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venerdì 28 febbraio 2014

Priorità per la scuola

Il tema dell’istruzione sta assumendo rapidamente una posizione di primo piano nei propositi del nuovo governo. Questo è un fatto che deve essere salutato come altamente positivo perché – l’abbiamo ripetutamente detto su queste pagine – un paese che non consideri centrale la formazione qualificata delle giovani generazioni, è come se si arrendesse a una prospettiva di sicuro declino. Il proposito di cui più si parla è di lanciare un’ambiziosa opera di riqualificazione edilizia delle scuole e delle università, ridotte spesso in uno stato pietoso o addirittura vergognoso. E anche questo è un fatto altamente positivo perché indica un approccio pragmatico e dettato dal buon senso. È inutile pensare a programmi ambiziosi se la struttura non ha i requisiti minimi di funzionamento. È vano pensare di ridare fiducia agli insegnanti e pretendere dagli studenti impegno e rispetto per un’istituzione che si presenta con connotati fisici poco rispettabili. Tuttavia, vorremmo suggerire di dedicare tempo e attenzione più che alle visite delle scuole alla ridefinizione delle procedure amministrative dei lavori in tutti i loro aspetti, altrimenti si rischia che tutto finisca in una bolla di sapone mediatica. Se ne sentono troppe a proposito di scuole che non riescono a usare fondi stanziati per la ristrutturazione perché il comune se li tiene senza far nulla, o di lavori interrotti a metà perché le ditte annunciano che i quattrini sono finiti giocando su capitolati poco chiari. Un brutto simbolo italiano è l’autostrada che finisce in mezzo ai campi: sarebbe tragico veder finire così un grande e costoso programma di ristrutturazione edilizia.
La linea del buon senso pragmatico dovrebbe anche evitare la tentazione di lasciare il segno con l’ennesima riforma globale del sistema scolastico. In questi decenni, se ne sono accumulate tante, rimaste a metà come la autostrade di cui sopra, rendendo incoerente e caotico il sistema dell’istruzione e sempre più difficile operarvi. Si comprende che proprio di qui nasca la tentazione di costruire la soluzione definitiva, ma il rischio di accrescere la confusione è troppo grande. Meglio lasciare che i propositi globali maturino attraverso una riflessione attenta e meditata: qui è una virtù la lentezza, mentre occorre agire velocemente ed efficacemente su alcuni nodi cruciali capaci di ridare fiducia al sistema riavviando il funzionamento ordinato della macchina. La più grande riforma sarebbe dare finalmente la sensazione che le regole vengono rispettate e che è finito il tempo delle invenzioni continue di deroghe e scappatoie.
Il primo dei nodi è il reclutamento degli insegnanti. Nella scuola la parola d’ordine “largo ai giovani” è divenuta un slogan vuoto e persino irritante. Esiste il problema del precariato, ma esso non può essere l’eterno alibi per strozzare il canale della formazione e dell’ingresso dei nuovi insegnanti. Una norma continuamente disattesa prevede la ripartizione a metà dei posti disponibili: la si attui una buona volta con decisione e senza inventare stratagemmi o deroghe che distruggono la possibilità di un percorso di formazione ordinato e univoco. Invece di escogitare nuove normative si facciano funzionare quelle esistenti senza scorciatoie. Si parla tanto di riqualificare la scuola media (secondaria di primo grado). Il problema principale di questa scuola è che gli insegnanti di materie scientifiche, in particolare di matematica, provengono da facoltà che non forniscono una formazione adeguata. Una normativa approvata da alcuni anni, e mai attuata, prevede una serie di lauree magistrali atte a ovviare a queste carenze di formazione. Qui non c’è nulla da inventare: basta passare ai fatti.
