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venerdì 28 novembre 2014

TEPPISMO A SCUOLA

Napoli è una città difficile e tutto il meridione ha non pochi problemi: sarebbe ipocrita ignorarlo. Ma di qui a dire – come ha fatto il ministro Giannini di fronte agli episodi al Galiani di Napoli – che non si vedono indizi nazionali che facciano allarmare, ne corre. Chiunque sia un minimo a contatto con il mondo della scuola sa che il degrado fisico e il teppismo da cui sono investiti gli istituti è un fenomeno nazionale che ha dei picchi in certi luoghi, ma non è appannaggio di questi soltanto. Chiunque sia informato sa che i fenomeni di teppismo “interno” – il minimo è lo scasso dei sanitari – è all’ordine del giorno, come lo è il teppismo “esterno” di bande che, facendosi beffe di sistemi di sorveglianza e sicurezza inesistenti o fragili, entra per rubare computer e attrezzature informatiche, svaligiare l’incasso dei distributori di bevande, lasciando la “firma” di mura imbrattate ed escrementi sui pavimenti. È di questi giorni la situazione esplosiva di alcune scuole romane (non napoletane) sottoposte all’intrusione di personaggi provenienti da un campo Rom, con lanci di sassi e bottigliate, scorribande con i motorini, furti di cellulari agli studenti minacciati con i coltelli, roghi tossici che infestano le aule, fino a ipotizzare un legame con la criminalità organizzata. Altro che indizi: qui siamo di fronte a una realtà che va avanti da anni e di fronte alla quale ci si volta dall’altra parte, fino a che scoppia un caso particolarmente odioso e allora si preferisce presentarlo come una patologia isolata.
Del resto, come potrebbe andare in modo diverso in un’istituzione sempre più trascurata, come tante altre istituzioni o servizi pubblici? I passeggeri non ancora assuefatti hanno assistito sgomenti all’arrivo dei primi treni inaugurali della nuova linea C della metropolitana romana, già imbrattati dai writer. La scuola è da tempo a uno dei livelli più bassi di questo degrado. Nessuno si cura di difenderla dalle aggressioni esterne con efficaci sistemi di sicurezza, di difenderla dal degrado derivante da inaccettabili comportamenti di alcuni gruppi di studenti, imponendo un rigore disciplinare che, almeno in certi casi, è assolutamente necessario. Si straparla della scuola come centro di formazione sociale, aperto a tutti, e mirante a creare una coscienza da cittadino. Se ne straparla a spese del comparto disciplinare, proponendo continuamente nuove materie di educazione alla cittadinanza, e persino educazione all’affettività. Non si capisce bene che cosa si faccia in questi nuovi comparti curriculari visti gli effetti: basta assistere allo sciamare dalle scuole di studenti che lasciano le cartacce della pizza sui marciapiedi o si affollano sui mezzi pubblici senza pagare il biglietto. Forse andava meglio quando si facevano più materie disciplinari e si instillava il senso del dovere attraverso il rigore dello studio, invece di un profluvio di prediche fumose che destano negli studenti una comprensibile reazione di scetticismo e derisione che serve solo ad alimentare il cinismo. Perciò concordiamo con il ministro Giannini quando dice che occorre smettere di alimentare il rito delle occupazioni, per cui – qualsiasi cosa accada – il mese di novembre è dedicato a questa ripetitiva sceneggiata. Ne ha fatto le spese il ministro, che si è sentita punta sul vivo per l’accusa di voler “privatizzare”. Avrebbe dovuto ricordare che una simile accusa è stata rivolta a tutti i ministri prima di lei, sempre a novembre, e ascoltare meglio per sapere che se ne sentono di ben più ridicole, come la presentazione dell’alternanza scuola-lavoro come una “deportazione” in fabbrica. Noi, che siamo molto critici del piano della “buona” scuola, ci sentiamo liberi di dire che certe questioni delicate e complesse non debbono essere lasciate agli slogan assembleari. Ma meno liberi di dirlo sono i politici che da decenni hanno lisciato il pelo della “contestazione” in nome di un giovanilismo d’accatto che ora si ripropone nella formula della “rottamazione”.
