«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
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giovedì 29 gennaio 2015
giovedì 22 gennaio 2015
Heidegger e il problema dell'antisemitismo “metafisico”
Il caso Heidegger è stato riaperto dalla pubblicazione dei
“Quaderni neri” che non soltanto rafforzano la tesi dell’adesione del filosofo
al nazismo ma gettano una luce inequivoca sul suo pensiero circa la questione
ebraica. Per Heidegger la colpa dell’ebraismo è di essersi estraniato
dall’Essere, per cui la questione ebraica «non è una questione razziale, bensì
è la questione metafisica su quella specie di umanità che, essendo per
eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’Essere
il proprio compito nella storia del mondo». Come ha osservato assai giustamente
Donatella di Cesare, la pubblicazione dei “Quaderni neri” ha alimentato la
solita contrapposizione manichea tra chi, come in altre occasioni, tenta di
chiudere il caso trovandovi una conferma che Heidegger non nutriva sentimenti
razzisti ma poneva una questione puramente filosofica, e chi, all’opposto,
trova argomenti per una condanna senza appello del filosofo. Come dice
giustamente di Cesare, occorre evitare sia la condanna criminalizzante che la
reticenza complice, sia la mera indignazione morale che la banalizzazione
cinica. Occorre assumere un approccio di analisi razionale.
La tentazione più semplice, che ha trovato già degli adepti,
è di cercare nella vicenda dei “Quaderni neri” argomenti per proscrivere la
filosofia stessa come fonte
dell’aberrazione che ha condotto al nazismo e alla Shoah. È una tentazione
sbagliata e pericolosa perché rischia di occultare i problemi autentici che
hanno condotto a quell’aberrazione. Certo, la storia del pensiero filosofico
tedesco esprime una incomprensione e un disagio così profondo nei confronti
della presenza ebraica – per la difficoltà di definirla rispetto a un rigido
principio di identità nazionale – da trasferire il problema sul terreno
prettamente metafisico. Hegel, che si era prodotto in sconcertanti
elucubrazioni circa l’Africa e gli africani, come un continente e una
popolazione vissuti sempre fuori dalla storia e quindi non appartenenti di
diritto all’“autentica” umanità, non poteva non emettere un editto altrettanto
duro nei confronti degli ebrei, popolazione priva di stato e di territorio e
quindi inesistente come tale e pericolosa, in quanto fattore di disgregazione
dei valori dell’identità nazionale.
La fenomenologia delle posizioni di questo tipo nel pensiero
europeo, in particolare di area germanica o ad essa collegata, è vastissima e
quindi non stupisce che Heidegger si collochi in questa corrente in cui la
demarcazione razziale degli ebrei appare più come uno strumento, un mezzo, per
definire l’emarginazione di questo popolo “pericoloso”, che non come una
definizione della sua essenza “negativa” e dissolutiva. Ma se non vogliamo
accettare un’analisi di tipo strettamente metafisico, e cioè collocarci
all’interno della logica di questa stessa corrente – col rischio inerente a
tutte le visioni ontologiche che finiscono direttamente nella filosofia della
storia e nell’escatologia – lo strumento fondamentale è quello dell’analisi
storica, l’approccio razionale per eccellenza.
Non possiamo qui dipanare un discorso assai lungo e
complesso, ma è sostanzialmente corretto dire che, a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento, prende forma una reazione nei confronti di filosofie
pragmatiste e positiviste, che hanno radici anche nel pensiero europeo
continentale ma soprattutto sono di derivazione anglosassone. Il progressivo
svuotamento del pensiero filosofico a favore di un approccio ispirato alla
metodologia delle scienze esatte è visto come un rischio enorme che mette in discussione
una tradizione secolare che ricollega l’Occidente al pensiero greco, attraverso
il recupero che ne ha fatto l’umanesimo rinascimentale e, nella prima fase,
anche il pensiero scientifico del seicento. L’identificazione degli ebrei come
un fattore di disgregazione, si basa sulla credenza che questo popolo sia
entrato nella società europea senza aderire in modo incondizionato alle
identità nazionali e miri al cosmopolitismo, a una visione astratta dell’uomo,
al predominio – per dirla con Heidegger – di una «vuota razionalità e abilità
di calcolo». Per chi conosca la storia della scienza, sa che questa tematica è
diffusa molto oltre il mondo filosofico, e sarà un cavallo di battaglia della
“Deutsche Wissenschaft” contro la scienza astratta e cosmopolita degli ebrei
calcolatori e formalisti, alla maniera di un Einstein.