Abbiamo apprezzato molto il proposito del ministro Giannini di studiare a fondo la situazione e i dossier prima di agire. È proprio ciò di cui si ha bisogno: una fase di riflessione profonda, che coinvolga i vari soggetti dell’istruzione, in primis gli insegnanti, mentre si opera per riavviare la macchina inceppata. Per coerenza sarebbe allora bene evitare la politica degli annunci, che servono solo a creare stress. Nel breve arco di pochi giorni abbiamo sentito parlare di accorciare il ciclo liceale a quattro anni, e poi (con sollievo) che si intende soprassedere a questa iniziativa. Più in generale, l’idea di rimettere subito le mani sui cicli fa venire i brividi. Non è che non vi siano problemi: la scuola primaria è stata già affastellata di troppe indicazioni nazionali discutibili; la riforma dei licei ha avuto aspetti positivi di semplificazione e delle buone indicazioni nazionali, però contraddittorie con un assurdo taglio delle ore che ha condotto all’invenzione di materie stravaganti come la “geostoria”; le scuole medie richiedono certamente delle correzioni ma puntare il dito su di esse come se fossero la fonte di tutti i mali è assai opinabile. Proprio perché vi sono tanti problemi è bene riflettere a fondo prima di lanciarsi in grandi ristrutturazioni che, se pensate affrettatamente, rischiano di peggiorare la situazione.
Indicare il tema del merito e della valutazione come centrale è sacrosanto. Ma in questi anni ci siamo gettati a capofitto, sia nella scuola che nell’università, verso sistemi puramente quantitativi dando per scontato che questa sia l’unica via dei paesi “avanzati”. Non è così: in Francia l’ente di valutazione universitario è stato smantellato e la bibliometria è vista malissimo; in Inghilterra la valutazione delle scuole contempla sia approcci quantitativi che qualitativi. Senza dire che non tutto quel che accade fuori delle frontiere è necessariamente buono. Anche qui una pausa di riflessione s’impone, ove si pensi al gran numero di sperimentazioni per la valutazione degli insegnanti, finite l’una dopo l’altra nel nulla, con grande sperpero di denaro. Lo stesso dicasi per l’editoria digitale, dove è stata molto opportuna la frenata del ministro circa la prospettiva di una rapida eliminazione della carta.
Infine, una preghiera: cessiamo di scaricare sulla scuola una massa di compiti di gestione e assistenza sociale che debbono essere ripartiti tra tutte le istituzioni della società. La scuola deve avere come compito primario quello di formare giovani colti, competenti, capaci di muoversi autonomamente, il suo terreno istituzionale deve restare quello dell’istruzione. Essa non può surrogare compiti che debbono appartenere alla famiglia e ad altri soggetti e farsi carico della crisi etica e di prospettive di una società avvilita e senza energie interiori: superare questa crisi è un dovere di tutti che non può essere scaricato sulla scuola. Abbandoniamo l’idea perniciosa di fare della scuola un grande centro di assistenza e di iniziative di ogni sorta, in cui la formazione di competenze disciplinari diventa l’ultimo dei problemi. Si parla tanto di riqualificare la funzione dell’insegnante e di rivalutarne lo stipendio legandoli a valutazioni di merito. Benissimo: ma la valutazione di merito non può che essere sulle competenze disciplinari e sulle capacità educative dell’insegnante e non sulle sue qualità come assistente sociale.