 Perché un’istituzione venga rispettata occorre renderla rispettabile e far capire a chiare note che nessuno ha il diritto di degradarla e farne strame, magari proponendo di trasformare istituti allo stremo in centri sociali multifunzionali. Il primo dovere è renderla rispettabile sul piano fisico. Quale rispetto si può mai avere di un edificio che si presenta con le mura esterne sbrecciate e cadenti e con una bandiera italiana a brandelli? Eppure, se vi rivolgete a un dirigente scolastico, offrendogli di tasca vostra una bandiera nuova di zecca, è probabile che rifiuti perché il pennone è un tale rottame che l’operazione di sostituzione rischia di accelerare una caduta con conseguenze penali. Per questo, in tanti abbiamo salutato con favore il piano di edilizia scolastica annunciato dal presidente del Consiglio. Ma a distanza di mesi non se ne sa più nulla e tutto sembra arenato in una fase pre-preliminare.
Per rendere rispettabile la scuola occorre ridare dignità alla funzione docente, non a chiacchiere, chiedendo quel rigore nei comportamenti e nella qualità dell’insegnamento e offrendo un accettabile trattamento economico, che giustificano una rigorosa valutazione sia degli istituti che delle persone. Questo non può essere fatto con una valutazione da burletta in cui non viene premiato chi insegna meglio la matematica o la storia, bensì chi s’inventa attività collaterali, magari le più disparate e prive di senso.
Ora siamo di fronte alla necessità dell’immissione in ruolo dei precari, non solo perché lo dice il piano della “buona” scuola, ma perché lo impone l’Europa. È un passaggio assai delicato perché se vi è chi, a buon diritto, insegna da anni, e anche bene, e mal tollera di dover subire un controllo dopo che per tanto tempo si è accettato senza fiatare il suo lavoro, vi è chi ha acquisito diritti avendo insegnato poco e tanto tempo fa. Il problema esiste, i guai passati si scontano, e il ministro non può scrollare le spalle nel timore dei soliti problemi di un processo di selezione. Dice di non conoscere l’emendamento che propone una verifica delle competenze dei precari in inglese e informatica. Avrebbe dovuto dire che quell’emendamento è una follia. Dovremmo piuttosto essere certi che il nuovo assunto conosca l’italiano (la lingua che si usa tutti i giorni in classe), che conosca i rudimenti della storia (almeno non creda che Aristotele sia vissuto nel quindicesimo secolo ed Eulero sia stato un matematico greco), che abbia qualche conoscenza di base di scienze. Ma pensare che l’alternativa a non verificare niente sia constatare se uno sa dire “good evening” e pasticciare sulla tastiera di un computer (magari per fare il registro elettronico) è un’assurdità che non merita commenti.
Purtroppo questi sono i parti del rigore all’italiana. Tra pochi giorni si svolgerà un convegno per celebrare (l’unico verbo appropriato, dato il tenore della manifestazione) il decennale dell’Istituto Nazionale di Valutazione dell’Istruzione (Invalsi) e lanciare il nuovo Sistema Nazionale di Valutazione. Frattanto si apprende che l’Invalsi ha pubblicato il 10 novembre un bando per assumere un certo numero di esperti di “alta qualificazione” che per un triennio costruiranno i test dell’ente. La scadenza improrogabile per la presentazione delle domande era il 20 novembre, dieci giorni… Ci si chiede se procedendo in questo modo si può pretendere rispetto per una valutazione che si autoproclama rigorosa e “oggettiva”, conquistare il rispetto della classe docente e di chi frequenta la scuola.
Sembra che abbiamo trattato di temi diversi. E invece no. Siamo di fronte a comportamenti che vanno in direzione opposta a ciò che potrebbe e dovrebbe essere fatto per riqualificare la condizione materiale dell’istituzione, la qualità della classe insegnante e dell’insegnamento. Occorrerebbe tenere sempre a mente l’aforisma del celebre premio Nobel Albert Szent-Györgyi: «Il futuro sarà come sono le scuole oggi». Al momento, a rileggerlo c’è da sentirsi male.
(Il Mattino, 28 novembre 2014)

