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mercoledì 25 febbraio 2015

Basta con la politica degli annunci

La politica degli annunci non è una cosa buona, ma se c’è un contesto nel quale occorrerebbe rigorosamente astenersene è quello dell’istruzione. La scuola è stata trafitta per decenni da politiche di annunci che si sono tradotti in nocive sperimentazioni o sono finiti nel nulla, come il progetto di riforma dei cicli di Luigi Berlinguer. Il caso più clamoroso è quello di un’intera riforma – la Moratti – che, in assenza di decreti attuativi, è rimasta sulla carta. Molti di questi “annunci” erano espressione delle teorie di pedagogisti di stato organici alla classe politica al governo. Ora, a giudicare da quel che venuto fuori dalla presentazione promossa dal premier Renzi siamo passati all’annuncio di un bricolage di pezzi mal congegnati tra loro e provenienti da strani pensatoi. Sta di fatto che la scuola, a forza di annunci, di riforme mai fatte e di sperimentazioni avventate è diventata un terreno melmoso su cui anche il governo più determinato rischia di lasciare le penne, soprattutto se si avventura a indicarlo come decisivo per il futuro del paese. Certo, bisognerà attendere il testo dei decreti o disegni di legge per un giudizio definitivo, ma gli annunci non indicano un pensiero progettuale chiaro. Proviamo a elencare una decina di punti che destano più perplessità.
Edilizia. È il tema su cui Renzi si è speso fin dalla sua nomina, un anno fa e su cui, puntualmente, non è successo nulla. Non solo perché non è chiaro da dove verrà fuori il miliardo necessario, ma perché non si è affrontata di petto la questione delle modalità degli appalti, delle procedure, ecc. Troppi sono i casi di scuole che hanno iniziato ristrutturazioni finite nel nulla – come i tronconi di autostrada finiti per aria – per non considerare questa questione come prioritaria. Quando si sente di discussioni bizantine circa le modalità di gestione delle ristrutturazioni, se da affidare ai singoli istituti o a gruppi territoriali di istituti di cui uno avrebbe la funzione direttiva, viene da tremare.
Concorsi e precari. Questa è la madre di tutti gli annunci: non si accederà al ruolo di insegnante se non per concorso. Peccato che questo accadrà dopo una colossale infornata ope legis di precari, non è chiaro se dell’ordine di 120.000 o più. Un paradosso degno delle filosofie antiche. Oltretutto, questa assunzione ope legis sarà un gigantesco tappo che renderà virtuale il bando di nuovi concorsi: un infimo rivoletto contrabbandato per rivoluzione epocale. Di fatto, per molti anni, non vi sarà spazio per l’ingresso di nuovi insegnanti, altro che “largo ai giovani”. Certo, qualcosa si doveva fare, a fronte di graduatorie immense di aventi diritto, ma una via era stata indicata a fine 2008 con l’introduzione del TFA (Tirocinio Formativo Attivo), il ritorno ai concorsi, e la prospettiva di ripartire a metà l’assunzione dei nuovi docenti tra giovani e iscritti alle graduatorie. Il TFA è stato strangolato e, dopo sette anni si ripropone problema di assumere i precari d’un colpo solo. Non è colpa di questo governo, d’accordo, ma non si venga a gabellare questa scelta come il trionfo della meritocrazia solo perché in un lontano futuro si tornerà a qualche sparuto concorso.
Assunzione degli insegnanti per merito. Il merito è il tema cruciale. Nulla si può obiettare contro il principio che un insegnante deve essere scelto per il suo merito. In linea di principio, neppure si può obiettare contro l’idea di attribuirne il potere al dirigente scolastico. A una serie di condizioni, che sono anni luce lontane dai propositi circolanti. La prima condizione è che il dirigente scolastico sia un solido competente, il primo degli insegnanti della scuola per cultura e autorevolezza: un vero e proprio preside e non un manager stile “dirigente Asl”. Insomma, un personaggio ben diverso da quello disegnato dall’ultimo scandaloso concorso per dirigenti scolastici: un mix di capacità da quiz televisivo e di competenze tecno-didattiche-pedagogiche stabilite nei pensatoi ministeriali con stile da regime sovietico. In secondo luogo, vi è qualcosa che occorre dire senza insopportabili ipocrisie: il nostro sistema, come in gran parte d’Europa, non è privatistico, ma è un sistema pubblico a prevalenza statale. Blaterare di “autonomia” come se le scuole fossero enti privati che si autofinanziano è una indecente presa in giro. Uno stato che paga un istituto non può non controllarne in qualche modo la gestione: vi saranno certamente istituti in cui il preside agirà secondo criteri ineccepibili, altri in cui – pur essendo di indiscussa probità personale – si troverà sottoposto a pressioni insostenibili. Vogliamo offrire un altro terreno di affari alla criminalità organizzata? Il minimo che andrebbe previsto – senza tornare a centralismi ministeriali – è una commissione di assunzione composta dal preside e da altri due provenienti da altre città. È costoso? Le nozze non si fanno con i fichi secchi.
Carriera degli insegnanti per merito. Anche qui nascono obiezioni analoghe a quelle sollevate al punto precedente, con due aggravanti. Su che basi saranno valutati gli insegnanti per la progressione della carriera? Sulla base delle loro competenze nelle discipline d’insegnamento e della qualità della loro didattica, o sulla capacità di organizzare attività collaterali o di sostegno, come è stato adombrato? Nel secondo caso, sarà premiato chi organizza ricerche sulla sostenibilità ambientale o sulla teoria del gender e penalizzato il poveretto che ha “perso” tempo a seguire un corso universitario su argomenti di matematica o di letteratura. E chi valuterà? Il profilarsi delle figure dei docenti “tutor” e “mentor” fa rabbrividire, in un paese in cui ogni incarico diventa subito un privilegio castale. È facile prevedere il formarsi di camarillas formate dal dirigente scolastico e dai suoi mentor che mettono all’angolo chi non si adegui alle loro direttive didattiche pur se discutibili. Ci si dovrebbe mettere in mente che la valutazione dei docenti non può prescindere da un giudizio “peer to peer” (tra pari) derivante da commissioni composte oltre che dal preside, da docenti di altre scuole e città, in modo da favorire, nel confronto, l’unico obbiettivo che da senso alla valutazione: la crescita culturale. È costoso? Valga quanto detto al punto precedente.
