«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
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giovedì 31 luglio 2014
mercoledì 30 luglio 2014
La scuola incapace di premiare il merito
Grande è la confusione sotto i cieli dell’istruzione italiana, il che,
contrariamente al pensiero del presidente cinese Mao Tse Tung, non è affatto
una buona cosa. Ci riferiamo soprattutto alla questione della valutazione e del
merito dove la schizofrenia è tale da raggiungere paradossalmente esiti coerenti.
Le cronache annunciano che le promozioni all’esame di maturità sfiorano la
totalità, cui però non corrisponde una crescita di qualità: al contrario,
prevale la tendenza verso la mediocrità generalizzata. Si leva pronto il coro
di chi coglie l’occasione per proporre l’abolizione dell’esame di stato, e anzi
di ogni esame, visto che agli esami di terza media le percentuali sono analoghe.
Nulla di strano poiché da decenni c’è chi persegue una scuola senza voti ed
esami, appiattita su quella che fu sfortunatamente definita la “media minima”.
Un persona di buon senso potrebbe chiedersi quale coerenza vi sia nel parlare
da mane a sera di valorizzazione del merito e poi cancellare ogni selezione.
Una coerenza c’è, se s’identifica il merito con la promozione del “successo
formativo garantito”. È la coerenza perversa dell’appiattimento che si avvale
di tanti strumenti, come l’identificare ogni cattivo rendimento scolastico come
“difficoltà di apprendimento”. La persona di buon senso potrebbe chiedersi che
cosa resti in mano all’insegnante se lo si priva del potere di premiare i
migliori e penalizzare chi non s’impegna. Ma anche qui dipende da come si pensa
la funzione dell’insegnante: un “maestro” nel senso pieno del termine ha
bisogno di quel potere, un “facilitatore”, un “animatore”, deve rinunciarvi. A
lui spetta il mero compito di promuovere il successo formativo garantito, di
applicare fedelmente le innumerevoli prescrizioni ministeriali, di riempire
centinaia di moduli, di somministrare e correggere i test, di assolvere la
funzione di badante del processo di autoapprendimento. Sbaglierebbe quindi la
persona di buon senso a stupirsi che, mentre si cancella la promozione del
merito per gli studenti, il tema centrale sia la valutazione dell’insegnante: difatti,
l’intenzione è di trasformarlo in un badante. Così non è da stupirsi che
l’unica forma seria di valutazione, quella basata su procedimenti ispettivi
interni alla categoria, sia trascurata, non solo perché costosa, ma perché
corrisponde all’unico modo di concepire la valutazione come un processo di
crescita culturale. Prevalgono idee di valutazione basate su tecniche
numerico-statistiche e la tentazione di ricorrere agli esiti dei test Invalsi.
Anche qui il buon senso suggerisce che valutare un insegnante dagli esiti della
sua didattica è assurdo: si rischia di punire chi opera in un contesto
difficile e premiare chi opera in un contesto facile. Ma questo non interessa
chi non bada alla sostanza ma solo alla forma; tantomeno costui si preoccupa
del fatto che i procedimenti statistici che sono alla base dei test Invalsi siano
autoreferenziali, in quanto standardizzano a tal punto le visioni delle materie
che le abilità valutate dai test Invalsi sono quelle di risolvere i test
Invalsi stessi, e nient’altro.
Il peggio è che l’ideologia che sta dietro queste tendenze è manifesta
ma avanza in modo caotico, a pezzi e a bocconi, infilandosi tra una sperimentazione
e l’altra, col risultato che la scuola italiana è un vestito di Arlecchino. Come
se non bastasse, gli “sperimentatori” si accaniscono sempre più, ora mirando
alla soppressione degli esami, ora riesumando progetti di ristrutturazione dei
cicli pensati quasi vent’anni fa, ora progettando la riduzione dei licei a
quattro anni, mentre nell’ultimo anno un corso dovrebbe essere tenuto in altra
lingua, non importa se con una drammatica caduta di livello per l’assenza di
competenze linguistiche sufficienti; o addirittura pensando di trasformare le
scuole in centri sociali.