mercoledì 26 novembre 2014

L’INVALSI: UN PARTICOLARE TIPO DI SCATOLA NERA

Che cosa se non un ente di valutazione dovrebbe essere una casa di vetro? Ebbene, nonostante qualche flebile e ingenua speranza, l’Invalsi non soltanto non è una scatola di vetro, ma è una scatola nera di un tipo molto particolare. Già, perché la classica scatola nera ha la caratteristica seguente: non sappiamo cosa accada al suo interno, ma possiamo tentare di capirlo immettendo dei dati ed esaminando i dati in uscita e magari possiamo tentare anche di modificarne il comportamento. Invece, nella scatola nera dell’Invalsi non è possibile immettere nulla, è ermeticamente chiusa e quindi si può soltanto aspettare che cosa essa vorrà graziosamente propinare in uscita. L’unica cosa che sappiamo è che i cuochi sono sempre gli stessi, inamovibili, inossidabili, trasversali rispetto a qualsiasi maggioranza politica e di governo.
L’Invalsi ha bandito n. 10 posti per consulenti per la preparazione dei test (un incarico di durata triennale). Ebbene la data di protocollo del bando è del 10 novembre 2014, la data perentoria di scadenza per la presentazione delle domande era il 20 novembre 2014. Proprio così… dieci giorni… In un paese come l’Italia… Anzi, qualcuno direbbe questa è proprio la prassi che sta riducendo questo paese al regno dell’arbitrio coperto da una valanga di “Visto il DM”. Chiunque non sia inguaribilmente ingenuo sa che può aver fatto in tempo a presentare la domanda per un contratto solo chi aveva già tale contratto in passato, e quindi stava già nella scatola nera o era amico di uno dei suoi cuochi.
Questo ente ineffabile che vorrebbe valutare la scuola italiana in modo oggettivo (con rispetto parlando per la povera oggettività), mentre a sé riserva l’arbitrio più totale, dà ulteriore prova di questo atteggiamento brutale nel programma di un convegno autocelebrativo del decennale della sua nascita. Tutti gli invitati sono rigorosamente dei cantori dell’attuale sistema, non è stata ammessa una sola voce dissonante che potesse dare fastidio e mandare di traverso il coffee break o il pranzo finale.
Tanto per fare due esempi. È circolata una critica circostanziata del modello su cui si basa tutto l’impianto delle valutazioni dell’Invalsi – mostrando anche perché proprio la natura di tale modello esclusa a priori la possibilità di un ricambio e quindi di qualsiasi trasparenza delle procedure dell’ente. Si poteva – nella sezione dedicata ai “discussant esterni” (sempre con rispetto parlando) – invitare l’autore di tale analisi, o persona parimenti competente a presentare le sue argomentazioni. Figurarsi.
È stato invitato il direttore di Ocse-Pisa Andreas Schleicher (non è certo che venga). Sarebbe stato decente invitare assieme a lui uno dei firmatari dell’imponente appello internazionale di professori  contro i test Ocse-Pisa, che ha raccolto già quasi 2300 firme e continua a raccoglierne a un ritmo incessante. Schleicher ha risposto in modo evasivo agli argomenti di questo appello, che conta persino la firma di personalità come Noam Chomsky. Non era una buona occasione per aprire una discussione autentica? Niente. Schleicher è invitato perché si parli addosso in modo autocelebrativo.
E che dire della tavola rotonda finale tra l’attuale presidente dell’Invalsi, Anna Maria Ajello (su cui si erano riposte vane speranze), e i “past president” Piero Cipollone e Paolo Sestito, con il contorno dell’inossidabile Giovanni Biondi, quello stesso che oscilla continuamente come un pendolo tra il ministero e l’Indire?