Dicevamo di sperimentazioni nefaste, annunci di leggi abortite e ora di un bricolage di annunci fumosi. In verità, in mezzo a questa nebbia, l’unico nucleo che emerge come una conquista politicamente condivisa a destra e sinistra, l’unico solido trionfo (purtroppo) delle politiche berlusconiane è la scuola delle tre “i”, che ormai tutti accettano. Vediamo come si configura la scuola delle tre “i” nella politica renziana degli annunci.
Internet. Neanche il più incallito dei conservatori può negare la necessità di informatizzare la scuola. Ma c’è modo e modo. Pare che ora si prenda atto del fallimento dell’introduzione delle LIM (Lavagne Interattive Multimediali) e si proponga in cambio l’autonomia completa. Ogni istituto si digitalizza come gli pare. Così avremo l’istituto dove si usa solo carta e penna, quello dove si preferiscono i computer, quello dove si opta per una miscela di libri e tablet, e quello dove si adotta il tablet puro. Bisognerebbe poi vedere che tipo di tablet, perché se ogni studente fosse libero di scegliersi il suo modello, si perderebbe metà dell’anno a stabilire un linguaggio comune, per non dire dei dramma di chi passi da un istituto a un altro… Immaginiamo anche quale proliferazione demenziale di “libri” e supporti didattici seguirebbe da una simile liberalizzazione. Non siamo fautori del modello cinese, in cui esiste un solo manuale di matematica per le primarie in tutto il paese, ma esistono vie di mezzo ragionevoli.
Coding. V’è un’altra dimensione dell’informatica che si parla di introdurre nelle scuole: lo studio dell’“informatica” come materia, attraverso l’addestramento ai procedimenti logici che presiedono alla formazione dei programmi (“coding”). A parte che questa, se fatta seriamente, è roba di livello universitario, si potrebbe accettare che i principi di base della programmazione vengano spiegati ai ragazzi, a condizione di non pretendere che ne diventino soggetti attivi. Di fatto, sembra che si tratti di un ristretto modulo di insegnamento di logica che, in assenza di risorse, dovrebbe essere svolto dall’insegnante di filosofia. Così il minimalismo si associa allo scempio culturale, simile all’introduzione della materia “geostoria” nella riforma Gelmini. E qui è ancor peggio, perché si finisce col contrabbandare l’idea che la filosofia sia nient’altro che filosofia analitica – una visione che oltre ad essere obsoleta è comunque talmente discutibile da non poter essere introdotta di straforo per via burocratica.
Inglese. La situazione è analoga a quella dell’informatica e del coding. Un conto è promuovere l’insegnamento dell’inglese a tutti i livelli, a condizione di farlo seriamente con insegnanti adeguati. Ma qui si vuol fare molto di più, e cioè – seguendo sconsiderate scelte che hanno adottato paesi a scarso spessore culturale e che mai adotterebbero paesi con una più consistente tradizione letteraria e culturale – insegnare intere materie in inglese. È il cosiddetto Clil (Content and Language Integrated Learning). Qualsiasi cosa se ne pensi, anche una cosa del genere non si realizza con i fichi secchi. Quando si apprende che l’insegnamento Clil di una materia dell’ultimo biennio delle scuole superiori è per ora sospeso per carenza di insegnanti preparati, mentre il governo prospetta di introdurre una materia in inglese per il 3° e 4° anno delle scuole elementari, non si sa se ridere o piangere. Dove trovare i maestri destinati a insegnare matematica o storia a bambini di 8-9 anni che non sanno ancora parlare in italiano, mentre, d’altro lato, si straparla di dare una coscienza nazionale agli immigrati attraverso l’insegnamento dell’italiano a scuola? Sembra di vivere in un film di Alberto Sordi.
Impresa. Ci inchiniamo al valore dell’impresa, ma non siamo propensi ad accettare le teorie secondo cui la scuola si salva considerandola un’impresa, perché la conoscenza non è un prodotto, gli insegnanti non sono produttori e alunni e famiglie non sono utenti. Non insistiamo su questo punto toccato molte volte perché tanto non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Ciò non toglie che l’idea di creare una connessione tra scuola e lavoro, attraverso un’alternanza tra didattica ed esperienze in azienda, è buona. Ma anche qui occorre essere chiari e di chiarezza non se ne vede punto, perché non sono precisate le modalità e i contesti in cui dovrebbero realizzarsi queste esperienze, e la loro differenziazione secondo i vari tipi d’istruzione. Oppure si vuole soltanto far passare la sciagurata idea secondo cui il ragazzo deve decidere cosa fare entro i 14 anni e usare la scuola come piattaforma di creazione di addetti per le imprese, a costo zero, secondo un tipico stile italico?
Nuove materie. La sensazione che si voglia sgretolare l’assetto disciplinare, colpendo le materie fondamentali, come matematica, storia, letteratura, scienze, si fa forte quando si prospetta un affollamento di altre materie, come storia dell’arte, economia, materie giuridiche – e fin qui passi, a condizione che si dica chi “paga” nell’invariato monte ore – e altre da cui sarebbe meglio tenersi alla larga, come educazione alla cittadinanza ed ecologia: l’educazione civica nasce dalla coscienza storica e non dalle prediche politicamente corrette. Più in generale, in questo confuso panorama, non si spende una parola per l’educazione al pensiero critico. Qualche buontempone continua a voler far credere che questa educazione si riduce alla capacità di risolvere problemi, il “problem solving”. Peccato che, anche nella matematica, la scienza che dà più certezze, esistono molti problemi che non si possono risolvere ed è proprio riflettendo attorno a questi problemi che si acquisisce un pensiero critico e competenze scientifiche (oltre a cogliere il profondo legame tra la cultura scientifica e umanistica). Ma di queste “chiacchiere” sembra che non importi a nessuno.


