione, ma senza quiz e altri marchingegni fallimentari.
In decenni di chiacchiere sulle riforme istituzionali l’assenza di un disegno organico ha prodotto una pessima riforma del Titolo V della Costituzione e pessime riforme elettorali. Non diversamente nell’istruzione. Come nel primo caso, è giunto il momento di un ineludibile ripensamento complessivo basato su idee chiare, esplicite e culturalmente dignitose.
(Il Mattino e Il Messaggero, 8 giugno 2013)

mercoledì 5 giugno 2013

La maturità e il “bonus” premia-ciucci


A norma di un decreto di un mese fa agli studenti che conseguiranno il diploma di maturità con almeno 80/100 sarà conferito un “bonus” da 4 a 10 punti da sommare al punteggio che otterranno nel test nazionale di ammissione alle facoltà universitarie a numero chiuso. Allo sventurato che voglia capire il meccanismo di assegnazione dei punti si dice che il voto ottenuto alla maturità dà diritto a un incremento «in rapporto alla distribuzione in percentili dei voti ottenuti dagli studenti che hanno conseguito la maturità nella stessa scuola nell’anno scolastico 2011-12». Se vorrà approfondire il senso di questo gergo troverà nel sito www.universitaly.it un tabulato che specifica gli incrementi scuola per scuola: 208 pagine… Il succo di questa cabala numerica è che per ottenere il massimo dei punti occorre un punteggio che, nell’anno precedente, sia stato superato da una percentuale molto bassa di studenti della propria scuola; se ne otterranno di meno con un punteggio che, nell’anno precedente, sia stato superato da una percentuale nettamente più alta di studenti; e così via. Se si esplora l’immane tabulato, prendendo ad esempio scuole notoriamente eccellenti e altre notoriamente mediocri, si constata che nelle prime è difficilissimo ottenere “bonus” significativi, al contrario delle seconde. È evidente che il meccanismo produce un forte appiattimento e ingiustizie plateali. Non a caso le proteste fioccano.
Un’analisi anche sommaria mette in luce quattro aspetti. 1) Si voleva differenziare le scuole per merito e, in virtù del meccanismo escogitato, si è ottenuto l’effetto contrario. 2) Ogni studente, invece di essere valutato per i suoi meriti, è valutato per il luogo che frequenta e nel confronto con la figura astratta di “studente quadratico medio” della scuola, il che è sbagliato e ingiusto (pochi punti possono essere decisivi). 3) Per l’ennesima volta si dimentica la legge di Campbell: «quanto più un indicatore sociale viene usato per prendere decisioni, tanto più sarà soggetto a pressioni corruttive e sarà atto a distorcere e corrompere i processi sociali che dovrebbe valutare». Se questo sciagurato sistema non verrà spazzato via, ogni scuola si metterà a calcolare il modo per attrarre il massimo numero di studenti con il miraggio del massimo “bonus”. Avremo commissioni d’istituto preposte a questi calcoli e gli insegnanti saranno indotti a dare giudizi conformi al conseguimento dell’obbiettivo. 4) Infine, quali costi ha avuto questa operazione, quanta gente è stata impiegata per eseguire questi calcoli insensati? Ancora una volta nessuno risponderà di un simile sperpero di denaro pubblico in tempi di tanta ristrettezza per l’istruzione?
L’aspetto 2) evoca il caso di Naftalij Frenkel che, da detenuto del Gulag staliniano, ne divenne uno degli organizzatori, sostituendo al primitivo e inefficiente sistema di gestione, un sistema efficiente in quanto basato su una ripartizione analitica del cibo secondo fasce di “merito”. L’unica differenza è che il sistema di Frenkel faceva fuori scientificamente i più deboli mentre questo li favorisce. Ma l’approccio spersonalizzante è lo stesso ed è da chiedersi perché mai in questo paese, quando si parla di “merito” o di “efficienza” si debba finire sistematicamente col ricorso a modelli autoritari e dirigisti, oltretutto declinati all’inverso, cioè secondo una logica che premia il demerito facendo finta di penalizzarlo. Sarà forse un’eredità imperitura del totalitarismo fascista che, con anni e anni di ministero Bottai, ha impregnato il sistema dell’istruzione?
Ma c’è qualcosa di non meno perturbante: da mane a sera siamo assordati dalle rapsodie di un’orchestra di tromboni “meritocratici” per poi assistere a risultati del genere. È difficile trovare altra spiegazione se non il commento sconsolato di un professore che, esausto dai vani tentativi di produrre qualcosa di fattivo nella gestione del proprio istituto, osservò che il male principale di questo paese è preferire le chiacchiere alle realizzazioni concrete e semplici. Nel sistema dell’istruzione questa inconcludenza si manifesta con il prevalere dei formalismi burocratici, assortiti da un feticismo dei numeri che solo chi conosce davvero i numeri sa quanto sia provinciale. Mi scrive un direttore di dipartimento universitario terrorizzato per il diluvio di obblighi valutativi che piove sull’università: niente più «studiare, scrivere, fare lezione, seguire tesi di laurea, dialogare con gli studenti, creare occasioni di discussione; ma occupare settimane a decifrare leggi fumose e contraddittorie, partecipare a interminabili riunioni di indottrinamento amministrativo, compilare moduli». Non più insegnare, ma «erogare didattica», nell’orrido lessico ministeriale. Ora le scuole vedranno ridotto il tempo dedicato alla loro missione specifica – già mutilato da una marea di certificazioni e di scartafacci – dalla necessità di mettere in moto un meccanismo concorrenziale non sulla qualità dell’insegnamento, ma sulla gara a chi costruisce le più furbe alchimie numeriche.
È facile capire come mai, in un simile contesto, prevalga chi è capace di produrre solo farragini inutili o dannose, come nel caso in oggetto, dopo le tante prove a test fallimentari, la sgangherata agenda digitale o il progetto di scuola “centro civico”. Inevitabilmente, gli orchestrali di questa rapsodia non sono persone che vogliono fare cose ragionevoli e costruttive, ma un battaglione di manager e tecnocrati “gestionali” che, falliti nel loro ambito, sfogano le loro frustrazioni nell’istruzione con progetti universali, di burocrati e azzeccagarbugli delle normative; il tutto con un contorno di sadismo nei confronti di studenti e insegnanti.
Naturalmente, in capo a tutte le responsabilità è quella della politica. E se qualcuno ha sbagliato, e troppo, nel recente passato, ci si attende dal nuovo ministro che cambi registro in modo radicale, facendo piazza pulita di prassi che stanno facendo a pezzi il sistema italiano dell’istruzione e minano le possibilità di ripresa del paese. Per cambiare registro basterebbe solo tornare al buon senso, essere un po’ cartesiani nel senso delle “idee chiare e distinte”. Molti si stanno rendendo conto che l’unico modo di affrontare le riforme costituzionali ed elettorali è di adottare un approccio “cartesiano”. Perché non dovrebbe essere lo stesso per l’istruzione?

(Il Mattino, 3 giugno 2013)