Faranno quel che vorranno, visto che ne hanno il potere e, come chi ha il potere senza averne il fondamento, continueranno a non rispondere mai, qualsiasi cosa si dica. Ma questo non significa che abbiano conseguito anche il potere di tappare la bocca in ogni sede. Almeno per ora, e speriamo mai.

domenica 23 novembre 2014

Risposta di Ichino alla letterina e controrisposta....

Il “Corriere della Sera” ha pubblicato oggi la mia “letterina” (vedi prima), e  ringrazio di ciò, con una replica di Andrea Ichino che riporto integralmente:

«Apprendo con timore che la “Storia secondo Israel” non ammette alternative.
Quanto agli scienziati che hanno fatto il classico c’è da solo da chiedersi che cos’altro avrebbero scoperto se avessero vissuto in una società (e studiato in una scuola) che non considerava la scienza come un optional.
Lasciamo perdere gli aneddoti. Puntiamo invece a migliorare l’evidenza statistica e ad andare oltre il “processo al classico” verso una scuola che consenta mix personalizzati di scienza, tecnica e umanesimo».

Non so da cosa Ichino deduca che esista una “Storia secondo Israel” e dove io o qualcuno abbia scritto che essa non ammette alternative. Le alternative ce le fornisce lui, libero di farlo – nessuno glielo impedisce né chiede di impedirglielo – dicendo cose che non stanno né in cielo né in terra, proprio gli aneddoti che vuol lasciar perdere quando gli fa comodo, salvo aggiungere altre “Storiografie secondo Ichino” non meno campate in aria. Per esempio dicendo che nel passato la scienza era un optional. Secondo lui, nell’Ottocento e Novecento, la scienza, in paesi intrisi di cultura classica come la Germania, la Francia e l’Italia postunitaria  la scienza era un optional… Ma dove ha studiato? Non sa che due terzi della scienza mondiale si concentrava in questi paesi, e in Gran Bretagnia la cultura classica non era meno centrale? In Italia, Luigi Cremona era di formazione un ingegnere pratico, aveva conosciuto la cultura classica come un optional, eppure l’aveva ritenuta talmente fondamentale da apprendere il latino al punto da conoscerlo come l’italiano. Ha idea di quanto amasse la cultura classica un Vito Volterra (conosciuto all’estero come il “Signor Scienza Italiana”) che aveva frequentato un istituto tecnico?
Ma – appunto – lasciamo perdere e andiamo a scuola di storia, semplicemente di storia, non secondo questo o quello. Quanto alla proposta – che vuole evitare processi sgraditi perché finiti male, immagino che fanfara avremmo udito se il processo al classico fosse finito con una condanna – è esilarante il mix personalizzato di scienza, tecnica e umanesimo. Che cosa è mai l’“umanesimo” come materia? Avrà voluto dire “materie umanistiche”. E perché mai la storia o la filosofia sarebbero qualcosa di distinto e magari contrapposto a scienza e tecnica? E figuriamoci la realizzabilità di “mix personalizzati”… Io studente vorrei fare molta matematica, un po’ di fisica, niente storia e un po’ di latino. Io invece poca matematica, molta chimica, storia ma solo quella moderna e niente latino. Io invece sarei curioso di studiare un po’ di greco, fisica e informatica… Con i “mix personalizzati” la programmazione dell’insegnamento occuperà due terzi degli impegni organizzativi delle scuole. 
Non ci si rende conto che il mix c’è già: classico, scientifico, altri licei, istituti tecnici, professionali. ecc.? E non si predica ogni giorno che il ragazzo deve fare le sue scelte il prima possibile? Magari dalla nascita con l’aiuto di una diagnosi neuronale? E se l’analisi neuronale rivelasse che ha bisogno di fare un liceo classico, che faremo dopo averlo soppresso?…

Il vero problema è salvare la scuola dal feticismo degli adepti della statistica e dell’econometria che considerano la cultura come un optional.

giovedì 20 novembre 2014

LETTERINA....