(Il Foglio 23 febbraio 2015)

mercoledì 18 febbraio 2015

Chi distrugge il Liceo classico distrugge la scuola

È con malcelata soddisfazione che diversi organi d’informazione hanno salutato la caduta di iscrizioni al Liceo classico. Ci auguriamo che il futuro dia loro torto e che il “De profundis” sia prematuro, ma è inutile negare che la caduta c’è e la gioia che suscita in taluni è quanto di più irresponsabile si possa immaginare.
Circa un mese fa la fisica Fabiola Gianotti – la cui nomina a direttore del Cern di Ginevra è stata giustamente salutata come un trionfo della scienza italiana – ha ricordato la sua provenienza dal Liceo classico e di come proprio in quel contesto fosse stata trafitta dal desiderio di dedicarsi alla fisica; come il grande Federigo Enriques che disse di aver scelto di dedicarsi alla matematica «per un’infezione filosofica liceale». Gianotti ha osservato: «Spesso mi si dice: “tu hai fatto il liceo classico, musica e poi hai cambiato”, come se la fisica fosse tutt’altra cosa rispetto alle materie umanistiche o all’arte». E non solo ha difeso l’importanza della formazione umanistica, ma ha messo in discussione uno dei dogmi di questi poveri tempi, e cioè che un giovane debba scegliere che lavoro fare prima che sia possibile, affermando che la formazione di menti plastiche e capaci di adattarsi a contesti diversi deriva dal considerare il periodo scolastico come una fase della vita in cui ci si dedica a capire sé stessi, le proprie aspirazioni e le proprie capacità con calma, senza il timore di cambiare. Queste cose le sa non solo qualsiasi persona di formazione umanistica, ma qualsiasi scienziato che non sia un “idiot savant” che si fa valere più per il rispetto di alcuni insensati parametri di valutazione che per la qualità del proprio lavoro.
Come si sia arrivati a questo – a mettere all’angolo un liceo che ci è stato invidiato da mezzo mondo – richiederebbe un libro. Sta di fatto che abbiamo realizzato un capolavoro: a distanza di poco più di mezzo secolo da un celebre pamphlet di Charles Snow che stigmatizzava la contrapposizione tra le “due culture” – umanistica e scientifica – abbiamo fatto un luogo comune di tale contrapposizione. L’autentica motivazione di tale misfatto è quella che va nel senso opposto auspicato da Fabiola Gianotti. È una visione economicistica insofferente delle perdite di tempo. Basta con i lunghi “parcheggi”, tagliamo la durata della scuola, eliminiamo le materie che non “servono” (latino, greco, filosofia), costringiamo i ragazzi a scegliere quel che faranno nella vita il prima possibile, meno letteratura che sia possibile (fino al recente demenziale progetto di insegnare una materia in inglese alle elementari), tanta informatica e così via. Su questo fronte la scuola berlusconiana delle tre “i” (internet, inglese, impresa”) ha vinto su tutta la linea, divenendo un punto di riferimento politicamente trasversale. La scuola deve essere un mero luogo di formazione di addetti all’impresa e, visto che l’Italia ormai non ha quasi più grande impresa ad alto contenuto scientifico-tecnologico, è facile intendere quale sia il modesto livello che si richiede. Nel contesto di una simile visione il liceo classico è un corpo estraneo da eliminare.
È evidente che se questo è il trasparente intento – anticulturale, antiscientifico, mosso da interessi di un’evidenza testimoniata dal dispendio di risorse in convegni, incontri, pubblicazioni, iniziative di ogni sorta promossi dal mondo imprenditoriale – per realizzarlo occorre convincere la gente con argomenti che abbiano un’apparenza di dignità culturale, meno brutali dei proclami della categoria più di recente interessata all’istruzione, i cosiddetti “economisti della scuola” che passano direttamente all’insulto nei confronti degli studi umanistici visti come la fonte di tutti i mali del paese. Per fare qualcosa di meno brutale si trova sempre qualcuno disposto alla bisogna: il mondo della cultura è fatto così. Per anni si è martellato in ogni sede che la scienza nasce dalla pratica, che la teoria è secondaria e roba da perditempo. Come se è in laboratorio che Newton ha formulato la legge di gravitazione universale o Einstein la relatività. «Come se nel dialogo tra teoria ed esperienza la parola fosse per prima ai fatti. Nel procedere della scienza è sempre la teoria ad avere la prima parola. I dati sperimentali assumono significato soltanto in funzione di questa teoria» (François Jacob, uno dei padri della biologia molecolare contemporanea). Invece si è fatto di tutto perché passasse nel senso comune che apprendere la scienza a scuola è entrare in laboratorio e pasticciare in libertà senza basi teoriche. Così si è anche svalutato il liceo scientifico, ridotto a scuola dei saperi tecnico-pratici, lontani dalle astruse e inutili fumosità della teoria, spaccando così anche in quell’ambito cultura umanistica e scientifica e dando a bere a famiglie e ragazzi che frequentando il liceo scientifico si apprende un mestiere pronto ad essere esercitato nell’impresa. Figuriamoci quale spazio resta al liceo classico in una simile visione. Esso è il ricettacolo di ogni male, del disprezzo per la scienza. È vano dire che molte delle migliori menti di scienziati e tecnologi italiani sono usciti da quel segmento scolastico. Si risponde deprecando l’autore di tutti i mali, Giovanni Gentile, il nemico della scienza, occultando il suo rapporto con gli scienziati dell’epoca e la qualità della sezione scientifica della Enciclopedia Treccani, e occultando che i veri guai dell’istruzione italiana sono iniziati dopo il suo corto soggiorno al ministero, fino alla disastrosa opera di Bottai perpetuata da suoi seguaci che hanno controllato le leve del potere per lunghi anni nel dopoguerra. Niente da fare. Un ex-ministro è riuscito a rendere senso comune il sinonimo “liceo classico = scuola gentiliana”, fino a dichiarare che la salvezza dell’istruzione italiana consisterebbe nel «cacciare senza pietà» tutti i “gentiliani” che ancora la infestano.
Avevamo un’eccellente formazione tecnica e professionale, da cui sono usciti tecnologi e scienziati “puri” di prim’ordine e siamo riusciti a distruggerla facendone un cattivo liceo, dove vanno coloro che hanno paura di studiare troppo. Ora stiamo riuscendo a completare l’opera di distruzione del settore liceale, portando all’estinzione il liceo classico e svalutando il liceo scientifico, presentato come luogo dove non si perde tempo in fumisterie inutili. Stiamo educando ragazzi che ti dicono che sono interessanti soltanto le cose su cui si può dire qualcosa di indiscutibilmente vero, come se la scienza fosse un deposito di verità assolute, come se porsi dei problemi, anche insolubili, non sia spesso la cosa importante, come se la matematica fosse nient’altro che “problem solving”. Sarà difficile estrarre qualcosa da questo cumulo di macerie, soprattutto se i medici restano gli stessi. E se addirittura propongono la loro ricetta per salvare il classico, “depurandolo” di un eccesso di teoria. D’altra parte, scrivemmo circa un anno fa su queste pagine: «se muore il liceo classico, muore il paese». Questa morte segnalerebbe il disinteresse totale per la nostra identità culturale e storica, per una visione ampia e integrata della cultura umanistica e della scientifica, per una visione culturale della scienza. Che per molti queste siano chiacchiere degne soltanto di derisione lo sappiamo benissimo. Bisogna vedere se poi, di fronte a generazioni che non sanno nulla di storia, educate a deridere la filosofia e gli studi classici e a credere che tutto si risolva con internet, inglese e impresa, ci sarà tanto da ridere.