A ben vedere, la situazione all’università non è diversa. Anche qui si è
radicata l’idea del “successo formativo garantito”, per cui un docente che
boccia troppo finisce sui giornali. Del resto, cosa direbbe la persona di buon
senso leggendo sull’avviso di un corso universitario che «la percentuale
prevista di studio dello studente sul totale dell’impegno richiesto è del 65%»?
Direbbe che è ridicolo pensare che quella percentuale sia indipendente dalle capacità
dello studente. Eppure, i docenti universitari sono talmente assuefatti a un siffatto
demenziale linguaggio burocratico da non farci più caso. Si era promesso che
l’ultima riforma si sarebbe ispirata al principio della valutazione ex post: fate le scelte che ritenete più
opportune e sarete valutati per gli esiti. È accaduto esattamente il contrario,
per cui l’università è ridotta a un sistema che agisce in esecuzione delle
minuziose direttive dell’onnipotente agenzia di valutazione (Anvur), ispirate
da escogitazioni statistiche impermeabili a qualsiasi critica di merito. La
situazione ha raggiunto livelli tali da suscitare proteste e l’ammonimento di
chi ha avvertito che, di questo passo, sarà la morte della valutazione. Ma non
è così: sarà piuttosto la morte dell’università come sistema di didattica e
ricerca basato sul fondamentale principio dell’autonomia e in cui resti tempo
per pensare alla conoscenza, alla cultura, e non solo alle procedure. L’ultimo
disastro attiene al tema della trasmissione generazionale. Tutti sapevano che
le gigantesche immissioni ope legis
di qualche decennio fa avrebbero prodotto un’imponente ondata di pensionamenti
e un pericoloso salto generazionale. La trasmissione delle conoscenze e delle
esperienze è un fattore fondamentale in un sistema dell’istruzione, secondo
quel delicato equilibrio descritto da Hannah Arendt quando insisteva sulla
necessità di preservare una base di “conservatorismo” per fornire ai giovani
gli strumenti per il rinnovamento. Ma ora si affaccia un nuovo provvedimento
che “rottama” altri docenti approfondendo la rottura generazionale e culturale.
Chi si riempie la bocca dei modelli esteri non dice che nelle università
statunitensi si può restare fino a novant’anni o essere licenziati a cinquanta.
Non si fanno le guerre generazionali nell’ambito della cultura e
dell’istruzione.
Vi sarebbe poi da dire qualcosa circa l’ostinazione a non voler
ripensare l’accesso alle facoltà di medicina guardando ai modelli esteri, la
ripetitiva sceneggiata dei test in cui chi non copia o “collabora” è un fesso. Così,
il vero dramma nazionale è sempre l’incapacità di concepire l’autentica
promozione del merito. Sarebbe interessante approfondire le radici storiche di
tale incapacità, legate a una tradizione dirigista inesauribile che si
ripropone ora sotto vesti progressiste ora sotto vesti tecnocratiche. Ma forse
anche questo è un tema troppo culturale in tempi in cui è lecito parlare
soltanto per cifre e statistiche.
(Il Messaggero e Il Mattino,
30 luglio 2014)
sabato 26 luglio 2014
La vana demagogia dei corsi "globish"
Lungi
da noi avercela con Gianna Fregonara ma l’impressione che si lanci a capofitto
sulle questioni dell’istruzione con scarsa riflessione e molti pregiudizi –
tutti coerenti con la linea del Corriere della Sera – è troppo forte. Fregonara
si è già segnalata ripetutamente per una difesa d’ufficio dei test e dei quiz a
costo di fare una brutta figura, senza argomenti e semplicemente accusando chi
non vuole questa metodologia di selezione di essere “contro il merito e la
valutazione”.
La
vicenda dei test di selezione per la facoltà di medicina è finita in modo
talmente squallido che ci sarebbe da nascondersi per aver difeso questo sistema
indecente. Il che non significa che non si possa, e anzi non si debba,
selezionare: ma esistono altri sistemi, come quello francese, del tutto
rispettabili, che producono una selezione fino all’80% degli iscritti a
medicina, che possono essere studiati e imitati.