(Il Messaggero, 28 febbraio 2014)

martedì 25 febbraio 2014

La "nuova" scuola come centro di assistenza sociale

Relazione di G. Israel al Convegno nazionale della Gilda degli insegnanti di Padova sul tema «BES, DSA, PDP… la scuola alla sagra degli acronimi» (25.2.2014)
VIDEO
Anche nella versione "convegno" pubblicata dalla Gilda

lunedì 17 febbraio 2014

Un'ente di valutazione deve essere una casa di vetro

Qui
http://www.roars.it/online/g-israel-un-ente-di-valutazione-deve-essere-una-casa-di-vetro/

Il test Invalsi distrae dallo studio

La questione della valutazione del sistema scolastico, e del ruolo dell’ente preposto a tale funzione, l’Invalsi, non è roba da addetti ai lavori. Ogni genitore tocca con mano le novità introdotte dall’uso diffuso di test che, nel caso dell’esame di terza media, influiscono anche sul voto. Era quindi giusto che, nel momento in cui si aprivano le procedure per la nomina del nuovo presidente dell’Invalsi, si chiedesse un dibattito su ruolo e metodi della valutazione nella scuola italiana. Purtroppo, la cosa ha preso subito un taglio bizzarro così riassumibile: discutiamo sì, ma per convincere i recalcitranti della bontà dell’indirizzo finora seguito e nessuno si azzardi a modificarne di un millimetro la direzione, altrimenti si renderà responsabile di una catastrofe nazionale; il tutto condito, con articoli e interviste, da una pesante delegittimazione del Comitato di selezione delle candidature, in alcuni casi fino alla denigrazione.
Come si diceva, la problematica investe la vita quotidiana di insegnanti, studenti e famiglie. In molte classi, in questi giorni, gli studenti sono invitati a stampare i test Invalsi di italiano e matematica per le medie: due volumi di un centinaio di pagine che spodesteranno parte della didattica ordinaria, impegnando nell’addestramento a superare i quiz invece di studiare testi di letteratura o teoremi di geometria. Lo stesso accade nelle primarie, sebbene i test Invalsi vi abbiano un ruolo di mero censimento. Il dilagare di quel che gli anglosassoni chiamano il “teaching to the test” – l’insegnamento in funzione del superamento dei test e non in funzione dell’acquisizione di conoscenze – è una realtà innegabile. E poiché questa prassi è sempre più aspramente criticata proprio nei paesi in cui è diffusa da tempo dovrebbe essere razionale discuterne. I critici che non sono di per sé nemici della valutazione (e non sono pochi) osservano che la pratica del “teaching to the test” conviene ai peggiori insegnanti che, invece di fare un lavoro di classe impegnativo (commentando e discutendo testi di letteratura, o spiegando concetti matematici), si adagiano a “somministrare” quiz e a verificare, come nei giochi televisivi, la velocità di risposta degli studenti. Vi sarebbe poi da discutere sul contenuto e la qualità dei test e sul dilagare di una manualistica di addestramento di infimo livello. Sono tutte questioni molto serie, su cui all’estero si dibatte, e il vero provincialismo è far credere che sia tutto ovvio, invece di considerare come un fatto positivo, l’esistenza nel mondo della scuola di un’ampia diversità di visioni e del desiderio di discutere.
In conclusione, in una fase così delicata, l’Invalsi ha bisogno di un presidente e di una dirigenza capaci di parlare con il mondo della scuola, non per indottrinare ma per discutere, capaci di affrontare le tematiche in gioco con spirito aperto, come conviene a un atteggiamento razionale. Il nuovo presidente, Anna Maria Ajello, sembra essere la persona giusta, anche in vista delle sue prime equilibrate dichiarazioni. È naturale quindi che, in questa nuova fase, si riemerso da più parti l’invito a dibattere il tema della valutazione. Tutto bene, dunque? Per niente. Perché con toni stizziti e diffidenti è stata riproposta lo stesso ammonimento di cui all’inizio: state attenti, la linea giusta è quella finora seguita, e che va anzi rafforzata, e chi non è d’accordo è persona che «non vuole mai mettere in discussione il proprio operato». È il punto di vista sostenuto da Luisa Ribolzi, commissario dell’Anvur (l’equivalente dell’Invalsi per l’università) in un duro commento sul Sole 24 Ore che ammonisce che «se si operasse un ridimensionamento del programma di test in favore della cosiddetta “valutazione qualitativa”, finiremmo anche con l’allontanarci dal quadro di riferimento europeo».
Siamo alle solite. Quando non si sa come imporre qualcosa si ricorre all’imperativo “l’Europa lo vuole” che, ammesso che esista, non dice nulla a chi ragioni con la propria testa, visto che i precetti dell’eurocrazia non sono il quinto vangelo. Pochi giorni or sono il presidente Napolitano è andato al Parlamento europeo a dar voce alle critiche sempre più diffuse di chi denuncia il rischio di appiattirsi dogmaticamente su ricette che alimentano l’euroscetticismo. Non solo l’economia, ma la cultura e l’istruzione sono un tema su cui non può essere vietato discutere e riflettere criticamente.
Vi sarebbe molto da dire sulla contrapposizione tra valutazioni “quantitative” e “qualitative”: se mai, i fautori delle prime non sostengono la tesi assurda che le seconde non esistano o siano il “male”, ma sostengono di poterle riassorbire nelle prime ed è proprio questo uno dei punti più controversi. Vi sarebbe molto da dire sull’operato dell’Anvur, di cui molti pensano (e si tratta spesso di persone di prim’ordine sul piano scientifico) che non sia un modello di pratiche virtuose, e che invece stia contribuendo a seppellire l’università sotto un cumulo di burocrazia e a ridurla a un luogo di compilazione di scartafacci inutili. Vi sarebbe molto da dire sulla pretesa di qualificare chiunque non si adegui al “verbo” come uno che vuol “tirare a campare” (casomai, è il “teaching to the test” che sta mobilitando stuoli di insegnanti che tirano a campare). Ci limitiamo a rilevare l’emergere di un atteggiamento che sarebbe solo buffo se la faccenda non fosse seria: chi si rifiuta categoricamente di mettere in discussione il proprio operato accusa chi chiede di discutere criticamente di non voler mettere in discussione il proprio operato…
È quindi auspicabile che venga una fase aperta, libera da logiche di irregimentamento. E ben venga il dibattito; ma non quello che si faceva in certe assemblee, dove tutti parlavano e poi i capi davano la linea e chi non si atteneva veniva sprangato. Certo, qui nessuno spranga, ma qualche volta le sprangate intellettuali non sono meno pericolose.