Ma proprio qui si è innestata la più tragica mistificazione.
Nel mondo filosofico, tra le figure più autorevoli che hanno combattuto il
pragmatismo e lo scientismo, difendendo la “missione” filosofica europea come
essenza fondativa della civiltà del continente, sono stati il francese Henri
Bergson e il tedesco Edmund Husserl, entrambi di origine ebraica. È capitato di
sentire qualcuno avanzare contro di loro l’accusa aberrante di aver coltivato
forme di irrazionalismo antiscientifico che avrebbero dato alimento al nazismo…
Il discorso si amplia al mondo scientifico, in cui tanti scienziati ebrei erano
collocati sul fronte anti-formalista e anti-pragmatista, e la stessa
imputazione ad Einstein di essere un fisico astratto e matematizzante in
rottura con la tradizione è difficile da sostenere, ove si pensi alle sue
resistenze nei confronti della meccanica quantistica di cui erano sostenitori
fisici nazisti come Heisenberg.
Pertanto, l’imputazione agli ebrei di essere il fattore di
disgregazione di una tradizione fondante della civiltà europea era un mero
pretesto nel genere della ricerca del capro espiatorio, alimentato da
prevenzioni antigiudaiche di radice millenaria. Ma la complessità del fronte
che sosteneva i valori di quella tradizione, in opposizione al pragmatismo
scientista, deve essere considerata con attenzione e può rivelare le ragioni
profonde dell’adesione di tanti intellettuali tedeschi, e non solo tedeschi, al
manifesto ideologico del nazismo. Questo è l’aspetto da studiare in modo non
manicheo, altrimenti non riusciremmo a capire l’atteggiamento di tanti
personaggi, come il grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, che
dimostrò la sua sostanziale estraneità al nazismo e alla Shoah, e tuttavia non
riuscì mai a emigrare perché non sentiva di poter conservare il legame con una
sensibilità classicista della musica: nel dopoguerra si rese conto di poterlo
fare.
Oggi l’Europa appare scossa da un’altra drammatica crisi in
cui una parte consistente delle sue popolazioni non riesce ad accettare l’idea
di una gestione puramente tecnocratica e quantitativa: aveva ragione Husserl a
sostenere che l’Europa ha una tradizione “filosofica” che radici molto più
profonde di quanto appaia a prima vista. La mancata comprensione delle ragioni
di questo rigetto e la loro semplicistica condanna come un mero fenomeno
“populista” e neofascista non è meno superficiale e irresponsabile del lisciare
il pelo ai movimenti che lo strumentalizzano e lo incanalano verso forme di
estremismo. Oltretutto, con l’esito evidente che sia ancora una volta la
componente ebraica a farne le spese. La storia si ripete, anche se in forme
diverse, e purtroppo non sempre in farsa.
(Shalom, gennaio 2015)
martedì 13 gennaio 2015
Mi permetto di riproporre le riflessioni di alcuni anni fa che appaiono alquanto attuali
Giorgio Israel
Università di Roma “La Sapienza”
Intervento a “I grandi discorsi di Benedetto
XVI”
Palazzo Apostolico Lateranense
20 gennaio 2011
Sul discorso di Ratisbona
La questione di Dio oggi: il Dio della fede e il Dio dei
filosofi
Posto che, indubbiamente, il tema del discorso di Benedetto XVI
all’Università di Ratisbona aveva come centro il tema della convivenza - o
direi piuttosto della necessaria convivenza e coerenza - tra religione e
ragione nella società contemporanea, a me sembra che la tesi che esso
suggerisce sia declinata in due sensi strettamente legati tra di loro.
