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giovedì 18 luglio 2013

La famiglia Karnowski di I.J. Singer


Se desidero parlare del romanzo La famiglia Karnowski di Israel Joshua Singer (Adelphi, 2013) non è per farne una recensione che altri hanno fatto o faranno con maggiore competenza. È per dire delle due ragioni per cui sono stato folgorato da quest’opera del fratello minore del più noto premio Nobel Isaac Bashevis. La prima considerazione è quella di un semplice lettore – non critico letterario, appunto – che, pur cercando di accostarsi in modo aperto a nuovi stili letterari indubbiamente suggestivi (come quello di Gary Shteynhart), non può fare a meno di sentirsi trascinato in modo totale da libri che dimostrano la vitalità imperitura del romanzo classico. Quando lessi Vita e destino di Vasilij Grossman mi parve di trovarmi di fronte a una nuova opera inedita di Dostoevskij. Non diversamente leggendo La famiglia Karnowski: un grandissimo romanzo che è la prova che non è indispensabile inventare nuovi stili e nuove sperimentazioni per legare a sé il lettore pagina dopo pagina.
Il romanzo racconta, attraverso la saga di una famiglia che si snoda dalla Polonia alla Germania fino agli Stati Uniti, il dramma della distruzione dell’ebraismo centro-europeo. Ma non si tratta soltanto di questo, c’è molto di più. In questa tragica saga emerge il tema dell’identità ebraica: che cosa significa, come si può essere ebrei nell’era successiva ai ghetti, o comunque alla separazione totale dal resto della società, durante la quale la definizione dell’identità ebraica era in qualche modo automatica, in quanto imposta dall’esterno? La famiglia Karnowsky, come tante altre giunte in Germania dalla Polonia, deve far fronte al compito difficile di misurarsi con la società tedesca, con il fascino del suo spessore culturale e civile e con le sue aspre ripulse, e si confronta anche con gli svariati modelli di vita degli ebrei tedeschi autoctoni. Il percorso di tre generazioni della famiglia, accanto a quelli di tanti altri personaggi, disegna un affresco di tutti i possibili atteggiamenti. Da un lato, v’è l’estremo del saggio talmudista che si chiude nella barriera difensiva dei suoi studi, nella convinzione che è sempre stato “così” e sarà sempre “così”, e quindi che anche l’avvento del nazismo rientra nella “normalità” della millenaria storia ebraica e non può modificare il corso della vita di un ebreo pio. In mezzo, vi è l’atteggiamento di chi ritiene che la soluzione sia essere ebreo in casa e tedesco fuori di casa, e quindi erige come cortina “difensiva” la conservazione privata delle tradizioni, anche semplicemente al livello delle abitudini alimentari. Dall’altro, vi sono tutte le gradazioni dell’assimilazione, da quella di chi dissolve la propria ebraicità nell’universalismo rivoluzionario fino a quella estrema della terza generazione della famiglia, il giovane Jegor, figlio di matrimonio misto che cerca la via d’uscita nella soluzione radicale di rigettare totalmente la propria identità ebraica, fino a odiarla e a proclamarsi nazista pur di farsi riconoscere come tedesco a pieno diritto.
Poiché questo è innanzitutto un romanzo e, in alcun modo, un libro ideologico, non vi si troverà mai un giudizio di questi atteggiamenti, neppure di quello di Jegor. Il tentativo di quest’ultimo di “lavarsi” delle radici ebraiche paterne e di essere accettato come tedesco “puro”, cercando un rapporto con ambienti sordidi della comunità tedesca newyorkese, fallisce tragicamente ed egli ritorna alla famiglia che aveva ripudiato che lo salva e lo riaccoglie. Ma è un lieto fine che lascia aperto il problema: il ritorno di Jegor non è dettato da una piena e autonoma consapevolezza, bensì è imposto dal rinnovato ergersi del muro dell’odio razziale e della persecuzione. Pertanto, la domanda che emerge spontanea da tutte queste storie è: che cosa può essere un’identità ebraica viva e vitale nell’era moderna? Per quanto forti siano ancora il rifiuto e l’odio, gli ebrei sono irrevocabilmente entrati a far parte della vita sociale e godono di quei diritti civili da cui erano stati esclusi per secoli. Sarebbe vano pensare di definire i connotati dell’identità ebraica alzando muri o addirittura rimpiangendo e rievocando i muri del rifiuto esterno. L’identità ebraica non può che definirsi per la posizione e il ruolo che assume nella società e nel mondo: come dimostrano le vicende dello stato d’Israele neppure la costituzione di uno stato ebraico risolve di per sé il problema, perché allora questo si proietta al livello della costituzione interna dello stato e dei rapporti internazionali.
Perciò, il lieto fine delle vicende di Jegor lascia con una grande domanda irrisolta, come del resto tutte le storie particolari e diverse dei personaggi che popolano il romanzo. Ed è proprio nell’assenza di una risposta confezionata e, al contrario, nella capacità di aprire un problema esplorandolo in tutte le sue facce, che si vede quale possa essere la forza conoscitiva di una grande letteratura, persino maggiore di una grande saggistica. Così, La famiglia Karnowski è, rispetto al tema dell’identità ebraica nel mondo ancor più complesso della postmodernità, una miniera aperta di riflessioni e di pensieri.
(Shalom, luglio 2013)