(Il Mattino, 18 febbraio 2015)

domenica 15 febbraio 2015

Reato di negazionismo, i razzisti e il valore di una legge

Nessuno può seriamente svalutare la generosa intenzione morale che ha animato l’approvazione in Senato di un Disegno di legge che introduce e punisce il reato di negazionismo. Questo atto manifesta i sentimenti di rigetto dell’antisemitismo e del razzismo della nostra classe politica – peraltro autorevolmente ribaditi nel discorso di insediamento del Presidente della Repubblica. Le perplessità nascono in relazione all’efficacia e ai negativi effetti collaterali di una legge del genere. Si dice che in tal modo l’Italia si allinea alla legislazione vigente in molti paesi europei e recepisce una decisione quadro dell’Unione Europea. Il paradosso è che in molti di quei paesi v’è assai più antisemitismo che non in Italia dove una simile legge finora non c’è stata. Il caso più clamoroso è quello della Francia, dove esistono strumenti giuridici pesanti per sanzionare il reato di negazionismo, il che non ha impedito il diffondersi di un antisemitismo tanto grave e diffuso da alimentare una crescente emigrazione ebraica verso lo stato di Israele. In certi casi proibire non serve a nulla, o peggio. È meglio consentire la pubblicazione di edizioni critiche del Mein Kampf di Hitler o affidare la sua inevitabile diffusione a scandalose “edizioni” in rete con commenti non meno scandalosi, che magari compaiono quanto basta per essere scaricate da migliaia di persone? Ritengo che la risposta debba essere che la prima soluzione è la migliore.
Occorre piuttosto chiedersi le ragioni del fallimento di queste leggi in quei paesi, e della Giornata della memoria. La prima causa è dovuta al fatto che il canale principale di alimentazione dell’antisemitismo contemporaneo è l’antisionismo, il quale, a differenza del primo, è largamente tollerato e persino accanitamente difeso. Un’altra causa è legata al fatto che le manifestazioni per la Giornata della memoria sono cresciute a livelli esagerati, divenendo troppo spesso una passerella per autori che trovano così il modo di fare pubblicità al loro ultimo libro confezionato per l’occasione, tormentando una massa di giovani che – come hanno dimostrato recenti sondaggi – faticano a identificare la data della presa del potere di Hitler, se non a dire chi era costui. Difatti, il vero problema è il crollo di un’educazione storica seria sostituita sempre più, nel migliore dei casi, da analogie vaghe e nel peggiore da proclami retorici. Sarebbe assai più efficace far conoscere a fondo, nel contesto di un programma scolastico rigoroso, cosa abbia rappresentato il caso Dreyfus o le forme successive di antisemitismo in Germania e in Italia, piuttosto che far retorica e introdurre strumenti punitivi. Si osserva giustamente che l’assenza di leggi punitive ha consentito e consente ad alcuni “docenti” di tenere scandalose lezioni negazioniste. Ma il vero scandalo è che, quando questi docenti sono stati deferiti agli organi di controllo per aver violato elementari principi di deontologia, sono stati assolti. Il male è quindi più profondo, alberga nelle menti, è là che deve essere sradicato, con la cultura, la diffusione dello spirito critico e l’uso della ragione, e non basta reprimerne le manifestazioni visibili.
Più voci hanno espresso il timore che si vada verso un regime in cui si stemperi il confine sottile tra libertà di opinione e di analisi storica critica. È un timore giustificato, perché proprio la sottigliezza di quel confine rischia di produrre conseguenze pericolose. Ma c’è ancor più da temere la grande ipocrisia che circola in Europa, consistente nel cavarsela di fronte ai problemi con editti improntati a una confusa e unilaterale ideologia “politicamente corretta” che ha il solo effetto di irregimentare le espressioni entro un pensiero unico troppo ipocrita per essere credibile. Ad esempio, occorre chiedersi quale governo europeo abbia alzato la voce – non preso provvedimenti concreti, ma almeno protestato – nei confronti del governo iraniano per aver bandito un concorso per la miglior vignetta antisemita. Eppure questi sono i canali più potenti che alimentano l’antisemitismo, che non può essere combattuto efficacemente mettendo in prigione qualche untorello di secondo piano.