Il primo è che la diffusione della fede mediante la violenza,
ovvero in forme coercitive, sia contro la ragione e in contrasto con la natura
di Dio e dell’anima. O potremmo dire, per sottolineare la coerenza di cui si
diceva, contro la natura di Dio e dell’anima in quanto contro la ragione e
viceversa.
Il secondo è che l’uso della ragione non è antitetico alla fede
religiosa, non la contraddice o la confuta, in quanto per avere fede religiosa
non bisogna uscire dal pensiero razionale; e, viceversa, l’adesione dal
pensiero razionale non preclude la fede religiosa.
Ne derivano conseguenze teoriche e pratiche che sono
strettamente interconnesse.
Il discorso di Ratisbona ha al centro una una serie di
considerazioni generali sul problema della trascendenza divina e sui rischi
connessi all’estremizzazione di questa trascendenza che pure è una
caratteristica fondante della religiosità monoteista classica. Non c’è dubbio
che - come ha osservato il grande studioso della Kabbalah ebraica Gershom
Scholem - l’ingresso delle religioni monoteiste ha significato una rottura
dello scenario monista dell’età mitica in cui la natura era il teatro della
relazione tra l’uomo e gli dèi, creando un abisso tra Dio, Essere infinito e
trascendente e l’Uomo, creatura finita. È altresì indubbio che, in varie forme,
il pensiero religioso ha tentato di colmare questo abisso, non soltanto con la
voce della preghiera, ma anche cercando di ricostruire il legame tra il
pensiero umano e la volontà divina, non accontentandosi di uno scenario
dominato da una volontà divina assoluta e incomprensibile dalla ragione umana,
di cui l’uomo potrebbe soltanto contemplare passivamente il creato. Ove
prevalesse una simile visione - e cioè la separazione venisse dichiarata
assoluta, l’abisso insuperabile in qualsiasi modo e la volontà divina
assolutamente arbitraria e priva di qualsiasi contatto con la razionalità umana
- ne deriverebbero tre conseguenze:
1) La
prima, che ricordo con le parole stesse del discorso di Ratisbona, è che «Dio
non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e niente lo obbligherebbe a
rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche
l’idolatria». Sarebbe un «Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e
al bene». Persino la morale diverrebbe un mistero e di fatto ne verrebbe
distrutto qualsiasi valore normativo e pratico per l’uomo.
2) La
seconda conseguenza riguarda i testi rivelati. Essi non possono essere
concepiti come oggetto di studio esegetico, di comprensione umana, in quanto la
ragione umana non ha nulla da dire circa la parola divina. I testi sacri sono
scritti direttamente con il “dito di Dio”, sono una lettera testuale “conferita”
piuttosto che un messaggio “rivelato” da Dio agli uomini, e che essi hanno
scritto ed esposto con parole umane e pertanto contenenti una “mediazione”. Il
testo sacro è “la” parola divina. Esso va accolto nella sua assoluta
letteralità, senza alcuna possibilità di interpretazione, ovvero senza la
mediazione della ragione umana. L’esegesi
in questa ottica semplicemente non ha luogo di esistere, è impensabile, se non
addirittura dissacrante. Il testo sacro si legge e si apprende, non si commenta
e non si interpreta.