(Il Mattino, 17 febbraio 2014)

domenica 16 febbraio 2014

PROMEMORIA PER IL FUTURO MINISTRO DELL'ISTRUZIONE

L’idea circolante di un grande piano per l’edilizia scolastica e universitaria è ottima. Perché non fallisca miseramente deve accompagnarsi a una lotta senza quartiere alla burocrazia: un preside racconta di “disporre” di un’ingente somma per ristrutturare il suo fatiscente plesso, ma di essere bloccato dal comune che non la molla. Lotta alla burocrazia a tutti i livelli, anche per dare senso alla valorizzazione del merito con la valutazione; che deve essere valutazione ex-post (con premi e sanzioni) di ciò che si è fatto, e non l’imposizione a priori di miriadi di regole e il soffocante controllo passo dopo passo. In Italia esiste l’incontenibile tendenza a creare strutture burocratiche di stile sovietico. La valutazione dirigista praticata dall’Anvur ha prodotto guasti all’università, investendola di una valanga di prescrizioni formali che soffocano lo spazio della ricerca e della didattica. Valutare il sistema scolastico e gli insegnanti non può significare comprimere lo spazio della didattica con il dilagare del “teaching to the test” indotto dal ricorso eccessivo ai test. L’intero sistema di valutazione va ripensato in modo equilibrato.
In assenza di comportamenti coerenti, “largo ai giovani” è diventato uno slogan stucchevole: la scuola ha l’enorme problema dei precari ma è inammissibile che ogni tentativo di aprire un canale stabile di formazione e reclutamento dei giovani insegnanti sia ostacolato in modo perverso. Il governo dovrà essere capace di riattivare questo canale e di porre fine allo scandalo dell’affossamento delle lauree per la formazione degli insegnanti.
Si straparla di riformare i cicli e di abbreviare il percorso scolastico. Si operi per rivitalizzare il sistema invece di stressarlo con l’ennesima affrettata sperimentazione. Ben venga garantire a tutti la scuola dell'infanzia, e forse tagliare di un anno la primaria, ma ci si pensi dieci volte prima di toccare il secondo ciclo. Abbandoniamo il vizio provinciale di copiare quel che altrove è stato sperimentato e non ha dato buona prova: in Germania si sta tornando indietro rispetto all’accorciamento dei licei. Abbiamo martoriato istruzioni tecniche e professionali tra le migliori del mondo. È indispensabile riqualificarle, ma alla larga dall’idea sconsiderata di farne pagare il prezzo ai licei: un paese avanzato ha bisogno di valorizzare l’intera filiera dell’istruzione, in cui tutto è strategico, inclusa la formazione scientifica e classica.
Non dimentichiamo infine che istruzione e cultura non sono compartimenti separati: l’istruzione non addestra soltanto ma forma persone qualificate e autonome, dalla mente aperta e capaci di muoversi in ogni contesto. Perciò, nell’istruzione il farmaco più tossico è un approccio meramente tecnocratico.