(Il Messaggero, 13 febbraio 2015)

sabato 7 febbraio 2015

CONTRA INVALSI (VIDEO)

Intervento al Convegno «In classe ho un bambino che…»,
Firenze, 6 febbraio 2015
Dibattito a due voci sul tema: «Sono utili le prove Invalsi?»
Pro: Alessandro Antonietti
Contro: Giorgio Israel

http://youtu.be/7ZVmqGAAVC8

E questo è il testo dell'intervento:

Debbo scusarmi per non essere fisicamente presente per colpa di quel che viene comunemente chiamato un “colpo della strega”. Spero tuttavia, inviandovi questo intervento registrato, di non “rovinare” del tutto il confronto sull’Invalsi. A proposito del quale dirò subito di non essere a priori contro le prove Invalsi, tantomeno contro l’ente Invalsi, a condizione che si accetti una discussione aperta a critiche e modifiche circa i contenuti delle prove, che le finalità dell’ente siano chiaramente definite e che esso non sia una struttura chiusa, impermeabile a competenze esterne.
Allo stato non è così. La ragione principale per cui non ho voluto preparare una presentazione Power Point per questo intervento è che essa avrebbe dovuto servire soprattutto ad analizzare una serie di casi di test che ritengo criticabili ed esemplificativi di ciò che non si deve fare. Ma confesso di provare un senso di sfinimento dopo aver prodotto per anni critiche su critiche di casi specifici, precise, di contenuto, in articoli sulla stampa, in convegni, in rete e, due anni fa, con un’analisi dettagliata di tutti i test Invalsi di matematica che può essere letta sul blog “pensareinmatematica.it”. Nel corso di questi anni non ho ricevuto una sola risposta, anzi per essere precisi una soltanto da parte di un dirigente ministeriale cui replicai senza ricevere controreplica. Ero giunto alla conclusione trattarsi di una manifestazione di arroganza o anche di debolezza – le due cose vanno spesso insieme – e forse è anche così. Ma v’è un’altra spiegazione e cioè che l’ente e i suoi esperti agiscono sulla base di una visione così autoreferenziale da essere chiusa a qualsiasi confronto esterno propriamente detto, ovvero non addomesticato, scegliendo interlocutori già solidali con quella visione. Di recente, ne ho trovato una dimostrazione scientifica in un articolo di un matematico ed esperto di modellistica statistica e della valutazione, il prof. Enrico Rogora, che consiglio di leggere sul sito “roars.it”. Tralasciando l’argomentazione tecnica, che non è banale e va letta con pazienza, il succo è che gli esperti dell’ente lavorano su un modello formale di scuola e di alunno espresso nel principale modello statistico su cui commisurano tutto, il modello di Rasch; e lavorano su un’idea delle materie coinvolte che non può essere messa in discussione senza far crollare tutto in un colpo solo. Tale è, ad esempio, l’idea di matematica dell’Invalsi: può essere rifinita, ritoccata ma non messa in discussione. Si capisce allora anche perché l’ente faccia ricorso alla stessa compagnia di giro di esperti e debba evitare come la peste l’intrusione di elementi alieni. Di conseguenza, episodi sconcertanti come il bando per reclutamento di 10 esperti, a fine 2014, promulgato senza pubblicità e con scadenza di soli 10 giorni, sono probabilmente dovuti all’intenzione di evitare che possa infiltrarsi nell’ente qualcuno non omogeneo all’ideologia precostituita.
L’inanità di entrare nel merito del contenuto delle prove Invalsi – per assenza di interlocutore – mi induce a proporre un discorso generale che però risulterà nelle sue conclusioni quanto mai concreto.
Dicevo che non ho nulla a priori contro le prove Invalsi e contro l’Invalsi, e questa non è una giaculatoria. Mentre sarebbe una giaculatoria umiliante quella di proclamare di essere a favore della valutazione, per evitare la scomunica abituale che viene lanciata contro i critici: «Se critichi le prove Invalsi sei contro la valutazione». Chi lancia questa scomunica dovrebbe vergognarsi. Davvero si vuol far credere che la valutazione (della ricerca, della didattica) sia una scoperta dei nostri giorni? Sarebbe una manifestazione di ignoranza (o di malafede) davvero sconcertante. Non mi riferisco al fatto generico conseguente in modo naturale a qualsiasi attività intellettuale: l’esercizio di una critica della medesima da parte di altri. No, mi riferisco a un fatto storico ben preciso, e cioè che da quando la ricerca scientifica è divenuta un fatto organizzato e di dimensioni sempre più imponenti – con la nascita delle moderne Accademie, delle moderne università e delle società scientifiche – la valutazione degli articoli o delle memorie è divenuta un’attività codificata entro regole precise e rigorose. E non diversamente per quanto riguarda l’insegnamento, da quando si sono affermate le forme universalistiche di insegnamento e di scuola aperta a tutti e poi addirittura obbligatoria – sulla base del principio che la diffusione della conoscenza è il fondamento di una società democratica formata da individui liberi e capaci di scegliere – con un forte intervento di direzione statale in cui sono prefissate le regole di valutazione degli studenti e anche le regole di valutazione dei docenti, mediante funzioni ispettive. Le forme che abbiamo ereditato possono essere essere criticate, è giusto che si evolvano e ci si adegui alle esigenze della società contemporanea – come del resto è sempre accaduto nel tempo – ma non ci si venga a raccontare che la valutazione è scoperta odierna, come se fino ad ora tutto fosse stato legato all’arbitrio.