3) La
terza conseguenza è che una scienza come conoscenza
non è possibile. Come potremmo difatti pretendere di poter ricavare delle leggi
naturali - così come le ha concepite la scienza moderna, ovvero delle leggi che
governano l’ordine del cosmo - se Dio avesse riservato a sé l’arbitrio totale
di mutare questo ordine a suo piacimento, in qualsiasi modo e in qualsiasi
momento? La scienza moderna è basata sulla convinzione nella permanenza
dell’ordine naturale e su quella che un grande matematico, Henri Poincaré, ha
chiamato la convinzione nella “permanenza” delle leggi del pensiero. Se queste
convinzioni non avessero alcun fondamento una scienza sarebbe semplicemente
impossibile. Sarebbe possibile soltanto un sapere pratico, contingente, poggiato
sulla sabbia e che potrebbe crollare in qualsiasi momento. La scienza sarebbe
interessante soltanto in quanto portatrice di conseguenze utili, di
realizzazioni tecniche.
È ben noto come il discorso di Ratisbona abbia sollevato
un’ondata di violentissime polemiche. Esso è stato visto come una critica della
religione musulmana in quanto dominata da una visione di trascendentalismo
assoluto del tipo sopra descritto, con tutte le conseguenze appena illustrate.
In realtà, la critica era molto più ampia e riguardava anche tendenze
sviluppatesi nel mondo cristiano e tendenti a rompere il rapporto con lo
spirito greco, tendenze che portavano all’idea che di Dio possiamo conoscere
soltanto la “voluntas ordinata” e non possiamo esplorare l’imperscrutabile
ragione. Pertanto, il discorso di Ratisbona va visto piuttosto come
un’esortazione a valorizzare al massimo quella sintesi tra spirito greco e lo
spirito delle religioni monoteistiche, che è apparso e appare soprattutto oggi
offuscato, sia per responsabilità dell’integralismo religioso, sia del
positivismo.
Se la religione classica tutto sommato propendeva per una
visione contemplativa - è indubbio che l’ebraismo biblico ha un atteggiamento
tutto sommato passivo nei confronti del dispiegarsi della volontà divina di cui
si limita ad ammirare le straordinarie creazioni - l’ebraismo medioevale,
soprattutto con il suo massimo rappresentante, Mosé Maimonide, mostra fino a
qual punto è giunta la sintesi tra pensiero greco e religiosità monoteista. È
giunta al punto che Maimonide afferma che la chiave del racconto della Genesi -
il cosiddetto Ma’aseh Bereshit - è stata persa dalla tradizione, ma che questa
chiave ci viene restituita dalla Fisica di Aristotele. Logica e Fisica -
afferma con estrema audacia Maimonide - permettono di decrittare la Bibbia e di
scoprire che la Genesi e Aristotele dicono la stessa cosa. Allo stesso modo, il
Racconto del Carro - Ma’aseh Merkabà - ovvero la visione mistica del carro
divino da parte del profeta Ezechiele, è in perfetta armonia con la Metafisica
di Aristotele. Questo razionalismo è talmente forte che, anche nella reazione
antiaristotelica della mistica kabbalistica esso non viene abbandonato e
diventa una chiave essenziale dell’esegesi biblica. Anzi, la rinuncia
all’esegesi viene condannata. «Coloro che si occupano del senso ovvio della Torah dormono di un sonno profondo»,
ammonisce Moshe Hayim Luzzatto e lo Zohar
definisce questo senso ovvio la mera «paglia» della Torah.
Del resto è noto come Maimonide, San Tommaso d’Aquino e Averroé costituiscano
la triade razionalista della teologia delle tre grandi religioni monoteiste,
ispirata a uno stretto rapporto con il razionalismo greco. E proprio ad Averroé
dobbiamo un’affermazione relativa al nostro terzo punto, e cioè che «niente
prova la saggezza divina meglio dell’ordine del cosmo. L’ordine del cosmo può
essere provato dalla ragione. Negare la causalità è negare la saggezza divina
[…] e colui che nega la causalità nega e disconosce la scienza e la
conoscenza». Sono parole scritte in risposta all’Autodistruzione dei filosofi di Al Ghazali che, al contrario,
sosteneva che «il cosmo è volontario. È creazione permanente di Dio e non
obbedisce ad alcuna norma. […] la natura è al servizio dell’Onnipotente: essa
non agisce in modo autonomo, ma è utilizzata al servizio del suo creatore. […]
le scienze matematiche sono alla base delle altre scienze, dai cui vizi lo
studioso rischia di rimanere contagiato. Sono pochi coloro che se ne occupano
senza sottrarsi al pericolo di perdere la fede».