LETTERINA INVIATA AL CORRIERE DELLA SERA A COMMENTO DELL'ARTICOLO DI ANDREA ICHINO SUL LICEO CLASSICO, MANCO A DIRLO NON PUBBLICATA:
Nella sua requisitoria contro il Liceo classico, Andrea Ichino ha contestato l’esempio della Olivetti, il cui fondatore cercava solo ingegneri di formazione umanistica, osservando che l’Olivetti è precipitata nel baratro a differenza di Apple, sebbene Steve Jobs non abbia mai frequentato il classico. Se Ichino volesse studiare la storia apprenderebbe che Olivetti ha prodotto il primo personal e, se le cose non andarono avanti, non fu colpa degli umanisti ma di una sottocategoria della “scienza triste”, il management speculativo che si da arie tecnocratiche. Quanto a Steve Jobs, casca male, perché è nota la sua passione per l’arte rinascimentale e il riconoscimento di quanto da essa trasse ispirazione per l’estetica dei prodotti Apple. Potremmo continuare osservando che in Italia è stata inventata la plastica, da parte di Giulio Natta (uno studente del classico), ma l’affondamento della chimica italiana è stata anch’esso dovuto all’affarismo di certi manager che con l’umanesimo avevano poco a che fare. Quanto al fatto che per decrittare i codici nazisti si sia ricorso al matematico Turing anziché a un latinista, trattasi di un’ironia superficiale: tutti i grandi scienziati del Novecento erano appassionati di cultura classica. Piuttosto qui ci troviamo di fronte alla prova di come una cultura storica potrebbe aiutare a non esibire argomenti che difficilmente possono risultare convincenti.