Eh già – si dice – però quelle forme di valutazione non erano improntate alla visione contemporanea: una valutazione oggettiva e standardizzata che esclude i fattori perturbativi dei soggetti – in particolare degli insegnanti, i loro umori variabili e le loro idiosincrasie – per offrire risultati al riparo da ogni contestazione. È evidente qui il riferimento al modello delle scienze esatte, emblema di risultati indiscutibili e oggettivi. Ma proprio questa pretesa, o speranza, di rifarsi a quel modello è intrisa di un’illusione puerile. È ovvio che la conoscenza umana è fondata su un’aspirazione al conseguimento di risultati aventi un valore intersoggettivo quanto più possibile elevato: pensare qualcosa di diverso sarebbe affondare nel relativismo assoluto, persino nella negazione dell’utilità di una comunicazione discorsiva, alla maniera di quel Cratilo che – raccontava Aristotele – ritenendo che mai ci si può immergere nella stessa acqua di un fiume, si limitava a comunicare con i suoi simili muovendo un dito.
Tuttavia, di oggettivo in senso pieno, esiste una sola forma di conoscenza, quella della matematica astratta, che faceva dire al celebre matematico italiano Vito Volterra che mentre gli imperi crollano i teoremi di Euclide restano saldi. La matematica greca ha realizzato l’aspirazione a una forma di conoscenza altamente intersoggettiva idealizzando una serie di forme, figure e procedure pratiche come enti fondamentali di una scienza – la matematica – su cui ha ragionato in forma puramente logica. La matematica moderna è andata oltre, eliminando ogni “scoria” di concretezza – come certe definizioni contenutistiche che ancora erano presenti nella matematica euclidea – per realizzare con l’assiomatica una scienza assolutamente oggettiva, in quanto fondata esclusivamente sui procedimenti della logica formale. Ma anche qui, non appena si “ridiscende” dall’empireo dei concetti astratti per riempirli dell’opacità e dello spessore dei fatti reali, iniziano i problemi. La matematica applicata e la fisica non godono più del privilegio di resistere al crollo degli imperi e spesso le loro “leggi” cadono come essi. E ancor più questo è evidente in branche come le probabilità e la statistica intrise di realtà concreta nei loro fondamenti stessi.
La difficoltà si fa ancor più evidente nelle scienze della vita, nella biologia, dove è in discussione se si possa anche parlare di una dimensione teorica (ovvero di leggi), anche perché – si pensi alle teorie dell’evoluzione – spesso interviene una dimensione così complessa e difficile da pensare in termini quantitativi come quella storica. Quando poi passiamo alle scienze in cui interviene il fattore eminentemente soggettivo, il fattore umano, la pretesa di raggiungere risultati fortemente oggettivi è senza senso. Potrei dire con il celebre matematico Henri Poincaré che l’applicazione del calcolo ai problemi morali è lo scandalo della scienza. Mi limiterò a dire che l’aspirazione a risultati aventi il massimo valore intersoggettivo possibile, è inevitabile, corretta e giustificata, ma non può giungere al punto di far credere che sia possibile espungere il soggetto e la sua presenza, quali che siano le forme di valutazione che si decida di scegliere. Penso che sia possibile aspirare a valutazioni quanto più possibile condivise, ispirate a equanimità, in una cornice di crescente miglioramento quale può dare soltanto un confronto culturale intersoggettivo, ma ogni pretesa di cancellare la presenza del soggetto è, questa sì, scandalosa. In effetti, l’unica cosa che si può fare è di eliminare dalla scena la presenza del fattore più smaccatamente soggettivo – l’insegnante e la sua valutazione – sostituirla con valutazioni standardizzate mediante test, i quali però sono preparati da esperti che hanno la loro visione soggettiva della materia, delle modalità dell’insegnamento, ecc., i quali ci vogliono far credere che la loro soggettività in realtà non esista perché si rifanno a un modello quantitativo formale avente valore oggettivo. Il punto è che tentare di far credere che nella valutazione si possa eliminare del tutto il fattore soggettivo equivale a far finta che una stanza sia pulita perché si è nascosta la polvere sotto il tappeto – fuor di metafora, sotto il tappeto dei modelli formali e di costrutti formali dell’idea di bambino, di alunno o di insegnante. Così si sostituisce all’ideale possibile del miglioramento concreto e progressivo quello della costruzione di una realtà perfetta su schemi preformati, che corrisponde a un tipico pensiero totalitario.