È innegabile che il mondo islamico non abbia scelto Averroé
contro Ghazali, bensì abbia scelto Ghazali contro Averroé, la cui figura non è
mai stata rivalutata. È proprio nella condanna mai revocata di Averroé che
risiede la rottura nella storia dell’islam con la fondazione della scienza
moderna, la sua autoesclusione dagli sviluppi della modernità, cui pure l’islam
aveva contribuito in modo tanto decisivo proprio con la trasmissione della
cultura greca. Questo è un fatto indiscutibile e ben noto agli storici, e non
può essere fonte di offesa rilevarlo. Al contrario, rilevarlo, anche indicando
in modo pacifico e amichevole i rischi che comportano determinate scelte, è un
contributo alla crescita di tutti, nell’ottica di una concezione del dialogo
che mi pare caratteristica del pensiero di Benedetto XVI, ovvero tanto aperto
quanto non sincretistico. È una concezione che richiama una bella frase del
filosofo Emmanuel Levinas: «Non si tratta di pensare insieme, io e l’altro, ma
di essere in faccia».
La chiarezza e l’onestà intellettuale induce altresì a non
nascondere che la crescita della rivoluzione scientifica è stata contrassegnata
da grandi conflitti con le autorità religiose, che spesso ebbero risvolti anche
drammatici. Non vi fu soltanto il caso Galileo, ma anche le minacce che
indussero Descartes a non pubblicare Le
Monde, la persecuzione subita in ambito protestante da Copernico, le
difficoltà che indussero Newton a nascondere il suo monoteismo antitrinitario,
la condanna di Spinoza da parte della comunità ebraica di Amsterdam, e molte
altre analoghe vicende. Tuttavia, non è certamente sminuirne la gravità
affermare che quasi tutte queste vicende sono state drammatiche in quanto hanno
rappresentato una manifestazione di intolleranza, ma non hanno mai messo in discussione
l’idea della coerenza tra fede e ragione, né hanno arrestato in cammino della
scienza e della filosofia. Si confrontavano tra di loro modi differenti di
vedere il rapporto tra religione e ragione, anche diverse metodolologie
scientifiche o di uso della ragione. Non fu deplorevole che a Galileo fosse
stato opposto un diverso punto di vista, quanto che la contesa fosse stata
risolta con la forza. D’altra parte, come ha osservato lo storico della
scienza, Amos Funkenstein, tutti i grandi protagonisti della rivoluzione
scientifica, da Galileo a Descartes, da Keplero a Newton, erano dei “teologi
laici”, per cui le questioni in gioco gravitavano sempre attorno al rapporto
tra scienza e teologia.