Niente
da fare: o si quizza o si è nemici della valutazione. Un monumento alla discussione
razionale.
Oggi,
sul Corriere della Sera, Fregonara ci riprova con la faccenda dell’insegnamento
in lingua inglese. La vicenda è nota. Alcune istituzioni, come il Politecnico
di Milano, non hanno trovato di meglio che cercare una via d’uscita alla
marginalità internazionale crescente delle università italiane rendendosi
accattivanti con la proposta di insegnare i corsi in inglese.
È
il solito corto circuito demagogico per venir fuori da una crisi che ha cause
molto gravi e profonde. Tanto per dirne una, il sistema universitario italiano
non offre infrastrutture di alloggio agli studenti stranieri, non ha
praticamente campus, è carente persino sul piano delle mense e delle aule.
Altro che inglese… Basterebbe un minimo di analisi per rendersi conto che la
maggioranza degli studenti stranieri che viene in Italia non lo fa di certo per
sentirsi parlare in inglese ma, al contrario, per apprendere l’italiano. Non
sarebbe il caso di raccogliere le penose-comiche testimonianze di molti docenti
costretti a fare lezioni in inglese mentre la stragrande maggioranza del
pubblico è costituito da studenti di aree non anglofone, per cui tutto si
risolve in una sceneggiata degno di una gag Totò-Peppino?
E
poi la stessa Fregonara ammette che l’inglese in gioco è il solito globish, un
inglesaccio di terza categoria, spesso pronunciato in modo penoso, consistente
di qualche centinaio di parole e intessuto di strutture verbali primitive?
Bisognerebbe assistere al patetico sforzo di docenti, costretti
dall’istituzione a fare i corsi in globish, che si affannano a tirar via i 45
minuti di una lezione impoverita per rendersi conto di quanto questa trovata
dei corsi in inglese sia senza capo né coda.
L’Europa
è il continente di lingue strutturate da secoli e che hanno dietro letterature
imponenti e di enorme ricchezza linguistica. Che senso ha voler appiattire
tutto questo dentro qualche centinaio di parole striminzite? Lo sappiamo, è un
problema, è una difficoltà. Ma l’unica via sensata che non si riduca al corto
circuito di un impoverimento culturale pezzente, sta nell’accettare l’idea che
il giovane studente europeo deve avere una buona conoscenza di due lingue base
fondamentali, oltre la propria, il che costituirebbe una base sufficiente per
stabilire una possibilità di scambio culturale e scientifico autentico. E
quanto agli studenti extra-europei, l’interesse primario per venire a
frequentare un’università del continente non può che essere di approfittare
dell’immenso deposito culturale accumulato nei secoli. Altrimenti, tanto vale
che si rechi direttamente dove l’inglese è lingua madre.
lunedì 21 luglio 2014
RISTRUTTURIAMO LE SCUOLE MA BASTA RIFORME PAZZE
Il
presidente del Consiglio dovrebbe guardarsi non solo dalle ostruzioni della
burocrazia ma anche dalla irrefrenabile pulsione ideologica – che nel nostro
paese ha forti radici, particolarmente a sinistra – a voler lasciare un segno
di sé rifacendo il mondo. È facile capire come tale pulsione trovi particolare alimento
nei temi della cultura e dell’istruzione.