martedì 4 novembre 2014

IL CELLULARE IN CATTEDRA, IL PROF ALTROVE…

È difficile negare la verità contenuta nel detto poco raffinato secondo cui “il pesce inizia a puzzare dalla testa”. Diversi anni fa, quando la diffusione dei cellulari non era universale come adesso, nelle riunioni di una certa importanza ogni partecipante teneva il telefono acceso ma silenziato, in modo da tenersi costantemente informato di ogni chiamata. Fino a che si trattava di persone con funzioni dirigenti amministrative o politiche, manager di un certo livello, primari ospedalieri, ecc. – insomma persone che erano suscettibili di ricevere chiamate tanto importanti quanto urgenti – la cosa si poteva ancora capire. Ma poi l’usanza è dilagata. Anche in un dibattito culturale, nella presentazione di un libro, in riunioni di importanza non così vitale, i partecipanti usano sedersi al tavolo ponendo di fronte a sé qualche foglio di carta, una penna e uno o anche due cellulari accesi e silenziati in modo da rimanere costantemente “wired” (connessi) in ogni istante della manifestazione. Gettano un occhio all’apparecchio del vicino, magari per compiacersi di possedere il modello più avanzato e poi tengono sotto controllo il piccolo schermo attenti alla minima vibrazione, alle chiamate e ai messaggi in arrivo. Spesso digitano una risposta, magari soltanto per dire che non possono rispondere, in non pochi casi si alzano con gesti compulsivi per appartarsi a rispondere, anche se sta parlando uno degli interlocutori – una maleducazione che un tempo veniva evitata anche sopportando per qualche tempo una necessità corporale, mentre il cellulare appare dotato di per sé di una necessità di ordine superiore che schiaccia tutto il resto.
Inutile dire che un simile comportamento ne induce uno analogo non solo da parte degli interlocutori, ma anche da parte del pubblico che non vede perché mai dovrebbe spegnere il proprio apparecchio e non tenere sott’occhio lo schermo, visto che lo fa chi ha un ruolo centrale nell’incontro. Abbiamo parlato di una caduta di livello nei rapporti, di autentica maleducazione, ma questo è soltanto l’aspetto esteriore. C’è qualcosa di più profondo che richiederebbe un’analisi psicologica e antropologica. A noi sembra che indichi che l’apparecchio induce – consapevolmente o meno, non importa – lo stato d’animo di chi, in fin dei conti, considera quel che sta accadendo – il suo intervento, quello degli altri, l’attenzione del pubblico, la propria attenzione – come secondario, o almeno potenzialmente secondario rispetto a quel che può accadere “altrove”. Non è solo il timore di non poter essere informati di qualche evento: è minima la probabilità che proprio in quelle due ore accada qualcosa di grave o di talmente importante per persone che non hanno responsabilità tali da richiedere un loro intervento immediato. No. Si tratta del timore di perdere il controllo di quel che accade “fuori”, con l’esito di mettere in secondo piano quel che si sta facendo, l’evento non virtuale ma reale, fisico, concreto, cui si sta partecipando. Gli esiti sono due. Il primo è personale. Ci si mette in una situazione simile a quella di chi si droga: si considera il mondo in cui si vive come una realtà insoddisfacente, da cui si è pronti a fuggire in attesa di qualcosa “di più”, “di meglio”, di più importante e gratificante. La dipendenza