Che la rivoluzione scientifica e gli sviluppi filosofici ad essa
connessi siano stati un grande e ulteriore passo sulla via della sintesi tra
pensiero religioso monoteista e pensiero greco si vede dal fatto che il primo
ha iniettato nel secondo l’idea dell’infinito che era rimasta preclusa o
quantomeno confinata al pensiero greco, il quale era molto diffidente nei suoi
confronti. Questo è stato visto molto bene da un grande filosofo contemporaneo,
Edmund Husserl, che definisce la grande impresa della conoscenza europea che
prende forma dal Cinquecento, come una scienza
onnicomprensiva, una «scienza della totalità dell’essere» che «persegue
nientemeno che lo scopo di riunire scientificamente, nell’unità di un sistema teoretico tutte le questioni ragionevoli
attraverso una metodica apoditticamente evidente e attraverso un progresso
infinito ma razionale di ricerca». Husserl aggiunge significativamente che tra
i tanti problemi che si pone questa filosofia razionale v’è quello di Dio «che
contiene evidentemente il problema della ragione “assoluta” in quanto fonte
teleologica di qualsiasi ragione nel mondo, del “senso” del mondo.». Così come
sono problemi razionali - egli aggiunge - «il problema dell’immortalità” e il
«problema della libertà». E non è certamente un caso che sia stato Husserl a
criticare con tanta forza analitica la “decapitazione” della ragione compiuta
dal positivismo, la razionalità “ridotta” da esso proposta, con un linguaggio
che contiene molte assonanze con quello di Ratisbona e di altri discorsi di
Benedetto XVI. Non è un caso, anche perché pochi filosofi come lui hanno
percepito il valore del concetto di ragione che si è espresso nella civiltà
europea e pochi come lui hanno amaramente ammonito contro il rischio che ne
venisse smarrito il senso, un rischio che oggi è di fronte a noi come un fatto
reale.
Ma qui è necessario sviluppare alcune considerazioni sul terzo
punto, quello che riguarda il rapporto tra ragione scientifica e religione.
L’affermazione teologica più forte della coerenza tra religione e scienza sta
nella tesi di Galileo che il mondo è matematico,
anzi che il mondo è stato strutturato da Dio in forma matematica, per cui la
scoperta della leggi, espresse in forma matematica, che governano la natura,
comporrebbe l’armonia tra razionalità oggettiva posta da Dio a base della
creazione e la nostra ragione soggettiva. Questa formula galileiana è
affascinante ma ritengo che sia elusiva e anzi che da essa derivino molte delle
difficoltà che hanno condotto all’attuale riduzione positivistica della
ragione. Difatti, come dimostra lo stesso sviluppo storico della scienza,
l’ipotesi che il mondo è matematico è
soltanto un’ipotesi di un genere molto particolare, in quanto assolutamente
inverificabile. Essa è in realtà un’ipotesi metafisica che per sorreggersi ha
bisogno di verifiche continue, ma mai definitive: per dirla in modo semplice,
essa può nutrirsi soltanto del suo successo, mai può aspirare a una verifica
definitiva. Il corso degli eventi ha piuttosto dimostrato che in tanti ambiti
essa appare smentita o quantomeno appare molto dubbia.
La conseguenza più pericolosa di tale ipotesi è di aver generato
l’idea che non soltanto il mondo fisico, ma ogni aspetto del mondo sia
matematico. Come si dice nel discorso di Ratisbona, è ormai comune ritenere che
«soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria
ci permette di parlare di scientificità», per cui «ciò che pretende di essere
scienza deve confrontarsi con questo criterio, e così anche le scienze che
riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la
filosofia, cercano di avvicinarsi al canone della scientificità». Ma questo
sviluppo è profondamente negativo non soltanto per la scienza, in quanto
l’efficacia del matematismo nelle scienze umane è lungi dall’essere evidente.
Esso è anche fonte di riduzione del razionalismo al riduzionismo positivistico
e quindi è la fonte diretta della «limitazione autodecretata della
ragione». In realtà qui il matematismo è
soltanto rappresentativo di una tendenza alla dittatura del riduzionismo.
Quando si tende - come accade oggi - a cancellare ogni forma di conoscenza che
non sia segnata dal prefisso “neuro” - e si parla di neuro-economia, di
neuro-etica, di neuro-filosofia e persino di neuro-teologia - è facile
intendere le conseguenze. Chi ingenuamente vede una conferma della religione
nella pretesa scoperta di strutture neuronali che spiegherebbero l’emergere nel
cervello del sentimento di trascendenza e quindi - come si dice - mostrerebbero
“l’esistenza di Dio nel cervello”, non si avvede che mettere Dio alla mercé di
una conformazione cerebrale - che esiste in alcuni individui e in altri no, che
può degenerare nel processo evolutivo o essere soppressa con interventi umani -
significa semplicemente distruggerlo.