Uno
dei primi annunci di Matteo Renzi è stato un imponente piano di edilizia scolastica
che, a quanto sembra, dovrebbe finalmente partire, mettendo in gioco più di un
miliardo di risorse e puntando a risolvere vergognose situazioni di sfacelo ben
note a insegnanti, dirigenti scolastici e famiglie. Un omaggio alla concretezza
e al buon senso, tagliando corto alla tragicommedia dei propositi di riforme
universali di un sistema in puro e semplice disfacimento fisico. Ma la
diffidenza è d’obbligo pensando alle ristrutturazioni edilizie del passato:
quattrini mai spesi, lavori iniziati e interrotti per richieste di aumenti e l’obsolescenza
delle opere iniziate, ecc. La scommessa è tutta qui: se l’imponente somma non sarà
spesa producendo risultati tangibili entro tempi strettissimi, non solo
l’effetto sulla ripresa economica sarà annullato, ma sarà l’ennesima amara
constatazione che in questo paese si preferisce chiacchierare e intessere
progetti piuttosto che “fare”. È una sfida da far tremare i polsi e che, per
essere vinta richiede un impiego di energie da non lasciare spazio ad altro.
Ma
è doloroso costatare che c’è chi non si accontenta di questa “bassa cucina” e
non rinuncia ai sogni lungamente covati di palingenesi globale dell’istruzione
italiana. Così, è emerso un progetto strampalato, che prevede la trasformazione
delle scuole in “centri civici” aperti fino a sera, la cui funzione non sarebbe
più ristretta all’istruzione (tagliare sull’insegnamento tradizionale è lo
sport prediletto dei “riformatori”) ma estesa ad attività “culturali” e
“associative”, e all’esercizio di una funzione di assistenza globale sul
territorio. Insomma, una sorta di oratori laici, dove parcheggiare i figli
tutto il giorno, tra attività teatrali e sportive, e dove assistere il nonno
nella dichiarazione dei redditi. In tal modo, si realizzerebbe l’agognata trasformazione
dell’insegnante in “facilitatore”, previa la definizione dei suoi orari,
generalizzando l’idea già in atto in ambito universitario secondo cui si può
quantificare l’impiego di tempo di un insegnante per preparare le lezioni,
correggere i compiti o aggiornarsi, trasformando in stolida burocrazia quel che
dovrebbe essere materia di un’intelligente valutazione. Non sembra neanche il
caso di contestare nel merito un progetto tanto insensato. Per restare alla
concretezza, ci si chiede con quali risorse le scuole – dove già si fanno
consigli di classe a termosifoni spenti – potrebbero pagare il personale
per restare aperte fino a sera, o semplicemente la bolletta per
l’illuminazione. Ma, è noto, l’ideologia vola ben alto sopra i gabinetti rotti
e la carta igienica mancante. Le proteste hanno fatto rientrare il progetto in
una fase di ripensamento, ma in una forma ambigua, dello stile «aspettiamo che
si posi il polverone e poi torneremo alla carica».
Ora
si apprende che un altro poderoso progetto epocale sta prendendo forma. Riguarderebbe
nientemeno che la riforma globale dei cicli scolastici. È evidente che si sta
consolidando l’idea di ridurre i licei a 4 anni, con la tecnica efferata di
evitare le discussioni di merito e creando il fatto compiuto con le
“sperimentazioni”. Ma qui si va oltre, riesumando un progetto di ben 15 anni
fa, la riforma dei cicli dell’ex-ministro Berlinguer, che prevedeva un ciclo
primario settennale e un altro superiore quinquennale. Sembra che non sia stata
assimilata la lezione di quali disastri abbiano compiuto anni di riforme
contraddittorie e sgangherate e di esperimenti avventati “in corpore vili” e
che non ci si acconci ad affrontare una fase di calma riflessione, limitandosi
a rimettere in funzione il funzionamento ordinato del sistema. Invece, questi
progetti sembrano alimentati da un vero e proprio odio ideologico della
cultura, dell’insegnamento tradizionale, dei percorsi di apprendimento che non
siano immediatamente finalizzati al lavoro e che non siano brevi, che culmina
nel desiderio compulsivo di distruggere i licei. È davvero triste sentire
responsabili politici e ministeriali che invitano a studiare il minor tempo
possibile e andare a lavorare quanto prima, stimolando il controcanto di
imprese che stampano manifesti in cui da un lato si vede un giovane felice che
è caporeparto dopo aver studiato solo tre anni dopo le medie, e dall’altro un
precario “sfigato” che vive di stenti dopo aver studiato altri nove anni dopo
le medie. Perché alimentare una disgraziata guerra di miserie? L’abbiamo già
ricordato invano su queste pagine: l’Italia aveva uno dei migliori sistemi
d’istruzione tecnica e professionale del mondo che ha fatto a pezzi. È un
obbligo assoluto riqualificarlo ed è ovvio che non è necessario che tutti
facciano il liceo e l’università. Ma non si vede perché l’avviamento precoce al
lavoro di una fascia di giovani sia in contraddizione col fatto che un’altra
fascia studi più a lungo, anche molto a lungo. Come pensare che un paese
avanzato possa fare a meno di personale di altissima qualificazione? Ci si
rende conto che la tecnologia contemporanea richiede più tempo di studio, più
approfondimento? E perché mai non dovrebbe sussistere uno spazio per l’alta
formazione culturale di tipo umanistico, senza la quale anche la conoscenza
scientifica perde una delle sue principali fonti di alimento?