Non perderò tempo a rispondere a obiezioni che mi sono sentito fare una volta, e cioè, che nel “modesto” caso in esame è inutile mettere in gioco la tematica filosofica dell’oggettività, perché quel che si vuole è soltanto escludere un fattore perturbativo della soggettività dell’insegnante, instradandolo dentro una griglia di valutazione preformata. Ma allora bisognerebbe avere la decenza di parlare di standardizzazione di alcuni aspetti della valutazione e non di parlare pomposamente di “valutazione oggettiva”, tantomeno di cercare di mettere a tacere i critici come nemici della valutazione tout court. No, quel che è in gioco è proprio la pretesa (o vana speranza) di cui dicevo: e cioè di fare della valutazione qualcosa di simile alla matematica assiomatica. Difatti, questo può farsi in un modo solo: come la matematica sostituisce ai cerchi o ai segmenti concreti, cerchi astratti e rette perfette e ragiona su di essi, occorre sostituire alla scuola concreta, all’alunno concreto, alla materia scolastica concreta, una scuola, un alunno e una materia idealizzata per i quali costruire test standardizzati che si giustificano per la loro coerenza interna, ovvero per la coerenza con il modello dato. Tuttavia, se in fisica l’uso delle idealizzazioni della matematica ha funzionato (ed entro certi limiti!), con ogni evidenza perché erano ricavate come aspetti invariabili di enti materiali, qui la faccenda si fa molto più complessa e discutibile: i modelli quantitativi idealizzano aspetti che non sono per nulla invariabili e che sono “perturbati” dall’azione di “soggetti”, ovvero proprio di ciò che più complica il raggiungimento di risultati oggettivi.
Permettetemi di leggere un brano del filosofo Maurice Merleau-Ponty:
Egli critica una «scienza che manipola le cose e rinuncia ad abitarle. Essa se ne dà dei modelli interni e operando su questi indici o variabili le trasformazioni permesse dalla loro definizione, si confronta soltanto da lontano col mondo attuale. Essa è quel pensiero ammirevolmente attivo, ingegnoso, disinvolto, quel partito preso di trattare ogni essere come “oggetto in generale”, cioè al contempo come se non fosse nulla per noi e tuttavia fosse predestinato ai nostri artifizi. Ma la scienza classica conservava il sentimento dell’opacità del mondo, è esso che intendeva raggiungere con le sue costruzioni, ecco perché si credeva obbligata a cercare per le sue operazioni un fondamento trascendente o trascendentale. Vi è oggi il fatto nuovo che la pratica costruttiva si prende e si da come autonoma, e che il pensiero si riduce deliberatamente all’insieme delle tecniche di presa o di captazione che inventa. Pensare è tentare, operare, trasformare, con la sola riserva di un controllo sperimentale in cui intervengono solo fenomeni altamente “lavorati” […] Di qui ogni sorta di tentativi vagabondi. […] Quando un modello ha avuto successo in un ordine di problemi, lo si prova dappertutto. La nostra embriologia, la nostra biologia sono piene di gradienti di cui non si vede in che si distinguano da quel che i classici chiamavano ordine o totalità, ma la questione non è posta, non deve esserlo. Il gradiente è una rete che si getta in mare senza sapere cosa raccoglierà. […] Questa libertà operativa può superare dei dilemmi vani, purché ogni tanto si faccia il punto, ci si chieda perché lo strumento funziona qui e fallisce altrove, in breve purché questa scienza fluida si comprenda e si veda come costruzione fondata su un mondo bruto ed esistente e non attribuisca a operazioni cieche un valore costitutivo. […] Se poi questo genere di pensiero operativo si prende carico dell’uomo e della storia e se, fingendo di ignorare quel che ne sappiamo per contatto e per posizione, intraprende a costruirli a partire da alcuni indici astratti, come hanno fatto negli Stati Uniti una psicanalisi e un culturalismo decadenti, poiché l’uomo diventa davvero il manipulandum che pensa di essere, si entra in un regime culturale in cui non vi è più né vero né falso riguardo l’uomo e la storia, in un sogno o un incubo da cui nulla potrebbe svegliarci».
In verità, i misfatti del formalismo sono andati e stanno andando molto oltre il culturalismo decadente di cui parlava Merleau-Ponty. Basti pensare alle teorie pedagogiche di Jean Piaget, che hanno avuto influssi nefasti sull’insegnamento: la teoria sballata secondo cui un bambino non può manipolare concetti matematici prima dei 7 anni ha devastato decenni di insegnamento della matematica. Di essa può soltanto dirsi che il suo autore non doveva aver visto un bambino reale una sola volta in vita sua. Più di recente basti pensare alla traballante connessione tra apprendimento della matematica e analisi neuroscientifiche mediante la risonanza magnetica, una connessione priva di qualsiasi valore scientifico serio, ma tanto attraente perché “moderna”, non importa se anch’essa basata su un modello di bambino inesistente nella realtà. L’ideologia dell’Invalsi è in consonanza con questo tipo di approcci formali. È forse un caso che i suoi esperti, per evitare la problematica che stiamo qui sollevando procedano dando una definizione formale di “oggettività”, come si fa con gli assiomi della matematica? Essi avvertono – vale davvero la pena di leggere questo illuminante passaggio di un articolo del suo responsabile scientifico – che «il modello di Rasch non può essere applicato secondo una modalità meramente esplorativa, ovvero di verifica ex post se il modello si adatta ai dati empirici, ma è necessario che il test sia costruito secondo modalità tali che i dati da esso forniti si conformino con ragionevole approssimazione al modello stesso. Ciò significa che il test deve essere costruito in modo tale che l’insieme delle domande che lo compongono e la loro successione sia tale da rispecchiare anche sul piano sostantivo dell’ambito disciplinare cognitivo indagato le assunzioni del modello di Rasch».