Non ci difenderemo validamente dal relativismo se non affermando
che la razionalità che si esprime nella soggettività umana è irriducibile ai
canoni ristretti dell’oggettivismo scientifico di tipo fisico-matematico o
dello scientismo riduzionista e materialista. “Razionalità ampia” significa
ricercare un’idea dell’oggettività più ampia di quella suggerita da quei
canoni, entro i quali non c’è spazio per l’idea di Dio.
Queste sono alcune delle riflessioni che mi ha suggerito la
rilettura del discorso di Ratisbona.
mercoledì 7 gennaio 2015
I “FANTASMI" DI HOUELLEBECQ
OGGI VIENE A PROPOSITO L'ARTICOLO CHE HO PUBBLICATO IERI. PURTROPPO... MENTRE ESCE IL LIBRO DI MICHEL HOUELLEBECQ, IL SETTIMANALE SATIRICO FRANCESE CHARLIE HEBDO E' STATO COLPITO DA UN ATROCE ATTACCO TERRORISTICO, E CON ESSO LA LIBERTA' DELLE NOSTRE SOCIETA' OCCIDENTALI
Quel che descrive
il romanzo Sottomissione di Michel
Houellebecq (attraverso il caso francese) è la storia recente, presente e
futura dell’Europa come una gigantesca eterogenesi dei fini. Come altrimenti
definire una lotta per i diritti della donna, contro il pregiudizio a favore
del matrimonio “tradizionale” che sfocia nella tolleranza nei confronti di una
famiglia centrata sul maschio, poligamica e omofobica? Come altrimenti definire
una difesa dei diritti delle “diversità” che finisce col legittimare una
società comunitarista divisa in frammenti separati entro cui la “tolleranza” accetta
il predominio dell’integralismo a costo di subire il suo predominio globale? Già,
perché l’unica cosa che la tolleranza politicamente corretta dell’Europa di
oggi non tollera sono i principi di cultura politica su cui ha costruito la
propria civiltà.
Il libro di
Houellebecq si inserisce in Francia nel contesto di una pubblicistica non
soltanto di narrativa fantastica (nel solco di Orwell o Huxley) ma saggistica,
con autori come Alain Finkielkraut, Éric Zemmour e Michel Onfray. Quest’ultimo,
alla domanda di un intervistatore che parla di agitazione di un “fantasma”
dell’islam radicale risponde che già ricorrere alla parola “fantasma” è
assumere una posizione ideologica, derubricare a “fantasmi” realtà attestate
dalle statistiche, oppure a derubricare a disturbi mentali isolati fatti come quegli
individui che lanciano l’auto sulla folla al grido di “Allah Akbar” o i
convertiti che vanno a combattere nelle file dell’Isis. Il politicamente
corretto indica questi “fantasmi” come espressione di fascismo e razzismo,
figli dell’odiato “essenzialismo” della cultura occidentale, e consegna chi li
considera come fatti reali all’area della reazione e del “populismo” (parola
che non significa nulla salvo che un marchio dispregiativo).
Questo libro è
l’ennesima denuncia di un’Europa esausta, un basso impero ridotto a credere solo
nella mercificazione totale, nel feticismo delle tecnologie, nel governo delle
tecnocrazie, dominato da un relativismo nichilista e da un “odio di sé” che, dei
principi etici, conserva soltanto la tolleranza dei modi di vita e dei principi
altrui. Si può dissentire da questa analisi e dalle prospettive catastrofiche
cui conduce, ma sarebbe intellettualmente disonesto non misurarsi con i fatti,
anziché agitare slogan politicamente corretti, a mo’ di esorcismi. L’immagine
evidente dello sfascio è lo stato in cui è ridotta la cultura politica del
continente: mera tecnocrazia, conteggi di parametri, feticismi
tecno-burocratici, fino a ridurre anche l’istruzione e la cultura a una
faccenda di parametri. Intanto, intorno c’è un modo che preme, mosso da moventi
di tutt’altra natura. Per anni ci si è addormentati sulla credenza che il
consumismo, con il suo potere di seduzione, avrebbe sgretolato l’integralismo.