Sono
questioni su cui fermarsi e su cui non fare passi avventati dagli effetti
irrimediabili, solo per vedere realizzati vecchi progetti riverniciati da
demagogie malamente giustificate dalle esigenze del presente. Per garantirsi
quel successo in cui tanta parte dell’elettorato ha investito, il presidente
Renzi non dovrebbe solo combattere contro la burocrazia che rischia di
annullare il suo programma di edilizia scolastica, ma guardarsi dalle pulsioni
ideologiche che cercano di realizzarsi nelle finestre della sua attività di
governo.
Il Mattino, 21 luglio 2014
mercoledì 16 luglio 2014
Quel “finto tonto” che si nascondeva nei Salmi
Non si potrebbe elogiare abbastanza il contributo che ha
dato la casa editrice Adelphi (con il ruolo fondamentale di Elisabetta Zevi) alla
diffusione in Italia della cultura ebraica. Ciò è avvenuto e avviene sia sul
terreno della saggistica (basti ricordare i tanti testi kabbalistici e sulla
Kabbalah, tra cui saggi fondamentali di Moshe Idel e Gershom Sholem) che sul terreno
della narrativa, circa la quale sarebbe troppo lungo fare un elenco di nomi.
L’ultima preziosa riscoperta è quella delle opere di Israel Joshua Singer,
fratello maggiore di Isaac Bashevis Singer, di questi meno noto ma di qualità
narrative per nulla inferiori: casomai è vero il contrario. Di I. J. Singer la
Adelphi ha pubblicato La famiglia
Karnowski, di cui abbiamo parlato su queste pagine circa un anno fa, e ora
un romanzo straordinario, Yoshe Kalb,
che fornisce la conferma che il tema che era al centro dei pensieri di I. J.
Singer, in modo quasi ossessivo, era quello dell’identità ebraica e dei suoi
molteplici volti. Ne La famiglia
Karnowski egli aveva esplorato i diversi strati possibili di questa
identità quando essa veniva a trovarsi a confronto con il mondo “esterno”:
dalla chiusura in sé stessa, ignorando gli eventi esterni in una sorta di
arresto del tempo reale; alla soluzione “mista”, e cioè conservare le
tradizioni in casa e, all’esterno, comportarsi come un qualsiasi cittadino
della nazione di appartenenza; fino a tutte le gradazioni dell’assimilazione
che culminano nel rigetto totale dell’ebraicità, nell’“odio di sé”.