5 commenti:

Grazia Dei ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Giorgio Israel ha detto...

Diciamo, molto sinteticamente e rozzamente, che gli ebrei sono stati una nazione cancellata dai Romani. Le persecuzioni ininterrotte e l'isolamento che ne è derivato hanno perpetuato e consolidato il legame con questa identità nazionale. Non a caso, nel periodo successivo alla Rivoluzione Francese, con l'"emancipazione" ebraica, il processo di assimilazione si è accentuato. Il sionismo ha ripreso forza proprio con la ripresa delle persecuzioni, ma ben prima del nazismo, già con il caso Dreyfus, ecc. Comunque, di queste cose ho parlato anche nel mio libro "La questione ebraica oggi", che è quasi esaurito e non verrà ristampato. A novembre lo metterò in rete come self-publishing (come ho fatto con altri libri, vista la dilagante crisi editoriale).

GiuseppeR ha detto...

È interessante notare come Grossman non avesse coscienza della sua identità ebraica finchè non divenne testimone 'privilegiato' (fu uno dei primi ad entrare a Treblinka) delle atrocità naziste che lo colpirono dolorosamente (la madre fu trucidata a Berdicêv in Ucraina). Grossman aderì sinceramente al regime sovietico sino a quando, forse grazie anche alle sue riflessioni sull'antisemitismo, chiarì a se stesso la natura del totalitarismo moderno che è rappresentata nel memorabile colloquio fra il nazista Liss ed il vecchio bolscevico Mostovskoy. “Quando ci guardiamo in faccia l’un l’altro, noi guardiamo uno specchio. Questa è la tragedia dell’epoca. Forse che voi in noi non riconoscete voi stessi, la vostra volontà? Forse che per voi il mondo non è la vostra stessa volontà, qualcosa forse può farvi esitare o fermare? [...] Non c’è nessun abisso tra di noi! [...] siamo due ipostasi della stessa sostanza: uno Stato di partito” (pag.382). Le ideologie del 900 hanno avuto in comune il tentativo costruire il "mondo nuovo" che comprendeva, in entrambi i casi, la cancellazione di alcune"identità" (nazionali o " di classe"). Le ideologie postmoderne, per non far torto a nessuno, vorrebbero l'abolizione del concetto di " identità". Ma in mezzo a tante tragedie la Storia si fa beffe di questi deliri, dimostrando che gli uomini non possono nè disporre nè fare a meno delle loro "identità".

Lino Fazio ha detto...

Ho letto molto di Isaac B. Singer ed amo il suo scrivere fluido e che ti cattura sin dalle prime parole.
Ho invece conosciuto Israel J. Singer, suo fratello meno noto, che mi ha "accalappiato" con questo romanzo che non rappresenta qualcosa di rivoluzionario nello stile, ma lascia il lettore a ripensare più e più volte a ciò che ha letto adattandolo ad ogni situazione attuale in cui vengono tirate in ballo le "razze" e a quanto i giovani appartenenti a quelle "razze" cerchino di adattarsi alla società autoctona, assumendone gli atteggiamenti, i consumi ed il modus vivendi che comunque non li affranca dal loro "essere diversi" e quindi vomitati da una societa' che dalla storia non ha imparato nulla. Proprio come il giovane Jegor: penso alle comunità albanesi, rumene, georgiane ecc.
Ottimo romanzo, lo consiglierei nelle scuole...
Lino Fazio.

Lorisino ha detto...

Grazie per questo interessante approfondimento. Israel però era il fratello maggiore.

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