Ora si assiste al fallimento di tale credenza, ma non si ha il coraggio di
ammetterlo.
Il dibattito che,
soprattutto in Francia, sta prendendo forza su questi temi, tocca la questione
nodale di come e perché l’Europa si sia ridotta in questo stato. La tesi di
Houellebecq (e Onfray) è che il declino della civiltà giudaico-cristiana sia
iniziato con il Rinascimento, con l’attacco antireligioso dell’illuminismo e
della rivoluzione francese, fino al ’68 che ha semplicemente registrato lo
sfascio finale. Ma vi sono altri punti di vista in campo, meno semplicisti, e
assai più convincenti. In qualche modo, si tratta del contrario, e cioè del
fallimento del tentativo di conciliare la tradizione della religiosità
occidentale con la modernità, che pure era uno dei progetti più brillanti della
cultura europea. Si pensi al modernismo religioso e ai movimenti illuministici
ebraici: entrambi duramente emarginati. È un fallimento in cui vi sono
responsabilità da entrambe le parti. Chi può rimpiangere le chiusure bigotte di
certo integralismo religioso di marca europea e i veleni violenti e
intolleranti che ha messo in circolazione? La reazione contro questi veleni e
queste chiusure ha avuto il torto di gettare il bambino con l’acqua sporca, di
credere che una società possa basarsi solo su principi tecnoscientifici,
ignorando la dignità e l’autonomia della sfera morale. Ma la tecnoscienza non
può avere le spalle abbastanza larghe da accollarsi questa sfera, se non
distruggendola, e cioè usando la scienza come un martello ateistico, un mezzo
di distruzione delle religioni – beninteso solo di quelle della propria
tradizione, come impone il principio di tolleranza degli “altri”. Il guaio è
che questi “altri” non hanno difficoltà a rifarsi a un modello che viene
direttamente da concezioni medioevali apertamente irrazionaliste: la scienza e
tecnologia vanno bene, è sacrosanto approfittarne purché non interferiscano col
dominio della verità che è di esclusiva competenza della fede, la quale sola
detta autoritativamente i principi della convivenza sociale. Il futuro previsto
da Houellebecq è che l’Europa, squagliandosi tra cinismo, “tradimento dei
chierici” e feticismo dei parametri, finirà in una “sottomissione” opposta al
suo migliore progetto di civiltà, quello della democrazia basata su una sintesi
di conoscenza razionale e di principi morali.
(Il Messaggero, 6 gennaio 2015)
martedì 6 gennaio 2015
IL BUON ANNO DI RENZI ALLA SCUOLA
Il presidente del Consiglio Renzi incontra la ministra Giannini e il sottosegretario Faraone (quello delle occupazioni...) per scrivere di qui al 20 febbraio testi, decreti e disegno di legge de della «più grande riforma dal basso mai fatta in un paese europeo»... Intanto le carte del piano di riforma saranno top secret di qui al 20 febbraio. È quanto dire che il terzetto rappresenta il "basso” e tutti gli altri stanno in alto? Il più grande rovesciamento della piramide mai visto in Europa...
L'unica indiscrezione è che i precari nuovi assunti faranno un anno di prova e corsi di aggiornamento e verifiche tutti centrati su inglese e informatica.
Storia, geografia, matematica, italiano, scienze?... Ma chissenefrega... Si vede che fa parte del patto del Nazareno: vittoria finale della scuola delle tre "i" di Berlusconi (ricordate? inglese, informatica, impresa).