(Il Messaggero e Il Mattino, 16 febbraio 2014)

mercoledì 5 febbraio 2014

AUTOCRITICA DELL'EUROPA ANCHE SULL'ISTRUZIONE E LA CULTURA

Con coraggio e chiarezza il Presidente Napolitano non ha usato mezzi toni davanti all’Europarlamento. Ha parlato di crisi strutturale senza precedenti della costruzione europea e ha denunciato sia le agitazioni distruttive e i meschini egoismi, che le «gravi carenze e storture» del cammino comunitario: i cittadini non devono essere costretti a scegliere una di queste alternative. Come scriveva Alessandro Campi su queste pagine, per frenare l’onda del populismo antieuropeo serve un europeismo finalmente autocritico. Ma l’autocritica sulle politiche economiche non basta. Per andare fino in fondo occorre dire che sono state fatte scelte sbagliate su un tema ancor più importante: la cultura e l’istruzione. Difatti, proprio qui si gioca il difficile rapporto tra la costruzione di un tessuto comunitario e culture e identità nazionali, che non possono essere liquidate rozzamente senza alimentare reazioni euroscettiche e ridare smalto alla formula gollista dell’Europa delle patrie.
La sfida di ridare anima alla costruzione europea non si gioca soltanto abbandonando l’austerità ad ogni costo, ma sul terreno della cultura e dell’istruzione. Per chiarire a quale immiserimento si sia giunti su questo terreno, partirò da esempi concreti. Scrive un genitore che, alla presentazione di un liceo di fama, il dirigente avrebbe detto: «Qui non s’insegnano conoscenze, ma si formano solo competenze». Udito ciò il genitore si chiedeva se fosse il caso di iscrivere il figlio a un istituto del genere. Se la ragione avesse corso la risposta sarebbe un tondo “no”. Bel liceo quello in cui si apprende a risolvere problemi di matematica senza studiare teoremi, problemi di fisica senza conoscerne le leggi, a scrivere in italiano senza aver mai letto i classici della letteratura, e così via. Eppure, basta constatare quanto l’addestramento alla risoluzione di quiz stia spodestando lo studio ordinario per capire che l’andazzo è proprio questo, sotto il vessillo delle “competenze”. Se non si vuol fare la figuraccia del rudere attaccato alla “vecchia” scuola delle conoscenze disciplinari, bisogna riempirsi la bocca della parola “competenze”, anche non sapendo di cosa si tratti. Alcuni anni fa, l’analista di questioni dell’istruzione Norberto Bottani, pur accreditando la tesi che la nozione di competenze è una caverna di Alì Babà concettuale in cui sono accatastati tutti i punti di vista della psicologia moderna, anche i più contrari tra loro, sosteneva che la sua voga “travolgente e stravolgente” era dovuta al fatto che la rivoluzione scientifica degli ultimi due secoli ha mandato in frantumi un’organizzazione della conoscenza bimillenaria basata sull’“epistemologia disciplinare aristotelica”. È sorprendente la leggerezza con cui si possono avanzare tesi tanto inconsistenti. Non c’è epoca della storia dell’umanità in cui l’istruzione non sia stata articolata per discipline. La modernità ha proposto una sua epistemologia disciplinare ancor più strutturata di quelle del passato e l’idea di abolire la ripartizione disciplinare è priva di senso. Più in generale, occorre sempre diffidare dei discorsi sulle “rivoluzioni epocali senza precedenti” che sconvolgerebbero l’intero corso della storia. È quel che accade con la faccenda dell’era digitale e dell’istruzione 2.0. Si fanno convegni in cui si proclama l’avvento di una nuova epoca nella storia della cultura e dell’istruzione determinata dalle nuove macchine, ma non si dice una parola sul “perché e come”: tablet, smartphone, Lim, per fare cosa? Eppure neanche l’avvento della tipografia sarebbe stato così importante se non vi fosse stato nulla da comunicare. Le macchine da sole non producono niente. La risposta strampalata è che non si deve più trasmettere alcuna “conoscenza”, bensì solo fornire strumenti per formare “competenze”, anzi per lasciare che i giovani se le formino da soli.