non produce effetti fisici immediati, ma quelli psicologici non sono meno devastanti. Poi c’è l’esito collettivo: per effetto di “mimesis” tutti sono indotti a considerare più importante la propria connessione “esterna”. E perché mai non dovrebbero farlo davanti a una persona il cui sguardo si porta continuamente sul piccolo schermo e che finisce con l’incespicare nel parlare, con l’esporre i concetti in modo frammentario e sgangherato, oppure si alza e si assenta mentre parla un altro? Il risultato è un consesso di persone la cui attenzione primaria è “altrove” e in cui è svilito, se non dissolto del tutto, il fine dell’incontro, e cioè creare un rapporto umano sostenuto dalla fisicità dell’eloquio, dalla presenza materiale attiva e attenta.
Ora, tutte le testimonianze dicono che questa prassi sta dilagando anche nel sistema dell’istruzione. Se fino a qualche tempo fa dirigenti scolastici o insegnanti rigorosi erano intransigenti rispetto all’ingresso dei cellulari in classe, sembra che anche questo muro stia cadendo a pezzi. Cresce il numero degli insegnanti – universitari o delle scuole di ogni ordine e grado – che entrano in classe, depongono il cellulare sulla cattedra, acceso e silenziato, ogni tanto danno un’occhiata allo schermo e sono attratti da una vibrazione che segnala una chiamata o l’arrivo di un messaggio. Il parlare s’incespica, la lezione si frammenta e talora, a mo’ di giustificazione si borbotta: «Ma guarda per quale sciocchezza mi disturbano!». Ma allora perché non spegnere a priori, magari soltanto per quei tre quarti d’ora di lezione? Inutile dire che, scendendo dalla testa sempre più in giù, gli studenti si sentano perfettamente legittimati a tenere acceso il loro cellulare, magari sotto il banco, comunque in posizione da poterlo tenere sotto controllo. Così anche qui l’aggregato (la classe) si sgretola, i legami diventano evanescenti: ognuno si proietta verso l’esterno, verso qualcosa che “conta di più“ (almeno potenzialmente) dello stare insieme e con l’insegnante. Poi magari, nel pomeriggio, in modo non più fisico ma virtuale, si ricostituisce un tessuto di relazioni in cui si fanno insieme i compiti con il cellulare alla mano. Ma l’insegnante non c’è più, la lezione non c’è più, il rapporto è virtuale. Il rapporto diretto in cui attraverso la parola e il confronto dovrebbe scoccare l’interesse e la comprensione è svilito, perché ne è lacerato il tessuto di fisicità.
In un libro recente, Massimo Recalcati ha indicato ne “L’ora di lezione” l’unica via per salvare un’istruzione in sfacelo, l’unico momento in cui può scoccare quella scintilla magica tra maestro e allievo capace di generare la passione per la conoscenza intesa come un processo aperto, fatto di continue domande e di questioni irrisolte, l’unico momento in cui il bambino o il ragazzo può conoscere e avvalersi della “potenza generativa” della scuola. Ma come potrà mai l’ora di lezione assolvere tale funzione se il maestro, invece di pensare esclusivamente a trovare entro sé stesso l’energia e il desiderio di creare quella scintilla generativa, frammenta la sua presenza nel rapporto con un “fuori” e invita, neanche tanto implicitamente, i suoi allievi a fare altrettanto, a proiettare “fuori” la loro attenzione primaria? Come potrebbe una scintilla suscitare una fiamma su un tessuto completamente lacerato?