Ispirandosi a una storia vera, in Yoshe Kalb (Yoshe il tonto), egli esplora il tema dell’identità ponendosi
del tutto all’interno della dimensione di una comunità ebraica che praticamente
non ha contatti con l’esterno, o comunque ininfluenti sul corso della sua
esistenza: una comunità galiziana austriaca centrata attorno ad alcune grandi
“corti” hassidiche, in particolare attorno a quella di uno dei protagonisti del
romanzo, Rabbi Melech di Nyesheve. Nella prefazione al romanzo il fratello
Isaac ricorda come Israel avesse dichiarato pubblicamente, verso la fine degli
anni venti, di non voler scrivere più in yiddish, che considerava “umiliante”,
e di aver tentato molte altre lingue, come l’ebraico, il tedesco, il francese,
per poi rinunciare non conoscendole abbastanza. Isaac ricorda che il rigetto
dello yiddish fu anche motivato dal fanatismo comunista che allora pervadeva
gli ambienti yiddish e che era costato a Israel violenti attacchi per essersi
permesso di criticare il regime sovietico. Sta di fatto che Israel Singer alla
fine decise di tornare allo yiddish e di scrivere questo romanzo che suscitò un
grande entusiasmo quando fu pubblicato a puntate sul newyorkese “Jewish Daily
Forward” diretto da Abraham Cahan. E sta di fatto che, se lo scrittore aveva
ritrovato con gioia la lingua madre come strumento espressivo privilegiato,
l’immagine che egli offriva del mondo yiddish nel romanzo era – è – desolante.
Se è concessa una battuta un po’ triviale, secondo i criteri del recente
discusso libro di Giulio Meotti, Israel Singer meriterebbe un posto d’onore
nella rassegna di ebrei odiatori di sé… Battute a parte, non c’è nulla nel
mondo della Galizia austriaca descritto da Singer che possa essere inventariato
come positivo: un rabbino Melech sovrano prepotente e intollerabilmente volgare
di una “corte” popolata di imbroglioni, approfittatori, straccioni e ladri, che
nulla caratterizza meglio dei rifiuti e della puzza che la pervadono in ogni
angolo; non un rito che non sia contrassegnato da grettezza e volgarità, non un
grammo di spiritualità. Né va meglio negli altri villaggi in cui il
protagonista si troverà ad errare, fino alla sua sparizione definitiva verso
una meta indefinita. È importante rilevare questo aspetto perché è una chiave
centrale del romanzo: per il protagonista, a fronte di un mondo bruto e
violento, l’unica identità ebraica possibile, e cioè autenticamente dotata di
spiritualità, è perdere l’identità personale, o accettare tutte quelle che gli vengono
attribuite, e avere come unico fine il rifugiarsi in ogni angolo possibile per
recitare i Salmi. Il dramma nasce quando il giovane Nahum viene estirpato dalla
sua elegante famiglia che vive al di là della frontiera in Russia, da un padre
rabbino intellettuale e da una madre sensibile e raffinata, per piombare in un
matrimonio combinato nell’ambiente della “corte” di Nyeveve. Qui inizia
l’estraniazione di Nahum fino a che avviene l’incontro magico con la ennesima
giovanissima moglie del rabbino Melech che, disgustata del suo vecchio e
insopportabile marito, provoca Nahum fino a far scoppiare una scintilla di
autentico amore. Ma la storia naufraga subito nella tragica morte di Malka. Inizia
così la fuga di Nahum che in un altro villaggio diviene Yoshe il tonto, sposato
a forza a Zivyah la figlia idiota dello scaccino, per un assurdo tentativo superstizioso
con cui la comunità tenta di placare un’epidemia. Ma Yoshe non ha altra cura
che leggere i Salmi ed è estraneo a qualsiasi evento, come un’ebete. Così, a un
certo punto fugge di nuovo e torna a Nyeveve dove viene riconosciuto come Nahum
ma presto scoperto come Yoshe il tonto. Di fronte allo scandalo della bigamia,
ammette di avere tutte e due le identità, o semplicemente di non sapere chi sia,
salvo rifugiarsi appena possibile nella lettura dei Salmi. Viene sottoposto a
violenze verbali e fisiche di ogni sorta, persino a un tentativo di linciaggio
e, alla fine, a un processo condotto da settanta rabbini che non approda a
nulla. Tutto è contrassegnato dall’incapacità assoluta di tentare di capirlo
come persona. Al “tonto” non resta che riprendere le sue peregrinazioni vestito
di cenci, mentre nei villaggi gli vengono chiuse le porte delle sinagoghe al
grido di «Demone! Anima morta!». Ma l’unica anima viva, l’unico che ha ricostruito
in sé l’identità ebraica nella lettura dei Salmi, è lui, il mendicante
sofferente e senza nome.