In Europa queste visioni sono state alimentate dal tentativo di aggirare la difficoltà di creare una cultura e un’istruzione europea unificata, dovuta all’esistenza di culture fortemente identitarie e strutturate: tutti i paesi europei hanno un imponente lascito di letterature, filosofie, culture scientifiche nazionali di straordinaria consistenza. Come venirne fuori? Nella dichiarazione di Sorbona del 1998, i ministri dell’istruzione dei principali paesi europei non trovarono di meglio che proporre l’armonizzazione dei sistemi d’istruzione nazionali sul modello delle università medioevali: «a quei tempi gli studenti e gli accademici potevano circolare liberamente e diffondere rapidamente il sapere attraverso l’Europa». Lodi assai inopportune di un tempo che fu, che non era barbarie come si pretese, ma in cui la cultura era privilegio di pochissimi, in cui la circolazione era spesso fuga dall’intolleranza, e continuò ad esserlo fino al Seicento. Era un’epoca in cui le università avevano una struttura disciplinare incompatibile con la condizione moderna: facoltà teologiche, medicina, scienze giuridiche e poco altro. Perché mai ignorare il modello ottocentesco, tanto più vicino a noi, basato sugli assi delle facoltà umanistiche e scientifiche, con un rilievo senza precedenti per le scienze e la tecnologia, e in cui la circolazione del sapere era infinitamente più intensa? Si è preferito ignorarlo perché quella circolazione non era astratto universalismo ma rapporto tra identità culturali nazionali forti, che è ormai moda superficiale identificare con i nazionalismi. Chi conosca un minimo la storia sa che gli scienziati dell’Ottocento erano assai capaci di superare le barriere linguistiche senza rinunciare alle loro identità culturali. Invece di approfondire questo modello, per perfezionarlo e superarne i difetti, si è seguita l’idea che una visione europea debba basarsi sulla demolizione delle identità nazionali. Invece di affrontare la via difficile ma ineludibile di far dialogare tra loro le culture nazionali si è pensato di accantonarle a profitto della formazione di un cittadino europeo fornito di capacità di base minime riconoscibili ovunque, tali da facilitare la sua “occupabilità” e la circolazione della forza-lavoro. La codificazione della figura di questo cittadino europeo – basata su un penoso minimalismo economicista – è data dalle famose otto “competenze chiave di Lisbona per l’apprendimento permanente”, varate dal Parlamento europeo nel 2006. È un’esperienza deprimente leggere le quattro vacue banalità con cui sono definite le competenze in campo matematico, scientifico e tecnologico; e constatare con quale rozzezza lo straordinario spessore delle culture umanistiche nazionali europee è stato ridotto a competenze linguistiche.

Sulla cultura e l’istruzione si misura la capacità di correggere le gravi storture della costruzione europea. Se, al contrario, si continua come prima, delle due l’una: o si riuscirà davvero a spianare a zero culture secolari per realizzare un deserto di cui già si vedono i segni nell’imbarbarimento dei linguaggi e nell’ignoranza della propria storia; oppure queste culture saranno difese a oltranza da movimenti radicali che riusciranno a veicolare il loro estremismo ricorrendo a buone ragioni abbandonate dagli altri. La storia insegna a cosa portano le degenerazioni patologiche dell’universale e del nazionale. Ma se, in nome delle “competenze”, avremo distrutto anche la conoscenza della storia nessuna luce aiuterà a imboccare la via della ragione.

(Il Messaggero, 5 febbraio 2014)