Ogni commento è quasi superfluo. È difficile non vedere come quanto ho detto prima sia fondato. La realtà è rappresentata dal modello di Rasch – quello che un illustre psicometrico ha peraltro definito un feticcio statistico – la nozione di oggettività è quella definita mediante assiomi interni al modello, i test debbono rispecchiare le assunzioni del modello, anche sul piano della sostanza della disciplina in oggetto – in altri termini la matematica dell’Invalsi, o la letteratura italiana, è quella definita dall’ente.
Cosa volete che si possa discutere in queste condizioni? Ma, soprattutto, come può il sistema dell’istruzione di un grande paese conformarsi tutto all’ideologia formalista di un ristretto gruppetto di esperti che, al massimo, accetta di confrontarsi con una fascia ristretta di persone che ruota attorno alla sua visione come gli anelli di Saturno? L’unica richiesta può essere: si spalanchino le finestre, l’Invalsi non è il detentore di cos’è la matematica o la letteratura; è una pretesa più ancor che inaccettabile, ridicola, che un simile modo di procedere abbia alcunché di oggettivo – nel senso autentico del termine e non secondo una definizione formale di comodo. Questo modo di procedere è il massimo dell’arbitrio e contraddice il concetto stesso di cultura e di conoscenza che solo in paese totalitario può essere definita nelle sue forme e delegata nella sua gestione a poche persone.
Qui veniamo all’altra questione cruciale. Qual è la funzione dell’Invalsi? Tentare di fornire – attraverso una molteplicità di strumenti, quantitativi e qualitativi – un quadro dello stato del sistema italiano dell’istruzione che possa costituire un valido strumento a migliorarlo? Se questa è la funzione dell’Invalsi, nulla da obbiettare, anzi, non si può che salutare con favore un’attività del genere che può espletarsi in varie forme: con sondaggi campionari (com’è tipico delle ricerche statistiche), con il ricorso a test (da elaborare a finestre aperte e accettando di dare ascolto a una discussione ampia sulle scelte fatte), mediante strumenti di ricerca sul campo, didattica, ecc. Se invece l’intenzione è quella di sostituirsi pian piano alla funzione valutativa dell’insegnante nei confronti degli studenti – a mio avviso assolutamente ineliminabile –, sulle basi a dir poco discutibili che abbiamo visto e con l’esclusivo ricorso ai test, e se si mira addirittura a valutare con i test insegnanti e istituti, allora non ci siamo proprio. “Perché non ci siamo” sta tutto nelle cose che ho detto e nei modi inaccettabili in cui è venuta avanti questa intenzione. Penso alla prova Invalsi per l’esame di terza media. Non c’è bisogno di essere un grande epistemologo per capire l’assurdità di una simile scelta. Invece di limitarsi a tentare di valutare i successi conseguiti dalla didattica ordinaria, si inserisce una prova (oltretutto basata sull’ideologia che abbiamo visto) che ha due effetti. Il primo è di perturbare l’esito dell’esame: sarebbe come se un chimico chiamato a determinare i componenti di una miscela l’agitasse mediante non mediante una bacchetta di vetro neutro, ma mediante una bacchetta intrisa di una sostanza che reagisce con la miscela. Il secondo effetto è ancora peggiore: stimolare insegnanti e studenti a insegnare e studiare una nuova materia, ovvero i test Invalsi. Questo configura la disastrosa tendenza – tanto criticata nei paesi come gli USA dove è stata sperimentata – al “teaching to the test”, all’insegnamento in funzione del superamento dei test, che assai di recente è stata indicata come un rischio molto grave dal precedente presidente dell’Invalsi. Ma ormai trattasi di un andazzo dilagante. Pullulano manualetti per prepararsi al superamento dei test, talora persino redatti da esperti dell’Invalsi, il che oltre a essere grave sul piano deontologico, finisce col trasmettere un’idea standardizzata, per esempio della matematica, in alcuni casi veramente di infimo livello, comunque discutibile e che poco ha a che fare con una visione aperta, intelligente, culturalmente ampia della materia, e anzi tale da alimentarne la visione più tristemente nozionistica, proprio quella che viene continuamente deplorata. Tanto che sono sempre più numerosi i docenti di matematica intristiti dal dover trattare la loro materia come un insieme di tecniche operative meccaniche, con un completo oscuramento degli aspetti concettuali che potrebbero vincere la tradizionale ritrosia nei confronti di questa materia.

Cos’altro potrei aggiungere? Come ho detto nessuna obiezione di principio all’Invalsi e ai suoi test, purché l’ente spalanchi le finestre, abbandoni il feticismo nei confronti dei modelli statistici, dismetta le visioni infantili di oggettività, accetti che la valutazione è un processo di crescita culturale intersoggettiva e non l’applicazione di modelli formalizzati scelti da un’elite autoreferenziale, che non pretenda di standardizzare insegnanti e alunni, che apra la discussione sulla qualità dei test proposti a un autentico confronto culturale. Speriamo che l’attuale presidenza dell’Invalsi voglia orientare l’ente in questa direzione.