(Shalom, luglio-agosto 2014)
mercoledì 2 luglio 2014
RIDATECI IL SILENZIO. Contro la distruzione della quiete pubblica, contro la musica imposta
RIDATECI IL SILENZIO
Contro la distruzione della
quiete pubblica, contro la musica imposta
Appello al Governo, al
Parlamento, alle amministrazioni regionali e comunali,
alle polizie municipali, ai
prefetti, alle forze dell’ordine
Esiste ancora la difesa
della quiete pubblica? A noi pare di no. Da anni si sono infatti affermate abitudini e convinzioni che negano
in radice il diritto a riposare tranquillamente all’ora che si preferisce, a
concentrarsi nella lettura, ad ascoltare musica di propria scelta, a godere la
tranquillità e la bellezza di un parco o di una spiaggia.
Già può risultare
fastidiosa la musica imposta in quasi ogni locale o esercizio dove si metta
piede. Ma è a maggior ragione inammissibile che soprattutto nella buona
stagione imperversi ovunque la musica ad alto o altissimo volume, che da
chioschi, stabilimenti balneari, piazze si propaga anche a grandi distanze.
Inoltre molti quartieri
cittadini sono tormentati dagli schiamazzi della cosiddetta “movida”, mentre le
notti bianche o blu si trasformano troppo spesso in un vero e proprio incubo
per i loro abitanti.
In questo quadro desolante
manca quasi del tutto un’incisiva azione di prevenzione e di contrasto basata
su norme chiare, severe ed efficaci; anzi, il più delle volte dobbiamo
constatare l’insensibilità e la tolleranza di chi dovrebbe proteggere la tranquillità
e il riposo dei cittadini, le cui richieste di intervento rimangono quasi
sempre inascoltate. Alle proteste si risponde spesso che si tratta di
conciliare interessi diversi. Ma questo non può certo voler dire che in
determinati orari si possa sospendere un sacrosanto diritto dei cittadini.
È arrivato il momento
di opporsi con determinazione a tutto
questo. Ci rivolgiamo quindi al Governo, al Parlamento, alle amministrazioni
regionali e comunali, alle polizie municipali, ai prefetti, alle forze
dell’ordine chiedendo loro di provvedere con la massima urgenza, ciascuno nel
suo àmbito, a far sì che venga ovunque garantita con fermezza e tempestività la
quiete pubblica, anche attraverso norme più restrittive di quelle attuali, mettendo
così fine a una situazione divenuta ormai non solo intollerabile per i
cittadini, ma anche gravemente lesiva ai loro occhi della credibilità delle
Istituzioni.
Invitiamo tutti coloro che
condividono questo appello a farlo conoscere e a rivolgersi insieme a noi alle
autorità e istituzioni competenti, affinché si decidano a tutelare la quiete
pubblica sia di giorno che di notte. Il diritto al silenzio e al riposo non può
diventare sempre più un privilegio riservato
soltanto a chi, per caso o per possibilità economiche, si trova a vivere in luoghi immuni da questa piaga .
Siamo sicuri che questo
appello esprima uno stato d’animo comune a moltissimi italiani. Speriamo
davvero che non rimanga inascoltato.
Salvatore Accardo, Niccolò Ammaniti, Alessandro Barbero, Sergio
Belardinelli, Remo Bodei, Dino Cofrancesco, Paolo
Crepet, Elio Franzini, Carlo Fusaro, Giorgio Israel, Paolo
Ermini, Roberto Esposito, Giulio Ferroni, Ernesto Galli
Della Loggia, Silvio Garattini, Fulco Lanchester, Giacomo Marramao,
Paola Mastrocola, Alberto Oliverio, Anna Oliverio Ferraris,
Lucio Russo, Aldo Schiavone, Luca Serianni, Sebastiano Vassalli,
Michele Zappella.