Per questo, chiediamo agli insegnanti – tra cui tanti continuano a manifestare una dedizione che resta l’unico fronte di resistenza al crollo totale dell’istruzione – di spegnere i cellulari e di farli spegnere ai loro allievi. Forse non solo i giovani inizieranno a sentire che anche a scuola ci si può appassionare a qualcosa, ma anche la “testa” inizierà a capire la miseria del suo cattivo esempio.
(Il Mattino, 14 novembre 2014)

lunedì 3 novembre 2014

Scuola e legge di stabilità: c'è solo spazio per la depressione…

Quando è stato pubblicato il rapporto governativo su “La buona scuola” abbiamo parlato di un progetto coraggioso con luci e ombre, spingendoci a valutare come positiva la decisione di cancellare dalla scuola italiana i precari e le Gae (Graduatorie a esaurimento) per poter finalmente dar corpo a un piano di sviluppo intenso e di dimensioni inusuali, come promesso più volte. Altre voci avevano invece criticato come contraddittorio con il tanto declamato premio al merito fare l’ennesima immissione in ruolo di migliaia e migliaia di docenti che non hanno mai superato un concorso e, in certi casi, non insegnano da anni. Ora che è possibile mettere l’uno accanto all’altro il rapporto su “La buona scuola” e la legge di stabilità e quindi confrontare le intenzioni con i fatti, la delusione è totale. Cosa dice uno sguardo anche sommario alle cifre? Che la legge di stabilità destina circa un miliardo di euro per il 2015 e 3 miliardi a partire dagli anni successivi per attuare gli interventi previsti nel piano “La buona scuola”, con prioritario riferimento a un piano straordinario di assunzione di docenti e al potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro. Ma tale somma non deriva da stanziamenti freschi bensì da tagli realizzati nello stesso comparto, e nei campi più disparati (incluso quello stesso dell’alternanza scuola-lavoro), senza un criterio riconoscibile se non quello di far cassa per la detta assunzioni di precari. Uno di questi tagli ha sollevato un’immediata e vasta reazione ed è stato fortunatamente ritirato: si trattava dell’idea peregrina di ridurre le commissioni per la maturità a membri tutti interni. Ora nessuno nega che gli esiti dell’esame di maturità non depongono a favore del sistema in corso, visto che praticamente tutti vengono promossi, ma questo rientra in un generale andazzo permissivista che solleva un problema generale di rigore e di responsabilità nel giudizio e che non può essere certamente risolto riducendo le commissioni a soli membri interni, che non fa che andare nella direzione opposta, e oltretutto è pura ipocrisia, perché tanto varrebbe dire chiaro e tondo che si vuole cancellare l’esame di maturità riducendolo allo scrutinio finale. Questo taglio è stato ritirato ma non c’è affatto da star certi che non venga riproposto in altra sede e che si cerchi anche di far cassa con una sconsiderata riduzione dei licei a quattro anni, presentata come una “riforma”.
Diversi esperti hanno analizzato i due documenti mettendone in luce le contraddizioni e non intendiamo entrare nei dettagli tecnici evidenziati. Ci limitiamo ad alcuni casi emblematici. Il documento “La buona scuola” critica i tagli al Fondo per il miglioramento per l’offerta formativa mentre la legge di stabilità lo riduce di 30 milioni a partire dal 2015. Altri fondi volti alla valorizzazione dei docenti che si dimostrano attenti al miglioramento della qualità dell’insegnamento in classe sono tagliati. In linea generale, i pomposi propositi del piano “La buona scuola” vengono ridotti dalla legge di stabilità a una serie di tagli a pioggia in cui è difficile riconoscere alcun criterio razionale se non quello di rastrellare denaro per l’assunzione di precari. In tal modo, si da ragione a chi sostiene che tutto rischia di ridursi a un’operazione clientelare con cui si conquista il consenso di alcune centinaia di migliaia di persone, con le loro famiglie, a spese di un sistema allo stremo che viene ulteriormente affamato e umiliato.
Resta l’aspetto della valutazione e del premio al merito su cui le intenzioni governative destano ampie riserve, non solo perché il premio al merito dovrebbe avere effetti concreti sugli stipendi soltanto tra diversi anni producendo intanto altri cospicui risparmi a spese del comparto, ma perché non crediamo minimamente nel valore delle autovalutazioni basate su una massa enorme di scartoffie (sia pure informatiche). Chiunque non voglia ingannare sé stesso e gli altri sa benissimo che non vi sono indicatori per autovalutarsi – quale che sia la competenza dei tecnici dell’Invalsi in merito, finora tenuta al riparo da qualsiasi valutazione – che non possano essere agevolmente aggirati. Tutta questa gigantesca operazione si ridurrà assai probabilmente nel precipitare sulla testa della scuola l’ennesimo aggravio di un’inutile burocrazia, a spese, come al solito, dell’impegno didattico, che sembra ormai divenuto l’ultimo degli optional. E oltretutto c’è da capire se anche questo discutibile sistema vedrà la luce nei tempi previsti, dato che oggi scade al termine per la consegna degli indicatori. L’unico sistema accettabile, e cioè quello dei nuclei di valutazione ispettivi è rinviato al 2015/16 per massimo del 10% degli istituti, il che è quanto dire che siamo nella nebbia più fitta.
Questa deprimente situazione si verifica in un contesto in cui il ministero dell’istruzione sembra essere allo sbando. Ne è testimonianza l’ultima surreale vicenda dei numeri del TFA (Tirocinio formativo attivo) che sono fissati dal ministero e ripartiti tra le università da apposite commissioni. Risulta che in alcune regioni l’intero numero sia stato occupato da un’università on-line, che ovviamente non ha problemi di aule e può offrire anche rette convenienti, col risultato che il numero previsto dal ministero è raddoppiato e ci si trova di fronte a un caos ingestibile, con il prevedibile contorno di ricorsi e di blocchi infiniti.
Frattanto, c’è chi è andato alla Leopolda a dire che la cultura umanistica ha fatto il suo tempo e la scuola deve diventare “cool” e “figo”. Purtroppo è una profezia già avverata: qui di cultura, umanistica e non, non resta più nulla. Ma non c’è neppure nulla di “cool” e di “figo”. Non c’è affatto bisogno di essere un gufo, ma soltanto a un allocco può scappare da ridere ignorando la depressione che invade l’intero settore dell’istruzione, incluso quello dell’università che, come se non bastasse, è anch’esso sottoposto a ulteriori tagli a pioggia.

(Il Messaggero, 2 novembre 2014)